Purgatorio, canto III. Gli scomunicati.CANTO III. È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle sette.
Dopo i rimproveri di Catone e la fuga precipitosa delle anime verso la montagna, Dante si stringe a Virgilio, senza la cui guida fidata non potrebbe certo proseguire il viaggio. Il maestro sembra essere punto dalla propria coscienza, così monda e dignitosa che anche il più piccolo errore le provoca un forte rimorso. Quando Virgilio prende a camminare senza la fretta che toglie decoro a ogni gesto, Dante inizia a guardarsi attorno e osserva la montagna, che si erge verso il cielo più alta di qualunque altra. Il sole brilla rossastro dietro di lui e proietta l'ombra davanti, dal momento che Dante ne scherma i raggi col proprio corpo. Il grande tema del canto è il tema complesso e dialettico della comunione e della esclusione (il canto degli scomunicati redenti dal loro pentimento in punto di morte e vivi nell’esperienza letificante della ritrovata comunione, e nel ricordo dolente dell’esclusione passata) ed esso, mentre realizza una particolare condizione della costruzione allegorica ed il «contrappasso» di anime, prima sole nella loro «presunzione» e ora unite in una istintiva solidarietà di «mandra», esprime liricamente il sentimento dantesco del valore della comunione e del disvalore dell’esclusione e della solitudine nel peccato rifrangendosi nelle componenti coerenti di motivi contrastanti di turbamento, di incertezza e di sicurezza, di rasserenamento, di malinconia e di dolcezza, di ansia presente o rievocata e di pace conquistata o sperata, di elegia e di idillio, che si articolano con trapassi complessi e mediati, con impeti elegiaci profondi e distensioni idilliche purissime nei tre fondamentali tempi del canto (vv. 1-45, 46-102, 103-145). Nei quali predominano (non senza incontri ed impasti profondi) prima l’elegia, poi l’idillio, poi di nuovo un’elegia riaffiorante in condizioni di rasserenamento e di fiducia, e nei quali il contrasto fondamentale si arricchisce di motivi particolari ed omogenei di vastissimo e profondo significato storico e spirituale senza mai prevalere in aperta espressione didascalica e polemica, senza mai rompere con intrusioni dirette dell’impegno politico e religioso del poeta la salda, concreta continuità narrativo-fantastica, il compatto e sensibile tessuto di rappresentazione per immagini e per vicende poetiche. Sicché alcune delle piú alte affermazioni di Dante (la superiorità della fede di fronte ai limiti della ragione umana, l’insufficienza e la nobile tensione della civiltà classica, il contrasto fra la «bontà infinita» di Dio e la incomprensione di questo da parte degli ecclesiastici che turba l’ordine mondano e religioso, il paradosso sublime del pentimento che rende uno scomunicato giudice degli autori della sua scomunica) vengono in questo canto a perdere ogni carattere isolatamente polemico e personalistico, divengono motivi lirici e materia poeticamente redenta nella maniera fantastica con cui sono espresse nella particolare vita delle voci che le esprimono come personale esperienza, acquistano un valore tanto piú profondo e una vibrazione tanto piú intensa in quanto sono inserite nell’intreccio e nello sviluppo di un saldo tema poetico centrale, nel suo contrasto di elegia ed idillio che tutto il canto anima e che si svolge, entro un generale tono sempre piú misurato e lento, assorto e disacerbato, con un particolare progresso fra la sua impostazione e la sua finale risoluzione e con una eccezionale ricchezza e coerenza di allusioni, di anticipi e richiami fra i suoi vari momenti e fra i suoi diversi termini dialettici. Come si può dimostrare piú che con uno schema insufficiente a raccogliere e ordinare una realtà poetica cosí ricca e dinamicamente articolata, con una interpretazione paziente, ed attenta al complesso svolgimento tematico, all’approfondirsi e realizzarsi dei suoi elementi, al fluire e addensarsi dei suoi motivi lirici, all’intreccio dei suoi termini in contrasto, alle condizioni particolari del suo prevalente chiaroscuro. Il canto si apre con un movimento drammatico e ansioso che riprende ed intensifica nell’improvvisa angoscia del personaggio Dante, nel suo timore e nella sua impressione di solitudine, di abbandono da parte della guida, il ritmo di fuga disordinata con cui si era chiuso il canto precedente, dopo che Catone era venuto bruscamente a rompere la distensione idillica e melodica delle anime raccolte intorno a Casella e al suo canto volto ad esprimere il loro sentimento di sollievo e di letizia per la nuova condizione di salvezza, il loro bisogno di novità consolatrici e coerenti al loro animo fiducioso. Quell’idillio e quell’abbandono smemorato alla letizia della salvezza eran troppo facili e inesperti, implicavano un oblio della ulteriore e faticosa conquista della totale liberazione dal peccato, e come essi erano stati impulsivi e irrazionali, cosí impulsiva e disordinata era la loro fuga e il ritmo tumultuoso e affannoso di questa si ripercuote nell’apertura del nuovo canto e nell’intenso turbamento di Dante e Virgilio, accentuato dal possente e scuro stagliarsi del monte delle pene purgatoriali sulla scena, prima tutta disposta nella vaga prospettiva di una dolcissima spiaggia marina. Gli ansiosi, incalzanti interrogativi della seconda terzina, lo stringersi impaurito di Dante a Virgilio, l’immagine di questo, tormentato dall’«amaro morso» del «picciol fallo», cosí grave alla sua severa coscienza, la fretta insolita del suo passo che traduce l’intima inquietudine, concorrono in questa prima presentazione del tema dell’incertezza e del turbamento in un forte impulso iniziale che sarebbe grave errore ridurre nei termini di un preambolo puramente narrativo e moralistico in sé isolato, perdendone appunto il valore di drammatica impostazione del tema intrecciato e complesso di tutto il canto, di base a contrasto di un movimento poetico che andrà svolgendosi con intime oscillazioni e gradazioni verso toni di idillio e di elegia piú profondi ed intimi, tanto piú efficaci perché assicurati dopo questo inizio piú aperto e drammatico, e sull’eco di questa inquieta vibrazione che ha superato il piú facile idillio e la melodica evasione dell’episodio precedente. Né il movimento iniziale si risolve e si placa rapidamente, ché anche quando una prima distensione corrisponde alla calma riacquistata da Virgilio, e al riaprirsi dell’attenzione di Dante agli oggetti circostanti con un nuovo desiderio di visioni rasserenanti, proprio dalla vista della sua ombra sola (e cosí la rapida indicazione del monte che «si dislaga» verso il cielo, del sole che «fiammeggiava roggio», introduce elementi che accrescono il senso oppressivo di un paesaggio solitario e paurosamente grandioso, serve come nuova sollecitazione al tema della solitudine e della paura della solitudine) il pellegrino trae motivo di un piú intenso moto