INTRODUZIONE
Il Canto IX funge da passaggio tra la prima parte della Cantica, dedicata per lo più all'Antipurgatorio, e la seconda dedicata alle Cornici e al luogo del secondo regno dove le anime si purificano dai peccati, il che corrisponde a un innalzamento della materia e di conseguenza a un affinamento dello stile poetico nei Canti successivi (è Dante ad avvertire i lettori con l'appello ai vv. 70-72, che anticipa quelli simili che saranno assai frequenti nel Paradiso).
Questa sorta di piccolo proemio cade a metà circa del Canto, dopo che Dante si è addormentato nella valletta all'inizio della notte e ha sognato un'aquila che lo ha ghermito sul monte Ida e trasportato in alto, che come poi Virgilio spiegherà non era altri che santa Lucia che portava il poeta alla porta del Purgatorio. L'episodio si apre con la famosa descrizione dell'aurora, assai problematica e variamente interpretata, anche se probabilmente Dante allude al sorgere dell'aurora solare nell'emisfero boreale cui corrisponde, nel Purgatorio, l'inizio della notte; il poeta si addormenta vinto dalla stanchezza e verso l'alba, quando si credeva che i sogni fossero veritieri, fa il sogno dell'aquila, anch'esso variamente interpretato e che forse è solo la traduzione in termini visivi dell'aiuto di Lucia che agevola Dante per la sua via. Del resto l'aquila era l'uccello sacro a Giove e simbolo dell'autorità imperiale, il che ha poco a che fare con il significato allegorico di Lucia (che qui, come già nel Canto II dell'Inferno, è la grazia illuminante che assiste l'uomo per consentirgli di salvarsi).
Il risveglio di Dante è traumatico in quanto non sa dove si trova, per cui Virgilio deve rassicurarlo e indicargli la porta del Purgatorio dicendogli che ormai il viaggio è a buon punto; Dante si scuote anche perché nel sogno gli sembrava di attraversare la sfera del fuoco e il calore lo ha svegliato, e secondo alcuni commentatori è probabile che egli abbia in realtà sentito il calore del sole che è già alto sull'orizzonte e lo colpisce una volta che Lucia lo ha deposto di fronte alla porta. Il sogno di Dante anticipa gli altri due che farà negli altri pernottamenti in Purgatorio (nei Canti XIX e XXVII), anch'essi allegorici e analogamente interpretati.
La seconda parte del Canto è ovviamente dedicata alla descrizione della porta custodita dall'angelo, nonché del complesso rituale cui Dante deve sottoporsi prima di essere ammesso alle Cornici dall'angelo stesso. La simbologia è connessa ovviamente al riconoscimento dei propri peccati e all'assoluzione da parte dell'angelo, che riguarda Dante come tutti i penitenti che di lì devono passare: i tre gradini che conducono alla porta corrispondono quasi certamente ai tre momenti del sacramento della confessione, ovvero la contritio cordis (la consapevolezza dei peccati: è il primo gradino, di marmo bianco in cui Dante può specchiarsi), la confessio oris (la confessione vera e propria: è il secondo gradino, di pietra scura e screpolata, che rappresenta lo spezzarsi della durezza dell'animo) e la satisfactio operis (la soddisfazione per mezzo di opere: è il terzo gradino, rosso come l'ardore di carità necessario a rimediare ai peccati commessi). Variamente interpretata anche la spada di cui l'angelo guardiano è armato, che forse è simbolo della giustizia o dell'ufficio del sacerdote confessore: con essa l'angelo incide sulla fronte di Dante le sette P che rappresentano ovviamente i sette peccati capitali, che il poeta dovrà purificare moralmente durante l'ascesa del monte (esse saranno cancellate all'uscita da ogni Cornice).
