Purgatorio, Canto VI. Sordello da Goito

CANTO VI. Il Canto è di argomento politico ed è dedicato all'Italia, simmetricamente al VI dell'Inferno in cui si parlava di Firenze e al VI del Paradiso in cui si parlerà dell'Impero (secondo un crescendo che allarga progressivamente il campo, dalla città di Dante all'Europa cristiana).
In realtà il Canto VI del Purgatorio è strettamente legato al VII con cui forma una sorta di dittico, in quanto nell'episodio successivo Sordello mostrerà ai due poeti i principi negligenti della valletta e biasimerà i loro successori che rappresentano una degenerazione rispetto a loro e si sono macchiati di gravi colpe politiche, di cui i sovrani passati in rassegna si rammaricano. La scelta di Sordello* quale protagonista dei due Canti non è casuale, in quanto il trovatore lombardo aveva scritto un famoso Compianto in morte di Ser Blacatz in cui biasimava i principi suoi contemporanei per la loro codardia e li invitava a cibarsi del cuore del nobile defunto per acquistarne la virtù, per cui non sorprende che sia lui a passare in rassegna le anime confinate nella valletta e, in questo Canto, a consentire a Dante di lanciare la sua violenta invettiva all'Italia (del resto anche i suoi versi avevano il tono di una satira e di un'apostrofe ai potenti del sec. XIII).
Anche l'inizio dell'episodio è in linea con la sua conclusione, in quanto la rassegna dei morti per forza che assillano Dante perché li ricordi ai congiunti ci porta nel vivo delle lotte politiche che dilaniavano i Comuni dell'Italia del tempo: tranne Pierre de la Brosse, vittima degli intrighi alla corte di re Filippo III, gli altri sono tutti italiani protagonisti delle lotte tra Guelfi e Ghibellini o vittime di vendette e odi familiari, tra i quali figura anche il figlio di uno dei conti di Mangona già visti coi traditori dei parenti nella Caina (Inf., XXXII) e il figlio di Marzucco degli Scornigiani, ucciso dal conte Ugolino (Inf., XXXIII) nell'ambito delle lotte interne al Comune di Pisa.
Tra questo esordio e l'incontro con Sordello si inserisce la parentesi dedicata a chiarire il passo dell'Eneide (VI, 376) in cui la Sibilla diceva a Palinuro che le sue preghiere non avrebbero piegato i decreti degli dei (egli chiedeva con insistenza di essere traghettato di là dell'Acheronte pur essendo insepolto). Dante espone il suo dubbio a Virgilio, in quanto l'insistenza delle anime che si è lasciato alle spalle sembra contraddire con quanto detto dal poeta latino, il quale spiega che i suffragi dei vivi per i penitenti non annullano l'espiazione delle loro colpe, ma fanno soltanto in modo che questa avvenga più rapidamente; nel caso di Palinuro, poi, la preghiera non era rivolta al Dio cristiano e dunque era priva di valore.
La frase di Virgilio è importante perché sottolinea il valore delle preghiere dei vivi per i penitenti, nel che si avverte la polemica di Dante contro la Chiesa corrotta che lucrava sui suffragi sfruttando il dolore dei congiunti per i loro defunti in Purgatorio; Virgilio rimanda il discepolo alle più dettagliate spiegazioni di Beatrice, che in quanto allegoria della teologia arriverà là dove la ragione umana non può giungere (e basta che Dante senta il suo nome perché metta fretta alla sua guida, mentre Virgilio lo avvertirà del fatto che l'ascesa del monte durerà più di quanto pensi).
Segue poi l'incontro con Sordello, mostrato da Dante in tutto il suo aspetto regale e dignitoso mentre osserva in silenzio e con fare altezzoso i due poeti che si avvicinano, a guisa di leon quando si posa: è stato osservato che ci sono molte analogie tra la presentazione di Sordello e quella di Farinata Degli Uberti, con la differenza fondamentale che il dannato non mutava atteggiamento in tutto il colloquio con Dante e si mostrava ancora prigioniero della logica delle lotte politiche, mentre a Sordello è sufficiente sentire che Virgilio viene da Mantova per perdere ogni alterigia e gettarsi ad abbracciarlo affettuosamente (nel Canto seguente, dopo averne appreso l'identità, si inchinerà di fronte a lui per rispetto).
E infatti è proprio l'affetto di Sordello verso un suo concittadino di cui non sa ancora il nome a far scattare la violenta invettiva di Dante contro l'Italia, che parte dal fatto che nell'Italia del suo tempo i cittadini sono in lotta l'uno contro l'altro e addirittura entro la stessa città, come dimostra l'elenco delle anime all'inizio del Canto e come dichiara lo stesso esempio di Firenze che tornerà alla fine. Dante riconduce la causa principale di tali lotte all'assenza di un potere centrale, che nella sua visione universalistica doveva essere garantito dall'Impero: è l'imperatore che dovrebbe regnare a Roma e assicurare pace e giustizia agli Italiani, invece il paese è ridotto a una bestia selvaggia che nessuno cavalca né governa (e a poco serve che Giustiniano le avesse sistemato il freno, cioè avesse emanato il Corpus iuris civilis visto che nessuno fa rispettare le leggi).
L'immagine del paese come un cavallo che dev'essere domato è la stessa usata nella Monarchia (III, 15) e nel Convivio (IV, 9), dove si dice che il potere temporale ha soprattutto il compito di assicurare il rispetto delle leggi: la polemica è rivolta contro i Comuni italiani ribelli, che come Firenze non si sottomettono all'autorità imperiale, ma anche contro il sovrano stesso che rinuncia a esercitare i suoi diritti, come Alberto I d'Asburgo che lascia la sella vòta e preferisce occuparsi delle cose tedesche, seguendo il cattivo esempio del padre Rodolfo I. Dante augura a lui e alla sua casata un duro castigo divino, in modo da indurre il successore Arrigo VII* a comportarsi diversamente; nella visione anacronistica di Dante l'imperatore detiene un potere che deriva da quello dell'Impero romano di Cesare e Augusto, quindi il suo compito è quello di ristabilire la sua autorità su tutta Italia stroncando con la forza ogni resistenza, specie quella dei Comuni guelfi alleati col papa (è quanto Arrigo VII tenterà invano di fare nel 1310-1313 e i toni usati da Dante in questi versi ricordano molto quelli dell'Epistola VII a lui indirizzata: è molto discusso se, al momento della composizione del Canto, Arrigo fosse già sul trono oppure no).
L'ultima parte dell'invettiva si rivolge a Firenze, che come Dante afferma con amara ironia non è toccata da questa sua apostrofe, essendo i suoi cittadini impegnati ad assicurarle pace e prosperità (l'antifrasi è l'artificio usato in questi versi finali, con un sarcasmo quanto mai tagliente). I fiorentini si riempiono la bocca della parola «giustizia», mentre Dante stesso è un esempio degli abusi compiuti dai Neri contro i loro nemici; essi sono fin troppo solleciti ad assumersi l'onere di cariche politiche, al fine di arricchirsi e di colpire i nemici (da notare l'insistenza delle accuse, con l'anafora Molti... ai vv. 130, 133 e tu nell'allocuzione al v. 137, come già c'era la quadruplice anafora di Vieni... ai vv. 106-115 nell'allocuzione ad Alberto I).
Atene e Sparta fecero ben poco rispetto a Firenze, i cui provvedimenti di legge sono così sottili (l'aggettivo è ambiguo, potendo significare «elaborati» o «fragili») che durano solo poche settimane, mentre la città cambia nel breve volgere di tempo tutti i suoi costumi, simile a un'ammalata che si rigira nel letto senza trovare pace. L'ultima immagine è molto efficace, in quanto riassume la triste condizione di tante città italiane piene... di tiranni, come è stato detto prima, e in cui anche i cittadini di più umile condizione diventano capi-fazione e sono pronti a commettere ogni sorta di abuso; è un tema già affrontato varie volte da Dante nel poema e che tornerà soprattutto nei Canti in cui si affronterà ancora la spinosa questione dell'autorità imperiale. Del resto il poema nel suo complesso è un duro atto di accusa contro il disordine politico e morale dell'Italia del Trecento, che trovava la sua radice prima nella cupidigia nonché nelle lotte tra città che insanguinavano il giardin de lo 'mperio, unitamente alla corruzione ecclesiastica che sovvertiva ogni giustizia calcando i buoni e sollevando i pravi (è chiaro che in questa visione Firenze non poteva che essere l'esempio negativo per eccellenza, quindi non stupisce che l'invettiva all'Italia si chiuda proprio con la dura apostrofe dedicata alla città che aveva ingiustamente esiliato Dante per il suo ben far).

