Inferno, CANTO XXXII. I traditori

COMMENTO DEL CANTO XXXII

È il tardo pomeriggio di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, tra le cinque e le sei. Dante vorrebbe disporre di un linguaggio aspro e duro, per descrivere il IX Cerchio, e poiché non ritiene il suo stile adeguato si accinge a iniziare il Canto con una certa apprensione, in quanto non è impresa da sottovalutare quella di rappresentare il fondo dell'Inferno dove sono puniti i traditori. Invoca pertanto l'aiuto delle Muse, proprio come aiutarono il poeta Anfione a muovere le pietre che formarono le mura della città di Tebe. Il poeta accusa duramente i traditori confitti nel ghiaccio, di cui è difficile parlare e che sarebbe stato meglio fossero stati sulla Terra pecore o zebre.
Dante e Virgilio iniziano a muoversi sulla superficie del lago di Cocito, dove il gigante Anteo li ha deposti in un punto più basso dei suoi piedi. Mentre Dante ancora guarda la parete rocciosa del pozzo, sente un dannato che lo apostrofa e che lo invita a stare attento a dove mette i piedi: si volta e vede che il lago è totalmente ghiacciato, più di quanto lo sia mai stato il Danubio in Austria o il Don in Russia, e se anche su di esso cadessero monti altissimi non ne farebbero incrinare la superficie. Le anime dei dannati (traditori dei parenti) sono imprigionate nel ghiaccio fino al viso, come le rane stanno a gracidare nello stagno al principio dell'estate, sono livide per il freddo e battono i denti come cicogne. Essi tengono la faccia rivolta all'ingiù e versano lacrime verso il basso, dal che si capisce la pena che essi soffrono.
Dante si guarda intorno, quindi vede ai suoi piedi due dannati imprigionati nel ghiaccio e così vicini che i capelli si confondono tra loro. Il poeta si rivolge ai due e li invita a rivelare i propri nomi: essi sollevano il collo per guardare Dante, ma così facendo le lacrime gocciolano lungo il viso fino alle labbra e, ghiacciandosi, rinserrano i loro occhi. Essi reagiscono rabbiosamente, cozzando la testa fra loro come due caproni. Un altro dannato, cui il freddo ha fatto cadere entrambe le orecchie, tenendo il viso basso chiede a Dante il motivo per cui indugia a osservarli. Dichiara poi che i due dannati vicini vissero nella Valle di Bisenzio, furono fratelli e figli di Alberto di Mangona: Dante potrà cercare in tutta quella zona di Cocito, la Caina, senza trovare altri dannati che meritino tale pena più di loro. Il dannato nomina dunque altri compagni di pena, tra cui il cavaliere ucciso dalla lancia di re Artù (Mordrec), Vanni de' Cancellieri detto Focaccia, Sassolo Mascheroni che gli è accanto e gli impedisce la vista. Il dannato conclude presentando se stesso come Camicione de' Pazzi, che attende l'arrivo del congiunto Carlino nella zona Antenòra e la cui colpa, più grave, farà apparire minore la sua.
Dante vede più di mille visi di dannati paonazzi per il freddo, cosa che gli farà sempre ricordare quello spettacolo con ribrezzo. Mentre i due poeti procedono verso il centro di Cocito ed entrano nella Antenòra, Dante, che trema di freddo, per caso o per destino urta col piede la testa di un dannato che piangendo lo sgrida. Il dannato, uno dei traditori della patria, chiede a Dante perché lo calpesta se non è venuto a vendicare il tradimento della battaglia di Montaperti, per cui lo invita a lasciarlo stare. Il poeta, punto sul vivo, chiede a Virgilio il permesso di trattenersi un poco per togliersi un dubbio, promettendo di non attardarsi oltre. Il maestro acconsente e Dante chiede al dannato di rivelare il proprio nome: il traditore gli chiede a sua volta chi è lui, che va colpendo le teste dei dannati dell'Antenòra e Dante afferma di essere vivo, promettendo sarcasticamente al dannato di concedergli fama rivelando al mondo il suo nome. Poiché lo spirito rifiuta di manifestarsi e invita Dante ad allontanarsi con male parole, il poeta lo afferra per la collottola e gli intima di dire il proprio nome, strappandogli più di un capello, ma il dannato si ostina nel suo silenzio e gli rivolge parole di sfida. Dante continua a strappargli i capelli mentre quello latra come un cane, quando un compagno di pena si rivolge a lui chiamandolo Bocca (degli Abati) e invitandolo a non urlare oltre a battere i denti. Dante dice che non ha più bisogno che lui parli e che provvederà a portare nel mondo notizie veritiere sul suo destino ultraterreno.
