Inferno, CANTO XXX. I falsari

COMMENTO DEL CANTO XXX

Rispetto alla fine del Canto precedente, così comicamente popolana (quasi da pettegolezzo, con la critica della brigata spendereccia senese), l'inizio del Canto trentesimo è completamente diverso e senza un netto distacco. Proiettati in una lontananza mitica e prodigiosa (dall'espressione "Nel tempo che...") vengono introdotti due miti come termine di paragone per la pazzia, mescolando elementi solenni e patetici del mito scelti arbitrariamente da Dante. Il primo è preso dalle Metamorfosi di Ovidio e riguarda la rabbia di Giunone contro Semele (incinta per Giove del piccolo Bacco) e contro il sangue tebano: la dea furiosa fece impazzire il re Atamante che scambiò la moglie con i due bambini per una leonessa con due leoncini e uccise lui stesso (con dispietati artigli) il figlio Learco, mentre sua moglie si gettò da una rupe in mare annegando con l'altro figlio.
La seconda similitudine è presa dal ciclo troiano e racconta come quando la superbia dei suoi abitanti era stata rovesciata dalla fortuna (dopo cioè la sconfitta della Guerra di Troia), Ecuba, triste, misera e imprigionata, vide sua figlia Polissena morta in un sacrificio sulla tomba di Achille e poi scoprì la tomba di suo figlio Polidoro su una spiaggia, e allora emise forsennati lamenti sì come cane. In entrambi i miti sono messi in evidenza elementi animaleschi (gli artigli, i latrati).
Questi servono per introdurre, di nuovo con una similitudine ipotetica (se si potessero sommare... allora non basterebbe a raffigurare..., già incontrata a proposito della prima descrizione di questa bolgia e di quella precedente), come non si erano mai viste persone tanto feroci di pazzia (né contro bestie, né contro uomini) come due ombre smorte e nude che correvano mordendo chiunque, come il porco che corre fuori quando si apre il porcile.
Una di queste arriva da Capocchio, che ha appena finito di parlare con Dante, e lo azzanna sulla gola, tirandolo così che il suo ventre si gratta sul suolo (richiamo alla pena dei falsatori di materia, ma con un tono grossolano e volgare tipico dello stile comico-realistico di buona parte del linguaggio usato in questa bolgia). Il compagno di Capocchio invece, l'aretino Griffolino dice a Dante come questo demonio (folletto nell'accezione medievale originaria) fosse Gianni Schicchi che va rabbioso altrui così conciando. Allora Dante si affretta a chiedere anche chi sia l'altro, prima che lo morda a sua volta, e il dannato risponde che si tratta di Mirra scellerata, che si congiunse al padre falsificando le sue sembianze, così come Gianni Schicchi si travestì da Buoso Donati il Vecchio dettando testamento validato da notaio.
Questa incursione frenetica è un flash che spezza la narrazione, un po' come nel cerchio dei suicidi (XIII) dove irrompevano gli scialacquatori inseguiti da cagne nere, solo che qui sono gli stessi dannati dei falsari di persona a martoriare attivamente gli altri. L'aneddoto di Gianni Schicchi venne ripreso con tutt'altri toni da Giacomo Puccini nell'opera omonima.
Dante guarda allora ad altri mal nati e ne nota uno che gli ricorda un liuto (strumento a corde allora piuttosto raro quanto lo è oggi, che fu popolare nel XV secolo) con le gambe, perché l'idropisia che lo affligge gli modifica la pancia, che è ingigantita, mentre il viso è magro e smunto e le labbra sono aperte grottescamente come fa il tisico (l'etico), che le tiene arricciate per la sete una in su e una in giù (da notare il linguaggio tecnico di Dante, che era stato iscritto all'Arte dei Medici e Speziali a Firenze).
L'episodio che segue, che ha per protagonista Maestro Adamo, come egli stesso si presenterà al verso 61, è tra i brani più eterogenei per stile e emozioni di tutto l'Inferno di Dante. Prima grottesco, nella descrizione del suo stato fisico, poi si nota il suo dolore attraverso la descrizione delle labbra. Egli si rivolge ai due pellegrini con sofferenza citando un passo biblico ("guardate e attendete" [se esiste un dolore come il mio], Libro delle Lamentazioni I, 12), indice di tristezza e sofferenza priva di qualsiasi volgarità; poi il suo diventa nostalgico, perché se in vita ebbe tutto ora non può ottenere nemmeno un goccio d'acqua, invocazione seguita da una malinconica rievocazione del Casentino e dei suoi ruscelletti freschi e morbidi. La rievocazione del luogo dove visse (presso il Castello di Romena) subito riporta alla mente il suo peccato, quello di falsario di fiorini ai quali toglieva tre dei ventiquattro carati d'oro sostituendoli con mondigia cioè immondizia, metalli non nobili. Anche la rievocazione del suo corpo "arso" è malinconica, ma subito il sentimento si tramuta in odio verso coloro che lo indussero a peccare, i fratelli dei Conti Guidi di Romena, Guido, Alessandro e Aghinolfo, verso i quali Mastro Adamo non sa cosa darebbe per vederli all'Inferno, dovesse anche rinunciare a placare la sua sete. Con tono patetico dice che se potesse muoversi anche di un'oncia (pochi centimetri) ogni cento anni per raggiungerli lo avrebbe già fatto, ma è inchiodato al suolo.
