INTRODUZIONE
CANTO VIII: ancora nella valletta dei principi negligenti.
È la sera di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle sette.
È ormai il tramonto, l'ora in cui i viaggiatori sentono una stretta al cuore per la nostalgia di casa, specie quando ascoltano il suono delle campane che indica la Compieta. Dante non ascolta più con attenzione e osserva una delle anime della valletta dei principi negligenti che si alza e leva ambo le mani al cielo, guardando a oriente come se fosse pienamente appagata: essa inizia a recitare l'inno Te lucis ante con grande devozione, imitata dalle altre anime che alzano tutte gli occhi al cielo.
Dante esorta il lettore ad aguzzare lo sguardo alla verità, perché il velo dell'allegoria è così sottile che è facile passarvi dentro. Il poeta vede le anime della valletta restare in attesa e guardare in alto, poi vede scendere due angeli armati di spade infuocate e senza punta (questa metafora delle spade senza punte non è stata interpretata), che indossano vesti verdissime e hanno ali con penne dello stesso colore. Uno si pone sopra lui, Virgilio e Sordello, l'altro si colloca all'altro capo della valletta, per cui le anime si raccolgono al centro. Il poeta distingue la loro testa bionda, ma lo sguardo non vede il loro volto che è al di là della comprensione umana. Sordello spiega che entrambi gli angeli vengono dal grembo di Maria, a proteggere la valle da un serpente che arriverà tra poco. Dante, non sapendo da quale parte giungerà il malefico animale, si sente raggelare e si stringe al suo maestro.
Sordello invita i due poeti a scendere nella valletta tra le ombre dei principi, per parlare con loro, cosa che sarà molto gradita alle anime. I tre scendono di appena tre passi e Dante, giunto nella valle, si avvede di uno spirito che lo osserva attentamente, come se volesse riconoscerlo. È quasi buio, ma ciò non impedisce a Dante di riconoscere in quel penitente il giudice Nino Visconti, che gli si fa incontro mentre lui si avvicina (il poeta è felice di vederlo tra le anime salve). I due si salutano con affetto, poi il Visconti chiede a Dante quando sia giunto sulla spiaggia del Purgatorio con la barca dell'angelo nocchiero: il poeta risponde di essere giunto lì attraverso l'Inferno e di essere ancora vivo, poiché compie questo viaggio per ottenere la salvezza. All'affermazione di Dante sia Sordello sia Nino si traggono indietro stupefatti, e mentre il mantovano si rivolge a Virgilio, Nino chiama Corrado Malaspina per mostrargli ciò che la grazia divina ha concesso. Quindi il Visconti si rivolge a Dante e lo prega, in nome del privilegio datogli da Dio, di dire sulla Terra alla figlia Giovanna di pregare per la sua anima. Sua madre (Beatrice d'Este), la vedova di Nino, non lo ama più, dal momento che ha lasciato le bianche bende del lutto per risposarsi, cosa di cui dovrà dolersi. Lei è l'esempio di come l'amore delle donne finisca presto, se i sensi non lo tengono desto; ma quando sarà morta, lo stemma dei Visconti di Milano non ornerà il suo sepolcro così come avrebbe fatto il gallo, simbolo della Gallura. Nino dice queste parole mostrando con la sua espressione l'impronta di un giusto sdegno, che gli arde con misura nel cuore.
Dante alza lo sguardo al cielo, nel punto dove le stelle ruotano più lentamente (il polo), e Virgilio gli chiede cosa stia osservando. Il discepolo risponde che sta guardando tre stelle, tanto risplendenti da illuminare tutto il cielo australe. Virgilio ribatte che le quattro stelle viste da Dante al mattino sono ora dietro il monte, mentre queste tre sono sorte al loro posto. Mentre sta parlando, Sordello lo tira a sé e gli indica un punto col dito da dove, dice, sta arrivando il loro avversario: dal lato in cui la valletta non è riparata dal monte arriva un serpente, forse lo stesso che aveva dato il frutto proibito ad Eva. Il malefico animale striscia tra le erbe e i fiori, leccandosi il dorso con la lingua: Dante non vede come si muovano i due angeli, ma si accorge che calano in basso e fendono l'aria con le ali verdi, per cui il serpente è messo in fuga e gli angeli tornano in alto, là da dove erano giunti.