L'angelo ammette Dante in Purgatorio e ne apre la porta con le due chiavi (una d'oro e l'altra d'argento) che tiene sotto la veste color cenere, simbolo quest'ultima della mortificazione della penitenza o forse dell'umiltà del confessore: la chiave d'oro rappresenta certo l'autorità di dare l'assoluzione che al confessore deriva da Dio e dalla Chiesa, quella argentea (che secondo l'angelo vuol troppa / d'arte e d'ingegno) è invece la scienza e la sapienza che il confessore stesso deve avere per valutare i peccati commessi. Dante sottolinea che entrambe sono state date all'angelo da san Pietro e che se una delle due non funziona l'apertura della porta, ovvero l'ammissione del peccatore al Purgatorio, è impossibile: è una velata polemica contro le facili indulgenze di cui la Chiesa faceva mercato nel Trecento, come lo è il fatto che la porta si apre a fatica e producendo un tremendo stridore, nel senso che il perdono di Dio è concesso solo a chi sinceramente si è pentito delle proprie colpe e ciò avviene assai di rado.
Una volta varcata la soglia del Purgatorio, per Dante e la sua guida inizia un nuovo cammino che li porterà alla tappa successiva, ovvero l'ingresso nell'Eden sulla cima del monte: anche allora ci sarà un innalzamento dello stile, mentre qui Dante è colpito dal suono melodioso di alcune voci che intonano il Te Deum laudamus, in modo tale che egli non ne sente tutte le parole (come quando in chiesa si canta in alternanza al suono dell'organo). Siamo ormai entrati in una dimensione diversa da quella dell'Antipurgatorio, dominata dalla serena rassegnazione delle anime che espiano attivamente le loro pene, come farà anche Dante unendosi moralmente a loro: il passaggio in ogni Cornice avverrà secondo un cerimoniale fisso, in cui il canto di Salmi o inni avrà una parte importante (ed è stato osservato come ciò renda il Purgatorio simile a un enorme monastero, in cui ogni momento è scandito da uffici liturgici precisi: a ciò, forse, rimanda la similitudine degli organi, peraltro molto discussa, che chiude questo Canto).
Note e passi controversi
- I vv. 1-6 descrivono con ogni probabilità il sorgere dell'aurora solare a oriente nell'emisfero boreale, che corrisponde alle nove di sera circa nel Purgatorio. L'aurora è definita concubina di Titone antico perché nel mito classico essa si innamora di Titone e lo rapisce, per sposarlo, quindi ottiene da Giove l'immortalità; non la chiede però per lo sposo, che quindi invecchia (di qui l'agg. antico). Le gemme che le rilucono in fronte sono la costellazione dello Scorpione, il freddo animale / che con la coda percuote la gente, che si trova nella parte opposta del cielo (quindi fronte indica non la fronte dell'aurora, bensì il cielo a lei opposto). C'è chi ha pensato alla costellazione dei Pesci che sorge a oriente nell'emisfero boreale, ma essa è assai poco luminosa al contrario dello Scorpione; poco probabile l'interpretazione dell'aurora come quella lunare.
- I vv. 7-9 indicano che sono le nove di sera circa, perché i passi con cui la notte sale sono le ore e Dante dice che essa ne ha fatti quasi tre, quindi sono passate circa tre ore dal tramonto.
- I vv. 13-15 indicano che è quasi l'alba, l'ora in cui la rondine emette i suoi stridi: Dante fa riferimento al mito di Progne mutata in rondine per aver ucciso il marito Tereo con l'aiuto della cognata Filomela.
- Il v. 18 allude alla credenza, assai diffusa nel Medioevo, che i sogni fatti all'alba fossero veritieri.
- I vv. 22-24 vogliono indicare il monte Ida nella Troade, dove Ganimede fu rapito da Giove tramutatosi in aquila e portato sull'Olimpo a far da coppiere agli dei.
- Infino al foco (v. 30) vuol dire «sino alla sfera del fuoco», che secondo la scienza del tempo separava la Terra dal I Cielo della Luna.
- I vv. 34-39 alludono al mito secondo il quale Teti, madre di Achille, rapì il figlio al centauro Chirone che gli faceva da precettore per nasconderlo a Sciro, sottraendolo così alla guerra di Troia; Ulisse e Diomede lo scoprirono con l'inganno e lo portarono via di lì.
- Il balzo citato al v. 50 è probabilmente la parete rocciosa che circonda il monte, che è digiunto (spaccato) in corrispondenza della porta.
