INTRODUZIONE
Il Decimo Canto descrive l'ingresso dei due poeti nella I Cornice ed è dedicato in gran parte agli esempi di umiltà scolpiti nel bassorilievo alla base della parete del monte, mentre nell'ultima parte sono presentati i superbi e la loro pena (camminano curvi sotto dei pesanti macigni, in modo tale che anche il più paziente sembra al limite della sopportazione).
L'apertura mostra Dante e Virgilio che accedono alla Cornice salendo lungo una via scavata nella roccia, che procede a zig-zag e li obbliga a camminare lentamente per evitare gli spuntoni di roccia; è questa l'interpretazione più probabile, anche se alcuni hanno ipotizzato che la roccia si muova effettivamente come un'onda, fenomeno che però Dante dovrebbe spiegare in modo più dettagliato (il sentiero tortuoso è simbolo della via ardua e difficoltosa che conduce alla salvezza, con un chiaro riferimento all'ascesa al primo balzo del Canto IV, vv. 31 ss.).
La salita richiede molto tempo, visto che i due arrivano nella I Cornice quando sono circa le dieci di mattina, e una volta qui ci sono mostrati gli esempi di umiltà (cioè della virtù opposta a quella del peccato che si sconta nella Cornice), che si presentano in forma di sculture su bassorilievi di marmo posti sullo zoccolo della parete rocciosa, in modo che i superbi possano vederli.
Gli esempi sono tre, partendo come sempre da quello di Maria Vergine (l'Annunciazione recatale dall'arcangelo Gabriele), cui segue quello biblico di David (e al quale fa da contrappunto la moglie Micòl, dispettosa e trista per l'umiltà del sovrano) e quello classico di Traiano, la leggenda della vedova che chiede giustizia divenuta un luogo comune della letteratura medievale e all'origine della presunta salvezza dell'imperatore pagano (cui Dante dà credito, poiché includerà Traiano tra gli spiriti giusti del VI Cielo).
Dante sottolinea a più riprese che tali sculture sono frutto dell'arte divina, quindi superano non solo la maestria del più grande artista classico (lo scultore greco Policleto), ma addirittura la natura che è a sua volta creazione divina. È il preannuncio di un discorso sull'arte che Dante ha già iniziato col rimprovero di Catone nel Canto II e riprenderà nel Canto XI col il discorso di Oderisi da Gubbio, che toccherà non solo le arti figurative come la miniatura o la pittura ma anche la poesia: Dante qui ribadisce che queste sculture sono estremamente realistiche, come mai potrebbero esserlo opere realizzate da artisti umani, tanto che esse ingannano la vista e sollecitano altri sensi come l'udito o l'olfatto.
L'arcangelo Gabriele e Maria sembrano davvero parlare, così come le schiere di Ebrei che accompagnano l'Arca Santa sembrano cantare e solo l'udito smentisce l'impressione di Dante, mentre la vista lo ingannerebbe; allo stesso modo il fumo degli incensi raffigurato inganna l'olfatto, mentre l'esempio di Traiano e della vedova si trasforma agli occhi del poeta in una sorta di sacra rappresentazione, con attori in carne e ossa che si muovono sulla scena e dialogano, mentre gli stendardi con l'aquila imperiale paiono sventolare al vento. Dante sottolinea che ciò è possibile in quanto è frutto dell'arte divina, mentre l'arte umana non sarebbe certo in grado di riprodurre la realtà in modo così fedele; obiettivo dell'arte è quello di fornire insegnamenti agli uomini e non gareggiare follemente con Dio o la natura, per cui è da condannare ogni intento edonistico dell'opera d'arte così come la superbia degli artisti, oggetto del discorso di Oderisi nel Canto seguente e che tocca lo stesso Dante molto da vicino.
Grandiosa è questa immagine delle sculture che sembrano parlare, come ologrammi dei moderni film di fantascienza.