Durante l'azione degli angeli, l'anima che Nino Visconti aveva chiamato a sé non ha cessato di guardare in volto Dante. Alla fine si rivolge al poeta e, dopo avergli augurato di giungere alla fine del suo viaggio ultraterreno, gli chiede se ha qualche notizia della Val di Magra o dei luoghi vicini, dove lui in vita è stato potente. Il suo nome fu Corrado Malaspina (il Giovane), non il Vecchio del quale comunque è un discendente. Dante risponde di non essere mai stato nella sua terra, ma la fama di questa è diffusa in tutta Europa. La cortesia dei Malaspina è celebrata dai nobili e dal popolo, così che è nota anche a chi non è mai stato là; Dante giura che la sua famiglia non è priva della liberalità e della virtù guerresca ed è talmente privilegiata dall'onore cavalleresco e dalla natura che è la sola a camminare diritta in un mondo dove tutti si volgono al male. Corrado risponde che il sole non entrerà in congiunzione con l'Ariete altre sette volte (non passeranno cioè altri sette anni) prima che la cortese opinione di Dante gli sia confermata con prove più convincenti dei discorsi altrui, se i decreti divini non arrestano il loro corso.
Interpretazione complessiva
Il Canto si apre con la descrizione del tramonto e della nostalgia di casa che in quell'ora del giorno nasce in cuore ai naviganti, specie quando sentono il suono delle campane della sera (probabilmente l'ora canonica della compieta): è un evidente riferimento alla situazione di esule del poeta, che sarà poi ripresa alla fine dell'episodio durante il colloquio con Corrado Malaspina la cui famiglia darà asilo a Dante nel 1306. Il tema dell'esilio e delle lotte politiche interne alle città si riallaccia all'invettiva all'Italia del Canto VI ed è al centro anche dell'incontro con l'altro penitente di questo Canto, quel Nino Visconti che qui è ricordato come giudice di Gallura, ma che era stato parte attiva nelle lotte interne alla città di Pisa che avevano coinvolto anche Ugolino e Ruggieri (protagonisti entrambi del Canto XXXIII dell'Inferno). Nino era stato amico di Dante nella sua gioventù e il poeta sembra escluderlo da quel groviglio di lotte e tradimenti che avevano sconvolto Pisa negli ultimi anni del Duecento, benché sia sollevato di trovarlo tra le anime salve e non tra' rei; il colloquio tra i due ripropone i toni sereni e rilassati di quelli con Casella e Belacqua, con Nino che si preoccupa unicamente che i vivi preghino per lui e sembra ormai lontanissimo dalle ansie e cure terrene che gli hanno precluso l'accesso immediato al Purgatorio. Il suo solo rammarico è che la vedova Beatrice non pensi più a lui dopo essersi risposata, per cui Dante dovrà rivolgersi alla figlia Giovanna (una situazione assai simile a quella di Manfredi e Bonconte), e anche se le sue parole esprimono un dritto zelo (un giusto sdegno) non suonano accusatorie nei confronti della moglie, che dovrà pentirsi delle sue nuove nozze per le vicissitudini che attendono lei e il secondo marito. Nino scusa in fondo la vedova con un luogo comune assai diffuso nella letteratura medievale (cfr. soprattutto Boccaccio, Dec., II, 9 e Corbaccio), cioè che l'amore delle donne dura poco se non è sostenuto dai sensi, indicando la moglie col termine femmina che Dante riteneva spregiativo rispetto a quello stilnovistico di donna (lo dice nella Vita Nuova, XIX, 1), anche se ciò non ha un valore perentorio.