- I raggi che si riflettono nella spada dell'angelo (v. 83) possono essere quelli del sole, oppure lo splendore del suo volto, oppure la luminosità della spada che potrebbe essere fiammeggiante come quelle degli angeli che hanno scacciato il serpente, anche se nulla nel testo lo conferma.
- L'espressione tinto più che perso (v. 97) indica un colore più scuro del «perso», ovvero un colore misto di purpureo e nero (cfr. Inf., V, 89).
- La parola regge (v. 134) indica la porta e deriva dal lat. med. regia (porta principale di un edificio, spec. sacro).
- I vv. 126-128 alludono al racconto di Lucano (Phars., III, 153 ss.), secondo il quale Cesare giunse a Roma deciso a impadronirsi del tesoro pubblico, custodito nella rupe Tarpea e affidato al tribuno L. Cecilio Metello. Questi tentò di opporsi, ma Cesare lo rimosse con la forza e aprì la porta che conduceva al tesoro.
- Al primo tuono (v. 139) ha probabilmente valore di compl. di tempo, quindi indica il momento in cui la porta emette il suo stridore.
- I vv. 142-145 sono stati oggetto di un vivace dibattito interpretativo, ma il senso più probabile è questo: «Quello che udivo aveva lo stesso suono che si sente, di solito, quando si canta in chiesa alternando la voce all'organo, per cui le parole si sentono ora sì, ora no». Dante farebbe riferimento non al canto polifonico, bensì all'uso di alternare le voci alla musica dell'organo nelle funzioni liturgiche, ampiamente attestato già nel XII sec., e vorrebbe indicare che le voci intonano l'inno tacendone alcuni versi (non occorre pensare a un vero e proprio accompagnamento con organo, anche se sarebbe ipotesi suggestiva).
IL TESTO
La concubina di Titone antico
già s’imbiancava al balco d’oriente,
fuor de le braccia del suo dolce amico; 3
di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente; 6
e la notte, de’ passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov’eravamo,
e ‘l terzo già chinava in giuso l’ale; 9
quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
là ‘ve già tutti e cinque sedavamo. 12
Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai, 15
e che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da’ pensier presa,
a le sue vision quasi è divina, 18
in sogno mi parea veder sospesa
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte e a calare intesa; 21
ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro. 24
Fra me pensava: ‘Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d’altro loco
disdegna di portarne suso in piede’. 27
Poi mi parea che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco. 30
Ivi parea che ella e io ardesse;
e sì lo ‘ncendio imaginato cosse,
che convenne che ‘l sonno si rompesse. 33
Non altrimenti Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse, 36
quando la madre da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro; 39
che mi scoss’io, sì come da la faccia
mi fuggì ‘l sonno, e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia. 42
Dallato m’era solo il mio conforto,
e ‘l sole er’alto già più che due ore,
e ‘l viso m’era a la marina torto. 45
«Non aver tema», disse il mio segnore;
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore. 48
Tu se’ omai al purgatorio giunto:
vedi là il balzo che ‘l chiude dintorno;
vedi l’entrata là ‘ve par digiunto. 51
Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno 54
venne una donna, e disse: "I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via". 57
Sordel rimase e l’altre genti forme;
ella ti tolse, e come ‘l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme. 60
Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e ‘l sonno ad una se n’andaro». 63
A guisa d’uom che ‘n dubbio si raccerta
e che muta in conforto sua paura,
poi che la verità li è discoperta, 66
mi cambia’ io; e come sanza cura
vide me ‘l duca mio, su per lo balzo
si mosse, e io di rietro inver’ l’altura. 69
Lettor, tu vedi ben com’io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s’io la rincalzo. 72
Noi ci appressammo, ed eravamo in parte,
che là dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte, 75
vidi una porta, e tre gradi di sotto
per gire ad essa, di color diversi,
e un portier ch’ancor non facea motto. 78
E come l’occhio più e più v’apersi,
vidil seder sovra ‘l grado sovrano,
tal ne la faccia ch’io non lo soffersi; 81
e una spada nuda avea in mano,
che reflettea i raggi sì ver’ noi,
ch’io drizzava spesso il viso in vano. 84
«Dite costinci: che volete voi?»,
cominciò elli a dire, «ov’è la scorta?
