INTRODUZIONE
Il Canto XII è simmetricamente diviso in due parti, di cui la prima chiude l'ampio episodio dedicato alla superbia mostrando gli esempi di questo peccato punito, mentre la seconda ci introduce alla Cornice successiva con la descrizione dell'angelo dell'umiltà e l'accesso alla scala che consente ai due poeti di salire. Gli esempi di superbia punita sono anch'essi scolpiti come quelli di umiltà del Canto X, con la differenza che questi effigiano il pavimento della Cornice e costringono Dante e i superbi a calpestarli, in segno spregiativo rispetto alla presunzione dei personaggi raffigurati: si tratta anche in questo caso di opere d'arte straordinarie, realizzate dalla mano di Dio e perciò incredibilmente più realistiche di qualunque scultura prodotta da un artista umano, il che chiude l'ampio discorso intorno all'arte che ha occupato buona parte dei Canti X-XI.
L'insolita ampiezza degli esempi si spiega con la gravità del peccato di superbia, lo stesso compiuto da Lucifero nella sua ribellione a Dio e che ha così originato il male del peccato che affligge il mondo: si tratta di ben tredici esempi, che occupano altrettante terzine e sono tratti quasi in egual misura dal mito classico e dalla tradizione biblica; le prime dodici terzine sono disposte in tre gruppi di quattro e iniziano rispettivamente con le lettere V, O, M, come i versi dell'ultima terzina, a formare l'acrostico VOM («uomo», l'essere soggetto a questo peccato: e infatti la conclusione di questa prima parte è un ironico e antifrastico invito agli uomini, detti figliuoli d'Eva, a continuare a camminare a testa alta, invece di chinare lo sguardo per capire quanto sia sbagliato il cammino intrapreso).
Il primo esempio è proprio quello di Lucifero, precipitato dal Cielo dopo la sua folle ribellione a Dio dovuta a invidia e superbia e la cui vicenda era spesso accostata alla analoga ribellione dei giganti della mitologia classica: infatti gli altri due esempi sono tratti dalla Titanomachia, con Briareo fulminato da Giove e direttamente contrapposto a Lucifero, e poi con gli altri giganti sconfitti e uccisi dagli dei dopo la battaglia di Flegra (a loro è fatto seguire Nembrod, il personaggio biblico erroneamente interpretato come un gigante e quale autore della costruzione della Torre di Babele, episodio fin troppo simile alla ribellione dei giganti classici e perciò a questa assimilato).
Gli altri esempi accostano ugualmente personaggi tratti dalla tradizione classica e da quella biblica, spesso protagonisti di folli sfide o oltraggi verso la divinità: è il caso di Niobe, che irrise Latona per la sua scarsa prole e fu punita con la morte dei quattordici figli, di Aracne, che sfidò Atena nella tessitura e fu tramutata in ragno, di Saul, che incorse nell'ira di Dio per la sua arroganza, del re assiro Sennacherib, che disprezzò il Dio di Israele beffandosi della fiducia che Ezechia riponeva in lui. Gli altri episodi sono rimarchevoli per l'esemplarità del castigo, come Erifile uccisa dal figlio Alcmeone per vendicare il padre, o il re persiano Ciro ucciso dalla regina Tamiri per vendicare la morte del figlio, o ancora l'esercito assiro sconfitto dopo che Giuditta decapitò Oloferne. L'ultimo esempio è classico (quello di Troia ridotta in cenere alla fine della lunga guerra), riassumendo in modo clamoroso il triste destino di una città che aveva dominato l'Asia Minore e che pagò la sua presunzione con la totale distruzione.
Più distesa la seconda parte del Canto, in cui Dante, dopo la considerazione che il tempo è trascorso senza che lui se ne sia accorto (in maniera analoga all'inizio del Canto IV), è invitato dal maestro ad affrettarsi a raggiungere l'accesso alla II Cornice in quanto è ormai passato mezzogiorno. È l'angelo dell'umiltà a indirizzare i due poeti verso la scala, non prima di aver cancellato dalla fronte di Dante la prima P corrispondente al primo peccato capitale espiato: l'angelo sottolinea che ben di rado delle anime passano da lì per salire alla Cornice successiva, considerazione che è analoga alla difficoltà con cui l'angelo guardiano aveva aperto la porta del Purgatorio.
Dante si sofferma sulla maggiore facilità dell'ascesa, come se si fosse liberato da un peso: ciò conferma quanto detto da Virgilio circa la salita del monte (IV, 85-96) e dà modo a Dante di spiegare con la vivace similitudine finale il fatto che la prima P sia stata cancellata, il che ricorda che il suo percorso, qui nel Purgatorio, è soprattutto un cammino di purificazione.
