Platone, le LETTERE.

PLATONE .

Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:

1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico,
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade Maggiore, Alcibiade minore, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. Ippia Maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, Repubblica libro primo , la Repubblica libri 2-10, Timeo , Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere

Opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.

LETTERE SINTESI

Le lettere di Platone sono una raccolta di 13 epistole, inserita da Trasillo al termine dell'ultima tetralogia (la nona, subito dopo l'Epinomide). Al giorno d'oggi gli studiosi ritengono queste lettere spurie, con l'eccezione della Lettera VII che molti fanno risalire a Platone; tuttavia, come scrive Mario Vegetti, a questo proposito «la questione è probabilmente indecidibile sul piano strettamente filologico».
Lettera I. Platone restituisce a Dionigi II il denaro prestatogli per tornare ad Atene dopo il suo terzo viaggio a Siracusa, e coglie l'occasione per trattare della situazione della città siciliana. Sicuramente apocrifa, questa lettera potrebbe essere in realtà un esercizio retorico.
Lettera II. Scritta negli anni tra il secondo e il terzo viaggio in Sicilia, è destinata a Dionigi II, a cui vengono dati alcuni consigli sulla situazione di tensione a Siracusa. È sicuramente falsa.
Lettera III. Destinata ancora a Dionigi II, è la risposta di Platone ad alcuni calunniatori: il filosofo elenca le sue principali azioni per migliorare la città.
Lettera IV. Indirizzata a Dione, lo incoraggia a continuare la sua attività politica e a coltivare la virtù.
Lettera V. Il destinatario è Perdicca III di Macedonia. Per temi e stile, la lettera sembra essere solo un'imitazione della prosa platonica.
Lettera VI. Destinata al tiranno di Atarneo Ermia, e ai due discepoli Corisco ed Erasto.
Lettera VII. La più lunga e senza dubbio la più interessante. Destinata ai familiari di Dione, contiene un autoritratto intellettuale del filosofo e un'importante testimonianza (auto)biografica. Generalmente è ritenuta autentica.
Lettera VIII. Ritenuta da molti non autentica, è anch'essa indirizzata ai familiari di Dione e contiene alcune riflessioni sulla situazione politica di Siracusa.
Lettera IX. Destinata ad Archita, è con ogni probabilità spuria.
Lettera X. Breve messaggio indirizzato a uno sconosciuto amico di Dione, di nome Aristodoro.
Lettera XI. Breve lettera destinata a un non bene identificato Laodamante.
Lettera XII. Breve messaggio destinato ancora all'amico Archita.
Lettera XIII. Indirizzata a Dionigi il Giovane, sembra avere carattere privato e contiene affermazioni in contrasto con la Lettera VII. Già Marsilio Ficino la considerò non autentica e la escluse dalla sua edizione in latino delle opere platoniche.
Lettera VII
Delle tredici lettere, quella che ha maggiormente destato interesse negli studiosi per i suoi contenuti filosofici è stata la Lettera VII, la più lunga e l'unica che si possa plausibilmente attribuire a Platone. Scritta dopo la morte di Dione (quindi dopo il 354 a.C.), e indirizzata ai suoi familiari a Siracusa, rappresenta un'importantissima fonte di informazioni sulla vita del filosofo e il suo stile filosofico.
Platone infatti dedica gran parte della lettera ad una lunga digressione che, dalla sua passione giovanile per la politica, lo porta ad analizzare le cause del suo interesse per la filosofia e le motivazioni che lo spinsero a compiere tre viaggi in Sicilia. Particolare attenzione è data al ricordo delle fasi che caratterizzarono l'insuccesso dei suoi tentativi di instaurare nella città megalogreca un governo guidato da un re-filosofo, fallimenti dovuti alla difficile situazione politica con cui si dovette scontrare. Oltre a ciò, Platone dedica anche alcune pagine ad una critica della scrittura, che possono essere messe in relazione con il mito del dio Theuth nel Fedro (274b-276a).