Guardate che ‘l venir sù non vi nòi». 87
«Donna del ciel, di queste cose accorta»,
rispuose ‘l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: "Andate là: quivi è la porta"». 90
«Ed ella i passi vostri in bene avanzi»,
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a’ nostri gradi innanzi». 93
Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch’io mi specchiai in esso qual io paio. 96
Era il secondo tinto più che perso,
d’una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso. 99
Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante,
come sangue che fuor di vena spiccia. 102
Sovra questo tenea ambo le piante
l’angel di Dio, sedendo in su la soglia,
che mi sembiava pietra di diamante. 105
Per li tre gradi sù di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
umilemente che ‘l serrame scioglia». 108
Divoto mi gittai a’ santi piedi;
misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi. 111
Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
quando se’ dentro, queste piaghe», disse. 114
Cenere, o terra che secca si cavi,
d’un color fora col suo vestimento;
e di sotto da quel trasse due chiavi. 117
L’una era d’oro e l’altra era d’argento;
pria con la bianca e poscia con la gialla
fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento. 120
«Quandunque l’una d’este chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa»,
diss’elli a noi, «non s’apre questa calla. 123
Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa
d’arte e d’ingegno avanti che diserri,
perch’ella è quella che ‘l nodo digroppa. 126
Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri». 129
Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ‘n dietro si guata». 132
E quando fuor ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti, 135
non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpea, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra. 138
Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e ‘Te Deum laudamus’ mi parea
udire in voce mista al dolce suono. 141
Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
ch’or sì or no s’intendon le parole. 145
PARAFRASI
La sposa del vecchio Titone si affacciava già col volto pallido al balcone d'oriente, fuori dall'abbraccio del suo dolce amante;
la sua fronte riluceva di gemme, poste a formare la figura del freddo animale (lo Scorpione) che colpisce la gente con la coda;
e la notte aveva fatto due dei passi con cui sale, nel luogo dove noi eravamo, e il terzo era quasi compiuto;
quando io, che avevo un corpo in carne e ossa, vinto dal sonno, mi sdraiai sull'erba dove già sedevamo tutti e cinque.
Nell'ora in cui la rondinella, vicino all'alba, comincia il suo triste stridio, forse ricordando i suoi primi dolori, e in cui la nostra mente, distaccata dal corpo e meno presa dai pensieri, fa dei sogni rivelatori,
mi sembrava di vedere in sogno un'aquila dalle penne d'oro, che volteggiava in cielo con le ali spiegate e prossima a scendere;
e mi sembrava di essere là (sul monte Ida) dove Ganimede abbandonò i suoi compagni, quando fu rapito al supremo concilio degli dei.
Fra me pensavo: 'Forse quest'aquila colpisce abitualmente qui, e forse disdegna di ghermire le sue prede in altro luogo'.
Poi mi sembrava che essa, dopo aver volteggiato un poco, scendesse fulminea come la folgore e mi rapisse fino alla sfera del fuoco.
Là mi sembrava di bruciare insieme a lei; e quell'incendio sognato mi arse a tal punto, che fu inevitabile che il sogno finisse.
Achille non si destò diversamente, volgendo gli occhi in giro e non sapendo dove fosse, quando la madre (Teti) lo sottrasse da Chirone portandolo a Sciro fra le sue braccia, là da dove poi i Greci lo portarono via;
così mi riscossi io, non appena il sonno fuggì via dalla mia faccia, e impallidii, come l'uomo spaventato che raggela.
Accanto a me c'era solo Virgilio e il sole era già alto da più di due ore, e il mio sguardo era rivolto al mare.
Il mio maestro disse: «Non aver paura, rassicurati, infatti siamo a buon punto; non frenare, ma anzi rafforza ogni tua energia.
Sei giunto ormai al Purgatorio: vedi là la parete rocciosa che lo cinge tutt'attorno; vedi l'ingresso, nel punto in cui essa sembra spaccata.
Poco fa, sul far dell'alba che precede il giorno, quando eri profondamente addormentato, una donna venne in quel luogo laggiù adornato di fiori e disse: "Io sono Lucia; lasciate che io prenda costui che dorme; lo aiuterò a compiere il suo cammino".