Notevole ed elaborata, infine, la similitudine che descrive la scala con l'immagine di quelle che conducono alla basilica di San Miniato al Monte, sopra Firenze: al di là dell'indicazione geografica, analoga ad altre simili già viste nei primi Canti del Purgatorio (cfr. III, 49-51; IV, 25-27), è da notare l'antifrasi di Firenze indicata come la ben guidata, con ovvio riferimento al malgoverno dei Neri dopo il 1302, nonché la rievocazione dei tempi antichi in cui la città non conosceva gli episodi di corruzione di fine Duecento (è il riferimento al quaderno e alla doga che un tempo erano sicure, non essendoci casi di corruzione in campo giudiziario o fra le magistrature comunali: la rievocazione dell'antica Firenze tornerà in Par., XVI, nelle parole anch'esse nostalgiche dell'avo Cacciaguida).
Nella II Cantica emerge in diversi episodi una concezione dell'arte molto lontana da quella rinascimentale e moderna, in quanto Dante riconduce l'opera d'arte a una funzione esclusivamente didattica e pedagogica e respinge con forza ogni finalità edonistica, come invece avverrà in modo consueto nei secc. XV-XVI. L'arte (sia quella figurativa come la scultura o la pittura, sia la poesia e la musica) ha per l'uomo medievale come unico scopo l'insegnamento della parola di Dio, deve cioè guidarlo nel suo cammino di redenzione e non dargli piacere distogliendolo dalla preoccupazione per il suo destino ultraterreno: in questo senso va letto il duro rimprovero che Catone rivolge a Dante, Virgilio e alle altre anime che si attardano ad ascoltare il canto di Casella, come a nessun toccasse altro la mente e scordandosi di iniziare il loro percorso di purificazione (Purg., II, 115 ss.). Le anime sono colpevoli in quanto il loro cuore si è acquietato abbandonandosi all'ascolto della musica, mentre il cuore del cristiano deve sempre essere inquietum e teso alla faticosa conquista della salvezza, per cui ogni distrazione rappresentata dall'arte è vista come un ostacolo sulla via della beatitudine (la musica, come si vedrà, sarà parte della rappresentazione del Paradiso, ma in quanto funzionale alla descrizione della pace eterna di quel regno e non certo come espressione di qualcosa che fornisce piacere all'anima di per se stessa).
Dante rifiuta quindi il concetto tipicamente rinascimentale di ars gratia artis, dell'arte per l'arte, in quanto essa deve fornire utili ammaestramenti all'uomo in campo escatologico, e allo stesso modo è respinta la concezione, essa pure tipica del Cinquecento, di un'arte che imita perfettamente la natura, tanto da considerare l'artista (specie il pittore e lo scultore) come una sorta di «demiurgo». Solo Dio è in grado di riprodurre fedelmente lo spettacolo naturale, quindi l'artista che si mettesse a gareggiare con Lui peccherebbe di superbia intellettuale e rischierebbe la salvezza: è l'idea centrale nei Canti che descrivono la I Cornice del Purgatorio, in cui gli esempi di virtù premiata e vizio punito sono scolpiti su bassorilievi in marmo e, in quanto prodotto dell'arte divina, sono incredibilmente superiori a qualunque opera scultorea degli uomini. Le immagini sono così realistiche che traggono in inganno i sensi e inducono Dante a credere di sentir parlare i personaggi, di percepire l'odore dell'incenso (X, 28 ss.): ciò è possibile in quanto Dio è l'autore di questo visibile parlare, mentre più avanti Dante osserva che nessun maestro di disegno o pittura sarebbe mai in grado di realizzare immagini così vive, tanto che neppure chi vide la scena reale la percepì meglio di lui di fronte alle sculture (XII, 64-69).
Per Dante sarebbe dunque sembrato blasfemo l'atteggiamento di Michelangelo di fronte al Mosè appena scolpito, quando secondo una nota leggenda avrebbe esclamato «Perché mi guardi e non favelli?», colpito dalla perfetta verosimiglianza della scultura realizzata; questo sarà tuttavia l'atteggiamento proprio dell'arte del Rinascimento, che riprenderà quella dell'arte classica in cui era perfettamente normale esaltare l'abilità dell'artista in quanto capace di imitare in modo realistico la realtà (Anchise in Aen., VI, 847-848 parlava di popoli come i Greci capaci di scolpire spirantia... aera, «bronzi in grado di respirare» e vivos... de marmore vultus, «volti in marmo che sembrano vivi»). Del resto lo stesso proemio alla II Cantica conteneva un duro richiamo alla superbia dell'artista che pretende di gareggiare con la divinità, attraverso l'esempio classico delle Pieridi trasformate in gazze per aver sfidato le Muse nel canto; e l'insistenza riservata da Dante al peccato di superbia e alla Cornice in cui questo è punito si spiega anche per la considerazione della superbia in campo artistico, in cui il poeta si sentiva direttamente coinvolto come l'ampio discorso di Oderisi da Gubbio del Canto XI dimostra.
Note e passi controversi
- Alcuni mss. leggono al v. 5 con la vela e coi remi, che è considerata «lectio facilior» (Dante segue probabilmente Virgilio, Aen., III, 520: velorum pandimus alas).