Egualmente sciolto dalle preoccupazioni terrene e politiche è Corrado Malaspina, già chiamato in causa da Nino all'apprendere che Dante è vivo e che si rivolge al poeta al termine della «sacra rappresentazione» degli angeli e del serpente. Corrado si presenta come membro di un ramo della potente famiglia Malaspina, quella dello Spino Secco di Val di Magra che discendeva dal suo omonimo Corrado il Vecchio, e non chiede a Dante di ricordarlo ai vivi quanto piuttosto di dargli notizie dei luoghi dove è vissuto. La risposta di Dante è l'occasione per sciogliere un sincero e commosso omaggio alla nobiltà dei Malaspina, che (come detto) lo ospitarono nei primi anni dell'esilio e che ora il poeta celebra come una famiglia dalla fama positiva che è conosciuta in tutta Europa, benvoluta da signori e popolani, in pieno possesso del pregio de la borsa e de la spada (ovvero del pretz provenzale, la perfezione della nobiltà che deriva dalla liberalità, opposta all'avarizia, e dal valore guerresco, opposto alla fellonia). Uso e natura, ovvero la consuetudine cavalleresca e le qualità naturali, fanno sì che i Malaspina camminino retti contrariamente al resto del mondo, che ricerca il peccato: Corrado ribatte che prima di sette anni (nel 1306, appunto) Dante sperimenterà di persona la generosità e la cortesia dei suoi parenti, profetizzando indirettamente l'esilio che era già evocato nei versi iniziali del Canto (è da notare come simili profezie, nel Purgatorio, hanno tono ben diverso rispetto a quelle infernali).
Prima e durante l'incontro coi due penitenti ci sono poi i due atti di quella che è stata definita una «sacra rappresentazione», ovvero l'arrivo degli angeli a guardia della valletta e poi del serpente, che sarà messo in fuga dagli astor celestiali. Si inizia con il sereno atteggiamento di un'anima che si volge a oriente e inizia la recita dell'inno Te lucis ante, composto da sant'Ambrogio per invocare l'aiuto divino contro le tentazioni notturne: l'inno invoca l'aiuto del Creatore contro «il nostro nemico», quindi è evidente che il senso allegorico di quello che segue è che solo la grazia può aiutare il credente a sconfiggere le tentazioni demoniache, rappresentate qui dal serpente che ha l'aspetto di quello che tentò Eva nell'Eden, di cui la valletta è chiaramente prefigurazione. Può stupire che Dante avverta il lettore di ingegnarsi nella lettura, in quanto il velo allegorico è talmente sottile che è facile passarci attraverso (cioè confondere allegoria e verità), ma questo probabilmente vuol dire solo che il lettore dovrà prestare particolare attenzione alla scena che segue, non che il suo significato sia particolarmente astruso (il richiamo è assai simile a quello di Inf., IX, 61-63, che precedeva una rappresentazione assai simile nel senso se non nel tono).
Il tutto è confermato dalla visione delle tre stelle che hanno preso il posto delle quattro viste al mattino, e che certamente rappresentano le tre virtù teologali indispensabili alla salvezza: alcuni commentatori hanno visto nei due angeli i colori tradizionali di esse, ovvero il verde delle vesti che rimanda alla speranza, il biondo dei capelli che rimanda alla fede e il rosso dei volti invibili a occhio nudo che rimanda alla carità, per quanto l'interpretazione sembri molto sottile. Certo il valore della rappresentazione è simbolico e non si riferisce direttamente alle anime dei principi, ormai salve e immuni a ogni tentazione, quando forse ai vivi rimasti sulla Terra, per cui la preghiera della sera è rivolta principalmente a essi come lo sarà l'ultima parte del Pater noster recitato dai superbi della I Cornice. Il dato che prevale su tutta la scena è infatti di grande serenità da parte delle anime, sia nella cacciata del serpente (il solo a preoccuparsi è Dante, che in effetti è l'unico ad essere ancora esposto al rischio della tentazione), sia nell'atteggiamento dell'orante all'inizio, che appare così appagato dal proprio destino da dire quasi D'altro non calme, «non mi cale, non mi importa di altro»; tale rassegnazione è in fondo la stessa che traspare nel colloquio con Nino e Corrado, i quali sono in effetti del tutto separati dalle loro ansie terrene e proiettati come Dante verso l'ascesa del monte.