Bocca invita ancora Dante ad andarsene e a dire di lui ciò che vuole, ma non dovrà tacere i nomi di altri traditori della patria che sono lì insieme a lui, a cominciare da quello che ha fatto il suo nome: si tratta di Buoso da Duera, che fu corrotto dagli Angioini perché tradisse Manfredi di Svevia. Bocca indica inoltre Tesauro dei Beccheria, decapitato dai fiorentini, Gianni dei Soldanieri, Gano di Maganza e Tebaldello Zambrasi che consegnò Faenza ai Guelfi bolognesi.
Dante e Virgilio si sono allontanati da Bocca degli Abati, quando il poeta vede altri due dannati imprigionati nel ghiaccio, uno dei quali tiene la testa sopra quella dell'altro come un cappello. Il dannato che sta sopra addenta orribilmente la testa di quello che sta sotto, nel punto in cui il cervello si unisce al midollo spinale, in modo simile a quando Tideo rose la testa del nemico ucciso Menalippo. Dante si rivolge al dannato e gli chiede la ragione di un tale odio verso il compagno di pena, promettendogli, se ha ragione di lagnarsi di lui, di rendergli giustizia nel mondo rivelando ciò che gli dirà. Il XXXII è il primo di tre Canti dedicati complessivamente ai traditori, ovvero a coloro che hanno peccato più gravemente e sono imprigionati nel ghiaccio di Cocito, in quattro zone concentriche che digradano verso il centro della Terra dove è confitto Lucifero. Il Canto si apre con una dichiarazione di poetica da parte di Dante, che vorrebbe disporre di un linguaggio adeguatamente aspro per descrivere il fondo dell'Universo: tale operazione non è adatta a una lingua istintiva, come quella infantile di chi chiama mamma o babbo (sono due parole che lo stesso Dante, in DVE, II, 7 raccomanda di non usare nello stile elevato per l'eccessiva semplicità). L'invocazione alle Muse è significativa in quanto segnala un innalzamento dell'impegno poetico, quasi una sorta di piccolo proemio che precede l'ingresso nella zona più aspra e terribile dell'Inferno, che si concluderàcon la visione spaventosa di Lucifero. In effetti lo stile usato da Dante sarà fatto di rime aspre e chiocce, di suoni duri e sgradevoli quali si convengono alla descrizione dei traditori e del luogo dove si trovano: il ghiaccio di Cocito è paragonato al Danubio gelato in Osterlicchi (in Austria), che rima con Tambernicchi (forse un monte delle Alpi Apuane) e con l'onomatopea cricchi; altre rime aspre sono -accia, -etti, -ecchi, -azzi, -ezzo, -este, -occa, -eschi, -uca, con una netta prevalenza delle consonanti c, z, t. Alla durezza del linguaggio si accompagna la durezza dei temi, poiché su tutto l'episodio domina un'atmosfera cupa di violenza: violenti furono i traditori in vita macchiandosi per lo più di atroci delitti, violento è Dante (più o meno volontariamente) nel diventare strumento di punizione divina e accrescere così la sofferenza già di per sé terribile di questi peccatori. La pena del contrappasso è discussa, ma probabilmente fa riferimento al gelo che metaforicamente rinserrò il cuore di questi dannati nel consumare il loro tradimento, forse in contrapposizione al fuoco della carità dal quale essi furono quanto mai lontani. Quel che è certo è che essi si odiano reciprocamente, non mostrano alcuna solidarietà fra loro, non esitano anzi a nominare i compagni di pena perché ciò vada a loro infamia (sono traditori anche nell'oltretomba, proprio come lo furono in vita.