- Le tombe terragne del v. 17 sono le sepolture sotto il pavimento di chiese e conventi che un tempo erano assai diffuse, tanto che saranno citate anche da Foscolo nei Sepolcri (104 ss.).
- L'espressione dà delle calcagne (v. 21) vuol dire letteralmente «dà di sprone», quindi «pungola».
- Apollo è detto Timbreo al v. 31 per il culto praticato a lui a Timbra, nella Troade.
- Sennaàr (v. 36) era la pianura vicino a Babilonia dove si iniziò a costruire la Torre, secondo il racconto biblico.
- Il v. 42 allude alla maledizione scagliata da David contro la località di Gelboè (Gilboa), dopo la morte di Saul, che non avrebbe più ricevuto pioggia e sarebbe stata sterile.
- Alcmeone (v. 50) era figlio di Anfiarao, l'indovino morto nella guerra di Tebe e incluso da Dante fra gli indovini della IV Bolgia (Inf., XX, 31-36).
- Nei vv. 55-57 Dante segue strettamente il racconto dello storico Paolo Orosio (Hist., II, 7), secondo il quale Tamiri disse a Ciro: Satia te sanguine quem sitisti («saziati del sangue di cui fosti assetato»).
- Le reliquie del martiro (v. 60) indicano il tronco decapitato di Oloferne, e non il massacro degli Assiri.
- Maestro... di stile (v. 64) indica il disegnatore, poiché lo «stile» era un'asticciola metallica che serviva per disegnare: alcuni hanno pensato allo scultore, ma stile non può indicare lo scalpello; altri ancora hanno ipotizzato che gli esempi siano non scolpiti ma disegnati, però il paragone con le tombe terragne lo esclude. Le ombre e' tratti del v. 65 indicano probabilmente le figure e i loro lineamenti, senza bisogno di pensare a effetti di chiaroscuro.
- Alcuni editori attribuiscono i vv. 94-96 a Dante e non all'angelo, ma sembra più probabile che sia l'angelo a osservare la scarsità delle anime che passano da quel varco.
- I vv. 104-105 alludono a due gravi fatti di corruzione avvenuti a Firenze alla fine del XIII sec. Il primo ebbe come protagonista Niccolò Acciaioli, assolto in un processo grazie a una falsa testimonianza ammessa dal podestà Monfiorito di Coderda che poi confessò la colpa: l'Acciaioli fu eletto priore e, approfittando della carica, prese gli atti del processo (il quaderno) e cancellò la falsa testimonianza, cosa che fu scoperta e denunciata (l'uomo fu arrestato). Il secondo episodio riguarda Durante Chiaramontesi, frate della penitenza, che fu sovrintendente per la vendita del sale e alterò la misura ufficiale dello staio, togliendo da esso una doga di legno e arricchendosi (fu condannato a morte).
- L'aggettivo scempie (v. 133) è stato variamente interpretato, ma forse è aggettivo riferito alle dita e vuol dire «staccate l'una dall'altra».
TESTO
Di pari, come buoi che vanno a giogo,
m’andava io con quell’anima carca,
fin che ‘l sofferse il dolce pedagogo. 3
Ma quando disse: «Lascia lui e varca;
ché qui è buono con l’ali e coi remi,
quantunque può, ciascun pinger sua barca»; 6
dritto sì come andar vuolsi rife’mi
con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati e scemi. 9
Io m’era mosso, e seguia volontieri
del mio maestro i passi, e amendue
già mostravam com’eravam leggeri; 12
ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe:
buon ti sarà, per tranquillar la via,
veder lo letto de le piante tue». 15
Come, perché di lor memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel ch’elli eran pria, 18
onde lì molte volte si ripiagne
per la puntura de la rimembranza,
che solo a’ pii dà de le calcagne; 21
sì vid’io lì, ma di miglior sembianza
secondo l’artificio, figurato
quanto per via di fuor del monte avanza. 24
Vedea colui che fu nobil creato
più ch’altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l’un lato. 27
Vedea Briareo, fitto dal telo
celestial giacer, da l’altra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo. 30
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d’i Giganti sparte. 33
Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro. 36
O Niobè, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! 39
O Saùl, come in su la propria spada
quivi parevi morto in Gelboè,
che poi non sentì pioggia né rugiada! 42
O folle Aragne, sì vedea io te
già mezza ragna, trista in su li stracci
de l’opera che mal per te si fé. 45
O Roboàm, già non par che minacci
quivi ‘l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci. 48
Mostrava ancor lo duro pavimento
come Almeon a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento. 51
Mostrava come i figli si gittaro
sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro. 54
Mostrava la ruina e ‘l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
«Sangue sitisti, e io di sangue t’empio». 57
Mostrava come in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro. 60
Vedeva Troia in cenere e in caverne;