di angoscia, di un doloroso sospetto di abbandono da parte della «fida compagna», restringendosi alla quale egli aveva dapprima ritrovato una relativa impressione di sicurezza. Solo a questo punto la concitazione e l’oscillazione piú drammatica fra turbamento e speranza, fra paura di solitudine e fiducia di compagnia, perde la sua forza piú esterna e acquista una risonanza piú intima, svolgendosi in un nuovo e piú profondo movimento poetico, in cui altissimi motivi teologici e potenti prospettive di dramma spirituale ed umano si trasfigurano in un limpido e suggestivo chiaroscuro di dolore e di fede, di supreme verità consolatrici e di nostalgia per un bene eternamente perduto, di salvezza e di condanna, di comunione e di esclusione, nella voce rassicurante e dolente di Virgilio, il portatore di una luce che a lui non ha giovato, l’annunciatore di una verità dalla cui fruizione concreta egli è escluso. La poesia della comunione e della esclusione trova nel discorso di Virgilio una delle sue espressioni piú alte e complesse, si articola in una spirale e in un intreccio di toni singolarmente delicati ed energici che, muovendo dalla volontà affettuosa del poeta-guida di rassicurare Dante e di convincerlo della sua «fida compagna», sale lentamente e si allarga, con un segreto impeto di liricità irresistibile e con uno sviluppo sempre piú intimo e vasto, a involgere motivi supremi, assolute verità religiose, la cui luce divina è pervasa di profonda malinconia nella condizione di chi la esalta con tanto lucido e turbato entusiasmo e nel dramma doloroso e contenuto di tutta una civiltà, nel «lutto» di un sublime desiderio inappagato che stabilisce – in questa estrema complessità di rapporti e di allusioni al tema centrale – una nobile e dolorosa comunione di spiriti magni e insieme la loro esclusione dalla superiore comunione della rivelazione cristiana. Cosí come il rimpianto del corpo lontano (la cui sepoltura è qui inutile alla salvezza dell’anima, all’intercessione dei «buoni prieghi») pur si ricollega a quella tematica fondamentale e sensibilmente assicura l’intonazione elegiaca che domina in questa parte del canto, accresce la suggestione di un’atmosfera pensosa entro cui piú arcani e profondi si svolgono i motivi a contrasto delle superiori verità celesti, dei misteri dogmatici, e la proclamazione del valore della fede, la sua superiorità rispetto alla nobile, ma insufficiente tensione della ragione, assume un rilievo piú assoluto e severo. Questo grande momento poetico, in cui la vita del personaggio di Virgilio viene approfondita al di là di ogni altra sua precedente individuazione e condotta al centro piú intimo della sua suggestione complessa, e del suo significato umano, storico, religioso (che sarà poi piú esplicitamente svolto nell’incontro con Stazio), si apre in un nesso affettuoso che stringe nuovamente i due viaggiatori attraverso il rivolgersi di Virgilio a Dante in una appassionata tensione sentimentale e fisica («tutto rivolto»), attraverso le sue domande addolorate per la «diffidenza» di Dante e fino al nodo intenso di pronomi personali («non credi tu me teco e ch’io ti guidi») che vuole assicurare l’indissolubile unione del maestro e del discepolo. Sulla base di questa intensa intonazione di affetto (il cui calore umano pervade tutto il discorso seguente) si sviluppa il primo movimento elegiaco: nella indicazione del corpo lontano, e quindi della assenza dell’ombra di Virgilio, vibra piú intimamente il compianto della sepoltura terrena e lontana e tutte le determinazioni geografiche e storiche, mentre servono alla spiegazione del fenomeno soprannaturale, in realtà sensibilizzano il motivo poetico della separazione, della lontananza, della nostalgia, e «Vespero» ed «ombra» inducono indirettamente la coerente suggestione di una luce attenuata e malinconica, come le indicazioni sepolcrali, la stessa indicazione del trasferimento del cadavere di Virgilio da Brindisi a Napoli, la determinazione vaga e nostalgica della lontananza di quel sepolcro («Vespero è già colà»), la lentezza pensosa del ritmo collaborano ad una musica funebre ed elegiaca, alla creazione di un epicedio affettuoso e dolente che anticipa quello piú scoperto e diretto di Manfredi. E nelle terzine seguenti, sotto l’apparenza di una spiegazione che pur vibra del suo riferimento all’affettuosa volontà di Virgilio di rassicurare Dante, questo motivo elegiaco si svolge e si compone con il motivo della trasparenza degli speciali corpi dei trapassati assimilata alla limpida permeabilità dei cieli alla luce, in un progresso di immagini arcane che a poco a poco conducono al centro di una intensa rivelazione di verità superiori, alla enunciazione della imperscrutabile disposizione divina, alla infinita distanza dei misteri dogmatici dalla possibilità della ragione umana. Verità espressa, ben piú che in una sentenza conclusa ed isolata, nel volo arcano e limpido dei versi che riprendono, nell’immagine vasta di un impossibile itinerarium in Deum con semplici mezzi razionali, la poesia misteriosa e celeste della luce che fluisce attraverso i cieli, e rilevata nel suo supremo valore proprio dalla voce malinconica e consapevole di Virgilio che esalta una verità da cui è escluso e che, pronunciando la condanna e la «follia» nella speranza di una ascesa a Dio con l’unico ausilio della ragione, pronuncia insieme la condanna propria e quella della civiltà cui appartiene. Cosí, ben diversamente da quanto avverrebbe in una diretta intrusione della voce del poeta cristiano, l’esaltazione della fede e della salvezza nella fede vive poeticamente nella concreta testimonianza di Virgilio, nella sua esperienza dolorosa, nella sua nostalgia per un altissimo bene perduto e intensamente desiderato, e il motivo rasserenante della comunione salvatrice nella fede vibra piú intensamente nel suo contrasto con quello della eterna esclusione che – in questa poesia di eccezionale complessità e continuità – esso prepara in forma di piú profonda e dolorosa elegia, dopo che il mistero della trinità e dell’incarnazione redentrice di Dio si è tradotto in una immagine di suprema tenerezza umana, nell’immagine pia e familiare del parto di Maria cosí congeniale a questo incontro di sensibilità affettuosa e di sensi spirituali altissimi, arcani e pur privi di ogni astrattezza intellettuale, e cosí riadatta a rievocare sottilmente in questo canto tanto pieno di echi virgiliani – e qui piú precisamente inteso ad approfondire la vita complessa del poeta piú amato da Dante (e si pensi alla eco virgiliana della poesia della sera, della contemplazione celeste, dell’elegia dei sepolcri, dei corpi insepolti e degli eroi sfortunati, del profondo idillio bucolico) – la componente piú intima della pietas religiosa e umana del poeta «precristiano». E le ultime due terzine del «tempo» (vv. 40-45) realizzano su questa nota elegiaca personale, spirituale e storica (la pena di Virgilio, la pena della saggezza filosofica senza fede, il «lutto» della ragione, la crisi sublime della civiltà antica) questo dolente impeto di desiderio inappagato, questo tormento dell’eterna esclusione (e tutta la prima terzina vibra del contrasto tormentoso fra «disio» e «lutto», fra la tensione della saggezza antica e la sua sconsolata vanità «sanza frutto»), e lo chiudono lasciandolo echeggiare lungamente nella tripartita indicazione dei grandi spiriti delusi («Io dico d’Aristotele e di Plato e di molt’altri») e nella didascalia, anch’essa tripartita con i legami congiuntivi e indugianti delle «e» (procedimento ripreso poi in direzione idillica nella rappresentazione delle «pecorelle»), che ripercuote il personale significato di quell’«e molt’altri» nell’atto, nel silenzio e nel turbamento di Virgilio. e disiar vedeste sanza frutto In tutta questa mirabile sequenza di terzine (dal compianto di Virgilio per il corpo lontano al suo turbamento per una verità che lo esalta e lo condanna) la poesia del canto ha realizzato uno dei suoi chiaroscuri piú profondi, con un dominante prevalere di elegia, mentre essa prepara a contrasto e pur nella mediazione di un equilibrio pacato, di una dolente saggezza, il tempo seguente in cui prevale la poesia della ritrovata comunione, la nota di un superiore idillio, di una vita mansueta e corale, contenta del «quia», anche se pronta ancora a turbarsi e stupirsi ad ogni immagine inattesa e discordante dalla sua condizione di «fortunata mandra». Dopo il culmine lirico raggiunto nel discorso di Virgilio e sulla profondissima eco delle rassicuranti e malinconiche sue parole e del suo turbamento pensoso e rassegnato (e ammirazione, pietà e affetto vibrano nel silenzio di Dante piú suggestivi di qualsiasi risposta), il nuovo «tempo» (vv. 46-102) si inizia quando i motivi piú tumultuosi della paura di solitudine e di abbandono in Dante e quelli piú intensamente dolorosi del turbamento di Virgilio, si sono risolti nel discorso di quest’ultimo e la nuova momentanea incertezza della guida, il suo interno esame sul modo di iniziare la salita del monte (che riflette i moti intimi della sua momentanea preoccupazione, il senso di difficoltà dell’ascesa in una nuova immagine del paesaggio e nella sua resa visiva e fonica aspra e rupestre) si atteggiano in forme piú pacate. E la domanda che Virgilio si rivolge è senza ansia, e alla calma, con cui egli medita e si ferma per risolvere una difficoltà non piú drammatica e tormentosa come erano state la fuga e il movimento del rimorso iniziale, corrisponde la stessa disposizione del pellegrino Dante a contemplare piú tranquillamente la montagna che gli sovrasta, nella riconquistata sicurezza della compagnia di Virgilio. Ogni residuo del turbamento del primo «tempo» si dissolve poi nella visione di una «gente d’anime», il cui procedere lentissimo agevola e sottolinea in questa parte iniziale del tempo il superamento di ogni angoscia ed eccitazione, il prevalere di un ritmo costante e distensivo che prepara il nuovo culmine poetico di un altissimo idillio, di una «pastorale» purissima ai cui margini pur vibra, in forme sempre piú attenuate di stupore e di trepidazione, l’eco di quel movimento di incertezza che aveva dominato nel primo «tempo», e che qui mai si dissocia completamente dal fondamentale sentimento letificante di concordia e di salvezza in comune delle anime degli scomunicati pentiti e avviati alla loro totale liberazione. Una nuova fiducia anima la parola di Dante confortato dalla certezza dell’ausilio della moltitudine liberantesi («ecco di qua chi ne darà consiglio»), anima il gesto risoluto e confidente di Virgilio («con libero piglio»), il piú libero movimento dei due viaggiatori; e questo si compone, nel suo passo piú celere, con l’avanzarsi lentissimo delle anime in un efficacissimo incontro di direzioni e di ritmi, in cui il secondo prevale ripercuotendosi con un nuovo effetto semplice e fantastico (la lentezza dominante opera una singolare unione di realtà e fantasia, la ricomposizione poetica di una superiore realtà fantastica agevole, semplice e musicale) nel movimento stupito e dubitoso, ma soprattutto corale e collettivo, delle anime che arretrano e si addossano al monte con un risultato figurativo di mobile bassorilievo non isolato o semplicemente gustoso ed elegante, ma chiaramente legato allo stupore che in loro desta ogni visione discordante da quell’animus di concordia e di serenità che le unifica e rende intimamente poetico il loro muoversi solidale con un rafforzamento della loro unione, della loro anche fisica concordia: quando si strinser tutti ai duri massi Il moto di timore e di incertezza, già ingentilito e alleggerito da ogni troppo aperta drammaticità nell’eleganza dei loro gesti (solo un incresparsi lieve della compatta superficie visiva e musicale nel rapido tocco vibrante dei «duri massi» e dei suoni omogenei con cui il poeta precisa lo stringersi e il fermarsi delle anime: «si strinser tutti», «stetter fermi e stretti»), si risolve nella lieve trepidazione di un’attesa già disposta ad accogliere l’assicurazione della voce lenta, benevola e suadente di Virgilio, che, nel suo colloquio con le anime, vince la loro prima esitazione e poi, dopo che il canto dell’idillio ha raggiunto le sue note piú pure e profonde, definitivamente fuga l’ultimo movimento del loro stupore e della loro timidezza (replica efficacissima di quello precedente, ma qui attenuato, lieve ed efficacissimo nella costruzione dell’episodio con il suo centro, piú intenso fra i due simmetrici momenti di colloquio e l’inerente intreccio dei due movimenti di stupore e della loro distensione rassicurata), con la spiegazione della natura di Dante e con l’esortazione esplicita alla fiducia nella virtú divina che a Dante vivo consente il viaggio oltretomba. Tutto nel discorso di Virgilio e nel suo tono pacato e nelle sue immagini di agevolezza e di pace (la pace attesa da «tutti», parola su cui la voce non casualmente si appoggia) concorre a persuader le anime a muoversi lentamente e suggerisce, con l’appello alla loro esistenza corale e alla loro condizione di pace, i modi stessi della loro trasfigurazione pastorale, intona in forma piú esterna il ritmo nitido e dolcissimo delle grandi terzine centrali (vv. 79-88), in cui gli elementi idillici diffusi nel canto si addensano e si alimentano di quanto vi era nell’anima dantesca di piú affettuoso ed idillico, superando nella loro sobria energia ogni pericolo di espansione pargoleggiante, di gusto mimetico e realistico, di improvviso e puntuale moto di abbandono oblioso. Perché il quadro e il paragone son bene l’estremo sviluppo del tema centrale della comunione e il profondo senso dantesco della realtà si traduce anche qui in coerente sentimento lirico di simpatia affettuosa per la realtà nei suoi aspetti piú idillici, consolatori, suggestivi di semplicità, di