Note e passi controversi
- Il v. 3 ha valore di compl. di tempo («il giorno in cui hanno detto addio ai dolci amici»), anche se alcuni (Tommaseo, Pagliaro) lo hanno interpretato come sogg. di volge, 'ntenerisce e punge.
- La squilla del v. 5 è probabilmente la campana che indica l'ultima ora canonica di compieta, quando cioè si recitava l'inno Te lucis ante e anche il Salve, Regina intonato dalle anime nel Canto precedente. Si è pensato al suono serale dell' Ave Maria, ma non è certo che quest'uso fosse già presente in Italia quando questi versi furono scritti.
- I vv. 19-21 avvertono il lettore di aguzzare lo sguardo al vero della rappresentazione allegorica, perché il velo dell'allegoria è così sottile (cioè la differenza tra vero e allegoria è talmente minima) che è facile trapassar dentro, ovvero confonderli.
- Il v. 37 (Ambo vegnon del grembo di Maria) vuol forse dire che i due angeli vengono dall'empireo, ma non è escluso che sia proprio Maria a inviarli lì, visto che la preghiera Salve, Regina era rivolta a Lei.
- Le bianche bende citate al v. 74 erano indossate dalle vedove intorno al capo sulle vesti nere, in segno di lutto.
- Il v. 80 (la vipera che Melanesi accampa) vuol dire «lo stemma (una biscia che divora un saraceno) che fa accampare i Milanesi», che cioè li rappresenta; alcuni mss. leggono 'l Melanese, riferito a Galeazzo Visconti, che diventerebbe soggetto di accampa («lo stemma che il Visconti ha nel campo del suo stemma»).
- Suso a le poste (v. 108) vuol dire probabilmente «alle loro sedi celesti», ma altri pensano ai lati della valletta dove gli angeli sono di guardia.-
- Il sommo smalto (v. 114) è molto probabilmente l'Eden, detto così perché posto sulla cima del monte e smaltato di fiori; altri pensano al Paradiso Celeste.
- Il pregio de la borsa e de la spada (v. 129) è il pretz provenzale, ovvero l'onore cavalleresco che è costituito da liberalità (borsa) e da virtù guerresca (spada).
- Al v. 131 il capo reo può essere sogg. o ogg. di torca, ma è più probabile la seconda ipotesi («per quanto il mondo volga il capo dove non dovrebbe»).
- I vv. 133-135 vogliono dire letteralmente che il sole non entrerà in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, nella quale si trova adesso, più di sette volte (non passeranno più di sette anni).