Sordello e le altre nobili anime rimasero là; ella ti prese e, non appena fu giorno, venne quassù; e io la seguii.
Ti depose qui, ma prima i suoi begli occhi mi mostrarono quell'ingresso; poi se ne andò insieme al tuo sonno».
Come un uomo che, nel dubbio, si rassicura e muta la sua paura in conforto, dopo che gli è stata svelata la verità, così divenni io; e non appena il maestro mi vide senza preoccupazioni, si avviò verso la parete rocciosa e io lo seguii in alto.
O lettore, tu vedi bene come io innalzo la materia del mio canto, perciò non stupirti se io la rafforzo con un'arte più raffinata.
Noi ci avvicinammo ed eravamo al punto in cui là dove prima mi sembrava che la parete fosse rotta, proprio come un muro attraversato da una crepa, vidi una porta, e sotto di essa tre gradini per salire ad essa, di diversi colori, e un angelo guardiano che non diceva nulla.
E spingendo in là lo sguardo, vidi che l'angelo sedeva sopra l'ultimo gradino, con un volto tale che non potei guardarlo;
aveva in mano una spada sguainata, che rifletteva i raggi verso di noi al punto che io, spesso, guardavo senza vedere nulla.
Egli iniziò a dire: «Dite da lì: cosa volete voi? chi vi ha condotti qui? Badate che il salire non vi arrechi danno».
Il mio maestro gli rispose: «Una donna del cielo, esperta di queste cose, poco fa ci disse: "Andate, là c'è la porta"».
Il cortese guardiano riprese: «Ed ella possa aiutarvi a proseguire felicemente: venite dunque avanti lungo i gradini».
Andammo là: il primo gradino era di marmo bianco, così pulito e lucido che io mi ci specchiai tale quale io appaio.
Il secondo era di colore assai scuro, fatto di pietra ruvida e riarsa, screpolata nel senso della lunghezza e della larghezza.
Il terzo, che è più alto di tutti, mi sembrava di porfido ed era così fiammeggiante (rosso) che sembrava sangue che zampilla da una vena.
L'angelo di Dio teneva su questo gradino entrambi i piedi, sedendo sulla soglia che mi sembrava fatta di diamante.
Il mio maestro mi spinse su per i tre gradini, cosa che accettai volentieri, dicendo: «Chiedi umilmente che ti apra la porta».
Io mi gettai con devozione davanti ai santi piedi dell'angelo; chiesi misericordia e che mi aprisse, ma prima mi colpii tre volte il petto.
Con la punta della spada mi incise sette P sulla fronte, e disse: «Fa' in modo di cancellare queste piaghe, quando sarai dentro».
La sua veste era di colore identico alla cenere o alla terra secca appena scavata; di sotto ad essa tirò fuori due chiavi.
Una era d'oro e l'altra d'argento; usò prima quella argentea e poi quella dorata per aprire la porta, accontentandomi.
Egli ci disse: «Ogni qual volta una di queste chiavi non funziona e non si gira come si deve nella toppa, questa porta non si apre.
Quella d'oro è più preziosa; ma l'altra richiede molta arte e ingegno per aprire, perché è quella che scioglie il nodo.
Le ho ricevute da san Pietro; e lui mi disse che dovevo sbagliare ad aprire la porta, piuttosto che a tenerla chiusa, purché i penitenti mi si gettino ai piedi».
Poi spinse il battente della sacra porta, dicendo: «Entrate; ma vi avverto che chi si volta a guardare indietro, torna fuori».
E quando gli spigoli di quella porta sacra, fatti di metallo massiccio, furono girati nei loro cardini, emisero uno stridore più forte (e la porta si mostrò più riluttante ad aprirsi) della rupe Tarpea, non appena le fu sottratto il buon Metello, per cui poi fu privata del suo tesoro.
Io mi feci attento al primo suono e mi sembrava di udire l'inno Te Deum laudamus, con una voce mista a un dolce suono.
Ciò che udivo mi dava la stessa impressione che si ha di solito quando si eseguono canti alternati alla musica dell'organo, quando le parole si sentono ora sì, ora no.