mansuetudine, di intima quiete, di fiducia, di istintiva solidarietà, confortato dagli echi poetici di una complessa tradizione letteraria (la tradizione bucolica colta soprattutto nella pietas virgiliana che umanizza immagini, altrove piú ferme, in elementi di sfondo pittoresco e adibite ad una distensione obliosa, ad un’evasione edonistica) e da un chiaro richiamo di echi evangelici (anime-agnelli) e della loro traduzione figurativa medioevale nella scultura e nei bassorilievi paleocristiani, nei mosaici ravennati e romani, negli affreschi della civiltà pittorica romanica. E questi richiami, realizzati in una superiore classica semplicità, in un movimento e in un calore di realtà tanto superiore ad ogni stilizzazione medioevale, ben chiaramente collaborano a sensibilizzare poeticamente la religiosa condizione degli scomunicati pentiti e riaccolti in una comunione di salvezza, in una concordia e mansuetudine opposta alla solitudine, all’esclusione nel peccato (non piú «presunzione», ma mansuetudine, non piú orgoglio e ribellione, ma timidezza e pudore). Il ritmo soave e pacato delle parole di Virgilio si fa ancor piú lento e misurato, intimamente musicale con le sue soste e riprese, con la sua linea distensiva sottolineata dal grande numero delle congiunzioni, in un impasto di immagini e suoni di estrema dolcezza cui contribuiscono l’affettuosa simpatia dei diminutivi, il morbido nesso dei gerundi, i gesti di timidezza delle anime-pecorelle, la loro fiduciosa rinuncia all’indagine del «perché», l’istintiva adesione ai moti del loro esistere collettivo. Come le pecorelle escon del chiuso L’assimilazione delle anime e delle pecorelle si conclude perfettamente nella seconda parte del paragone, ma un ritorno del motivo del turbamento, che anima la scena con l’eco di motivi precedenti (il motivo dell’ombra nello sgomento iniziale di Dante e nell’elegia di Virgilio) e media sottilmente perciò la continuità di elementi elegiaci, qui piú allusi che fortemente rilevati, verso l’episodio di Manfredi, sviluppa ulteriormente, in una variazione eccellente del paragone centrale, il motivo della solidarietà delle anime-pecorelle che arretrano e si addossano l’une alle altre «non sapendo il perché», il movimento delineato nel paragone, e serve chiaramente, nella simmetria dei due moti d’arretramento e dei due discorsi di Virgilio, a completare tutta la linea dell’episodio nella sua perfetta proporzione, a sciogliere ogni residuo di turbamento, a ribadire, dopo l’ultimo discorso esplicativo ed esortativo di Virgilio, in un colloquio sempre piú distensivo e rassicurante, la loro fiduciosa e mansueta vita di comunione definitivamente espressa nella loro risposta corale, nel loro gesto collettivo. Sicché la voce che s’alza con un inizio limpidissimo di canto, si stacca lentamente dal coro che prima ha parlato, come la individuazione del personaggio, il suo riconoscimento, bisognoso di spiegazione e di gesti che tanto lo diversificano da certe brusche e prepotenti presentazioni di altri plastici e statuari personaggi infernali, si attua lentamente in uno sviluppo della personalità e della figura di Manfredi dalla condizione generale di mansuetudine e di fiduciosa speranza delle anime della «fortunata mandra», in una rallentata serie di parole e gesti contenuti, senza impeto, e tutti profondamente ispirati ed essenziali (il ritmo di questa parte del canto è sempre pensoso, misurato, anche se a poco a poco si tende e si arricchisce di tante componenti drammatiche ed elegiache, di echi guerreschi e virili, di accenti di dolore e di severa condanna) sullo sfondo coadiuvante del silenzio delle anime, della loro lentissima marcia, a cui Dante e Virgilio accordano il loro passo, e della attenzione meravigliata di Dante che nel canto seguente si precisa nel verso 14: «udendo quello spirto e ammirando». La voce che, dopo aver evocato la sua storia personale ed esemplare, rientrerà lentamente alla fine del Canto nella sua piú chiara condizione di interprete della «fortunata mandra», invita Dante (e «chiunque tu se’» e «se di là mi vedesti unque» sono forme di colloquio che assecondano questa inclinazione soave e mansueta e nobilmente triste-serena, questo senso di comunicazione senza ansia, questo melodico e intimo superamento di ogni urgenza, di ogni avidità di recuperare impetuosamente un rapporto di individuali esistenze) a riconoscerlo, provoca la sua attenzione, il suo umile diniego, la prima presentazione della figura del re svevo, anch’essa svolta in un’aura d’incanto, di melodia e di meraviglia letificante, e pur increspata d’una sommessa malinconia, pausata nella sua disposizione di successive indicazioni, priva di ogni plastica tensione: Biondo era e bello e di gentile aspetto, E poiché le prime indicazioni non sono sufficienti ad operare il riconoscimento (ma la ragione piú intima e poetica non è il bisogno «verisimile» di dirci che Dante non aveva conosciuto in vita Manfredi, sibbene l’esigenza di svolgere lentamente la individuazione della figura, di fare affiorare lentamente le caratteristiche piú necessarie alla sua storia individuale e al suo significato esemplare e poetico, di comporre un’immagine di nobiltà, di bellezza, di sventura), Manfredi aggiungerà ancora un gesto rivelatore e due parole («Or vedi, e mostrommi una piaga a sommo il petto») che implicano un chiaro riferimento alla vicenda miracolosa del Cristo risorto ed apparso ai suoi discepoli ancora attoniti e incapaci di riconoscerlo (v. Luca 24,39; e Giovanni 20,20 e 27) se egli non avesse indicato il segno del suo martirio. Ché non vi è dubbio circa la volontà del poeta di presentare la figura di Manfredi in un’altissima nobilitazione del suo carattere regale e cavalleresco (e non a caso Dante riprende, nel celebre verso 107, il ritratto dell’eroe nella Chanson de Roland sino nella disposizione sintattica, cosí coerente in tal caso al procedimento caratteristico nei momenti piú alti del canto e – come ha ben visto H. Gmelin nel suo recente commento al Purgatorio – quello del re David nel I dei Re, 16,12: «Erat autem rufus et pulcher aspectu decoraque facie») e del suo significato di «martire» di una tragica vicenda storica, nella crisi dell’ordine mondano provocato dalla politica della Chiesa, e soprattutto di personale testimone di una suprema e complessa verità (la possibilità della salvezza nel pentimento e nella comunione con Dio anche per chi è escluso provvisoriamente dalla comunione della Chiesa) che Manfredi rivive in tutti i suoi elementi attraverso la rievocazione della sua personale esperienza di peccato e di redenzione, di scomunica, di persecuzione esercitata contro il suo corpo e contro il suo nome, e di comunione riacquistata nell’incontro del suo pentimento e della misericordia divina. E come nella presentazione della figura di Manfredi si compongono insieme echi della cronaca ghibellina e guelfa, concorde almeno