TESTO DEL CANTO VIII
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio; 3
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more; 6
quand’io incominciai a render vano
l’udire e a mirare una de l’alme
surta, che l’ascoltar chiedea con mano. 9
Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l’oriente,
come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’. 12
’Te lucis ante’ sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente; 15
e l’altre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l’inno intero,
avendo li occhi a le superne rote. 18
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
chè ‘l velo è ora ben tanto sottile,
certo che ‘l trapassar dentro è leggero. 21
Io vidi quello essercito gentile
tacito poscia riguardare in sùe
quasi aspettando, palido e umìle; 24
e vidi uscir de l’alto e scender giùe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue. 27
Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate. 30
L’un poco sovra noi a star si venne,
e l’altro scese in l’opposita sponda,
sì che la gente in mezzo si contenne. 33
Ben discernea in lor la testa bionda;
ma ne la faccia l’occhio si smarria,
come virtù ch’a troppo si confonda. 36
«Ambo vegnon del grembo di Maria»,
disse Sordello, «a guardia de la valle,
per lo serpente che verrà vie via». 39
Ond’io, che non sapeva per qual calle,
mi volsi intorno, e stretto m’accostai,
tutto gelato, a le fidate spalle. 42
E Sordello anco: «Or avvalliamo omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazioso fia lor vedervi assai». 45
Solo tre passi credo ch’i’ scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me, come conoscer mi volesse. 48
Temp’era già che l’aere s’annerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e ‘ miei
non dichiarisse ciò che pria serrava. 51
Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei:
giudice Nin gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra ‘ rei! 54
Nullo bel salutar tra noi si tacque;
poi dimandò: «Quant’è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?». 57
«Oh!», diss’io lui, «per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che l’altra, sì andando, acquisti». 60
E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita. 63
L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse
che sedea lì, gridando: «Sù, Currado!
vieni a veder che Dio per grazia volse». 66
Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado
che tu dei a colui che sì nasconde
lo suo primo perché, che non lì è guado, 69
quando sarai di là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
là dove a li ‘nnocenti si risponde. 72
Non credo che la sua madre più m’ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami. 75
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d’amor dura,
se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende. 78
Non le farà sì bella sepultura
la vipera che Melanesi accampa,
com’avria fatto il gallo di Gallura». 81
Così dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo
che misuratamente in core avvampa. 84
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle son più tarde,
sì come rota più presso a lo stelo. 87
E ‘l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?».
E io a lui: «A quelle tre facelle
di che ‘l polo di qua tutto quanto arde». 90
Ond’elli a me: «Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov’eran quelle». 93
Com’ei parlava, e Sordello a sé il trasse
dicendo:«Vedi là ‘l nostro avversaro»;
e drizzò il dito perché ‘n là guardasse. 96
Da quella parte onde non ha riparo
la picciola vallea, era una biscia,
forse qual diede ad Eva il cibo amaro. 99
Tra l’erba e ‘ fior venìa la mala striscia,
volgendo ad ora ad or la testa, e ‘l dosso
leccando come bestia che si liscia. 102
Io non vidi, e però dicer non posso,
come mosser li astor celestiali;
ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso. 105
Sentendo fender l’aere a le verdi ali,
fuggì ‘l serpente, e li angeli dier volta,
suso a le poste rivolando iguali. 108
L’ombra che s’era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta. 111
«Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant’è mestiere infino al sommo smalto», 114
cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era. 117
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina». 120
«Oh!», diss’io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch’ei non sien palesi? 123
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora; 126
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada. 129
Uso e natura sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia». 132
Ed elli: «Or va; che ‘l sol non si ricorca
sette volte nel letto che ‘l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca, 135
che cotesta cortese oppinione
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d’altrui sermone,
se corso di giudicio non s’arresta». 139
PARAFRASI
Era già l'ora che ridesta nei naviganti la nostalgia (della patria lontana), (ricordando) il giorno in cui hanno detto addio ai dolci amici, e in cui l'amore punge il cuore di chi è da poco in viaggio, se sente in lontananza il suono delle campane (compieta) che sembrano piangere la morte del giorno;
quando io iniziai a non ascoltare più con attenzione e a osservare una delle anime che si era alzata e che chiedeva ascolto col cenno delle mani.
Essa unì e sollevò entrambi i palmi, fissando l'oriente e sembrando dire a Dio: 'Non mi importa di nient'altro'.
Le uscì di bocca l'inno Te lucis ante con tanta devozione e con note così dolci, che assorbì tutta la mia attenzione;
e anche le altre anime la seguirono con devozione e dolcezza per la durata intera dell'inno, fissando il cielo.