Due dati colpiscono l'attenzione in questo Canto, ovvero il silenzio di Virgilio (che per la prima e unica volta nella Cantica non dice neppure una parola) e la netta prevalenza di dannati contemporanei di Dante (gli unici exempla del mondo antico sono Gano di Maganza e Mordrec, personaggi letterari rispettivamente del ciclo carolingio e bretone). Dante è dunque il protagonista assoluto dell'episodio e la sua intenzione è mostrarci soprattutto i traditori del suo tempo, tra cui spiccano quelli toscani o fiorentini legati alle lotte politiche e tra fazioni rivali che insanguinavano l'Italia del Due-Trecento, tra le principali cause di quel disordine morale e civile che il poeta denuncia nel poema. I primi sono i conti di Mangona, i due fratelli fiorentini che si sono uccisi per reciproco tradimento e ora sono confitti nel ghiaccio faccia a faccia, come altre coppie di dannati (Paolo e Francesca, Ulisse e Diomede, Ugolino e Ruggieri nel Canto seguente). È un altro toscano a farne il nome, Camicione de' Pazzi, il quale afferma che nessun altro è più colpevole di loro nella Caina e che denuncia anche il tradimento del congiunto Carlino, destinato a giungere presto nell'Antenòra e la cui colpa è superiore alla sua.
Di Firenze è ovviamente anche Bocca degli Abati, il traditore nella battaglia di Montaperti che Dante (forse non casualmente) calpesta camminando nella Antenòra e col quale inizia una sorta di «tenzone» con reciproche accuse, simile nei toni a quella con Filippo Argenti nel Canto VIII. Bocca non vuole rivelare la propria identità per non infangare il suo nome con l'accusa di tradimento, ma anche in questo caso è un compagno di pena a svelarlo, ovvero il vicino Buoso da Duera: Bocca gli rende la stessa moneta facendo il nome suo e di altri dannati, con toni ferocemente ironici (come lo erano quelli di Camicione, che aveva definito gelatina il ghiaccio di Cocito, mentre Buoso aveva accusato Bocca di latrare come un cane oltre a sonar con le mascelle; Bocca ribatte dicendo che Buoso è in Cocito dove i peccatori stanno freschi, aggiungendo poi che i fiorentini avevano segato la gorgiera, ovvero decapitato Tesauro dei Beccheria).
L'episodio di Bocca degli Abati è centrale nel Canto e ciò si spiega con l'enorme impressione che la disfatta di Montaperti subìta dai Guelfi fiorentini ad opera dei Ghibellini aveva destato a suo tempo: il ricordo era ancora vivo al tempo di Dante e se ne era parlato anche nell'incontro con Farinata degli Uberti (Canto X), peraltro in toni ben più elevati e nobili che non in questi versi. Ciò spiega anche la volontà del poeta di forzare Bocca a fare il proprio nome, l'insistenza con Virgilio per trattenersi lì, la violenza fisica che egli esercita sul dannato nel tentativo vano di estorcergli una confessione. Le lotte tra Guelfi e Ghibellini dominano largamente questo Canto, così come saranno al centro della prima parte di quello successivo in cui protagonista sarà il ghibellino Ugolino della Gherardesca: la sua figura è presentata già alla fine di questo episodio, pur senza fare il nome di lui e del compagno di pena (l'arcivescono Ruggieri degli Ubaldini) al quale Ugolino addenta orribilmente il cranio per una vendetta post mortem di cui capiremo il significato nel Canto XXXIII.
La scena è descritta in tutto il suo orrore e suscita la curiosità di Dante, il quale promette a Ugolino di rendergli giustizia raccontando le ragioni di tale odio bestiale una volta tornato sulla Terra; Ugolino sarà ben felice di raccontare la sua storia al poeta, diversamente da quanto hanno dimostrato gli altri traditori apparsi in questo Canto e che si sono in realtà denunciati a vicenda. La similitudine con cui Dante rappresenta il gesto bestiale di Ugolino è poi tratta dal ciclo tebano, paragonando il conte a Tideo che addentò la testa del nemico morto Menalippo che l'aveva a sua volta ferito a morte: Tebe era già stata citata in apertura nell'invocazione alle Muse, con una sorta di circolarità nel Canto (che rimanda a sua volta al Canto seguente: Pisa sarà definita da Dante novella Tebe, sia per le mitiche origini tebane della città di Ugolino, sia soprattutto per l'abitudine alla violenza dimostrata dai suoi abitanti nella vicenda del conte, che si ricollega alle lotte fratricide dei tebani e agli atroci delitti della stirpe di Cadmo).