Note e passi controversi
La zara (v. 1, dall'arabo zahr, «dado») era un gioco simile alla morra, assai diffuso nell'Oriente bizantino e a cui si giocava in due gettando tre dadi su un tavolo. Repetendo le volte (v. 3) indica probabilmente che il perdente ritenta le gettate dei dadi, o forse che ripensa al gioco.
L'espressione correndo in caccia (v. 15) può voler dire «inseguendo» o «essendo inseguito», da cui la dubbia interpretazione del verso.
I vv. 17-18 alludono forse al fatto che Marzucco, il padre di Gano (o Farinata) qui ricordato, seguì il funerale del figlio ucciso senza lacrime.
Inveggia (v. 20, «invidia») deriva dal prov. enveja.
Alcuni mss. al v. 48 leggono ridente e felice, ma è lezione molto dubbia (ridere dipende dal verbo vedrai ed è riferito a Beatrice).
L'immagine dell'Italia come una nave senza timoniere (v. 77) è usata anche in Conv., IV, 4, dove il nocchiero dev'essere per Dante proprio l'imperatore.
L'espressione donna di province (v. 78) vuol dire «signora delle province» e rievoca l'antico Impero romano di cui l'Italia era centro.
Al v. 93 (ciò che Dio ti nota) Dante allude probabilmente a Matth., XXII, 21 (Reddite ergo, quae sunt Caesaris, Caesari et, quae sunt Dei, Deo, «Date dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»), quindi alla separazione tra potere temporale e spirituale; in tal caso la gente che dovrebbe essere devota è il corpo ecclesiastico.
Il v. 96 indica che gli Italiani (o la Chiesa) non permettono all'imperatore di montare in sella (cioè di governare il paese) e conducono il cavallo a mano per la predella, la parte della briglia attaccata al morso (dunque l'Italia è mal governata).
Montecchi e Cappelletti (v. 106) erano due famiglie rivali, la prima ghibellina di Verona, la seconda guelfa di Cremona, invece Monaldi e Filippeschi (v. 107) erano casate di Orvieto, una guelfa e l'altra ghibellina: mentre nel primo caso le famiglie citate erano già in rovina (già tristi), nel secondo esse presagivano la futura decadenza (con sospetti).
I gentili citati al v. 110 sono i feudatari dell'Impero, che sono vittime o artefici di oppressioni (a seconda del senso di pressure) e le cui magagne (le colpe commesse o i danni subìti) Alberto d'Asbugo dovrebbe curare; la contea di Santafior era l'esempio di una famiglia feudale caduta in disgrazia.
Il Marcel citato al v. 125 potrebbe essere il pompeiano G. Claudio Marcello, avversario irriducibile di Cesare, o anche M. Claudio Marcello, espugnatore di Siracusa e salvatore della patria: Dante vorrebbe dire che ogni contadino che si mette a capo di una fazione si atteggia a ribelle dell'autorità imperiale, o a salvatore della patria (le due interpretazioni non si escludono a vicenda).
L'espressione se... vedi lume (v. 148) vuol dire «se vedi chiaramente».