O lettore, aguzza lo sguardo con attenzione al vero, poiché il velo allegorico è qui così sottile che è facile passarvi attraverso.
Io vidi quella nobile schiera di anime, dopo, guardare verso l'alto come in attesa, pallide e umili;
e vidi scendere giù dal cielo due angeli con spade fiammeggianti, tronche e prive di punte.
Indossavano vesti verdi come foglie appena nate, che portavano dietro colpite e ventilate da penne verdi.
Uno si sistemò sopra di noi e l'altro scese dalla parte opposta, così che le anime si raccolsero al centro.
Io vedevo bene i loro capelli biondi, ma il mio sguardo si smarriva nel loro volto, come quando la potenza visiva è sopraffatta da qualcosa di troppo superiore.
Sordello disse: «Entrambi vengono dal grembo di Maria, a custodire la valle dal serpente che arriverà tra poco».
Allora io, che non sapevo da che parte sarebbe giunto, mi guardai intorno e mi strinsi alla mia guida fidata, tutto raggelato.
E Sordello proseguì: «Ormai possiamo scendere nella valle tra le grandi ombre e parleremo loro; gli sarà piacevole incontrarvi».
Credo di essere sceso solo tre passi, e fui di sotto: vidi uno spirito che mi guardava con insistenza, come se mi volesse riconoscere.
Ormai l'aria si faceva scura, ma non al punto che tra il nostro reciproco sguardo non diventasse manifesto ciò che prima era celato (ci riconoscessimo).
Egli mi si fece incontro e io mi avvicinai: o nobile giudice Nino (Visconti), quanto fui lieto di vedere che non eri tra i dannati!
Ci salutammo con grande cortesia, poi lui chiese: «Da quanto sei giunto ai piedi del monte attraverso le acque lontane?»
Io gli risposi: «Oh! sono arrivato stamattina attraverso l'Inferno e sono ancora in vita, sebbene facendo questo viaggio io acquisti quella eterna».
E non appena fu sentita la mia risposta, lui e Sordello si trassero indietro come gente improvvisamente smarrita.
Sordello si rivolse a Virgilio, e Nino a un'anima che sedeva lì accanto, gridando: «Su, Corrado! vieni a vedere cosa Dio ha permesso per la sua grazia».
Poi, rivolto a me, disse: «In nome di quella particolare gratitudine che tu devi a Dio, che ci nasconde la ragione prima del suo operare e non ci permette di conoscerla,
quando sarai tornato sulla Terra, di' a mia figlia Giovanna che preghi per me là (in Cielo) dove si risponde agli innocenti.
Non credo che sua madre mi ami più, da quando ha cambiato le bianche bende del lutto e che, poveretta!, dovrà rimpiangere.
Con il suo esempio si capisce facilmente quanto poco duri il fuoco d'amore in una donna, se la vista o il tatto non lo ridesta spesso.
La vipera che costituisce lo stemma dei Milanesi non ornerà il suo sepolcro così bene, come avrebbe fatto il gallo di Gallura».
Diceva così, con un'espressione che mostrava quel giusto sdegno che gli ardeva con misura nel cuore.
I miei occhi avidi andavano continuamente al cielo, là dove le stelle ruotano più lente (al polo), come fa una ruota più vicino al suo asse.
E il mio maestro: «Figliolo, cosa guardi lassù?» E io: «Quelle tre stelle che illuminano col loro splendore tutto il cielo australe».
Allora mi disse: «Le quattro stelle splendenti che vedevi stamattina sono calate dietro il monte, e queste sono sorte al loro posto».
Mentre lui parlava, Sordello lo tirò a sé e disse: «Guarda là il nostro avversario (il demonio)»; e puntò il dito per indicarglielo.
Da quella parte da dove la valletta non ha difesa, c'era una biscia del tutto simile, forse, a quella che diede ad Eva il frutto proibito.