Una similitudine tratta dalla scultura è ancora usata per descrivere la pena dei superbi, che sembrano a Dante quelle cariatidi che, specie nell'architettura delle chiese romaniche, rappresentavano come capitelli figure umane o bestiali che sostenevano l'architrave (e facevano nascere con la finzione un autentico affanno in colui che le osservava). I superbi sono addirittura stravolti sotto il peso degli enormi macigni, per cui Dante da un lato rassicura il lettore e gli ricorda che tale pena, per quanto dura, cesserà il Giorno del Giudizio, dall'altro accusa duramente i superbi cristian, miseri lassi, che credono presuntuosamente di saper tutto e finiscono per camminare all'indietro. Gli uomini sono come vermi per la loro imperfetta fisicità, destinati a formare una angelica farfalla (l'anima libera dal peccato) purché non vengano distolti dalla loro superbia, che li fa restare antomata in difetto, insetti non pienamente sviluppati. L'insistenza sulla pericolosità della superbia e sulla durezza della sua punizione in Purgatorio, che si svilupperà anche nel Canto XII con i numerosi esempi del peccato punito, si spiega col fatto che questo è il peccato capitale più grave e che più lega l'uomo alla terra, nonché con la considerazione che proprio la superbia era stata all'origine della ribellione di Lucifero e, quindi, del male nel mondo (ciò spiega anche l'ampio risalto dato da Dante ai risvolti di tale peccato nel campo artistico, in cui lui come si è detto si sente particolarmente coinvolto).
Note e passi controversi
- I vv. 7-12 indicano probabilmente che il sentiero scavato nella roccia procede tortuosamente, per cui Virgilio avverte Dante che occorre salire evitando le sporgenze e accostandosi alle rientranze (accostarsi / ...al lato che si parte); suggestiva ma poco convincente l'ipotesi che la roccia si muova effettivamente.
- Lo scemo de la luna (v. 14) è la parte in ombra del disco lunare, che è la prima a toccare l'orizzonte quando la luna cala dopo il plenilunio: poiché la luna tramonta circa quattro ore dopo l'alba, sono più o meno le 10 del mattino.
- I vv. 29-30 indicano con ogni probabilità che lo zoccolo della parete rocciosa del monte ha minor ripidezza (che dritto di salita aveva manco), quindi non è perpendicolare al pavimento della Cornice ma inclinato a 45 gradi circa, in modo che le anime dei superbi, pur chinate, possano vedere gli esempi scolpiti.
- Policleto, citato al v. 32 come supremo esempio di arte classica, era noto nel Medioevo essendo citato varie volte dagli scrittori latini.
- I vv. 55-57 descrivono la traslazione dell'Arca Santa dalla casa di Abinedab a Gerusalemme, narrata in II Reg., VI, 1-16; il v. 57 allude al fatto che Oza, uno dei condottieri del carro, toccò l'Arca in pericolo di cadere e fu folgorato da Dio, in quanto solo ai sacerdoti era permesso toccarla.
- Il benedetto vaso (v. 64) è ancora l'Arca.
- L'umile salmista (v. 65) è re David, che secondo il racconto biblico precedeva l'Arca danzando con la veste alzata in segno di umiltà (trescando indica una danza compiuta a salti, come il «trescone» pop- La leggenda di Traiano e della vedova (vv. 73-93) era molto diffusa nel Medioevo e forse traeva origine da una scultura presente in molti archi romani, raffigurante un imperatore romano a cavallo e una donna inginocchiata accanto a lui, simbolo di una provincia sottomessa. Ciò aveva originato un'altra leggenda, quella di papa Gregorio Magno che, commosso dall'episodio, pregò intensamente per Traiano fino ad ottenerne la salvezza (la gran vittoria del v. 75), fatto accettato da molti teologi.
- Le aguglie ne l'oro (v. 80) sono le aquile in campo d'oro degli stendardi romani, che Dante immaginava come vessilli in panno simili agli stendardi medievali e perciò mossi dal vento.
- L'espressione visibile parlare (v. 95) è propriamente una sinestesia, che sottolinea l'assoluto realismo delle sculture.
- La frase ciascun si picchia (v. 120) può indicare che i superbi si battono il petto, oppure avere valore impersonale (ognuno di loro è tormentato dalla giustizia divina).
La forma antomata, «insetti» è un grecismo che deriva da un falso plurale, sulla base di vocaboli come problemata, dogmata, ecc. (il plur. greco, éntoma, era ritenuto sing.). Alcuni mss. leggono entomata.