Nel suo discorso dice anche che la bolgia è lunga undici miglia fiorentine e che è larga non meno di mezzo: assieme alla notazione della bolgia precedente come lunga 22 alcuni hanno cercato di risalire alle dimensioni dell'Inferno immaginato da Dante, ma i risultati erano così assurdi (più di quel che Dante indica come raggio della Terra nel Convivio, che per attraversarlo nei tempi indicati qua e là nella narrazione egli si sarebbe dovuto spostare a circa 450 km/h) che oggi si preferisce pensare a numeri prettamente simbolici o necessari a dare un senso di realtà al viaggio immaginario senza essere però ineccepibilmente calcolabili. Galileo ne concluse che l'Inferno è sempre insondabile, "nelle sue tenebre offuscato".
A questo punto Dante chiede chi siano i due dannati che si appoggiano su Mastro Adamo alla destra. Egli risponde che erano qui da prima che lui piovesse in questa bolgia e che una è colei che accusò Giuseppe (la moglie di Putifarre, personaggio biblico), mentre l'altro è Sinone, il greco che imbrogliò i Troiani per far loro accettare il Cavallo di Troia. Essi sono due bugiardi, due falsari di parola e stupisce la commistione di questo canto, dove un personaggio contemporaneo, uno biblico e uno mitologico-letterario sono affiancati e due di essi (Sinone e Mastro Adamo) interagiranno tra di loro di lì a poco.
La pena di questi due bugiardi è il subire fortissime febbri, che gli fanno fumare il vapore attorno come man bagnate d'inverno. Neanche in questo caso è stato possibile chiarire esattamente il contrappasso. Mastro Adamo dice anche che essi emettono "leppo" cioè puzza.
A questo punto, tra i punti alti e bassi nella narrazione di questo canto, si raggiunge il livello più basso: Sinone non ha gradito come è stato presentato, e con un pugno colpisce la pancia di Adamo (l'"epa croia", cioè gonfia e tesa) che suona come un tamburo. In tutta risposta Adamo, rallegrandosi sarcasticamente del poter almeno muovere ancora le braccia, risponde a Sinone con un ceffone, scatenando una rissa.
Lo scontro si gioca sul campo verbale delle offese, in un botta e risposta di offese e ingiurie che assomiglia a quelle tenzoni poetiche in rima, dallo stile comico e popolaresco, che in gioventù anche Dante tenne con Forese Donati e con altri poeti toscani.
Dopo l'accenno alle braccia di Adamo, inizia il botta e risposta, con Sinone che dice che esse (le braccia) erano ben ferme quando andava al patibolo per essere arso, ma molto erano invece scaltre quando coniava soldi falsi; Adamo-idropico risponde che ciò è vero, ma non altrettanto verace Sinone fu quando gli fu domandato il vero a Troia; e l'altro ribatte che se lui disse falso, Adamo falsò il conio e che sarà all'Inferno per qualche altro demonio (o sta dicendo che lui, Sinone, è all'Inferno per un solo errore, e Adamo per moltissimi, "più ch'alcun altro dimonio"?); al che il falsario ribatte sul cavallo di Troia, dicendo di ricordarselo bene, perché tutto il mondo sa della sua colpa; e il greco gli manda un accidente dicendo che gli sia rea tutta la sete che lo tormenta, con la sua lingua e la sua pancia piena d'acqua marcia; di nuovo Adamo gli rinfaccia allora l'arsura e il mal di testa tipici della febbre, e che anche lui darebbe qualsiasi cosa per leccare l'acqua (lo specchio di Narcisso)...
La scelta di stessi verbi, il martellare del "tu", "tua", ecc., la schiettezza delle accuse, la scelta di rime difficili e dai suoni duri con consonanti doppie, sono tutte scelte stilistiche dello stile comico, al quale Dante dà tutto sommato un'alta dimostrazione in questo battibecco.
Nel frattempo il poeta-personaggio è calamitato dal guardare questa rissa con curioso interesse, al che Virgilio lo riprende in piuttosto malo modo "Or pur mira, / che per poco che teco non mi risso!", cioè ci manca poco che adesso non faccia pure io la rissa con te (sembra un rimprovero paterno verso un figlio o un discepolo, che viene minacciato magari con uno scapaccione).
La vergogna di Dante per il rimprovero è fortissima, tanto da restare ammutolito senza riuscire a scusarsi, e gli sembra come uno di quei sogni dai quali si spera di svegliarsi; poco dopo però Virgilio lo rassicura, dicendo che meno vergogna sarebbe già sufficiente a lavare un difetto maggiore, per cui si anche può sollevare dalla tristezza. Virgilio poi conclude pedagogicamente, indicando come sia bassa voglia voler udire tali risse, e che quindi se per la sorte dovesse ricapitare a lui di essere davanti a tali manifestazioni, di evitare di assistervi.
Alcuni hanno voluto leggere in questo brano una ricusazione dello stile poetico comico, ma ciò non sembra corretto (perché allora Dante metterebbe poco prima il lungo esempio di tale stile?), almeno non in maniera assoluta: è da sconfessare magari la poesia quale puro piacere del divertimento e della risata (come avverrà con la rinuncia alla vita plebea nell'episodio di Forese Donati in Purgatorio XXIII e XXIV), rifugiandosi invece nella guida della Ragione, come Virgilio stesso, che la simboleggia, si offre essergli sempre vicino quando una tale tentazione lo assalga di nuovo (è uno dei casi più chiari nella Commedia dove un personaggio, in questo caso Virgilio, palesi il suo ruolo allegorico, cioè della Ragione).