o Ilión, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne! 63
Qual di pennel fu maestro o di stile
che ritraesse l’ombre e’ tratti ch’ivi
mirar farieno uno ingegno sottile? 66
Morti li morti e i vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero,
quant’io calcai, fin che chinato givi. 69
Or superbite, e via col viso altero,
figliuoli d’Eva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentero! 72
Più era già per noi del monte vòlto
e del cammin del sole assai più speso
che non stimava l’animo non sciolto, 75
quando colui che sempre innanzi atteso
andava, cominciò: «Drizza la testa;
non è più tempo di gir sì sospeso. 78
Vedi colà un angel che s’appresta
per venir verso noi; vedi che torna
dal servigio del dì l’ancella sesta. 81
Di reverenza il viso e li atti addorna,
sì che i diletti lo ‘nviarci in suso;
pensa che questo dì mai non raggiorna!». 84
Io era ben del suo ammonir uso
pur di non perder tempo, sì che ‘n quella
materia non potea parlarmi chiuso. 87
A noi venìa la creatura bella,
biancovestito e ne la faccia quale
par tremolando mattutina stella. 90
Le braccia aperse, e indi aperse l’ale;
disse: «Venite: qui son presso i gradi,
e agevolemente omai si sale. 93
A questo invito vegnon molto radi:
o gente umana, per volar sù nata,
perché a poco vento così cadi?». 96
Menocci ove la roccia era tagliata;
quivi mi batté l’ali per la fronte;
poi mi promise sicura l’andata. 99
Come a man destra, per salire al monte
dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte, 102
si rompe del montar l’ardita foga
per le scalee che si fero ad etade
ch’era sicuro il quaderno e la doga; 105
così s’allenta la ripa che cade
quivi ben ratta da l’altro girone;
ma quinci e quindi l’alta pietra rade. 108
Noi volgendo ivi le nostre persone,
‘Beati pauperes spiritu!’ voci
cantaron sì, che nol diria sermone. 111
Ahi quanto son diverse quelle foci
da l’infernali! ché quivi per canti
s’entra, e là giù per lamenti feroci. 114
Già montavam su per li scaglion santi,
ed esser mi parea troppo più lieve
che per lo pian non mi parea davanti. 117
Ond’io: «Maestro, dì, qual cosa greve
levata s’è da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve?». 120
Rispuose: «Quando i P che son rimasi
ancor nel volto tuo presso che stinti,
saranno, com’è l’un, del tutto rasi, 123
fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti,
che non pur non fatica sentiranno,
ma fia diletto loro esser sù pinti». 126
Allor fec’io come color che vanno
con cosa in capo non da lor saputa,
se non che ‘ cenni altrui sospecciar fanno; 129
per che la mano ad accertar s’aiuta,
e cerca e truova e quello officio adempie
che non si può fornir per la veduta; 132
e con le dita de la destra scempie
trovai pur sei le lettere che ‘ncise
quel da le chiavi a me sovra le tempie:
a che guardando, il mio duca sorrise. 136
PARAFRASI
Io procedevo affiancato a quell'anima curva sotto il peso del masso, come due buoi aggiogati, finché Virgilio lo tollerò.
Ma quando disse: «Lascialo e passa oltre; infatti qui è bene che ognuno spinga la sua barca, meglio che può, con vele e remi»;
tornai a drizzare la mia figura come quando si cammina, anche se i miei pensieri restarono umili e prostrati.
Io mi ero mosso, e seguivo volentieri i passi del mio maestro, e entrambi ormai mostravamo di essere spediti;
e lui mi disse: «Abbassa gli occhi a terra: ti sarà utile, per rasserenare il tuo cammino, vedere dove poggi i piedi».
Come le tombe scavate a terra portano sopra i sepolti dei coperchi con l'effigie dei defunti, per ricordarli, per cui spesso lì si ha nostalgia dei propri cari per il dolore del ricordo che stimola solo gli uomini devoti;
così io vidi scolpito il pavimento della Cornice che sporge dal monte, ma in modo più raffinato perché era opera di Dio.
Vedevo da una parte colui (Lucifero) che fu creato più nobile di ogni altra creatura, che cadeva giù dal Cielo colpito dalla folgore.
Vedevo dall'altra parte Briareo che giaceva dopo essere stato colpito dal fulmine di Giove, pesante a terra e gelato dalla morte.
Vedevo Apollo, Atena, Marte, ancora armati e intorno al loro padre Giove, che osservavano le membra sparse dei giganti.
Vedevo Nembrod ai piedi della grande opera (la Torre di Babele) quasi smarrito, che guardava le genti che furono superbe insieme a lui a Sennaàr.
O Niobe, con quali occhi addolorati ti vedevo scolpita sulla strada, tra i tuoi quattordici figli uccisi!
O Saul, come sembravi morto, lì nella scultura, sulla tua spada a Gelboè, dove in seguito non cadde pioggia né rugiada!
O folle Aracne, ti vedevo già mezza tramutata in ragno, triste sugli stracci dell'opera che tu producesti a tuo danno.
O Roboamo, qui la tua immagine non sembra minacciare, ma appare piena di spaventato e portata via da un carro, senza che qualcuno la insegua.