TESTO

Quando si parte il gioco de la zara, 
colui che perde si riman dolente, 
repetendo le volte, e tristo impara;                                  3

con l’altro se ne va tutta la gente; 
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, 
e qual dallato li si reca a mente;                                      6

el non s’arresta, e questo e quello intende; 
a cui porge la man, più non fa pressa; 
e così da la calca si difende.                                            9

Tal era io in quella turba spessa, 
volgendo a loro, e qua e là, la faccia, 
e promettendo mi sciogliea da essa.                            12

Quiv’era l’Aretin che da le braccia 
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, 
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.                          15

Quivi pregava con le mani sporte 
Federigo Novello, e quel da Pisa 
che fé parer lo buon Marzucco forte.                               18

Vidi conte Orso e l’anima divisa 
dal corpo suo per astio e per inveggia, 
com’e’ dicea, non per colpa commisa;                          21

Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, 
mentr’è di qua, la donna di Brabante, 
sì che però non sia di peggior greggia.                         24

Come libero fui da tutte quante 
quell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi, 
sì che s’avacci lor divenir sante,                                     27

io cominciai: «El par che tu mi nieghi, 
o luce mia, espresso in alcun testo 
che decreto del cielo orazion pieghi;                              30

e questa gente prega pur di questo: 
sarebbe dunque loro speme vana, 
o non m’è ‘l detto tuo ben manifesto?».                        33

Ed elli a me: «La mia scrittura è piana; 
e la speranza di costor non falla, 
se ben si guarda con la mente sana;                            36

ché cima di giudicio non s’avvalla 
perché foco d’amor compia in un punto 
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;                             39

e là dov’io fermai cotesto punto, 
non s’ammendava, per pregar, difetto, 
perché ‘l priego da Dio era disgiunto.                            42

Veramente a così alto sospetto 
non ti fermar, se quella nol ti dice 
che lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto.                               45

Non so se ‘ntendi: io dico di Beatrice; 
tu la vedrai di sopra, in su la vetta 
di questo monte, ridere e felice».                                    48

E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta, 
ché già non m’affatico come dianzi, 
e vedi omai che ‘l poggio l’ombra getta».                      51