TESTO DEL CANTO XXX

Nel tempo che Iunone era crucciata

per Semelè contra ‘l sangue tebano,

come mostrò una e altra fiata,   [3]

Atamante divenne tanto insano,

che veggendo la moglie con due figli

andar carcata da ciascuna mano,   [6]

gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli

la leonessa e ‘ leoncini al varco»;

e poi distese i dispietati artigli,   [9]

prendendo l’un ch’avea nome Learco,

e rotollo e percosselo ad un sasso;

e quella s’annegò con l’altro carco.   [12]

E quando la fortuna volse in basso

l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,

sì che ‘nsieme col regno il re fu casso,   [15]

Ecuba trista, misera e cattiva,

poscia che vide Polissena morta,

e del suo Polidoro in su la riva   [18]

del mar si fu la dolorosa accorta,

forsennata latrò sì come cane;

tanto il dolor le fé la mente torta.   [21]

Ma né di Tebe furie né troiane

si vider mai in alcun tanto crude,

non punger bestie, nonché membra umane,   [24]

quant’io vidi in due ombre smorte e nude,

che mordendo correvan di quel modo

che ‘l porco quando del porcil si schiude.   [27]

L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo

del collo l’assannò, sì che, tirando,

grattar li fece il ventre al fondo sodo.   [30]

E l’Aretin che rimase, tremando

mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,

e va rabbioso altrui così conciando».   [33]

«Oh!», diss’io lui, «se l’altro non ti ficchi

li denti a dosso, non ti sia fatica

a dir chi è, pria che di qui si spicchi».   [36]

Ed elli a me: «Quell’è l’anima antica

di Mirra scellerata, che divenne

al padre fuor del dritto amore amica.   [39]