Il duro pavimento mostrava ancora come Alcmeone fece apparire prezioso a sua madre (Erifile) lo sventurato monile.
Mostrava come i figli si scagliarono contro Sennacherib, nel tempio, e come lo lasciarono qui dopo averlo ucciso.
Mostrava la rovina e il crudele scempio che Tamiri fece di Ciro, quando gli disse: «Hai avuto sete di sangue e io di sangue ti riempio».
Mostrava come gli Assiri fuggirono in rotta, dopo che Oloferne fu ucciso (da Giuditta), e anche ciò che restava del suo tronco decapitato.
Vedevo Troia ridotta in cenere e rovine; o Ilio, come ti mostrava bassa e vile la scultura che si vede lì!
Quale maestro di pittura o disegno ci fu mai, capace di ritrarre le figure e i tratti che lì, in Purgatorio, farebbero meravigliare un ingegno raffinato?
I morti sembravano morti e i vivi sembravano vivi: chi vide la scena reale non vide meglio di me, finché osservai chinato le scene scolpite che calpestavo.
Allora insuperbite, figli di Eva, e andate avanti col viso altero, e non chinate lo sguardo per vedere il vostro cammino malvagio!
Avevamo percorso un maggior tratto del monte e speso una parte più ampia della giornata, di quanto non realizzasse il mio animo concentrato, quando colui che andava avanti sempre attento, mi disse: «Alza la testa; non è più tempo di camminare con lo sguardo a terra.
Vedi là un angelo che si accinge a venire verso di noi; vedi che l'ora sesta torna dopo aver compiuto il suo servizio al giorno (è passato mezzogiorno).
Rendi riverenti il tuo viso e i gesti, così che ci indirizzi volentieri verso l'alto; pensa che questo giorno non tornerà mai!»
Io ero abituato a questi ammonimenti per non perder tempo, così che su quell'argomento non poteva parlarmi in modo oscuro.
La bella creatura veniva verso di noi, vestita di bianco e col volto che brillava come la stella del mattino.
Aprì le braccia, quindi spalancò le ali; disse: «Venite: i gradini sono qui vicino, e ormai si sale agevolmente.
Poche anime raccolgono questo invito: o uomini, nati per volare in alto, perché cadete in basso per qualunque alito di vento?»
Ci condusse dove la roccia era tagliata; qui mi colpì la fronte con le ali; poi mi promise un cammino sicuro.
Come sul lato destro, per salire al monte dove sorge la chiesa (S. Miniato) che domina la città ben governata (Firenze) sopra Rubaconte, la ripida parete diventa più lieve grazie a delle scale che furono costruite in un'epoca in cui il quaderno e la doga erano più sicure;
così la parete del monte, che cade ripidissima dall'altra Cornice, diventa più dolce, ma l'alta roccia la stringe da una parte e dall'altra.
Mentre noi ci accingevamo a salire, delle voci cantarono 'Beati i poveri di spirito', in modo così soave che sarebbe impossibile descriverlo a parole.
Ah, quanto sono diversi quegli accessi da quelli dell'Inferno! infatti qui si entra accolti da canti, laggiù da feroci lamenti.
Ormai salivamo su per quelle scale sante, e mi sembrava di essere assi più leggero di quanto non fossi prima quando camminavo in pianura.
Allora dissi: «Maestro, dimmi: quale peso è stato levato da me, così che mentre procedo non sento quasi nessuna fatica?»
Mi rispose: «Quando le P che sono rimaste ancora sulla tua fronte, sia pure sbiadite, saranno cancellate come lo è stata la prima, i tuoi piedi saranno vinti dalla buona volontà al punto che non solo non sentiranno fatica, ma proveranno piacere a essere spinti in alto».
Allora io feci come quelli che vanno con qualcosa in testa che non sanno, se non perché altri gli fanno dei gesti che glielo fanno immaginare;
per cui la mano va ad accertarsi e cerca e trova e svolge quel compito che non può essere compiuto dalla vista;
e con le dita della mano destra staccate l'una dall'altra trovai solo sei delle lettere che l'angelo guardiano mi aveva inciso sopra le tempie: e vedendo tutto ciò, il mio maestro sorrise.
Briareo - Era uno dei mostri con cinquanta teste e cento braccia, gli Ecatonchiri o Centimani. Esiodo nella Teogonia narra che Poseidone vista la gran forza di questo gigante gli concesse di sposare sua figlia Cimopolea. Ovidio narra di come sia riuscito ad uccidere l'Ofiotauro, il mostro che avrebbe permesso la vittoria sugli dei, bruciandone le viscere. Briareo, però, non riuscì a bruciarle, poiché gli furono sottratte da un nibbio inviato da Zeus. Quando Apollo, Era e Poseidone cercarono di detronizzare Zeus, esasperati dai suoi capricci, Teti domandò il suo aiuto. In un mito corinzio del II secolo d.C. si raccontava che Briareo, uno degli Ecatonchiri, fece da arbitro in una disputa tra Poseidone ed Elio (il mare ed il Sole). Egli stabilì che l'Istmo sarebbe toccato a Poseidone, mentre l'acropoli di Corinto ad Elio:
«Dicono pertanto i Corintj, che Nettuno venne a contesa col Sole per la loro terra; ma il loro mediatore Briareo decise, che l'istmo, e la terra a quello confinante fosse di Nettuno, e che la rupe, la quale domina la città appartenesse al sole. Da quel tempo dicono, che l’istmo appartenga a Nettuno.»