«Noi anderem con questo giorno innanzi», 
rispuose, «quanto più potremo omai; 
ma ‘l fatto è d’altra forma che non stanzi.                      54

Prima che sie là sù, tornar vedrai 
colui che già si cuopre de la costa, 
sì che ‘ suoi raggi tu romper non fai.                              57

Ma vedi là un’anima che, posta 
sola soletta, inverso noi riguarda: 
quella ne ‘nsegnerà la via più tosta».                            60

Venimmo a lei: o anima lombarda, 
come ti stavi altera e disdegnosa 
e nel mover de li occhi onesta e tarda!                          63

Ella non ci dicea alcuna cosa, 
ma lasciavane gir, solo sguardando 
a guisa di leon quando si posa.                                     66

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando 
che ne mostrasse la miglior salita; 
e quella non rispuose al suo dimando,                        69

ma di nostro paese e de la vita 
ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava 
«Mantua...», e l’ombra, tutta in sé romita,                     72

surse ver’ lui del loco ove pria stava, 
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello 
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.                   75

Ahi serva Italia, di dolore ostello, 
nave sanza nocchiere in gran tempesta, 
non donna di province, ma bordello!                             78

Quell’anima gentil fu così presta, 
sol per lo dolce suon de la sua terra, 
di fare al cittadin suo quivi festa;                                     81

e ora in te non stanno sanza guerra 
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode 
di quei ch’un muro e una fossa serra.                          84

Cerca, misera, intorno da le prode 
le tue marine, e poi ti guarda in seno, 
s’alcuna parte in te di pace gode.                                  87

Che val perché ti racconciasse il freno 
Iustiniano, se la sella è vota? 
Sanz’esso fora la vergogna meno.                                 90

Ahi gente che dovresti esser devota, 
e lasciar seder Cesare in la sella, 
se bene intendi ciò che Dio ti nota,                                 93

guarda come esta fiera è fatta fella 
per non esser corretta da li sproni, 
poi che ponesti mano a la predella.                               96

O Alberto tedesco ch’abbandoni 
costei ch’è fatta indomita e selvaggia, 
e dovresti inforcar li suoi arcioni,                                     99

giusto giudicio da le stelle caggia 
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto, 
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!                    102

Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto, 
per cupidigia di costà distretti, 
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.                        105

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, 
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: 
color già tristi, e questi con sospetti!                            108

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura 
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; 
e vedrai Santafior com’è oscura!                                   111

Vieni a veder la tua Roma che piagne 
vedova e sola, e dì e notte chiama: 
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».            114

Vieni a veder la gente quanto s’ama! 
e se nulla di noi pietà ti move, 
a vergognar ti vien de la tua fama.                                 117

E se licito m’è, o sommo Giove 
che fosti in terra per noi crucifisso, 
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?                             120

O è preparazion che ne l’abisso 
del tuo consiglio fai per alcun bene 
in tutto de l’accorger nostro scisso?                             123

Ché le città d’Italia tutte piene 
son di tiranni, e un Marcel diventa 
ogne villan che parteggiando viene.                              126

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta 
di questa digression che non ti tocca, 
mercé del popol tuo che si argomenta.                        129

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca 
per non venir sanza consiglio a l’arco; 
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.                 132

Molti rifiutan lo comune incarco; 
ma il popol tuo solicito risponde 
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».               135

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: 
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.                           138

Atene e Lacedemona, che fenno 
l’antiche leggi e furon sì civili, 
fecero al viver bene un picciol cenno                            141

verso di te, che fai tanto sottili 
provedimenti, ch’a mezzo novembre 
non giugne quel che tu d’ottobre fili.                             144

Quante volte, del tempo che rimembre, 
legge, moneta, officio e costume 
hai tu mutato e rinovate membre!                                  147

E se ben ti ricordi e vedi lume, 
vedrai te somigliante a quella inferma 
che non può trovar posa in su le piume, 

ma con dar volta suo dolore scherma.                         151

PARAFRASI


Quando il gioco della zara* ha fine, quello che ha perso rimane da solo e addolorato, mentre ripensa alle giocate fatte e impara tristemente;

tutta la gente segue il vincitore; quello tira dritto, e uno gli si mette di fronte, un altro lo tira da dietro, un altro lo segue affiancandolo;

quello non si ferma e ascolta l'uno e l'altro; dà la mancia a uno e questo non lo assilla più, e così si difende dalla calca.

Ritengo splendida questa similitudine tra gli spiriti che attorniano Dante e le persone che attorniano il vincitore al gioco dei dadi.

Così facevo io in mezzo a quella folla di anime, volgendo il viso a loro qua e là, e promettendo mi separavo dalla calca.