Questa a peccar con esso così venne,

falsificando sé in altrui forma,

come l’altro che là sen va, sostenne,   [42]

per guadagnar la donna de la torma,

falsificare in sé Buoso Donati,

testando e dando al testamento norma».   [45]

E poi che i due rabbiosi fuor passati

sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,

rivolsilo a guardar li altri mal nati.   [48]

Io vidi un, fatto a guisa di leuto,

pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia

tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.   [51]

La grave idropesì, che sì dispaia

le membra con l’omor che mal converte,

che ‘l viso non risponde a la ventraia,   [54]

facea lui tener le labbra aperte

come l’etico fa, che per la sete

l’un verso ‘l mento e l’altro in sù rinverte.   [57]

«O voi che sanz’alcuna pena siete,

e non so io perché, nel mondo gramo»,

diss’elli a noi, «guardate e attendete   [60]

a la miseria del maestro Adamo:

io ebbi vivo assai di quel ch’i’ volli,

e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.   [63]

Li ruscelletti che d’i verdi colli

del Casentin discendon giuso in Arno,

faccendo i lor canali freddi e molli,   [66]

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,

ché l’imagine lor vie più m’asciuga

che ‘l male ond’io nel volto mi discarno.   [69]

La rigida giustizia che mi fruga

tragge cagion del loco ov’io peccai

a metter più li miei sospiri in fuga.   [72]

Ivi è Romena, là dov’io falsai

la lega suggellata del Batista;

per ch’io il corpo sù arso lasciai.   [75]

Ma s’io vedessi qui l’anima trista

di Guido o d’Alessandro o di lor frate,

per Fonte Branda non darei la vista.   [78]

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate

ombre che vanno intorno dicon vero;

ma che mi val, c’ho le membra legate?   [81]

S’io fossi pur di tanto ancor leggero

ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,

io sarei messo già per lo sentiero,   [84]

cercando lui tra questa gente sconcia,

con tutto ch’ella volge undici miglia,

e men d’un mezzo di traverso non ci ha.   [87]

Io son per lor tra sì fatta famiglia:

e’ m’indussero a batter li fiorini

ch’avevan tre carati di mondiglia».   [90]

E io a lui: «Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ‘l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?».   [93]

«Qui li trovai – e poi volta non dierno – »,

rispuose, «quando piovvi in questo greppo,

e non credo che dieno in sempiterno.   [96]

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ‘l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».   [99]

E l’un di lor, che si recò a noia

forse d’esser nomato sì oscuro,

col pugno li percosse l’epa croia.   [102]

Quella sonò come fosse un tamburo;

e mastro Adamo li percosse il volto

col braccio suo, che non parve men duro,   [105]

dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto

lo muover per le membra che son gravi,

ho io il braccio a tal mestiere sciolto».   [108]

Ond’ei rispuose: «Quando tu andavi

al fuoco, non l’avei tu così presto;

ma sì e più l’avei quando coniavi».   [111]

E l’idropico: «Tu di’ ver di questo:

ma tu non fosti sì ver testimonio

là ‘ve del ver fosti a Troia richesto».   [114]

«S’io dissi falso, e tu falsasti il conio»,

disse Sinon; «e son qui per un fallo,

e tu per più ch’alcun altro demonio!».   [117]

«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,

rispuose quel ch’avea infiata l’epa;

«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».   [120]

«E te sia rea la sete onde ti crepa»,

disse ‘l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia

che ‘l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!».   [123]

Allora il monetier: «Così si squarcia

la bocca tua per tuo mal come suole;

ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,   [126]

tu hai l’arsura e ‘l capo che ti duole,

e per leccar lo specchio di Narcisso,

non vorresti a ‘nvitar molte parole».   [129]

Ad ascoltarli er’io del tutto fisso,

quando ‘l maestro mi disse: «Or pur mira,

che per poco che teco non mi risso!».   [132]

Quand’io ‘l senti’ a me parlar con ira,

volsimi verso lui con tal vergogna,

ch’ancor per la memoria mi si gira.   [135]

Qual è colui che suo dannaggio sogna,

che sognando desidera sognare,

sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,   [138]

tal mi fec’io, non possendo parlare,

che disiava scusarmi, e scusava

me tuttavia, e nol mi credea fare.   [141]

«Maggior difetto men vergogna lava»,

disse ‘l maestro, «che ‘l tuo non è stato;

però d’ogne trestizia ti disgrava.   [144]

E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,

se più avvien che fortuna t’accoglia

dove sien genti in simigliante piato:   [147]

ché voler ciò udire è bassa voglia».