- Il termine pazienza (v. 138) vuol dire «capacità di sopportazione», ma è stato anche interpretato come «sofferenza» (quindi, in tal caso, l'anima che soffre di più sembra dire che non può sopportare oltre).
TESTO
Poi fummo dentro al soglio de la porta
che ‘l mal amor de l’anime disusa,
perché fa parer dritta la via torta, 3
sonando la senti’ esser richiusa;
e s’io avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fora stata al fallo degna scusa? 6
Noi salavam per una pietra fessa,
che si moveva e d’una e d’altra parte,
sì come l’onda che fugge e s’appressa. 9
«Qui si conviene usare un poco d’arte»,
cominciò ‘l duca mio, «in accostarsi
or quinci, or quindi al lato che si parte». 12
E questo fece i nostri passi scarsi,
tanto che pria lo scemo de la luna
rigiunse al letto suo per ricorcarsi, 15
che noi fossimo fuor di quella cruna;
ma quando fummo liberi e aperti
sù dove il monte in dietro si rauna, 18
io stancato e amendue incerti
di nostra via, restammo in su un piano
solingo più che strade per diserti. 21
Da la sua sponda, ove confina il vano,
al piè de l’alta ripa che pur sale,
misurrebbe in tre volte un corpo umano; 24
e quanto l’occhio mio potea trar d’ale,
or dal sinistro e or dal destro fianco,
questa cornice mi parea cotale. 27
Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
quand’io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco, 30
esser di marmo candido e addorno
d’intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno. 33
L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’anni lagrimata pace,
ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, 36
dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace. 39
Giurato si saria ch’el dicesse 'Ave!';
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; 42
e avea in atto impressa esta favella
‘Ecce ancilla Dei’, propriamente
come figura in cera si suggella. 45
«Non tener pur ad un loco la mente»,
disse ‘l dolce maestro, che m’avea
da quella parte onde ‘l cuore ha la gente. 48
Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea
di retro da Maria, da quella costa
onde m’era colui che mi movea, 51
un’altra storia ne la roccia imposta;
per ch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso,
acciò che fosse a li occhi miei disposta. 54
Era intagliato lì nel marmo stesso
lo carro e ‘ buoi, traendo l’arca santa,
per che si teme officio non commesso. 57
Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, a’ due mie’ sensi
faceva dir l’un «No», l’altro «Sì, canta». 60
Similemente al fummo de li ‘ncensi
che v’era imaginato, li occhi e ‘l naso
e al sì e al no discordi fensi. 63
Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, l’umile salmista,
e più e men che re era in quel caso. 66
Di contra, effigiata ad una vista
d’un gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista. 69
I’ mossi i piè del loco dov’io stava,
per avvisar da presso un’altra istoria,
che di dietro a Micòl mi biancheggiava. 72
Quiv’era storiata l’alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria; 75
i’ dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore. 78
Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
sovr’essi in vista al vento si movieno. 81
La miserella intra tutti costoro
pareva dir: «Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro»; 84
ed elli a lei rispondere: «Or aspetta
tanto ch’i’ torni»; e quella: «Segnor mio»,
come persona in cui dolor s’affretta, 87
«se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov’io,
la ti farà»; ed ella: «L’altrui bene
a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?»; 90
ond’elli: «Or ti conforta; ch’ei convene
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene». 93
Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova. 96
Mentr’io mi dilettava di guardare
l’imagini di tante umilitadi,
e per lo fabbro loro a veder care, 99
«Ecco di qua, ma fanno i passi radi»,
mormorava il poeta, «molte genti:
questi ne ‘nvieranno a li alti gradi». 102
Li occhi miei ch’a mirare eran contenti
per veder novitadi ond’e’ son vaghi,
volgendosi ver’ lui non furon lenti. 105
Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi
di buon proponimento per udire
come Dio vuol che ‘l debito si paghi. 108
Non attender la forma del martìre:
pensa la succession; pensa ch’al peggio,
oltre la gran sentenza non può ire. 111
Io cominciai: «Maestro, quel ch’io veggio
muovere a noi, non mi sembian persone,
e non so che, sì nel veder vaneggio». 114
Ed elli a me: «La grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia,
sì che ‘ miei occhi pria n’ebber tencione. 117
Ma guarda fiso là, e disviticchia
col viso quel che vien sotto a quei sassi:
già scorger puoi come ciascun si picchia». 120
O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne’ retrosi passi, 123
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi? 126
Di che l’animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla? 129
Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto, 132
la qual fa del non ver vera rancura
nascere ‘n chi la vede; così fatti
vid’io color, quando puosi ben cura. 135
Vero è che più e meno eran contratti
secondo ch’avien più e meno a dosso;
e qual più pazienza avea ne li atti,
piangendo parea dicer: ‘Più non posso’. 139
PARAFRASI
Dopo aver varcato la soglia della porta che l'amore male indirizzato delle anime fa cadere in disuso, perché fa sembrare dritta la via tortuosa del peccato, sentii che si richiuse per lo stridore; e se io mi fossi voltato a guardarla, quale scusa sarebbe stata degna di un tale errore?