Note e passi controversi
- L'espressione pigliare a gabbo (v. 7) vuol dire «prendere alla leggera», poiché gabbo significa letteralmente «beffa».
- Nei vv. 10-12 Dante invoca l'assistenza delle Muse, le quali ispirarono il poeta Anfione che col dolce suono della cetra costrinse le pietre del monte Citerone a scendere e a formare le mura di Tebe (la fonte è prob. Orazio, Ars poetica, vv. 394 ss.).
- Il senso dei vv. 19-21 è la raccomandazione di un dannato a non urtare le loro teste che sporgono dal ghiaccio, per cui fratei miseir lassi vuol dire «coloro che in vita furono tuoi fratelli, uomini» (è improbabile che a parlare sia uno dei conti di Mangona e che i fratei siano i due dannati).
- Osterlicchi (v. 26) vuol dire «Austria» ed è forma derivante dal ted. Oesterreich; il Tanai (v. 27) è il Don, mentre il Tambernicchi (v. 28) è un monte di difficile identificazione (si è pensato a una cima della Schiavonia, la Fruska Gora, oppure allo Javornik, oppure ancora al Monte Tambura sulle Alpi Apuane, che era detto Stamberlicche: della stessa catena è anche Pietrapana, v. 28, oggi Pania della Croce a sud-est del Tambura).
- Il v. 36 (mettendo i denti in nota di cicogna) significa che i dannati battono i denti come fanno quegli uccelli.
- Il senso dei vv. 46-48 è i conti di Mangona, drizzando le teste verso Dante, fanno gocciolare le lacrime sul viso e che queste, ghiacciandosi, chiudono loro gli occhi. È improbabile che le lacrime congelate uniscano i loro volti, come alcuni hanno interpretato.
- I vv. 61-62 alludono a Mordrec, il cavaliere che tradì re Artù e fu da lui ucciso con un colpo di lancia che gli squarciò il petto, al punto che il sole poteva passare attraverso il suo corpo (dunque il re gli interruppe anche l'ombra).
- L'aggettivo cagnazzi, «paonazzi» per il freddo (v. 70) è creazione dantesca (si tratta di un hàpax legòmenon).
- Il v. 90 (sì che, se fossi vivo, troppo fora) significa: «così che, se io fossi vivo, sarebbe troppo», meriterebbe cioè una dura vendetta; è del tutto improbabile che Bocca intenda dire a Dante «se tu fossi vivo», perché la risposta del poeta (Vivo son io) non avrebbe significato.
- Lama (v. 96) significa «luogo basso», quindi «basso Inferno».
- L'espressione per tal convegno (v. 135) vuol dire «a questo patto». L'ultimo verso del Canto (se quella con ch'io parlo non si secca) significa probabilmente «possa non seccarsi la mia lingua», come formula di scongiuro; altri intendono «se non morirò anzitempo».