nel riconoscere la nobiltà, la bellezza, la cortesia, il valore personale del re svevo (cui solo la pubblicistica curiale e le lettere e i decreti papali negavano ogni elemento di decoro), cosí in tutta la storia poetica che Dante crea come sensibile incarnazione di un «esempio» delle verità che dominano il canto (in un caso particolarmente bruciante e quasi paradossale di capovolgimento del giudizio di assoluta scomunica degli ecclesiastici che empiamente aveva escluso la possibilità del pentimento e della misericordia di Dio) vengono a fondersi gli elementi della leggenda ghibellina che aveva fantasticato sulla conversione del re in punto di morte, sulla salvezza della sua anima. Solo che nella poesia dantesca tutto è condotto ad un valore piú alto, ad un significato meno pratico e meno partigiano, che ammette ex abundantia gli «orribili peccati» del re, che non discute il diritto della scomunica ecclesiastica (anche se quella scomunica da parte del simoniaco Clemente IV poteva essere discussa nel suo motivo politico), e non riporta neppure quella affermazione del benegenitus del Convivio ricollegando piuttosto la dignità regale di Manfredi al rapporto meno discutibile con la nonna Costanza e con la figlia «genitrice de l’amor di Cicilia e d’Aragona» (dove pur si sente che Dante sfugge in quest’alta «storia» ogni discussione sul preciso valore dei due re altrove da lui disprezzati) per far risaltare tanto piú la storia vera di Manfredi post mortem, il contrasto fra l’empio zelo degli ecclesiastici e la «faccia» misericordiosa di Dio, per far vibrare tanto piú intimamente il tema supremo del valore della fede, l’intreccio potente della letificante condizione della comunione e della tristezza della esclusione, che Manfredi esprime nella letizia della sua redenzione e nella mestizia della sua solitudine peccaminosa, nella elegia del corpo insepolto e perseguitato, nella condanna sobria e sicura dei limiti della scomunica ecclesiastica, della sua vana pretesa di assolutezza che par quasi ritorcersi sui suoi autori e far di loro i veri scomunicati di quel canto, gli esclusi dalla fruizione e dalla comprensione di una verità consolatrice perduta nel loro gretto legalismo, nel loro spirito feroce e fazioso. Ben diversamente dalla semplice agiografia ghibellina e da un’aperta polemica su di un caso che aveva tanto appassionato gli uomini dell’ultimo Duecento, la storia dantesca di Manfredi assume un carattere tanto piú universale e poetico e vive coerentemente nelle condizioni essenziali del canto, nello svolgimento della sua tematica, nell’aura di mansuetudine e di pacatezza creata dalla rappresentazione delle anime-pecorelle; e Manfredi, regale e cavalleresco, è coerentemente privo di ogni presunzione, di ogni orgoglio individualistico, vede la sua storia dall’alto della sua condizione di redento mercè un atto di umiltà, di partecipante all’animus collettivo di fiduciosa letizia e speranza, come la sua voce, pur facendosi piú scura, triste e severa nel rievocare la vicenda del suo cadavere, non perde mai quell’intonazione di misura, di interiore compostezza entro cui tanto piú segretamente vibrano le note dell’elegia, della miseria dell’esclusione, del suo sensibilissimo compianto funebre. Cosí la sua nobiltà eroica e regale non contrasta mai con la sua natura di mansueto, cosí lo stesso sorriso con cui egli inizia il suo discorso (punto di interminabili discussioni su base di psicologica verisimiglianza) è privo di ogni baldanza e nasce – nella stessa disposizione lenta e melodica delle parole – soprattutto dalla pacata letizia di chi afferma nell’apparente paradosso del suo caso una superiore verità umana e divina e dà alla «meraviglia» della sua salvezza quella sommessa sfumatura di discrezione e di mansuetudine che si rivela nel modo con cui egli ristabilisce la versione esatta della sua vicenda ultraterrena («e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice») ,smorzando ogni asprezza polemica (e tanto piú in questo inizio cosí poco impetuoso e teso da una dominante letizia e dolcezza) nel riferire il motivo della sua rivelazione alla affettuosa sollecitudine paterna di rassicurare sulla propria sorte la figlia Costanza, componendo in una dimensione di umana e decorosa gentilezza le indicazioni della sua regalità e dei suoi affetti familiari. Su questo fondo sicuro la voce rievocante di Manfredi si fa lentamente piú scura e profonda e l’intreccio tematico essenziale si ripresenta nella sua complessità in un replicato moto di ascesa dal suo polo di piú intensa elegia e drammaticità a quello del rasserenamento, dal desolato senso della solitudine del peccato a quello letificante della comunione e della salvezza. Prima passando dal ricordo delle ferite mortali in battaglia a quello del pianto, del pentimento e del suo rivolgersi a Dio, poi – con un ondeggiamento piú intenso fra una vibrazione piú drammatica e concentrata e un’espansione vastissima e uno slancio sublime – salendo dalla dichiarazione piena e doverosa dei peccati all’abbraccio con cui Dio accoglie tutti quelli che a lui si rivolgono: un Dio per il quale Dante – poeta della giustizia, ma anche dell’amore, del Dio padre degli uomini oltre che padrone dell’universo – qui trova le espressioni piú grandiose ed umane della misericordia e del perdono: «quei che volontier perdona», «la bontà infinita». Poscia ch’io ebbi rotta la persona Poi il ricordo di Manfredi passa al centro dolente della sua storia dopo la morte, contrapponendo al pentimento e all’abbraccio divino che lo ha riammesso definitivamente nella comunione della salvezza (e ha stretto peccatore e divinità in una prospettiva grandiosa e serena che ha assorbito e abolito l’ansia della solitudine peccaminosa e lo scuro paesaggio del campo di battaglia) la diversa vicenda del suo cadavere, la sua sorte misera e patetica in un mondo di rapporti ostili e di passioni faziose, dominato dall’incomprensione di falsi pastori senza amore e senza pietà. Se ’l pastor di Cosenza che alla caccia Torna cosí a dominare nelle terzine centrali (vv. 124-132) il tema della solitudine e dell’elegia in cui persino chiare componenti del tema della comunione, individuate nella pietà dei guerrieri nemici per il cadavere del re vinto ed eroico, sono involte nel tono grave e mesto, in questo rimpianto del corpo lontano (che richiama, nel giuoco sottile di allusioni e di ricorsi di precedenti omogenei motivi, che è tipico di tutto il canto e del suo svolgimento complesso, il rimpianto virgiliano per il corpo lontano sulla terra), in un ritmo solenne e grave di marcia funebre (prima eroica e guerresca, poi squallida e dissacrata), collaborante con gli elementi del paesaggio triste e cupo a creare una scena vasta e suggestiva, profondamente malinconica: e malinconica, piú che apertamente sdegnata e polemica, anche nel saldo riferimento all’empia incomprensione degli ecclesiastici poeticamente