PROGNE (Ne l’ora che comincia i tristi lai la rondinella presso a la mattina, forse a memoria de’ suo’ primi guai,) : Figlia del re di Atene Pandione, Progne era stata data in sposa al re dellaTracia Tereo, da cui aveva avuto il figlio Iti.
Un giorno, vinta dalla nostalgia, Progne chiese al marito di andare a prendere la bellissima e soave sorella Filomela, ma, sulla via del ritorno, Tereo abusò della fanciulla e, per impedirle di rivelare l'accaduto, le tagliò la lingua e la nascose in una stalla sorvegliata.
Tornato a casa, Tereo disse a Progne che la fanciulla era morta durante il viaggio, ma Filomela trovò il modo di far giungere alla sorella un ricamo che raccontava il torto subito.
Progne, allora, accecata dall'ira, corse a liberare Filomela e le due sorelle, insieme, uccisero il piccolo Iti e ne cucinarono le carni per Tereo.
Quando quest'ultimo comprese l'inganno, fuggì inorridito, ma gli dei mutarono lui in sparviero (o in upupa) e le due sorelle in rondine e in usignolo.
Le fonti da cui Dante attinse, Ovidio e Virgilio, lasciano tuttavia il dubbio su quale delle due sorelle sia stata trasformata in usignolo e quale in rondine, ma nel testo dantesco, confrontando le due citazioni del mito (Pg. IX,13-15 e Pg. XVII, 19-20) Dante indica Progne come colei "che mutò forma / ne l'uccel ch'a cantar più si diletta" Pg. XVII,19-20.
OVIDIO LE METAMORFOSI: LIBRO 6 - Tereo, Progne e Filomena
..... Dopo avere allontanato convitati e servitù col pretesto
di un rito al quale nella sua patria solo il marito può assistere,
queste vivande Progne imbandisce a Tereo che nulla
sospetta. Assiso con alterigia sul trono degli avi, Tereo
banchetta, trangugiando la carne della sua carne, e la sua mente
tanto è ottenebrata che ordina: "Fate venire Iti".
Progne non riesce più a dissimulare la sua crudele esultanza
e smaniosa di annunciargli lei stessa lo scempio compiuto:
"Quello che chiedi l'hai dentro!" prorompe. Lui si guarda intorno
e chiede dove: mentre chiede e senza posa lo chiama, lo chiama,
ecco che Filomela, così com'è, coi capelli scarmigliati
dal furore del massacro, irrompe e gli scaglia in faccia
la testa insanguinata del figlio. Mai come allora lei vorrebbe
poter parlare per gridargli la sua gioia nel modo che merita.
Con un urlo inumano il re di Tracia rovescia la tavola
ed evoca dal fondo dello Stige le Furie cinte di vipere;
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ora vorrebbe squarciarsi il ventre per vomitare, se potesse,
quel cibo orrendo e le viscere che ha ingoiato;
ora piange definendo sé stesso sepolcro abbietto del figlio;
ora con la spada sguainata insegue le figlie di Pandìone.
Ma i corpi delle due donne sembrano alzarsi in volo:
si alzano in volo. Una si dirige verso il bosco;
l'altra s'infila sotto il tetto, e dal suo petto scomparse non sono
oggi ancora le tracce della strage: macchia il sangue le sue piume.
Tereo, travolto dal dolore e dalla sete di vendetta,
si trasforma in un uccello che ha una cresta dritta sul capo
e un becco smisurato che si protende lungo come una lancia.
Upupa è il nome di questo uccello; a vederlo sembra armato .....
GANIMEDE (ed esser mi parea là dove fuoro abbandonati i suoi da Ganimede, quando fu ratto al sommo consistoro): Ganimede è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe dei troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali del suo tempo.
«La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio omoerotico.»
In una versione del mito, Ganimede viene rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo.
Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono, sia il re di Creta Minosse, sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.
Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un tralcio di vite d'oro: il padre si consolò pensando che suo figlio era divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei, una posizione che era considerata di gran distinzione.
Zeus per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con la coppa in mano.
Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadica raffigurante l'eroe-re Etana di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila..
Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquario la quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacale dell'Acquario.
La coppia Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato, avveniva la sua iniziazione sessuale.