TESTO LETTERA VII
Platone agli amici e ai familiari di Dione con l’augurio di felicità. Mi avevate comunicato che avrei dovuto ritenere i vostri progetti in tutto uguali a quelli di Dione, e mi chiedevate anche di essere al vostro fianco per quanto potevo con l’azione e la parola. Ecco allora che io, se la vostra mente e il vostro cuore sono gli stessi di quelli di Dione, non ci penso due volte a unirmi a voi, altrimenti dovrò rifletterci molto. Ora, dunque, vorrei dirvi quel che pensava e desiderava, dato che lo conosco bene e non per sentito dire. Quando io arrivai la prima volta a Siracusa avevo all’incirca quarant’anni, Dione aveva l’età che oggi ha Ipparino, e proprio allora maturò quell’idea che in seguito non mutò più: era convinto, cioè, che i Siracusani meritassero la libertà, sotto la guida delle migliori leggi.
A tal punto non c’è nulla di strano che un qualche dio suggerisse il medesimo progetto politico anche ad Ipparino. Comunque è importante che giovani e non giovani ascoltino il modo in cui si formò questo pensiero. Cercherò dunque di illustrarvelo fin dall’inizio, approfittando di questa occasione propizia. Da giovane anch’io feci l’esperienza che molti hanno condiviso. Pensavo, non appena divenuto padrone del mio destino, di volgermi all’attività politica. Avvennero nel frattempo alcuni bruschi mutamenti nella situazione politica della città. Il governo di allora, attaccato da più parti, passò in altre mani, finendo in quelle di cinquantun uomini di cui undici erano in città e dieci al Pireo; ciascuno di questi aveva il compito di presiedere al mercato e aveva incarichi amministrativi. Al di sopra di tutti c’erano però trenta magistrati che erano dotati di pieni poteri. Fra questi si trovavano alcuni miei parenti e conoscenti che non esitarono a invitarmi nel governo, ritenendo questa un’esperienza adatta a me. Considerata la mia giovane età, non deve meravigliare il mio stato d’animo: ero convinto che avrebbero portato lo Stato da una condizione di illegalità ad una di giustizia. E così prestai la massima attenzione al loro operato.
Mi resi conto, allora, che in breve tempo questi individui riuscirono a far sembrare l’età dell’oro il periodo precedente, e fra le altre scelleratezze di cui furono responsabili, mandarono, insieme ad altri, il vecchio amico Socrate – una persona che non ho dubbi a definire l’uomo più giusto di allora - a rapire con la forza un certo cittadino al fine di sopprimerlo. E fecero questo con l’intenzione di coinvolgerlo con le buone o con le cattive nelle loro losche imprese. Socrate, però, si guardò bene dall’obbedire, deciso ad esporsi a tutti i rischi, pur di non farsi complice delle loro malefatte. A vedere queste cose ed altre simili a queste di non minore gravità, restai davvero disgustato e ritrassi lo sguardo dalle nefandezze di quei tempi.
Poco dopo avvenne che il potere dei Trenta crollasse e con esso tutto il loro sistema di governo. Ed ecco di nuovo prendermi quella mia passione per la vita pubblica e politica; questa volta però fu un desiderio più pacato. Anche in quel momento di confusione si verificarono molti episodi vergognosi, ma non fa meraviglia che nelle rivoluzioni anche le vendette sui nemici siano molto più feroci. Tuttavia gli uomini che in quella circostanza tornarono al governo si comportarono con mitezza. Avvenne però che alcuni potentati coinvolgessero in un processo quel nostro amico Socrate, accusandolo del più grave dei reati, e, fra l’altro, di quello che meno di tutti si addice a uno come Socrate. Insomma, lo incriminarono per empietà, lo ritennero colpevole e lo uccisero; e pensare che proprio lui si era rifiutato di prender parte all’arresto illegale di uno dei loro amici, quando erano banditi dalla Città e la malasorte li perseguitava.