risolta in ulteriore elemento di mestizia, di pensosa meditazione sulla grettezza anticristiana dei «pastori» religiosi, che rende questi ancor piú oggetto di commiserazione che di odio rovente nelle parole dello scomunicato redento e mansueto, nella sua voce triste e serena, cosí superiore all’odio selvaggio dei suoi nemici. Tutto si fa rappresentazione ed immagine e la persecuzione del vescovo di Cosenza contro il cadavere del re vinto (persecuzione tanto piú empia e scellerata perché esercitata contro un morto: ed è chiaro che, se Dante si rivolge alla responsabilità del vescovo libero di comprendere la misericordia di Dio malgrado l’ordine del papa, non esclude affatto questo – come vorrebbero certi interpreti interessati – dalla colpa del suo comando) si trasfigura in un intenso movimento di caccia selvaggia e feroce (quasi un ricordo della caccia di Ruggieri nell’episodio di Ugolino), come il rimpianto della perdita della sepoltura guerresca ed eroica che i soldati di Carlo avevano accumulato di pietre come omaggio al re vinto e coraggioso, si realizza nell’immagine scura e possente della tomba sicura e massiccia, nel suono cadenzato e solenne di una marcia funebre per la morte di un eroe, appoggiato alle parole scure, pesanti, sepolcrali («sotto la guardia della grave mora») implicanti quel senso di stabilità, di tutela, di sicurezza in un luogo preciso e sicuro («in co del ponte presso a Benevento») che cosí profondamente traduce, in contrasto col primo movimento e con il dolore appassionato e nostalgico di quella perdita («sarieno ancora»), quell’ansia di salvezza dalla dispersione, dalla solitudine senza nome e senza segni di umana pietà, dalla esclusione da ogni vincolo con la storia e con la pietà degli uomini, con il pretesto sensibile ai loro «buoni prieghi», che in Manfredi riporta la profonda voce del tema del canto. Mentre la terzina seguente, che espone il risultato della caccia del «pastore» spietato, approfondisce definitivamente la piú forte intonazione elegiaca in un ritmo severamente patetico, in un paesaggio sconsolato, solitario, invernale, intriso di mestizia e di squallore: e qui la pietà e l’elegiaco compianto del re per il suo corpo insepolto si realizzano nell’immagine desolata di quelle ossa dolorosamente sensibili alla miseria del loro abbandono, all’offesa degli elementi naturali, nella vibrazione profonda del verso («or le bagna la pioggia e move il vento») che ancora una volta riprende e potenzia la suggestione piú elegante ed agile di un verso virgiliano per la misera sorte del corpo insepolto di Palinuro («Nunc me fluctus habet volitantque in litore venti»). Di quella desolata dispersione i versi successivi svolgono il senso piú intimo di dolore per l’esclusione da tutto ciò che legava Manfredi alla sua stessa storia di re e di eroico guerriero («di fuor dal Regno, quasi lungo ’l Verde»), e queste indicazioni geografiche ben assecondano il ritmo del movimento dolente e funebre, accentuano il tormento dell’esilio in un luogo deserto e lontano da quelli della morte e della vita, determinato da forme appunto di esclusione («di fuor dal Regno»), di imprecisione («quasi lungo ’l Verde») cosí opposte a quelle sicure e individuate dalla «grave mora»: «in co del ponte, presso a Benevento». Cosí come la determinazione del trasferimento del cadavere in quella zona squallida e lontana aggiunge un ultimo movimento, in analogia di ritmo e con intimo contrasto con quello con cui si chiudeva la terzina precedente: nuova marcia funebre, ma tetra e squallida, incupita dal particolare dell’accompagnamento degli scomunicati («a lume spento»), dalla sua suggestione di buio notturno che porta al massimo gli elementi lugubri dell’episodio di Manfredi. Ma l’elegia, che qui è giunta al suo fondo piú intenso nell’evocazione del corpo insepolto e bandito da ogni vincolo di comunione umana e religiosa (estrema immagine della «scomunica» e della implacabile persecuzione degli ecclesiastici), si trasmuta ora in un nuovo slancio di fede e di sicurezza in una verità che Manfredi ha sperimentato e che egli ora – nel paradosso sublime di un condannato che ristabilisce un piano piú alto di giustizia contro i suoi giudici gretti e interessati, e afferma insieme la sua partecipazione a un mondo piú alto e pietoso, mansueto e privo di orgoglio – di nuovo annuncia in forma piú generale e con una intima forza, accresciuta dalla rievocazione di una sofferenza patita a causa della loro «maladizion». Per lor maladizion sí non si perde, La verità consolatrice della possibilità di salvezza nella fede cristiana, affermata da Virgilio, e nel pentimento anche in punto di morte, affermata da Manfredi in forma di personale esperienza, torna ad espandersi in una suprema proclamazione che esalta, di fronte alla limitazione dell’efficacia della scomunica, l’immagine dell’«etterno amore» e della speranza avvivata dalla vitale analogia della verde radice della salvazione, dal caldo contatto fra un amore senza confini e senza tempo e la viva perenne possibilità del pentimento umano prima della cesura inesorabile della morte. E se in quella «lor maladizion» è concentrato tutto il profondo sdegno di Dante per l’anticristiano odio dei sacerdoti, per la loro empia volontà di ridurre l’«etterno amore» nella loro misura angusta e settaria (ed essi non poterono invece che esercitare la loro sterile ferocia sul misero cadavere del re, perseguitato anche in quelle tremende parole di Clemente IV – «Illius hominis pestilentis cadaver putridum» – che, riprese ancora nell’odio inestinguibile della curia sino alla bolla del 1282 di papa Martino, sembrano combattute nella figurazione gentile e nobile della poesia dantesca e nella pietà umana e religiosa per le sue misere ossa insepolte), e se in tutta la storia di Manfredi vibra chiaramente il severo giudizio del poeta, impegnato in una lotta politica e ideale priva di ogni opportunistico compromesso, la poesia di questa terzina e di tutto l’episodio è chiaramente volta a superare ogni aperta asprezza combattiva in una dimensione piú profonda ed intima cui è essenziale tutta la coerente intonazione del canto e la mediazione di Manfredi, nella cui voce dolente e serena, nobile e mansueta, sdegno e protesta si sublimano in una salda e superiore storia conclusa e perfetta, in un «esempio» fattosi totalmente poesia. La terzina che contrappone l’«etterno amore» e la «lor maladizion» sullo sfondo della speranza fa da conclusione alla parte centrale dell’episodio di Manfredi e in essa la vibrazione piú intensa si è perfettamente risolta. Ora la tensione poetica va lentamente distendendosi in un tono piú blando, la voce di Manfredi va lentamente rientrando, attraverso la calma fiduciosa e mansueta delle ultime parole, nella voce e nel silenzio concorde della «fortunata mandra», nella sua condizione di umiltà di cui è concreta espressione quel riconoscimento dell’autorità