Noi salivamo lungo una via scavata nella roccia, che procedeva tortuosamente come un'onda che si avvicina e si allontana.
Il mio maestro disse: «Qui dobbiamo usare un po' di ingegno, avvicinandoci ora da una parte, ora dall'altra, alle rientranze».
E questo ci costrinse a procedere con tale lentezza, che la parte in ombra della luna toccò l'orizzonte per tramontare, prima che noi fossimo fuori da quella via;
ma quando ci trovammo liberi da ogni impaccio, là dove il monte si allarga a formare la I Cornice, io affaticato ed entrambi incerti sul cammino da intraprendere, restammo su quel ripiano solitario come una strada nel deserto.
Dal margine esterno della Cornice, dove c'è il vuoto, fino ai piedi della parete rocciosa del monte, c'è una larghezza che corrisponde a tre corpi umani;
<>e per quanto io gettassi lo sguardo a destra e a sinistra, fin dove esso arrivava, la Cornice mi sembrava identica.
Noi non avevamo ancora mosso i piedi, quando mi accorsi che tutt'intorno alla parete, nel punto (dello zoccolo) in cui essa era meno ripida, c'erano delle sculture di marmo bianco e finemente intagliato, in modo tale che non solo Policleto, ma la stessa natura ne sarebbe vinta.
L'angelo (Gabriele) che venne in Terra col decreto della pace (tra Dio e l'uomo) sospirata per tanti anni, e che aprì il Cielo dopo un lungo divieto, sembrava così reale davanti a noi, scolpito in un gesto soave, che non sembrava un'immagine silenziosa.
Si sarebbe giurato che egli dicesse Ave!, perché era raffigurata anche colei (Maria) che girò la chiave per aprire l'alto amore di Dio;
e nel suo atteggiamento sembrava che dicesse Ecce ancilla Dei, in modo così veritiero come una figura impressa sulla cera.
BOTTICELLI. L'Annunciazione
«Non guardare solo in un punto», mi disse il dolce maestro che mi aveva dalla parte dove le persone hanno il cuore.
Allora io mossi lo sguardo e vidi che oltre Maria, sul lato della parete dove avevo Virgilio (a destra), era scolpita un'altra storia; allora io superai Virgilio e mi accostai, per vederla meglio con i miei occhi.
Lì nel marmo era intagliato il carro e i buoi che portavano l'Arca Santa, per la quale si ha timore di svolgere un compito non affidato.
Davanti c'era della gente e tutta quanta, divisa in sette cori, induceva il mio udito a dire «Non canta», mentre la mia vista diceva «Sì, canta».
In modo analogo, il fumo dell'incenso lì raffigurato rendeva discordi i miei occhi (che credevano fosse vero) e il mio naso (che non sentiva nulla).
L'Arca Santa era preceduta dall'umile autore di Salmi (David), che danzava con la veste alzata, e in quell'occasione era più e meno che un re.
RE DAVID DI LUCA GIORDANO
Di fronte a lui, affacciata alla finestra di un gran palazzo, Micòl osservava stupita, come una donna indispettita e corrucciata.
Io mi mossi dal punto dove mi trovavo, per guardare da vicino un'altra storia che oltre Micòl biancheggiava nel marmo.
Qui era raffigurata l'alta gloria dell'imperatore romano, la cui virtù spinse Gregorio a ottenere la grande vittoria;
mi riferisco all'imperatore Traiano; e una vedova era accanto al suo cavallo, in lacrime e addolorata nel suo aspetto.