Qui c'era l'Aretino (Benincasa da Laterina) che fu ucciso dalle feroci braccia di Ghino di Tacco*, e l'altro (Guccio de' Tarlati) che annegò mentre era inseguito (o inseguiva).

Qui pregava a mani giunte Federico Novello, e il pisano (Gano o Farinata degli Scornigiani) che fece apparire forte il buon Marzucco, suo padre.

Vidi il conte Orso (degli Alberti) e l'anima divisa dal suo corpo per astio e invidia, non per aver commesso una colpa, come diceva;

intendo dire Pierre de la Brosse; e a questo riguardo Maria di Brabante, finché è in vita, farebbe bene a pentirsi, per non finire in un gregge peggiore (tra i dannati).

Non appena mi fui liberato da tutte quelle anime che pregavano perché altri pregassero per permetter loro di purificarsi più in fretta,

io cominciai: «Mi sembra che tu neghi, o mio maestro, espressamente in una tua opera, che una preghiera possa piegare una decisione divina;

e queste anime pregano proprio per questo: dunque la loro speranza è vana, o le tue parole non mi sono chiare?»

E lui a me: «Le mie parole sono chiare e la speranza di costoro è ben riposta, se si guarda con attenzione e con intelletto integro;

infatti l'altezza del giudizio divino non è sminuita se l'ardore di carità (delle preghiere) compie in un istante ciò che deve essere espiato da chi si trattiene qui;

e nel punto dove io dissi questo, la colpa non veniva cancellata grazie alla preghiera, e poi la preghiera non era rivolta a Dio.

Tuttavia non ti fermare davanti a un dubbio così profondo, prima che ti parli colei che sarà luce tra la verità e il tuo intelletto.

Non so se capisci, parlo di Beatrice; tu la vedrai ridere felice sulla cima di questo monte».

E io: «Signore, andiamo più in fretta, dal momento che non sono stanco come prima e, come vedi, il monte getta già ombra».

Rispose: «Noi procederemo in questa giornata quanto più potremo; ma le cose stanno diversamente da come pensi.

Prima che tu arrivi lassù, vedrai risorgere il sole che già tramonta dietro il monte, così che tu non fai più ombra.

Ma vedi laggiù un'anima, che se ne sta tutta sola e che guarda verso di noi: quella ci mostrerà la via più spedita».

La raggiungemmo: o anima lombarda, come te ne stavi altera e disdegnosa, e piena di dignità nel muovere lentamente gli occhi!

Ella non ci diceva nulla, ma ci lasciava avvicinare, limitandosi a guardare come fa il leone quando sta in attesa.

Tuttavia Virgilio si avvicinò a lei, pregando che ci mostrasse il punto migliore per salire; e quella non rispose alla domanda, ma ci chiese del paese da dove venivamo e della nostra vita; e il dolce maestro iniziava a dire «Mantova...» e quell'ombra, che se ne stava tutta solitaria, si alzò dal luogo dove stava, dicendo: «O Mantovano, io sono Sordello, della tua terra!»; e si abbracciavano a vicenda.

Ahimè, Italia schiava, sede del dolore, nave senza timoniere in una gran tempesta, non più signora delle province (dell'impero romano) ma bordello!

Quell'anima nobile fu così sollecita a fare festa al suo concittadino, solo per il dolce suono della sua terra, e adesso i tuoi abitanti in vita non smettono di farsi la guerra, e anche quelli che abitano la stessa città si rodono l'un l'altro.

Cerca, o infelice, intorno alle tue coste e poi guarda nell'interno, se alcuna parte di te si trova in pace.

A che è servito che Giustiniano ti aggiustasse il freno (emanasse le leggi), se la sella è vuota (nessuno le fa rispettare)? Senza di esso (senza le leggi) la vergogna sarebbe minore.

Oh gente (di Chiesa), che dovresti essere devota e lasciare che Cesare (l'imperatore) sieda sulla sella, se capisci bene la parola di Dio, guarda come è diventata ribelle questa bestia per non essere tenuta a bada dagli sproni, dal momento che la conduci a mano per le briglie.

O Alberto d'Asburgo, che abbandoni questa bestia divenuta indomabile e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni (governare l'Italia), possa cadere dal cielo contro di te e la tua famiglia un giusto castigo, e sia straordinario ed evidente, così che il tuo successore (Arrigo VII) ne abbia timore!

Infatti tu e tuo padre (Rodolfo I) avete lasciato che il giardino dell'Impero (l'Italia) sia abbandonato, rimanendo in Germania per cupidigia.

Vieni (o Alberto) a vedere i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi, uomo negligente, i primi già in rovina e gli altri sul punto di cadervi!