della Santa Chiesa (Santa come istituzione divina e malgrado i cattivi pontefici) che, pur piú accettato che non intensamente partecipato (con qualcosa di piú legalistico, d’aggiunta concessiva e meno essenziale – «Vero è» –, come meno essenziale di fronte al miracolo della salvezza nel pentimento e nella misericordia divina è lo stesso «divieto» che condanna gli scomunicati a una pena lieve e preliminare di ritardo nell’inizio delle loro pene liberatrici, determinata con un termine preciso di tempo anch’esso coerente a questo aspetto piú esterno e giudiziario di una vicenda sublime), ha sempre un suo riferimento al tema centrale del canto, come intreccio di aspirazione ad un’ulteriore comunione anche con la Chiesa militante e di piú attutito dolore per una ultima ma provvisoria esclusione dalla «ripa» redentrice, mentre ribadisce lo spirito d’umiltà e di pacatezza di Manfredi e degli scomunicati redenti. Per l’ultima volta i termini dell’esclusione passata e presente («contumacia», «presunzione», «di questa ripa in fuore»: e quest’ultima indicazione geografico-legale rievoca ancora una volta una condizione stabilita nell’averno virgiliano per le anime i cui corpi son rimasti insepolti, condannati ad errare «centum annos» davanti alle rive dell’Acheronte) risuonano piú attutiti in queste terzine finali prima di risolversi interamente nella ulteriore rasserenante prospettiva di un’abbreviazione della stessa pena di esclusione dal Purgatorio vero e proprio in seguito ai «buoni prieghi» dei viventi, all’efficacia di un intervento degli affetti umani a rompere la stessa legale saldezza del «decreto», a ridurre ancor di piú il valore della maledizione ecclesiastica. E come l’intreccio sintattico di queste terzine, ricche di incisi e di forme concessive, sottolinea lo smorzarsi della tensione in un tono piú espositivo e distaccato, meno sofferto e meno intimamente partecipato dal personaggio, cosí l’accenno ai «buoni prieghi» sollecita un’ultima vibrazione di fiducia e di speranza, e nella preghiera di Manfredi a Dante di farlo «lieto», rivelando a Costanza (ora «buona» nel suo aspetto di pietà filiale, prima «bella» nella indicazione gentile e regale della presentazione del re) la sua condizione purgatoriale, insieme si conclude la rappresentazione della figura umana di Manfredi in una luce affettuosa e serena e il tema della comunione si suggella nella enunciazione del potere salvatore e letificante dell’umano e religioso rapporto di vivi e morti, della continuità fra la terra e l’oltretomba: che qui per quei di là molto s’avanza. In questo verso lievissimo e limpido, in queste note sommesse e pure di profonda melodia e di sobria suggestione, l’episodio e il canto si chiudono in una misura perfetta; e il tema intrecciato e complesso che si era impostato con una concitazione drammatica e si era svolto in una cosí eccezionale ricchezza di movimenti di turbamento e di fiducia, di elegia ed idillio, di motivi grandiosi ed intimi, trova qui l’esito estremo di una certezza serena e senza orgoglio, di una letizia sommessa e liberata da ogni elemento turbatore, di una voce corale pacificata e intimamente melodica. VIDEO CANTO III - https://www.youtube.com/watch?v=etHire5A9dI MANFREDI DI SICILIAManfredi di Hohenstaufen, o Manfredi di Svevia o Manfredi di Sicilia (Venosa, 1232 – Benevento, 26 febbraio 1266), è stato l'ultimo sovrano svevo del regno di Sicilia. Figlio illegittimo (secondo altre fonti, legittimato) dell'imperatore Federico II di Svevia e di Bianca Lancia, fu reggente per il nipote Corradino dal 1254, poi re di Sicilia dal 1258. Morì durante la battaglia di Benevento, sconfitto dalle truppe di Carlo I d'Angiò. Manfredi nacque e visse la sua fanciullezza a Venosa, anche se secondo recenti studi potrebbe essere nato nel castello di San Gervasio e visse la sua fanciullezza nel territorio tra il Vulture e l'Alto Bradano, nell'odierna Basilicata. Era figlio naturale di Federico II di Svevia e di Bianca dei conti Lancia e Signori di Longi dei Duchi di Baviera, sposata dall'imperatore solo poco prima della sua morte e, quindi, pienamente legittimato, malgrado la Curia romana disconoscesse quel vincolo matrimoniale, mossa com'era dal suo profondo odio per la casa di Hohenstaufen. Studiò a Parigi e a Bologna; dal padre apprese l'amore per la poesia e per la scienza, amore che mantenne da re. Si narra che l'imperatore avesse avuto una particolare predilezione fra tutti i suoi figli verso Manfredi ed Enzo, entrambi nati da relazioni extra-coniugali. Federico II morì il 13 dicembre 1250 e lasciò a Manfredi il Principato di Taranto con altri feudi minori; gli affidò inoltre la luogotenenza in Italia, in particolare quella del regno di Sicilia, finché non fosse giunto l'erede legittimo, il fratellastro di Manfredi, Corrado IV, che in quel momento era impegnato in Germania. Anche se fu incoronato a Palermo, Manfredi privilegiò come dimore i palazzi di Lucera e Foggia, in Capitanata, in quanto di fatto centri operativi e amministrativi istituiti da Federico II, e soggiornò sovente presso il castello di San Gervasio in Basilicata, importante marescallia imperiale. Il giovane sovrano si trovò in una situazione assai difficile per le molte ribellioni scoppiate nel Regno e fomentate da papa Innocenzo IV, il quale secondo gli accordi di Melfi del 1059, era alto sovrano del Regno di Sicilia quindi sotto il vassallaggio dalla Santa Sede. Manfredi agì con energia per ristabilire il dominio svevo e riuscì a ricondurre all'obbedienza varie città ribelli, ma non Napoli; in questa impresa fu aiutato dallo zio, Galvano Lancia. Tentò anche di giungere a un accordo con Innocenzo IV, ma non arrivò a nulla (si pensa che volesse farsi investire del Regno dal papa). Nell'ottobre 1251 Corrado scese in Italia e nel gennaio 1252 sbarcò a Siponto, proseguendo insieme al fratello nella pacificazione del regno. Nell'ottobre 1253 Napoli, infine, cadde nelle mani di Corrado. Questi ben presto era divenuto sospettoso e ostile verso Manfredi, il quale dovette rinunciare a tutti i feudi minori e accettare anche la diminuzione della sua autorità nel principato di Taranto. Il 21 maggio 1254 Corrado morì di malaria, lasciando il figlio Corradino (ancora bambino e rimasto in Germania) sotto la tutela del papa e nominando governatore del regno il marchese Bertoldo di Hohenburg. Il reggente inviò un'ambasciata di cui faceva parte anche Manfredi a trattare con il pontefice ad Anagni. Il tentativo di abboccamento fallì e Bertoldo rinunciò alla carica lasciando campo libero a Manfredi, che riprese il controllo del Regno di Sicilia. Dichiarato dal Papa l'usurpatore di Napoli, Manfredi fu scomunicato nel luglio del 1254. Il Papato, che continuava a non vedere di buon occhio l'insediamento della casa imperiale di Svevia nel regno di Sicilia, si accinse a occupare il regno con un esercito, essendo quel territorio proprio vassallo in quanto