TESTO DEL CANTO XXXII;

  S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,3

io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;6

ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.9

Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.12

Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!15

Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l’alto muro,18

dicere udi’ mi: "Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi".21

Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.24

Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,27

com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.30

E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,33

livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.36

Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.39

Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
che ’l pel del capo avieno insieme misto.42

"Ditemi, voi che sì strignete i petti",
diss’io, "chi siete?". E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,45

li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.48

Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.51

E un ch’avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: "Perché cotanto in noi ti specchi?54

Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.57

D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina:60

non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
non Focaccia; non questi che m’ingombra63

col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se’, ben sai omai chi fu.66

E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni".69

Poscia vid’io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.72

E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l’etterno rezzo;75

se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi ’l piè nel viso ad una.78

Piangendo mi sgridò: "Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?".81

E io: "Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta".84

Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
"Qual se’ tu che così rampogni altrui?".87

"Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo", rispuose, "altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?".90

"Vivo son io, e caro esser ti puote",
fu mia risposta, "se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note".93

Ed elli a me: "Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!".96

Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: "El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna".99

Ond’elli a me: "Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti
se mille fiate in sul capo mi tomi".102

Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,105

quando un altro gridò: "Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?".108

"Omai", diss’io, "non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
io porterò di te vere novelle".111

"Va via", rispuose, "e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.114

El piange qui l’argento de’ Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi".117

Se fossi domandato "Altri chi v’era?",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.120

Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia".123

Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;126

e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:129

non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.132

"O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché", diss’io, "per tal convegno,135

che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,138

se quella con ch’io parlo non si secca".

PARAFRASI DEL CANTO XXXII

Se io avessi uno stile poetico aspro e duro, quale sarebbe adatto a descrivere il centro della Terra sul quale pesano tutte le rocce, io esprimerei il contenuto dei miei versi in modo più appropriato; ma poiché non ne dispongo, mi appresto a scrivere con un certo timore;
infatti descrivere il fondo dell'intero universo non è impresa da prendere alla leggera, né propria di una lingua infantile.

Ma mi aiutino quelle dee (le Muse) che aiutarono il poeta Anfione a cingere di mura Tebe, così che le mie parole non siano dissimili dalla realtà.

O peccatori più di tutti gli altri creati per il male, che state nel luogo (Cocito) di cui è arduo parlare, sarebbe stato meglio se in vita foste stati pecore o capre!

Non appena noi fummo giù nel pozzo oscuro, molto più bassi dei piedi del gigante Anteo, e mentre io ancora osservavo l'alta parete rocciosa, sentii qualcuno che mi diceva: «Sta' attento dove cammini: cerca di non calpestare le teste di coloro che in vita furono tuoi fratelli».

Allora mi voltai e mi vidi davanti e sotto i piedi un lago ghiacciato, che sembrava fatto di vetro e non d'acqua.

Il Danubio in Austria non si ghiacciò mai così d'inverno, formando una crosta tanto spessa, e neppure il Don sotto il cielo freddo (di Russia), come quel lago d'Inferno; e se anche vi fossero caduti sopra il monte Tambura (?) o il Pania, non ne avrebbero fatto neppure scricchiolare la superficie.

E come la rana gracida col muso a pelo d'acqua d'estate, quando la contadina sogna spesso di spigolare; così le anime dolenti e livide erano immerse nel ghiaccio fino a dove appare il rossore (al viso), battendo i denti come fanno le cicogne.

Ognuna teneva il viso rivolto in basso; fra di loro la bocca è testimonianza del freddo (per il battere dei denti) e gli occhi del cuore angosciato (per le lacrime).

Dopo che io ebbi guardato per un po' intorno, guardai ai miei piedi e vidi due dannati così vicini che avevano i capelli mischiati fra loro (i conti di Mangona).

Io dissi: «Ditemi, chi siete voi che stringete tanto i petti?» E quelli piegarono il collo; e dopo aver drizzato il viso verso di me, i loro occhi, che prima erano molli di pianto all'interno, gocciolarono le lacrime sulle labbra e il gelo le strinse serrando loro gli occhi.

Mai una spranga di ferro strinse così duramente due legni; e allora quei due cozzarono le teste come montoni, tanta fu l'ira che li sopraffece.

E un altro dannato, che per il freddo aveva perso entrambe le orecchie, tenendo il viso basso mi disse: «Perché ci guardi con tanta insistenza?