OVIDIO LE METAMORFOSI LIBRO X
.... Ci fu una volta che il re degli dei, invaghito di Ganimede,
scovò un essere, diverso da quel che lui era,
in cui preferì mutarsi: un uccello. Ma fra tutti
accettò d'essere solo quello in grado di reggere i suoi fulmini.
Detto fatto, battendo l'aria con penne non sue, rapì
il giovinetto della stirpe d'Ilo, che ancora gli riempie i calici e gli serve il nèttare, malgrado la stizza di Giunone ...
ACHILLE E TETI (Non altrimenti Achille si riscosse, li occhi svegliati rivolgendo in giro e non sappiendo là dove si fosse, quando la madre da Chirón a Schiro trafuggò lui dormendo in le sue braccia, là onde poi li Greci il dipartiro): Quando Achille aveva nove anni, Calcante, un indovino che aveva tradito i Troiani per schierarsi dalla parte degli Achei, annunciò che Troia non avrebbe potuto essere conquistata senza l'aiuto del giovane tra le sue file. Teti, la quale era venuta a sapere di questa profezia, temendo la morte del figlio, sottrasse il giovane alle cure di Chirone e lo portò presso il re Licomede a Sciro, presentandolo come una donna: lo vestì con abiti femminili e lo fece vivere insieme alle figlie del re. Forse Licomede era a conoscenza della verità, ma non obiettò nulla, accettandolo di buon grado.
Qui l'eroe rimase nove anni. Durante questo periodo, l'eroe si innamorò di Deidamia, una delle figlie di Licomede, la sposò e da lei ebbe un figlio, Pirro, che più tardi avrebbe preso il nome di Neottolemo. In base a un'altra leggenda, Neottolemo era figlio di Achille e di Ifigenia.
Intanto Odisseo, avendo anch'egli saputo dall'indovino Calcante che Troia non avrebbe potuto essere conquistata senza la partecipazione di Achille, fu incaricato insieme a Nestore e Aiace Telamonio di andare alla ricerca del giovane. Scoperto il suo nascondiglio, i tre si presentarono al cospetto di Licomede travestiti da mercanti, portando a Sciro stoffe e oggetti preziosi, adatti ai gusti femminili. Tuttavia, dentro una cesta lo scaltro Odisseo aveva messo anche alcune splendide armi, che Achille immediatamente scelse, rivelandosi. Secondo un'altra versione, mentre le fanciulle erano intente a scegliere articoli di ricamo e stoffe, Odisseo simulò un fragore di armi in mezzo all'harem di Licomede. Le ragazze, terrorizzate, fuggirono mentre Achille, si strappò di dosso le vesti femminili, si rivestì del bronzo guerriero ed uscì pronto a combattere. Teti e Peleo dovettero così rassegnarsi all'inevitabile destino del figlio e non ostacolarono più la sua vocazione di guerriero.
Al momento della sua partenza, Peleo fece voto di consacrare al fiume Spercheio, che bagnava il suo regno, i capelli del figlio se fosse tornato sano e salvo dalla spedizione. Teti, da parte sua, ripeté ad Achille il futuro che lo attendeva. Achille, senza esitare, confermò la decisione di molti anni prima e scelse la vita breve e gloriosa.
La dea consegnò all'eroe anche un'armatura divina, offerta un tempo da Efesto a Peleo come regalo di nozze e vi aggiunse i cavalli che Poseidone aveva portato come dono nella stessa occasione. Affiancò poi al figlio un compagno di nome Mnemone, la cui sola funzione era quella di impedirgli, con i suoi consigli, di uccidere un protetto di Apollo: un oracolo, infatti, aveva profetizzato che Achille sarebbe morto di morte violenta se l'avesse fatto: ma di questo eroe però non specificava il nome.
Teti infine gli proibì di sbarcare per primo sulla riva troiana, perché il primo a farlo sarebbe stato anche il primo a cadere vittima del nemico, sorte che toccò a Protesilao. Altre fonti, tuttavia, sostengono che, senza l'intervento della dea Atena, che lo trattenne, l'impetuoso eroe avrebbe dimenticato l'avvertimento e avrebbe anticipato chiunque altro
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Eugenio Caruso - 10-11-2020