Intorno a lui sembrava pieno di cavalieri, e le aquile imperiali in campo d'oro, su di essi, si muovevano al vento.
La povera donna, tra tutti questi, sembrava dire: «Signore, rendimi giustizia per mio figlio che è stato ucciso, cosa per cui soffro»;
e lui pareva rispondere: «Aspetta fin tanto che sarò tornato»; e quella, come una persona in cui il dolore incalza: «Mio signore, e se tu non dovessi tornare?»; e lui: «Chi sarà al mio posto, esaudirà la tua richiesta»; e lei: «Il bene fatto da un altro che gioverà a te, se dimentichi il tuo dovere?»;
allora lui: «Ora stai tranquilla; infatti, è necessario che io faccia il mio dovere prima di partire; lo vuole la giustizia e la pietà mi trattiene qui».
TRAIANO FERMATO DALLA VEDOVA DI ANONIMO VERONESE
Dio, che non vide mai qualcosa di nuovo, produsse questi dialoghi percepibili con la vista, che ci sembra incredibile in quanto qui, sulla Terra, non esiste.
Mentre io traevo piacere a osservare l'immagine di tanti esempi di umiltà, preziosi per l'artista che li ha prodotti (Dio), il poeta mormorava: «Ecco che arrivano di qua molte anime, che però camminano a passi lenti: questi ci indirizzeranno alle altre Cornici».
I miei occhi, che erano contenti di osservare per vedere cose nuove di cui erano desiderosi, non furono lenti a volgersi verso di lui.
Non voglio però, o lettore, che tu ti distolga dal tuo buon proposito sentendo in che modo Dio vuole che si sconti la colpa.
Non concentrare l'attenzione sulla forma della pena: pensa a ciò che la seguirà (la beatitudine); pensa che, nel peggiore dei casi, non può protrarsi oltre il Giudizio Finale.
Io iniziai: «Maestro, ciò che vedo muovere verso di noi non mi sembrano anime umane, e non so cosa sia, a tal punto non distinguo bene con la vista».
E lui a me: «La grave condizione della loro pena li fa curvare a terra, così che anche il mio sguardo prima era incerto.
Ma guarda attentamente in là, e con gli occhi separa ciò che sta sotto dai massi che stanno sopra: già puoi vedere come ciascuno di loro si batte il petto».
O superbi cristiani, poveri infelici con la mente ottenebrata, che avete fiducia nei vostri passi rivolti all'indietro, non vi accorgete che noi siamo dei vermi, destinati a formare una farfalla angelica che vola senza intralci alla giustizia divina?
A che titolo il vostro animo insuperbisce, e poi siete simili ad insetti mal formati, proprio come un verme che non si è del tutto sviluppato?
Come talvolta si vede una figura (cariatide) che unisce la ginocchia al petto, per sostenere un soffitto o un tetto a mo' di mensola, la quale attraverso la finzione fa nascere un vero affanno a chi la vede, fatti così vidi io quei penitenti, quando li osservai attentamente.
A dire il vero, erano più o meno curvati a seconda del macigno che avevano sulle spalle; e quello che nell'atteggiamento sembrava più paziente, pareva dire piangendo: 'Non posso sopportare oltre'.
AUDIO
POLICLETO (in greco antico: Polýkleitos; Argo, V secolo a.C. – ...) è stato uno scultore, bronzista e teorico greco antico, attivo tra il 460 e il 420 a.C. circa.
Fu una delle massime figure della scultura greca del periodo classico, dalla quale dipende gran parte della scultura greca del secolo successivo. Nessuna delle sue opere originali ci è giunta e i suoi lavori sono conosciuti attraverso le numerose copie di età romana che testimoniano della fama e della fortuna che essi ebbero presso gli antichi. Nel Doriforo Policleto ha portato alle ultime conseguenze la secolare tradizione scultorea che lo aveva preceduto, portando a soluzione in particolar modo i problemi impostati nell'Efebo di Crizio e dagli scultori protoclassici, trasformandoli in una dottrina di valenza universale. Di questo lavoro di selezione e approfondimento di problematiche relative al movimento, al volume e all'equilibrio, Policleto ha voluto lasciare testimonianza scritta, attraverso un commento chiamato Canone, di cui ci sono giunti due frammenti, in cui rendeva sistematiche le proporzioni e i rapporti numerici ideali del corpo umano.