PARAFRASI CANTO XXX

Nel tempo in cui Giunone era adirata contro la stirpe tebana a causa di Semele, come dimostrò in due occasioni,

Atamante divenne a tal punto pazzo che, vedendo la moglie che andava tenendo in braccio i due figli, uno per parte, gridò: «Tendiamo le reti, così che io possa catturare la leonessa e i leoncini»; e poi protese gli artigli spietati,

prendendo uno dei due che si chiamava Learco, e lo fece roteare in aria e lo scaraventò contro un sasso; la moglie si annegò tenendo l'altro figlio.

E quanto il destino abbatté l'altezza dei Troiani che ambiva a qualunque cosa, così che il regno fu distrutto e il re ucciso,

Ecuba (triste, abbietta e prigioniera) dopo aver visto che Polissena era stata uccisa e si fu accorta con dolore della morte di Polidoro in riva al mare, si mise a latrare come un cane, fuori di sé; a tal punto il dolore le sconvolse la mente.

Ma non si videro mai le furie dei Tebani, né quelle dei Troiani tanto crudeli contro qualcuno, né pungolare bestie oppure esseri umani, quanto io vidi fare in due anime pallide e nude che correvano mordendo come il maiale quando esce affamato dal porcile.

Una di esse si avventò su Capocchio e lo azzannò alla nuca, così che, trascinandolo via, gli fece grattare con la pancia il suolo roccioso della Bolgia.

E Griffolino d'Arezzo, che rimase lì tremante, mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi e, pieno di rabbia, va conciando così gli altri dannati».

«Oh!», gli risposi, «ti auguro che l'altra anima non riesca ad addentarti: non ti spiaccia dirmi chi è, prima che fugga via di qui».

E lui a me: «Quella è l'anima antica della scellerata Mirra, che si innamorò del proprio padre contrariamente a ogni legge morale.

Questa riuscì a compiere adulterio con lui, fingendosi un'altra persona, come l'altro che se ne va via (Gianni Schicchi) riuscì a spacciarsi per Buoso Donati, al fine di ottenere la regina (giumenta) dell'armento, e a falsificare il testamento per poi registrarlo regolarmente».

E dopo che i due rabbiosi sui quali avevo tenuto gli occhi se ne furono andati, rivolsi lo sguardo sugli altri peccatori.

Io ne vidi uno che sarebbe stato uguale a un liuto, se solo l'inguine fosse stato separato dalle due gambe.

La grave idropisia, che a causa della linfa smaltita male deforma a tal punto le membra che il viso è assai più magro dal ventre, lo spingeva a tenere le labbra aperte come fa il tisico, che per la sete tiene il labbro superiore in alto e quello inferiore verso il mento.

Egli ci disse: «O voi che siete privi di pena all'Inferno, e non so il perché, guardate con attenzione alla misera sorte di Mastro Adamo: io in vita fui nell'abbondanza e ora, ahimè!, desidero vanamente un goccio d'acqua.

I ruscelli che scendono dalle verdi colline del Casentino verso l'Arno, facendo i loro letti freschi e bagnati, mi stanno sempre davanti agli occhi e non per niente, poiché la loro immagine mi asciuga molto più del male per cui ho il volto scavato.

La dura giustizia divina che mi tormenta sfrutta il luogo dove peccai per farmi sospirare ancora di più.

Laggiù sorge il castello di Romena, dove io falsificai il fiorino e per questo fui arso vivo.

Ma se io vedessi qui l'anima malvagia di Guido, di Alessandro o di loro fratello (Aghinolfo), in cambio rinuncerei a bere dalla Fonte Branda.

Uno di loro (Guido) dovrebbe essere già qui, se le anime arrabbiate che girano intorno dicono il vero; ma a che mi serve, dal momento che non posso muovermi?

Se fossi ancora tanto agile da poter percorrere un'oncia in cent'anni, io mi sarei già messo in cammino,

cercandolo in mezzo a questi dannati deturpati dalle malattie, anche se la Bolgia ha una circonferenza di undici miglia e una larghezza non inferiore al mezzo miglio.