la casa di Svevia era erede degli Altavilla primi beneficiari della concessione del Regno. In questo contesto Manfredi si trovò subito in chiaro dissidio con il Pontefice; grazie però alla fine abilità diplomatica ereditata dal padre, concluse con il pontefice un accordo accettando l'occupazione pontificia con una semplice riserva dei diritti di Corradino e propri: fu assolto dalla scomunica, investito dal pontefice del principato di Taranto (27 settembre 1254) e degli altri suoi feudi e nominato vicario della Chiesa nella maggior parte del Regno. La Campania venne però occupata dalle truppe pontificie. La posizione di Manfredi divenne ancor più difficile in seguito all'uccisione, da parte dei suoi uomini, di un barone protetto dalla Curia pontificia. Manfredi, non ritenendosi sicuro di fronte al papa, si recò in Puglia, a Lucera, ove si trovava la truppa della colonia saracena ivi stanziata da Federico II. Una volta assicuratasi la loro fedeltà (Manfredi fu anche chiamato Sultano di Lucera (1258-1266), poté arruolare un ingente esercito e muovere guerra all'esercito pontificio, che sconfisse presso Foggia. Lo scontro con il papa e il conflitto proseguì sotto il comando del successore Alessandro IV, papa assai meno energico del suo predecessore, che pronunciò una nuova scomunica nei confronti dello svevo. Al papa non riuscì l'intento di arruolare i re d'Inghilterra e di Norvegia in una Crociata contro gli Hohenstaufen, anzi la guerra procedette vantaggiosamente per Manfredi, che nel corso del 1257 sbaragliò l'esercito pontificio e domò le ribellioni interne, rimanendo in saldo possesso del regno, mentre dalla Germania il giovanissimo nipote Corradino gli conferiva ripetutamente i poteri vicariali. Roma stessa divenne ghibellina sotto il controllo del senatore bolognese Brancaleone degli Andalò e il Papa fu costretto (1257) a trasferire la sede pontificia a Viterbo, dove morì quattro anni dopo. Nel 1256 Manfredi fondò Manfredonia, nei pressi dell'antica Siponto: nei progetti del regnante, Manfredonia era stata designata a fungere da capitale di Puglia ("Apuliae Caput", dove per Apuliae si intendeva in quel tempo tutto il meridione continentale) e importante centro per i traffici commerciali del Mediterraneo. Diffusasi nel 1258, probabilmente per opera stessa di Manfredi, la voce della morte di Corradino, i prelati e i baroni del regno invitarono Manfredi a salire sul trono ed egli fu incoronato il 10 agosto nella cattedrale di Palermo da Rinaldo Acquaviva, vescovo di Agrigento. Tale elezione non venne riconosciuta dal papa Alessandro IV che ritenne pertanto Manfredi un usurpatore. Fra il 1258 e il 1260 la potenza di Manfredi, diventato ovunque capo della fazione ghibellina, si estese in tutta Italia. Il comune romano strinse un'alleanza con lui. In Toscana il partito ghibellino, capitanato dalla città di Siena, guidata da Farinata degli Uberti, ottenne una netta vittoria nella battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) e divenne così, con l'ausilio delle sue truppe, padrone assoluto di Firenze. Anche in Italia settentrionale, dopo la catastrofe di Ezzelino III da Romano (1259), i ghibellini, rimasti assai forti, fecero capo a lui. Poté nominare vicari imperiali in Toscana, nel ducato di Spoleto, nella Marca anconitana, in Romagna e in Lombardia. Il suo dominio si estese anche in Epiro (Grecia), sulle terre portategli in dote dalla seconda moglie Elena Ducas; la sua potenza fu aumentata anche dal matrimonio della figlia Costanza con Pietro III d'Aragona (1262). Eletto al soglio pontificio nella sede di Viterbo papa Urbano IV nel 1261, questi scomunicò nuovamente Manfredi e cercò di assegnare il Regno di Sicilia a un sovrano più influenzabile dal papato. Quindi, in un primo tempo, Urbano IV tentò di vendere il regno a Riccardo di Cornovaglia, che vantava anche una discendenza normanna, e poi a suo nipote Edmondo di Lancaster, ma senza successo. Nel 1263 riuscì, invece, a convincere Carlo I d'Angiò, fratello del re Luigi IX di Francia e "senza terra" a prendere Sicilia e Piemonte. Lo stesso Papa avrebbe incoronato Carlo come Re di Sicilia l'anno successivo: i d'Angiò venivano ufficialmente chiamati in Italia per una sorta di Crociata nei confronti degli Svevi. Nello stesso anno 1264 moriva Urbano IV e a questi succedeva papa Clemente IV che proseguì la politica anti-sveva e favorì ulteriormente lo scontro per mezzo degli Angioini. Carlo giunse a Roma per mare, nel giugno 1265, sfuggendo alla flotta siciliana. Vano riuscì l'appello rivolto da Manfredi ai Romani con un manifesto (24 maggio) in cui chiedeva di essere nominato Imperatore da loro, quali detentori dell'autorità imperiale. L'esercito di Carlo nel dicembre 1265 penetrò per la Savoia e il Piemonte in Lombardia, ove la parte ghibellina non riuscì ad opporre sufficiente resistenza, e di là per la Romagna giunse nell'Italia centrale e a Roma, ove Carlo fu incoronato re di Sicilia il 6 gennaio 1266. Mosse, quindi, verso il Mezzogiorno e poté entrare nel regno con poca difficoltà dopo che le truppe di Manfredi cedettero sul ponte sul Garigliano nei pressi di Ceprano. La decisiva battaglia di Benevento, avvenne il 26 febbraio 1266; le milizie siciliane e saracene insieme alle tedesche difesero strenuamente il loro re, mentre quelle italiane abbandonarono Manfredi, che morì combattendo con disperato valore. Riconosciutone il corpo, fu seppellito sul campo di battaglia sotto un mucchio di pietre da parte degli stessi cavalieri francesi, che ne vollero così onorare il valore. Successivamente, i popoli oppressi dal dominio angioino, scrive Saba Malaspina, con le lacrime agli occhi lo ricordavano così: «O re Manfredi, non ti abbiamo conosciuto vivo; ora ti piangiamo estinto. Tu ci sembravi un lupo rapace fra le pecorelle di questo regno; ma da che per la nostra volubilità ed incostanza siamo caduti sotto il presente dominio, tanto da noi desiderato, ci accorgiamo infine, che tu eri un agnello mansueto. Ora sì che conosciamo quanto fosse dolce il governo tuo, posto in confronto dell'amarezza presente. Riusciva a noi grave in addietro che una parte delle nostre sostanze pervenisse alle tue mani, troviamo adesso che tutti i nostri beni, e quel che è peggio, anche le persone vanno in preda a gente straniera!» Sette mesi dopo la morte di Manfredi, la tomba fu violata da Bartolomeo Pignatelli, vescovo di Cosenza, con il consenso di papa Clemente IV. Gli storici sono concordi nel ritenere il fatto derivante da un'iniziativa autonoma dell'arcivescovo che nutriva per Manfredi un profondo odio personale; Clemente IV diede in realtà il proprio consenso, da Viterbo, a questa iniziativa e il corpo riesumato fu deposto o disperso, quale scomunicato, fuori dai confini del regno angioino, nei pressi del fiume Garigliano, in un luogo tuttora sconosciuto.
Eugenio Caruso - 16 giugno 2020 |
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