Figlio di Motone, le fonti lo dicono generalmente nato ad Argo; solo Plinio il Vecchio, nel libro XXXIV della Naturalis historia, seguendo Senocrate (scultore e scrittore appartenente alla scuola di Sicione) lo indica come sicionio. Allievo di Agelada di Argo, sembra essere stato autonomamente attivo nel Peloponneso a partire dal 465 a.C., principalmente nella creazione di statue per i vincitori dei giochi olimpici.
Dovette trasferirsi ad Atene come scultore già noto nel decennio tra il 440 e il 430 a.C.; qui incontrò Fidia, ne vide le opere e influenzò a sua volta il collega con le sue. Per il periodo ateniese Plinio ricorda un ritratto dell'ingegnere militare di Pericle, Artemone, che aveva partecipato all'assedio di Samo nel 441-439 a.C. (Plutarco, Per., 27). Attorno al 435 a.C. è datato il concorso per le statue di amazzoni da dedicare nel tempio di Artemide a Efeso di cui riferisce Plinio (Nat. hist. XXXIV, 53), al quale Policleto avrebbe partecipato insieme a Fidia, Cresila e altri due scultori. Un altro elemento cronologico può essere tratto dal noto dialogo di Socrate con lo scultore Kleiton che viene solitamente identificato con Policleto (Senofonte, Memorabilia, III, 10. 6-8).
Tra le opere attribuite a Policleto dalle fonti, quella collegata alla data più recente è l'Era crisoelefantina per l'Heraion di Argo ricostruito a causa di un incendio tra il 423 e il 400 a.C.; la statua è ricordata come il capolavoro dello scultore, nata in diretta competizione con Fidia. Essa ci è nota attraverso riproduzioni su monete argive di epoca antoniniana, le quali riconducono a una possibile copia della testa conservata al British Museum, e tramite la descrizione di Pausania (II, 17); le sue dimensioni non sono note ma si ipotizza una altezza di 8 metri considerando le dimensioni del tempio. L'Era crisoelefantina, come altre opere datate all'ultimo venticinquennio del secolo, potrebbe in realtà essere opera di Policleto II, un omonimo scultore, forse il nipote, attivo nella prima metà del IV secolo a.C. Plinio non la nomina; essa sarebbe l'unica opera non bronzea di Policleto tra quelle ricordate dalle fonti.
Del trattato di Policleto ci sono giunti due frammenti, uno è contenuto nella Belopoeica di Filone di Bisanzio ed è relativo al sistema delle proporzioni con i suoi multipli e sottomultipli, il secondo è il noto passo riportato da Plutarco (Quaestiones convivales, II.3.2) e relativo alla difficoltà di lavorazione della statua laddove il modello in argilla fosse stato portato alla perfezione. I due richiami di Galeno all'opera di Policleto rimandano anch'essi ai principi della simmetria e della bellezza del corpo umano che consisterebbe nel rapporto di alcune parti con le parti maggiori e delle parti con il tutto. Tutti i passaggi relativi al trattato di Policleto nella letteratura antica sono stati sottoposti ad esegesi dalla fine del XIX secolo; un passaggio studiato solo a partire dalla metà del XX secolo, che non cita direttamente lo scultore, è contenuto nei Moralia di Plutarco (I, 91).
I tentativi effettuati per la ricostruzione del Canone di Policleto si scontrano con l'impossibilità di conoscere quali fossero i punti dai quali lo scultore partiva per l'applicazione del sistema (con l'eccezione parziale del braccio), e con la difficoltà di studiarlo a partire dalla statua già scolpita. Le copie di età romana, benché eseguite con la tecnica del riporto dei punti, con ogni probabilità venivano adattate al gusto dei contemporanei. Non vi è garanzia che i pochi punti usati dai copisti romani fossero gli stessi usati nel sistema canonico di Policleto. Le copie giunte a noi sono da ritenersi copie di copie e le copie in bronzo in particolare solo raramente venivano create a partire dal calco dell'originale.
Eugenio Caruso - 13-11-2020