Se vuoi sapere chi siano questi due, sappi che vengono dalla valle da cui scende il fiume Bisenzio, come il padre loro Alberto.

Nacquero dalla stessa madre; e potrai cercare in tutta la Caina, senza trovare un'anima più degna di loro di essere confitta in questa gelatina (nel ghiaccio);

non colui (Mordrec) a cui il re Artù ruppe il petto e l'ombra con un colpo di lancia; non Focaccia; non questi che mi fa ombra col capo, al punto che non vedo oltre e che fu chiamato Sassolo Mascheroni; se sei toscano, sai bene di chi si tratta.

E perché tu non mi parli ancora, sappi che io fui Camicione de' Pazzi; e attendo qui Carlino che faccia apparire meno grave la mia colpa».

Poi io vidi mille visi paonazzi per il freddo, cosa per cui provo ancora ribrezzo, e me ne verrà sempre, vedendo acque gelate.

E mentre procedevamo verso il centro (di Cocito) a cui tendono tutti pesi della Terra, e io tremavo in quel freddo eterno;

non so se fu per mio volere, o per destino o fortuna, ma mentre camminavo tra le teste colpii forte nel viso un dannato.

Questi piangendo mi gridò: «Perché mi calpesti? se tu non vieni ad accrescere la punizione per (il tradimento di) Montaperti, perché sei qui a tormentarmi?»

E io: «Maestro, ora aspettami qui in modo che io risolva un mio dubbio su costui; dopo mi farai fretta quanto e come vorrai».

La mia guida si fermò e io dissi a quel dannato che ancora bestemmiava duramente: «Chi sei tu, che rimproveri così gli altri?»

Lui rispose: «Chi sei tu, piuttosto, che cammini per l'Antenòra colpendo le teste degli altri, così che, se io fossi vivo, sarebbe un oltraggio troppo grave?»

La mia risposta fu: «Io sono vivo, e ti può tornare utile, se cerchi la fama, il fatto che io includa il tuo nome nei miei versi».

E quello a me: «Ho desiderio del contrario. Lèvati da qui e non seccarmi oltre, dal momento che le tue lusinghe non valgono nulla in questo basso Inferno!»

Allora lo afferrai per la collottola e dissi: «Farai bene a dirmi il tuo nome, o non ti rimarrà neanche un capello».

E lui a me: «Anche se mi strapperai tutti i capelli, non ti dirò chi sono e non mi mostrerò nemmeno se mi colpirai sul capo mille volte».

Io avevo già i suoi capelli attorcigliati nella mia mano e ne avevo strappate diverse ciocche, mentre lui latrava con gli occhi rivolti verso il basso,

quando un altro gridò: «Che cos'hai, Bocca (degli Abati)? non ti basta far rumore con le mascelle, senza latrare? che diavolo ti succede?»

Io dissi: «Ormai non voglio più che tu parli, malvagio traditore; infatti io porterò  sulla Terra notizie veritiere di te, che ti infameranno».

Rispose: «Va' via e racconta quello che vuoi; ma non tacere, se mai uscirai di qui, il nome di colui che ha avuto la lingua così sciolta.

Egli rimpiange qui l'argento dei Francesi: potrai dire "Io vidi Buoso da Duera, là dove i peccatori stanno freschi".

E se ti chiederanno: "Chi altri c'era?", sappi che qui accanto c'è Tesauro dei Beccheria, a cui i fiorentini tagliarono la testa.

Credo che più in là ci sia Gianni dei Soldanieri, che aprì le porte di Faenza durante la notte, insieme a Gano di Maganza e a Tebaldello de' Zambrasi».

Noi ci eravamo già allontanati da quel dannato, quando io ne vidi altri due ghiacciati entro una buca, messi in modo tale che la testa di uno faceva da cappello all'altro;

e come si mangia il pane per fame, così quello che stava sopra addentò l'altro dove il cervello si congiunge col midollo spinale:

Tideo non morse in modo diverso le tempie a Menalippo per odio, rispetto a quanto faceva quel dannato col teschio e le altre parti.