Vieni, o crudele, e vedi le oppressioni compiute (o subìte) dai tuoi feudatari, e cura le loro colpe (o danni); e vedrai come è oscura Santa Fiora!

Vieni a vedere la tua città di Roma che piange, vedova e abbandonata, e giorno e notte invoca: «Cesare mio, perché non hai qui la tua sede?»

Vieni a vedere quanto si amano gli Italiani! e se non hai alcuna pietà di noi, vieni almeno a vergognarti della tua reputazione.

E se mi è consentito, o altissimo Giove (Cristo), che fosti crocifisso per noi in Terra, i tuoi occhi giusti sono forse rivolti altrove?

Oppure nell'abisso della tua saggezza stai preparando un bene (per l'Italia) di cui non possiamo renderci conto?

Infatti tutte le città italiane sono piene di tiranni, e ogni contadino che si mette a capo di una fazione politica diventa un Marcello.

Firenze mia, puoi davvero esser contenta del fatto che questa digressione non ti tocca, grazie al tuo popolo che si ingegna.

Molti hanno la giustizia in cuore, ma questa si esprime tardi con le parole per non rischiare di non essere ponderata; ma il tuo popolo se ne riempie sempre la bocca.

Molti rifiutano le cariche pubbliche, ma il tuo popolo risponde sollecito senza essere chiamato, e grida: «Me ne incarico io!»

Ora rallegrati, visto che ne hai motivo: tu sei ricca, sei in pace, sei assennata! Se dico la verità, i fatti non lo nascondono.

Atene e Sparta, che scrissero le antiche leggi e furono così civili, diedero un piccolo contributo alla giustizia in confronto a te, che emani provvedimenti tanto sottili (elaborati, ma anche fragili) che quelli emessi a ottobre non arrivano a metà novembre.

Quante volte, a memoria d'uomo, hai tu mutato leggi, moneta e costumi, e rinnovato la popolazione (grazie agli esili)!

E se tu ti ricordi bene e vedi chiaramente, riconoscerai di esser simile a quell'ammalata che non può trovare riposo nel letto, ma rigirandosi di continuo cerca di alleviare il dolore.

SORDELLO DA GOITO

È il più celebre dei cosiddetti trovatori italiani, nato a Goito (in territorio mantovano) all'inizio del XIII sec. Di famiglia nobile ma decaduta, fin da giovane frequentò la corte del conte Riccardo di S. Bonifacio, allora signore di Verona; ne celebrò la moglie Cunizza, sorella di Ezzelino da Romano, di cui pare fosse invaghito e che poi rapì o della quale agevolò la fuga, d'accordo coi fratelli di lei. Fu poi in varie corti in Italia, andando in Provenza alla corte di Raimondo Berengario IV e passando in seguito al servizio di Carlo I d'Angiò, col quale tornò in Italia dove ebbe da lui in dono alcuni feudi negli Abruzzi (1269). Morì non molto dopo tale data. Durante il soggiorno in Provenza perfezionò la conoscenza della lingua occitanica e scrisse il suo componimento più famoso, il Compianto in morte di Ser Blacatz (1236), una satira-invettiva in cui passa in rassegna i maggiori personaggi politici del tempo biasimandone la codardia e invitandoli a cibarsi del cuore di Blacatz per acquistarne la virtù e il coraggio. È citato da Dante nel De vulgari eloquentia (I, 15, 2) come poeta illustre ed esempio di chi si è allontanato dal proprio volgare municipale: tantus eloquentie vir existens, non solum in poetando sed quomodocunque loquendo patrium vulgare deseruit («essendo un uomo di grande eloquenza, non solo si allontanò dal volgare della sua patria poetando, ma anche parlando in ogni occasione»). Dante lo include tra le anime del secondo balzo dell'Antipurgatorio, anche se non è chiaro a quale gruppo appartenga: certo non ai pigri, che compaiono nel primo balzo, forse ai morti per forza (per quanto nulla si sappia di una sua morte violenta) o addirittura ai principi negligenti della valletta, che è lui stesso a passare in rassegna e ai quali forse può essere accostato per aver avuto alla fine della sua vita dei feudi da amministrare. L'anima, che se ne sta separata dagli altri e con atteggiamento altezzoso, è indicata da Virgilio che le si avvicina per chiedere indicazioni sul percorso. Il penitente non risponde alla domanda, anzi chiede a sua volta i nomi e la provenienza dei due poeti: appena Virgilio inizia a dire «Mantova...» lo spirito corre ad abbracciarlo e si presenta come Sordello, suo compatriota (ciò provoca la violenta invettiva di Dante contro l'Italia). Nel Canto VII Virglio si presenta a Sordello, il quale dopo un attimo di stupore si china ad abbracciare le ginocchia del poeta latino, in segno di ammirazione. Sordello chiede poi a Virgilio da quale Cerchio infernale giunga e l'altro risponde di non aver peccato se non mancando di fede, per cui è relegato nel Limbo dove non soffre pene; poi chiede all'anima di indicare il punto in cui è possibile raggiungere la porta del Purgatorio. Sordello spiega che egli può vagare liberamente, anche se è vicino il tramonto e non è possibile salire di notte: lì vicino ci sono anime separate dalle altre e, se Virgilio acconsente, li condurrà lì. Virgilio chiede ulteriori spiegazioni e Sordello afferma che il volere divino impedisce di salire con le tenebre, poiché le anime rischierebbero addirittura di tornare in basso. Virgilio prega dunque Sordello di condurli dove ha detto e i tre raggiungono una valletta scavata nel monte, dove l'erba è verde e profumata e dove ci sono fiori di ogni colore. Molte anime cantano il Salve, Regina e Sordello si offre di mostrarle ai due poeti senza scendere nella valletta, perché dall'alto le potranno vedere meglio: sono le anime dei principi negligenti, che il trovatore mantovano indica a una a una, biasimando soprattutto i vizi dei loro successori sulla Terra. Nel Canto VIII, giunto ormai il tramonto, una delle anime intona il Te lucis ante, imitata dalle altre che poi guardano in alto: giungono due angeli armati di spada e Sordello spiega a Dante e Virgilio che essi giungono dal grembo di Maria a proteggere la valletta dal serpente che verrà di lì a poco. Sordello invita i due a scendere tra le anime e una di queste (Nino Visconti) riconosce Dante e scambia con lui parole affettuose: Dante spiega di essere ancora vivo, il che suscita l'ammirazione sua e di Sordello. Dopo un breve colloquio tra Dante e il Visconti e dopo che Dante ha visto tre stelle brillare in cielo (le virtù teologali), Sordello indica a Virgilio l'arrivo del serpente che striscia nell'erba: i due angeli volano sopra di esso e lo mettono in fuga. In seguito Dante ha un colloquio con Corrado Malaspina. Nel Canto IX, dopo che Dante si è addormentato e ha fatto il sogno premonitore, si risveglia accanto alla porta del Purgatorio e Virgilio gli spiega che santa Lucia lo ha preso tra le braccia mentre dormiva e lo ha trasportato lì, mentre Sordello e le altre anime sono rimaste nella valletta.