(Pausania, II 1.6)
Come modo di dire è rimasto "bisognerebbe avere le braccia di Briareo" quando una persona è impegnata a fare molte cose nello stesso tempo.
Nella "Vita di Marcello", all'interno delle "Vite parallele" di Plutarco, Marcello, in ritirata dopo il tentativo di assalire Siracusa dal mare, fallito a causa delle leggendarie macchine ideate da Archimede a difesa della città, definisce il celebre scienziato 'Briareo geometra'.
Nella Divina Commedia, nell'Inferno, canto XXXI, Briareo è posto alla guardia del lago di ghiaccio (Cocito) che costituisce il Nono Cerchio. Nel Purgatorio, canto XII, invece, tra gli esempi di superbia punita, Dante Alighieri raffigura Briareo, che prese parte alla battaglia dei Titani contro Giove, scolpito nella roccia, quale esempio di superbia punita, in quanto egli si è rivoltato contro la divinità.
Nel "don Quijote de la Mancha" Miguel de Cervantes Saavedra fa in modo che don Quijote veda nel Mulino a vento proprio il gigante Briareo "Anche se muovi più braccia del gigante Briareo me le pagherai!"
Viene inoltre citato nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, dicendo che "attesoché l'humana malitia per sé sola bastar non douebbre a resistere a tanti Heroi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo si vanno trafficando per li pubblici emolumenti" (dal momento che la malignità umana da sola non dovrebbe bastare a resistere a tanti eroi, che con occhi d'Argo e braccia di Briareo si danno da fare per il bene comune).
Nembrod - La Genesi non fa altri riferimenti a Nimrod, ma forse il fatto che il suo regno fosse inizialmente attorno a Babele e probabili notizie riferite da fonti andate perdute hanno contribuito ad attestare la tradizione che gli attribuisce l'idea di costruire la torre di Babele. D'altronde secondo il racconto biblico di Genesi capitolo 10, il regno di Nimrod includeva le città di Babele, Erec, Akkad e Calne, città del Paese del Sinar. La tradizione ebraica giunge alla conclusione che probabilmente fu sotto la direttiva di Nimrod che ebbe inizio Babele e la sua torre. Lo scrittore ebraico Giuseppe Flavio infatti scrive: «[Nimrod] trasformò gradatamente il governo in una tirannia, non vedendo altro modo per sviare gli uomini dal timor di Dio, se non quello di tenerli costantemente in suo potere. Disse inoltre che intendeva vendicarsi con Dio, se mai avesse avuto in mente di sommergere di nuovo il mondo; perciò avrebbe costruito una torre così alta che le acque non l'avrebbero potuta raggiungere, e avrebbe vendicato la distruzione dei loro antenati. La folla fu assai pronta a seguire la decisione di [Nimrod], considerando un atto di codardia il sottomettersi a Dio; e si accinsero a costruire la torre...ed essa sorse con una velocità inaspettata.» Secondo Genesi 11,1-4, gli uomini, contravvenendo al disegno divino che voleva che popolassero l'intera Terra, decisero di fermarsi tutti in un luogo: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Per aver voluto restare uniti in un solo luogo, piuttosto che per il tentativo di "toccare il cielo", vennero puniti con la confusione delle lingue che, secondo Genesi 11,9, è anche all'origine del nome Babele. Dopo la costruzione della Torre di Babele, Nimrod secondo il racconto di Genesi 10: 11,12 e Michea 5:6, estese i suoi domini all'Assiria dove costruì Ninive, e Rebor - Ir e Cala e Resen fra Ninive e Cala: questa è la gran città. Poiché il nome dell'Assiria deriva evidentemente da quello di Assur figlio di Sem, Nimrod nipote di Cam, deve aver invaso il territorio semita. Sembra che Nimrod sia divenuto un eroe o un potente, così come lo definisce Genesi 10:8, non solo come cacciatore di animali, ma anche come violento guerriero. La Cyclopædia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature di M'Clintock e Strong a tal proposito osserva: «Che la potente caccia non si limitasse agli animali è evidente dalla stretta connessione con l'edificazione di otto città... Ciò che Nimrod fece come cacciatore fu il preludio di ciò che fece poi come conquistatore. Fin dall'antichità caccia ed eroismo erano particolarmente e naturalmente associati... Anche i monumenti assiri raffiguravano molte scene di caccia, e la parola è spesso impiegata in riferimento a campagne militari... Pertanto caccia e battaglia, che nello stesso paese in epoche successive furono così intimamente legate, potrebbero essere qui associate o coincidere. Il senso allora sarebbe che Nimrod fu il primo a fondare un regno dopo il diluvio, per unificare la frammentaria autorità patriarcale e consolidarla sotto di sé come unico capo e signore; e tutto questo in opposizione a Jahvè, trattandosi di una violenta ingerenza del potere camitico in territorio semita».