Io dissi:«O tu che mostri in modo così bestiale odio verso colui che stai divorando, dimmi la ragione a questo patto:

se tu hai ragione a lagnarti di lui, sapendo chi siete e il suo peccato, io ti ricambierò una volta tornato sulla Terra, purché la lingua con cui parlo non mi caschi».

FIGLI DI ALBERTO DI MANGONA

Figli di Alberto di Mangona, della antica famiglia degli Alberti, conti di Vernio e di Mangona, e della contessa Gualdrada, Napoleone ed Alessandro erano divisi da un odio feroce per ragioni di interesse economico, prima ancora che per contrapposizione politica (l'uno era ghibellino, l'altro di parte guelfa). Nel suo testamento, infatti, il conte Alberto, per motivi che non ci sono noti, lasciò la parte maggiore del suo patrimonio e dei suoi possedimenti ai due figli minori, diseredando Napoleone, il maggiore. A nulla giovò un giuramento di pace imposto ai due fratelli dal Cardinal Latino: morirono in uno scontro fratricida intorno al 1284. Nel ghiaccio della Caina sono ora condannati a stare strettamente avvinti l'uno all'altro.

MORDREC

Mordret, o Mordrec, è un personaggio del noto romanzo cortese "Lancillotto del Lago". Nipote di re Artù, egli cercò di uccidere a tradimento il re per impossessarsi del regno di Camelot, ma il sovrano, pronto, gli trapassò il petto con una lancia e, quando estrasse l'arma, nella ferita passò un raggio di sole, che trafisse anche l'ombra del corpo di Mordret.

VANNI DE' CANCELLIERI

E' un personaggio pistoiese del XIII secolo; un nobile di parte bianca ricordato nelle Storie pistoiesi come uno dei più turbolenti e faziosi. I conflitti interni alla famiglia dei Cancellieri erano stati all'origine, secondo storici quali Dino Compagni e Giovanni Villani, della divisione in Toscana tra le fazioni dei guelfi bianchi e neri. Sua moglie, della famiglia dei Vergiolesi, è da alcuni indicata come la Selvaggia idealizzata da Cino da Pistoia. Durante la faida familiare per vendicare un Vergiolesi assassinato, Vanni uccise Detto di Sinisbaldo Cancellieri e Detto dei Rossi. Dante lo mette tra i traditori dei parenti nella Caina: tuttavia in verità non sappiamo chi egli tradì. A parte gli omicidi commessi dentro la sua consorteria, alcuni commentatori posteriori gli accreditano anche l'uccisione di uno zio, o dei fratelli o altri addirittura del padre; in ogni caso per Dante l'aver tradito un consorte doveva di per sé già essere una questione sufficiente per l'Inferno.

SASSOLO MASCHERONI

Esso viene citato con disprezzo da un altro traditore, Camicione de' Pazzi, come colui che col suo capo conficcato nel ghiaccio gli impedisce la visuale; dice anche che Dante, quale toscano, deve già ben conoscerlo (canto XXXII dell'Inferno). In realtà su questo personaggio si hanno scarsissime notizie, si sa solo che appartenne alla famiglia fiorentina dei Toschi, mentre gli omicidi a tradimento che gli assegnano i commentatori antichi, contraddicendosi a vicenda, non sono stati avallati da nessun riscontro d'archivio.

CAMICIONE DE' PAZZI

Alberto Camicione de' Pazzi, appartenente alla famiglia dei Pazzi di Valdarno (diversa da quella dei Pazzi di Firenze), è un personaggio vissuto nel Duecento. Uccise a tradimento Ubertino de' Pazzi, suo congiunto, per ottenere alcune fortezze che avevano in comune, secondo quanto riportato dall'Anonimo fiorentino. Per questo peccato Dante lo colloca nel cerchio dei traditori. Nel poema Dante scambia alcune battute con Camicione, scritto come si pronuncia in dialetto toscano "Camiscion de' Pazzi", che ha perduto gli orecchi per il gelo e che si offre di indicare al poeta alcuni personaggi puniti in quel girone, che non possono parlare perché immersi nel ghiaccio. Alla fine della breve carrellata chiude bruscamente dicendo che affinché non gli vengano fatte altre domande («perché non mi metti più in sermoni») il suo nome è Camicione de' Pazzi, e aspetta Carlino de' Pazzi che lo scagioni, cioè che ha un peccato più grave del suo (tradimento della patria invece che dei congiunti, secondo la scala di gravità dantesca), al cui confronto si sentirà più sollevato. «E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni.»