ARRIGO VII

Imperatore del Sacro Romano Impero, fu eletto ad Aquisgrana nel 1308 e scese in Italia nel 1310 su invito di papa Clemente V, nella speranza di porre fine alle contese fra Guelfi e Ghibellini e ristabilire l'autorità imperiale sui Comuni ribelli dell'italia del Nord. Il tentativo non andò a buon fine, sia per la debolezza del sovrano, sia per il tradimento del papa che istigò contro di lui l'opposizione del partito guelfo e di varie città, tra cui Firenze. Morì improvvisamente il 24 agosto 1313, a Buonconvento presso Siena. Dante si accese di entusiasmo alla sua discesa in Italia e nutrì la speranza di poter rientrare a Firenze, poi rimasta delusa. Al sovrano indirizzò l'Epistola VII, in cui lo esortava a non recedere dai suoi propositi di restaurazione imperiale. Nella Commedia Arrigo è più volte citato, sempre in termini molto positivi: alcuni hanno pensato a lui come il personaggio cui si allude col «veltro» (Inf., Canto I, 100 ss.) e col «DXV» (Purg., XXXIII, 37 ss.), mentre in Par., XVII, 82 Cacciaguida parlerà dell'inganno da lui subìto ad opera del Guasco (papa Clemente V). Più avanti, in XXX, 133-148, Beatrice mostrerà a Dante un seggio vuoto nella candida rosa dei beati su cui è posta una corona, spiegando che esso è già destinato all'alto Arrigo. L'imperatore, profetizza Beatrice, scenderà in Italia per ristabilirne il buon governo quando il paese non sarà ancora pronto a riceverlo e lo caccerà come un neonato che muore di fame e allontana la balia, a causa della cieca cupidigia.

IL GIOCO DELLA ZARA

La zara è un gioco d'azzardo in uso nel Medioevo. Si gioca con tre dadi: a turno ogni giocatore chiama un numero da 3 a 18, quindi getta i dadi. Vince chi per primo ottiene il punteggio pari al numero chiamato. Diversi numeri hanno diverse probabilità di uscire: infatti ad esempio per ottenere 3 con tre dadi c'è una sola combinazione possibile (1+1+1=3), mentre per ottenere 10 ce ne sono diverse (1+3+6=10, 1+4+5=10, 2+2+6=10, 2+3+5=10, 2+4+4=10, 3+3+4=10). La strategia di gioco che dà le maggiori probabilità di vincere è quindi quella di chiamare sempre 10 o 11.