Niobe - Niobe è un personaggio della mitologia greca, figlia di Tantalo e sorella di Pelope, punita dagli dei per la sua superbia. Il nome di sua madre è discusso dai mitografi; talvolta è ritenuta Eurianassa, figlia del dio fluviale Pattolo, oppure Euritemiste, figlia del fiume Xanto; ma sono conosciute ancora altre variazioni: una la vuole figlia di Clizia, una delle figlie di Anfidamante, oppure, nella versione ninfa Dione. È figlia di Assaone.
Apollo aveva il potere di mandare i mali a coloro che voleva punire, come le morti improvvise. Per esempio lanciò frecce col suo arco d'argento per l'ingiusto oltraggio fatto al sacerdote Crise e così diffuse la peste nel campo greco, come è detto nel I libro dell'Iliade. La sua vittima più infelice fu Niobe. Nella Frigia c'era un ricco re, Tantalo, che era protetto dagli dèi celesti, tanto da essere invitato sull'Olimpo. Tuttavia Tantalo fraintese la benevolenza divina e divulgò alcuni segreti che Zeus gli aveva confidati. Per questo fu cacciato nel Tartaro e condannato a un eterno supplizio. Tantalo, in vita, aveva avuto parecchi figli, tra cui Pelope e Niobe, che aveva sposato Anfione dal quale aveva avuto sette robusti figli maschi e sette bellissime figlie femmine. Niobe si vantava di essere più feconda di Leto, madre di Apollo e Artemide, e pretendeva che a lei spettassero gli onori divini. Questa superbia arrivò alle orecchie di Leto che incaricò i suoi figli di punire Niobe. Infatti Apollo uccise con il suo arco di argento i suoi sette figli e successivamente anche Artemide sterminò le sette figlie (o, secondo una variante del mito, ne lasciarono in vita solo due, rispettivamente un maschio, Amicla, ed una femmina, Cloride, o due femmine). La sventurata Niobe pianse amaramente, riconoscendo ormai troppo tardi la propria colpa e, ammettendo di essere stata punita giustamente, pregò Zeus di trasformarla in pietra. Il suo corpo venne tramutato in roccia conservando la sua forma. Anche in pietra Niobe continua a piangere e piangerà in eterno. Secondo l'Iliade i giovani uccisi rimasero insepolti per dieci giorni, finché gli dèi stessi non si occuparono della tumulazione. Secondo quanto narra Ovidio, Niobe, in lacrime, si tramutò in blocco di marmo dal quale scaturì una fonte. In una roccia che si trova sul monte Sipilo in Lidia, presso Magnesia, si è voluta scorgere la Niobe divenuta pietra. Il mito che narra della superbia di Niobe e della morte dei suoi figli, i Niobidi, fu ampiamente diffuso nell'arte e nella letteratura degli antichi, come attestano le numerose menzioni, e il suo significato pedagogico (evitare la superbia) evidente. Le tragedie di Eschilo e di Sofocle ispirate ad esso sono andate perdute.
Niobe assiste all'uccisione dei figli - Abraham Bloemaert
Saul - Saul è un personaggio biblico, primo re di Israele (1047-1003 a.C.). Il suo regno sembra abbia segnato il passaggio da una società tribale a una statale. Il significato del nome Saul in ebraico è "richiesto/pregato". Era figlio di Chis e apparteneva alla tribù di Beniamino. Secondo la narrazione del libro di Samuele, Saul si recò da Samuele a Ramah per consultarlo, e il sacerdote lo unse segretamente come re. Poco dopo, Samuele radunò l'assemblea del popolo di Israele a Mizpa, dove Saul fu estratto a sorte come re. In seguito Saul condusse una campagna militare vittoriosa contro gli Ammoniti, confermandosi così nel favore popolare e nella carica. Nella successiva guerra contro i Filistei, Saul, con la propria condotta aggressiva, disgustò l'anziano Samuele, che si allontanò da lui. La guerra fu vinta per l'audace imboscata di Gionata, figlio prediletto del re, contro il campo filisteo. Nella successiva guerra contro gli Amaleciti, Saul si rifiutò di obbedire al comando di Samuele di distruggere completamente la popolazione e di giustiziare il loro re Agag. Secondo la narrazione del libro di Samuele, questa disobbedienza spinse Samuele stesso a rimuovere l'unzione di re da Saul, a smettere di esserne consigliere e a ungere segretamente, come nuovo re, Davide. Tuttavia Saul continuò a regnare e la successione non avvenne che diversi anni dopo. Davide giunse a corte come arpista per alleviare le sofferenze del re, che, dopo la perdita dell'unzione regale, si sentiva perseguitato da uno spirito malvagio. Nella successiva guerra contro i Filistei, Davide ottenne un grande successo sconfiggendo Golia, il campione dell'esercito nemico, e ottenendo così la vittoria nella battaglia di Gath. Saul divenne geloso del successo di Davide, che comunque strinse una grande amicizia con il figlio prediletto del re, Gionata. Tale amicizia fu così profonda da divenire proverbiale. Nella successiva guerra contro i Filistei, lo spirito di Samuele predisse a Saul la sconfitta degli israeliti, ma egli mosse ugualmente battaglia a Ghilboa, dove venne duramente sconfitto: "Così finì Saul con i tre figli; tutta la sua famiglia perì insieme", anche se, secondo un'altra tradizione biblica, suo figlio Is-Boset regnò due anni e combatté con Davide fino alla propria morte. La narrazione biblica ne descrive la morte che, a seconda delle diverse tradizioni contenute nei due libri di Samuele, avviene per suicidio gettandosi sulla propria spada o ucciso da un amalecita.