Io sono qui a causa loro: essi mi spinsero a coniare i fiorini che avevano tre carati di metallo vile».

E io a lui: «Chi sono i due miseri che fumano come le mani bagnate d'inverno, e che giacciono stretti alla tua destra?»

Rispose: «Li trovai qui quando caddi in questo dirupo, e da allora non si sono più mossi, né credo che si muoveranno mai più.

Una è la bugiarda che accusò a torto Giuseppe; l'altro è il falso Sinone, il greco di Troia: soffrono di febbre acuta ed emettono questo puzzo di grasso bruciato».

E uno di loro (Sinone), che forse fu infastidito di essere nominato in modo così offensivo, gli colpì con un pugno il ventre teso.

Quello risuonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo gli colpì il volto col braccio, in modo non meno violento,

dicendogli: «Anche se mi è precluso ogni movimento per le gambe appesantite, ho ancora le braccia agili per colpire».

Allora l'altro rispose: «Quando tu andavi al rogo, non eri altrettanto agile; invece muovevi bene le braccia quando falsificavi le monete».

E l'idropico: «Tu dici il vero, su questo: ma non fosti certo un testimone sincero quando a Troia ti fu chiesta la verità».

Sinone disse: «Se io dissi il falso, tu falsificasti il conio; e io sono qui per un solo peccato, tu invece per un numero maggiore di ogni altro dannato!»

Quello che aveva la pancia gonfia rispose: «Ricordati, spergiuro, del cavallo, e sia per te un tormento il fatto che lo sappia tutto il mondo!»

Il greco disse: «A te sia un tormento la sete per cui ti si crepa la lingua, e l'acqua marcia che ti fa gonfiare a tal punto il ventre davanti agli occhi!»

Allora il monetiere: «Allo stesso modo la tua bocca si fa a pezzi per il tuo male (la febbre), come al solito; infatti io ho sete e l'acqua mi fa gonfiare, ma tu hai l'arsura e il capo che ti duole, e per leccare poche gocce d'acqua non avresti bisogno di tanti inviti».

Io ero tutto attento ad ascoltarli, quando Virgilio mi disse: «Continua pure a guardare, che manca poco che io non litighi con te!»

Quando io lo sentii parlarmi con ira, mi voltai verso di lui con una tale vergogna che è presente ancora nella mia mente.

Come colui che sogna il suo danno, e sognando vorrebbe sognare, così che desidera ciò che è vero come se non lo fosse,

così feci io, non osando parlare, poiché volevo scusarmi e, pur non credendo di farlo, lo stavo comunque facendo.

Il maestro disse: «Una vergogna minore lava una colpa meno grave di quanto non sia stata la tua; quindi abbandona ogni tristezza.

E sii certo che io ti sarò sempre al fianco, se mai avverrà ancora che il destino ti conduca dove ci siano genti che litigano in questo modo: infatti, voler ascoltare certe risse è volontà vile».

GIANNI SCHICCHI

Gianni Schicchi de' Cavalcanti è stato un cavaliere medievale, personaggio storico fiorentino del Duecento. Era un cavaliere e non si conoscono molte notizie storiche circa la sua figura, ma a partire dalla citazione dantesca i successivi commentatori hanno ritratto una sua biografia che in larga parte ricalca il passo dell'Inferno. Nella bolgia dei falsari egli è condannato per la "falsificazione di persona" cioè per aver imbrogliato gli altri prendendo il posto di Buoso Donati il Vecchio. La questione raccontata ampiamente dai chiosatori, seppur con qualche differenza ma sostanzialmente uguale, è che questo Schicchi fosse famoso per le imitazioni delle persone e che quando morì il ricchissimo vedovo e senza figli Buoso, egli, su richiesta dell'amico Simone Donati, nipote di Buoso, si intrufolò nel letto del defunto poco dopo la sua scomparsa e chiamato un notaio dettò testamento a favore di Simone, che venne puntualmente ratificato. Per sé pare che si facesse intitolare solo una giumenta (citata da Dante) che è un indice del carattere burlesco e da novella dell'accaduto. A partire da questa storia, e con caratteri stilistici decisamente più lievi e ameni, Giacomo Puccini compose l'opera comica Gianni Schicchi, rappresentata nel 1918. Altra opera teatrale famosa è la commedia Gianni Schicchi di Gildo Passini che debuttò con successo a Milano nel 1922 al teatro Olympia, messo in scena dalla Compagnia Talli-Melato-Betrone.