Di fronte a tali episodi, a uomini siffatti che si occupavano di politica, a tali leggi e costumi, quanto più col passare degli anni riflettevo, tanto più mi sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto. Senza uomini devoti e amici fidati non era possibile combinare nulla e d’altra parte non era per niente facile trovarne di disponibili, dato che ormai il nostro stato non era più retto secondo i costumi e il modo di vivere dei padri ed era impossibile acquisirne di nuovi nell’immediato. Il testo delle leggi, e anche i costumi andavano progressivamente corrompendosi a un ritmo impressionante, a tal punto che uno come me, all’inizio pieno di entusiasmo per l’impegno nella politica, ora, guardando ad essa e vedendola completamente allo sbando, alla fine fosse preso da vertigini. In verità, non cessai mai di tenere sott’occhio la situazione, per vedere se si verificavano miglioramenti o riguardo a questi specifici aspetti oppure nella vita pubblica nel suo complesso, ma prima di impegnarmi concretamente attendevo sempre l’occasione propizia.
A un certo punto mi feci l’idea che tutte le città soggiacevano a un cattivo governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento straordinario e una buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché disperate. In tal modo, a lode della buona filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a livello pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia.
Questo dunque era il mio pensiero quando venni in Italia, in Sicilia, e si trattava del primo viaggio che io feci. Una volta arrivato, non mi piacque affatto la cosiddetta dolce vita, fatta tutta di banchetti italioti e siracusani, di una esistenza passata a riempirsi due volte al giorno, mai soli la notte, con tutto quel che segue ad una tale condotta. Il fatto è che a partire da una condotta e da tali inveterate abitudini nessun uomo che viva sotto il cielo potrebbe divenire saggio né sperare di divenire morigerato – e dove lo troverebbe un temperamento di natura così straordinaria? E lo stesso discorso può ripetersi per le altre virtù.
Né c’è legge che possa assicurare la pace a uno Stato i cui cittadini si credono in dovere di dilapidare ogni sostanza in spese pazze, e stimando quasi un obbligo l’ozio, interrotto solamente da banchetti, libagioni e piaceri d’amore. E’ evidente che tali città siano coinvolte in una continua sequela di tirannidi, oligarchie, democrazie, i cui capi non vorranno neppure sentir parlare di una costituzione giusta ed equilibrata. Dunque, nel mio viaggio a Siracusa, queste considerazioni si aggiunsero alle precedenti. Sarà forse il caso, oppure qualcuno degli dèi superni a progettare fin dall’inizio questa vicenda che ora coinvolge Dione e i Siracusani, ma temo che ad altri rischi peggiori vi esponete se mi date retta, mentre, ancora una volta, vi consiglio sul da farsi. Ebbene, per quale motivo posso dire che fu proprio quella mia venuta in Sicilia a dare origine a tutta la vicenda? Perché ho paura d’essere stato proprio io, inconsapevolmente e senza accorgermene, a porre i presupposti per la caduta della tirannide, quelle volte che mi incontrai con Dione, allora giovane, e gli dimostrai per via di ragionamento ciò che mi pareva essere il meglio per l’uomo, esortandolo a realizzarlo.
Dione, che era un giovane di per sé perspicace in tutti i sensi, ma soprattutto a riguardo dei ragionamenti che io gli facevo, mi prestò attenzione con una intelligenza ed un impegno da me mai riscontrati in nessuno dei giovani che la sorte mi ha fatto incontrare, tanto che, da quel momento in avanti, decise di vivere la sua vita in modo diverso dalla maggior parte degli Italici e dei Siciliani, amando egli la virtù, più del piacere e di ogni altra effeminatezza. Così, da allora fino alla morte di Dionisio, la sua condotta di vita fu sempre più avversata da coloro che trascorrevano l’esistenza come si usa nelle tirannidi.

 

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