Il malefico serpente strisciava tra l'erba e i fiori, volgendo indietro talvolta la testa e leccandosi il dorso come una bestia quando si liscia la pelle o il pelo.
Io non vidi, quindi non posso riferire, come gli sparvieri celesti si mossero; ma vidi con chiarezza che entrambi si erano mossi.
Sentendo che le verdi ali fendevano l'aria, il serpente fuggì e gli angeli se ne andarono, volando insieme alle loro sedi.
L'anima che si era accostata al giudice Nino quando l'aveva chiamata, durante tutto quell'assalto, non smise mai di guardarmi.
Poi iniziò: «Possa la fiaccola che ti conduce in alto trovare nella tua volontà tanta cera, quanta ne servirà per portarti alla cima smaltata del monte (l'Eden); se hai notizie di Val di Magra o di un luogo lì vicino, dimmele, poiché io fui là un uomo potente.
Fui chiamato Corrado Malaspina: non il Vecchio, anche se sono un suo discendente; amai i miei familiari con un amore eccessivo, che qui si purifica».
Io risposi: «Oh! non sono mai stato nelle vostre terre, ma dove si può andare in tutta Europa senza che esse siano note?
La fama che onora il vostro casato è celebrata dai signori e dal popolo, cosicché ne è a conoscenza anche chi non c'è stato;
e io vi giuro (possa arrivare in cima al monte) che la vostra gente onorata non ha mai perso il pregio della borsa e della spada.
La consuetudine cavalleresca e le qualità naturali la privilegiano a tal punto, che se anche il mondo continua a volgere il capo al male, essa sola va dritta e disprezza ogni cammino malvagio».
E lui: «Ora va': il sole non si congiungerà altre sette volte con la costellazione dell'Ariete nella quale si trova ora pienamente, prima che questa cortese opinione ti sia inchiodata al centro della testa con argomenti (chiodi) più efficaci che non i discorsi altrui, se i decreti divini non muteranno».
NINO VISCONTI
Ugolino Visconti, conosciuto come Nino (Pisa, 1265 circa – Gallura, agosto 1296), è stato giudice di Gallura e signore della terza parte orientale del cagliaritano dal 12 giugno 1275 alla propria morte, nonché capitano del popolo e podestà di Pisa dal maggio 1287 al 30 giugno 1288.
Erede della linea principale di una delle più potenti dinastie pisane, i Visconti di Pisa, nacque nel periodo di maggiore espansione economica e culturale della città toscana, durante la quale questa estese notevolmente la sua influenza sulla Sardegna. Cresciuto in un contesto di grandi rivalità familiari, nel 1274 fu condannato all'esilio insieme al padre e al più stretto parentado, facendo ritorno poi a Pisa da vincitore a seguito della pace di Rinonico.
Divenuto successivamente capitano del popolo e podestà insieme al nonno, il conte Ugolino della Gherardesca, fu rovesciato da un complotto ordito dall'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, lottando per il restante periodo della propria vita al fine di recuperare quanto perduto.
Immortalato dall'amico Dante, Nino Visconti fu uno dei protagonisti assoluti della storia pisana del tardo '200, esponente della fazione guelfa e filo-papale cittadina nonché «tormentato erede» delle disgrazie paterne, morendo come lui nel tentativo di difendere i propri interessi ed ideali.
CORRADO MALASPINA
I primi documenti attribuiti a Corrado il Giovane risalgono al 1234 e riguardano le sue nozze, avvenute due anni prima, con una certa Urica, figlia naturale del giudice Mariano II di Torres.
Altri documenti del 1281-1305 indicano invece come moglie di Corrado una certa Orietta, forse imparentata con le famiglie genovesi degli Zanche o degli Spinola.
Per quanto riguarda i figli non ebbe eredi maschi legittimi, ma una figlia di nome Spina nata probabilmente intorno al 1264 e un figlio naturale detto Figliastro.