GHINO DI TACCO

La data di nascita esatta di Ghino è incerta, ma si colloca di certo nella seconda metà del XIII secolo, viste le testimonianze che si hanno circa le scorribande della Banda dei Quattro composta da suo padre Tacco di Ugolino, suo zio Ghino di Ugolino ed i due piccoli fratelli, lo stesso Ghino che era il primogenito e Turino, il minore. Fin da piccolo, infatti, Ghino accompagnava il padre e lo zio nelle scorrerie nei dintorni del suo luogo di nascita, il piccolo castello-fattoria de La Fratta, nella Val di Chiana senese che allora faceva parte del territorio di Torrita. Il motivo dell'attività di briganti va ricercato probabilmente nella rendita, ovvero il prelievo della ricchezza terriera esercitato dalla Chiesa senese a favore dello Stato Pontificio, tassa ritenuta eccessiva dai nobiluomini ghibellini della Fratta dei Cacciaconti. In quell'epoca i castelli della zona, Asinalonga (l'odierna Sinalunga), Scrofiano, Rigomagno, Farnetella, Bettolle, Serre di Rapolano, Torrita di Siena, erano tutti di proprietà di uno dei membri della potente famiglia senese Cacciaconti Tolomei. Questo gli garantiva una sorta di impunità nei confronti del governo centrale di Siena. Tuttavia, questa condizione cessò nel luglio 1279, quando Tacco occupò il castello di Torrita di Siena, dandolo poi alle fiamme. Nella battaglia che ne derivò, Tacco ferì gravemente Jacopino da Guardavalle. Per questo motivo, e su iniziativa dei conti di Santa Fiora, Tacco ed il resto della Banda dei Quattro furono condannati dal tribunale del comune di Siena, che diede loro la caccia per molti anni ancora, fino a catturarli tutti nel 1285. Dopo essere stati torturati, lo zio Ghino di Ugolino ed il padre Tacco di Ugolino furono giustiziati in piazza del Campo a Siena nel 1286. La sentenza fu emanata dal famoso giudice Benincasa da Laterina (nato ad Arezzo), il quale, tra l'altro, dopo qualche anno venne nominato senatore ed auditor presso la corte dello Stato Pontificio. Ghino ed il fratello Turino sfuggirono alla morte soltanto perché ancora minorenni, e rimasero fuori dalla scena per due o tre anni. Nel 1290 Ghino di Tacco riprese la «remunerativa» attività del padre: sappiamo infatti che fu condannato a una sanzione amministrativa di 1000 soldi per una sua rapina effettuata vicino a San Quirico d'Orcia. Nel frattempo Ghino manifestò l'intenzione di occupare una fortezza vicino a Sinalunga, senza l'autorizzazione del Comune di Siena. Questo non fu tollerato dall'autorità centrale di Siena, che bandì lo stesso Ghino dal territorio della repubblica. Ghino fuggì, occupando la fortezza di Radicofani (fino ad allora ritenuta impenetrabile), sempre in territorio senese ma al confine con lo Stato Pontificio. Qui, infatti, Ghino si inserì nella lotta per il possesso della rocca, che poi conquistò facendone il proprio covo. Dal colle di Radicofani, Ghino continuò le sue scorribande, concentrandosi sui viandanti che passavano nella sottostante via Francigena. Ghino compiva imboscate ai viaggiatori, si informava dei loro reali beni, poi li derubava quasi completamente, lasciando tuttavia a essi di che sopravvivere e offrendo loro un banchetto. Per questo motivo, e perché lasciava liberi di proseguire sia i poveri sia gli studenti, Ghino di Tacco fu considerato un ladro gentiluomo, una sorta di Robin Hood ante litteram. Bettino Craxi firmava con lo pseudonimo "Ghino di Tacco" i suoi articoli e i suoi editoriali di analisi politica pubblicati dal giornale l'Avanti!, organo del Partito Socialista Italiano (PSI) e arrivò a scriverne una biografia. Lo pseudonimo venne preso come risposta adottando l'epiteto con il quale il direttore de La Repubblica Eugenio Scalfari aveva spregiativamente accostato la sua «rendita di posizione», nel quadro politico italiano, a quella del celebre bandito che, dalla rocca di Radicofani, calava sui viandanti della via Francigena, allora unica via di comunicazione tra Firenze e Roma.

AUDIO: https://www.youtube.com/watch?v=Uw9Fqq_eWpM



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