BOCCA DEGLI ABATI

Combatté tra i guelfi nella Battaglia di Montaperti (1260) e durante l'assalto delle truppe tedesche di Manfredi egli si trovava nella schiera della cavalleria guelfa vicino a Jacopo de' Pazzi che reggeva lo stendardo guidando la schiera. Quando qualcuno gli mozzò la mano per far cadere la bandiera egli fu tra i sospettati di tradimento: con quell'atto la cavalleria guelfa rimase allo sbando e sgomentati di aver perso la direzione i guelfi si ritirarono, venendo sconfitti. Bocca degli Abati, guelfo prima della battaglia, fu poi dopo la battaglia tra i ghibellini che vittoriosi rientrarono a Firenze;ma dopo la rivincita della parte guelfa egli venne semplicemente esiliato (1266), segno che non ci furono abbastanza prove per incolparlo del tradimento dello stendardo. Dante accusa apertamente Bocca in uno degli episodi più crudi dell'Inferno: Dante sbatte con il piede su una testa che sporge dal ghiaccio (egli stesso scrive che non sa spiegare se per sua volontà, per destino o per volontà divina), la quale impreca e fa un fugace accenno alla vendetta di Montaperti. Allora Dante ha un sospetto e chiede a Virgilio di aspettarlo un attimo; tornato dal dannato lo invita a dire il suo nome, ma quando egli si rifiuta con decisione (i due hanno un vero e proprio battibecco), Dante diventa violento e afferra il dannato per la collottola minacciandolo di strappargli i capelli e a un ennesimo rifiuto gliene tolse più d'una ciocca. A quel punto un altro dannato tradisce Bocca, rivelando a Dante il suo nome. Prima che il poeta se ne vada soddisfatto di avere risolto l'enigma del traditore di Montaperti, lo stesso Bocca lo invita a portare nel mondo le notizie riguardanti il suo destino ultraterreno a condizione che riveli il nome di altri traditori lì presenti. Tra questi nomina:
Buoso da Duera: è colui che rivela il nome di Bocca e che, nella vita terrena, fece passare i francesi verso il campo di battaglia di Benevento in cambio di denaro. La battaglia si concluse con la morte di Manfredi di Svevia.
Tesauro dei Beccheria: la colpa che ebbe in vita fu quella di stringere alleanza con seguaci e amici di Ottaviano degli Ubaldini contro il cardinale stesso. Venne decapitato dai fiorentini che si basavano su accuse infondate come quella di tradimento.
Gianni de' Soldanieri: di parte ghibellina, alla sconfitta di Manfredi nella battaglia di Benevento passò dalla parte guelfa.
Gano di Maganza, personaggio della Chanson de Roland: fu un paladino di Carlo Magno che tradì la patria svelando ai Saraceni come cogliere di sorpresa l'esercito dei Franchi di ritorno dalla Spagna. Per la sua colpa fu squartato e i suoi resti bruciati e buttati al vento.
Tebaldello Zambrasi, ghibellino di Faenza: per vendicarsi di un'offesa che gli avevano fatto tradì i Lambertazzi ghibellini che si erano rifugiati a Faenza aprendo le porte ai bolognesi della famiglia dei Geremei.
«Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratto glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,

quando un altro gridò: "Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?".

"Omai", diss’io, "non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
io porterò di te vere novelle".»


VIDEO HD https://www.youtube.com/watch?v=WPvy4ia_3Gk

GASSMAN https://www.youtube.com/watch?v=yXM9Xs85SX0

Eugenio Caruso -10 dicembre - 2019

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