Aracne - Aracne (detta anche Aragne) è una figura mitologica. Ovidio narra la sua storia nel VI libro delle Metamorfosi, ma pare che il personaggio, già citato nelle Georgiche virgiliane, sia d'origine greca. Aracne viveva a Colofone, nella Lidia. La fanciulla, figlia del tintore Idmone e sorella di Falance, era abilissima nel tessere, tanto che girava voce che avesse imparato l'arte direttamente da Atena, mentre lei affermava che fosse la dea ad aver imparato da lei. Ne era tanto sicura che sfidò la dea. Di lì a poco un'anziana signora si presentò ad Aracne, consigliandole di ritirare la sfida per non causare l'ira della dea. Quando lei replicò con sgarbo, la vecchia uscì dalle proprie spoglie rivelandosi come la dea Atena, e la gara iniziò. Aracne scelse come tema della sua tessitura gli amori degli dei; il suo lavoro era così perfetto ed ironico verso le astuzie usate dagli dei per raggiungere i propri fini che Atena si adirò, distrusse la tela e colpì Aracne con la sua spola.
Aracne, disperata,cercò di impiccarsi, ma la dea la trasformò in un ragno costringendola a filare e tessere per tutta la vita dalla bocca, punita per l'arroganza dimostrata nell'aver osato sfidare la dea.
Aracne dipinto di Velasquez
Roboano - Roboamo (Gerusalemme, 972 a.C. – Gerusalemme, 914 a.C.) fu il primo re di Giuda quando alla morte del re Salomone il Regno di Giuda e Israele si divise in due regni rivali. Era figlio di Salomone e della moglie ammonita Naama. Regnò per 17 anni dal 931 al 914 a.C.[2] e alla sua morte gli succedette il figlio Abia di Giuda. La sua storia è raccontata soprattutto dalla Bibbia e precisamente nei Libri dei Re e nei Libri delle Cronache. Quando il re Salomone morì Roboamo gli succedette sul trono.
Ma come tutti i re del tempo, per poter regnare egli doveva ottenere l'alleanza delle tribù d'Israele. Intraprese allora un viaggio a Sichem per incontrare i capitribù lì riuniti. Ma questi, sotto la guida di Geroboamo, ne approfittarono per presentargli le loro richieste: essi chiedevano imposte meno pesanti e l'abolizione delle corvée, che erano state istituite sotto il regno di Salomone per abbellire Gerusalemme. Invece di seguire i consigli degli anziani, già consiglieri del padre, Roboamo preferì seguire quelli dei propri consiglieri, suoi coetanei. Rifiutò dunque brutalmente di acconsentire alle richieste delle tribù. Geroboamo e le tribù del Nord non accordarono la loro alleanza a Roboamo e si costituirono in regno separato, il Regno di Israele. Ritornato a Gerusalemme, Roboamo si accorse che solamente due tribù gli erano rimaste fedeli: quella di Beniamino e quella di Giuda. Costituì quindi con queste il Regno di Giuda. Nel racconto biblico, la sorte del regno di Roboamo è legata all'infedeltà di Salomone nei confronti di Yahweh. Il precedente re aveva infatti sposato tantissime donne ("settecento principesse e trecento concubine"), di cui molte straniere. Sarebbero state queste donne a spingerlo ad adorare altri dèi. Questa infedeltà irritò Yahweh, il quale, apparendo a Salomone, gli annunciò che gli avrebbe tolto il regno, ma, per l'amore che ebbe sempre per Davide, lo avrebbe tolto non a lui in vita, ma al figlio, Roboamo appunto. Quasi cinque anni dopo l'incoronazione di Roboamo il regno di Giuda subì l'invasione degli Egiziani guidati dal faraone Sisach, che giunse con le sue truppe fino a Gerusalemme, ove si appropriò del tesoro del Tempio e di quello della reggia di Roboamo. Inoltre, durante il regno di Roboamo, vi fu una continua conflittualità con quello di Geroboamo.
Eugenio Caruso - 20 -11-2020