Il matrimonio di Corrado con la figlia del giudice di Torres portò a un ampliamento degli interessi della famiglia Malaspina anche in Sardegna; tuttavia nel 1266 il patrimonio sardo acquisito fu spartito in tre parti tra Corrado e gli zii Manfredi e Moroello a causa della mancanza di un erede maschio legittimo.
Nel 1268 Clemente IV rifiutò la richiesta da parte dei tre dell'assegnazione della vicaria pontificia in Sardegna.
La gestione del territorio negli anni successivi condotta da Corrado e gli zii sopra citati risultò comunque prolifica per i rapporti che i Malaspina avevano intessuto con le famiglie genovesi, ne risultarono infatti una serie di matrimoni e di operazioni poilitiche e finanziarie.
La collaborazione con le famiglie genovesi era legata anche alla guerra di Genova contro Pisa. Infatti, i Malaspina parteciparono sostenendo la fazione genovese sia finanziando le spedizioni (con manovre come l'acquisto nel 1282 da parte di Corrado di Casteldoria e della curatorìa di Anglona da Brancaleone Doria, immediatamente retrocesse per 9.300 lire), sia militarmente partecipando in prima linea alla spedizione che culminò con la battaglia della Meloria (1284) e la conseguente sconfitta pisana.
Per quanto riguarda i beni provenienti dall'eredità del nonno, nel 1266 i possedimenti lunigianesi e appenninici della famiglia furono divisi tra gli eredi, nella fattispecie i tre zii Manfredi, Alberto e Moroello e i figli di Federico I: Corrado, Tommaso e Opizzino.
A Corrado e i suoi fratelli spettarono gli insediamenti lunigianesi con capoluogo Villafranca e altri beni in val Trebbia e val Staffora oltre al patrimonio sardo.
Nel 1278, su iniziativa dello zio Moroello, i Malaspina occuparono la città di Chiavari scatenando la guerra con Genova alla quale Corrado partecipò solo marginalmente, tanto che all'atto di pace, trovandosi in Sardegna, non poté presenziare al giuramento.
Nel 1281 vi fu un'ulteriore divisione del patrimonio dello Spino Secco, probabilmente per motivi di conflitti tra i Malaspina e il vescovo di Luni, come per la questione genovese, anche in questo caso l'apporto di Corrado alla vicenda sembra minimo.
L'ultima notizia riferita a Corrado è il suo testamento, redatto nel settembre 1294 a Mulazzo, nel quale riconosceva come eredi universali del suo patrimonio i fratelli Tommaso e Opizzino.
Si pensa che morì lo stesso anno in quanto nella documentazione successiva non se ne trova traccia.
Corrado si è distinto all'interno del ramo dello Spino Secco anche per un profondo interesse per la tradizione e per la consapevolezza della storia e della tradizione della famiglia. La sua figura fu di ispirazione per due maggiori scrittori italiani del Trecento: Dante Alighieri e Giovanni Boccaccio.
Dante nell'VIII canto del Purgatorio inscena il suo incontro nella valletta dei principi con Corrado, il quale spicca sugli altri compagni di pena per i valori cortesi di amore e famiglia.
«Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l'antico, ma di lui discesi;
a' miei portai l'amor che qui raffina»
Dai versi citati è possibile capire la distinzione che viene fatta con il noto avo (Corrado l'Antico), anch'egli citato nella Commedia, mentre l'ultimo verso è votato all'esemplarità che la famiglia aveva per la concezione poetica di Dante e come elogio a una delle più importanti famiglie italiane che lo ospitarono durante l'esilio.
Sempre facendo riferimento ai nobili valori e alla grandezza della famiglia, Boccaccio, nella sesta novella della seconda giornata del Decameron, narra di Corrado come ghibellino e gentiluomo liberale e attento ai valori familiari cortesi dipingendolo nel suo quadro familiare insieme alla moglie e alla figlia Spina.
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Eugenio Caruso - 15-10-2020