MAESTRO ADAMO

Dante lo incontra nella bolgia dei falsari, mentre si lamenta della sete incessante che lo tormenta affetto dall'idropisia che gli deforma il corpo gonfiandogli la pancia a dismisura. Quando il dannato gli si presenta, egli ricorda come visse nel Casentino presso Romena, dove i Conti Guidi (Guido, Alessandro e Aghinolfo) lo spinsero a falsificare la moneta fiorentina, togliendo tre dei ventiquattro carati d'oro da ciascuna moneta e sostituendoli con metalli vili. Da questi elementi alcuni studiosi hanno rintracciato documenti di un certo Maestro Adamo inglese, forse già stabilitosi a Brescia (secondo i commentatori antichi della Commedia) e documentato a Bologna nel 1270, dove forse si trovava per studio (infatti l'appellativo Maestro presupponeva un titolo accademico). Nel 1277 veniva descritto come familiare comitum de Romena. Una volta catturato dalla signoria fiorentina fu arso vivo per il suo reato nel 1281. Gli storici mettono in dubbio l'ipotesi, per altro suggestiva, che il fatto abbia dato il nome al paesino Omomorto, nel Casentino, che è un toponimo usato anche in altri luoghi dell'appennino Tosco-romagnolo. Il ritratto che ne fa Dante è tra i più eterogenei dell'Inferno, con emozioni che vanno dal grottesco al melanconico, dagli echi biblici al patetico, al più basso stile comico-realistico della zuffa con il greco Sinone, per la quale Dante viene rimproverato da Virgilio per l'aver trovato divertimento a fermarsi ad osservare uno spettacolo così basso e volgare.

LA MOGLIE DI PUTIFARRE

Nella Genesi 39,6-20 si racconta come la donna, sposa di Putifarre, ricco signore d'Egitto, si invaghisse, cercando di sedurlo, del giovane schiavo Giuseppe, acquistato dal marito e, per le sue capacità, posto a capo dell'amministrazione della casa. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di fronte al marito di aver tentato di farle violenza, mostrando come prova la veste dello schiavo, della quale Giuseppe si sarebbe liberato pur di fuggire dalle mani della moglie del padrone. Per questa falsa accusa lo schiavo Giuseppe fu rinchiuso nelle prigioni del Faraone. Qui Dio diffuse su di lui misericordia, facendogli trovare grazia agli occhi del direttore del carcere al punto che costui gli affidò le sue stesse mansioni.

SIMONE

Sinone ha un ruolo di primo piano nelle vicende che portarono alla caduta della città: egli infatti si fece appositamente prendere prigioniero dai Troiani, e una volta catturato riuscì a convincerli ad introdurre dentro le mura il famoso cavallo di legno che i Greci avevano costruito simulando l'intenzione di volerlo offrire in segno di riconciliazione e di espiazione. I Troiani, anche se avvertiti da Laocoonte si lasciarono convincere e accolsero il cavallo entro le mura; ma nel cuore della notte lo stesso Sinone fece uscire i Greci che si erano nascosti nel ventre della statua dando inizio alla conquista della città. Sinone è condannato nell'ottavo cerchio nella decima bolgia dei falsari. In questo episodio, Sinone viene presentato a Dante dal compagno di pena Mastro Adamo, il quale svela al poeta fiorentino che Sinone in vita mentì sulla vera natura del Cavallo di Troia; sentendosi offeso, Sinone sferra un pugno sull'enorme stomaco di Mastro Adamo, il quale gli restituisce il colpo in pieno viso. Dopo questa scena, seguono delle dure accuse reciproche, rinfacciandosi dei peccati che li hanno portati alla dannazione e al tormento eterno.


VIDEO HD https://www.youtube.com/watch?v=vPod0jw-roM

GASSMAN https://www.youtube.com/watch?v=Htsy_Srzdjw

Struttura dell'inferno

inferno

Eugenio Caruso -10 dicembre - 2019

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