Dante, Purgatorio, Canto XIII. Gli invidiosi

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Canto XIII ha più che altro la funzione di introdurci nella II Cornice e preparare il terreno per l'episodio successivo di Guido del Duca: qui sono molte le lungaggini e le parti puramente didascaliche, mentre la protagonista Sapìa è in effetti un personaggio non perfettamente centrato nella sua fisionomia. Abbastanza superfluo è il discorso che Virgilio rivolge al sole, che ha la sola funzione di spiegare perché il maestro decide di seguirlo per incamminarsi lungo la Cornice (e l'allocuzione al sole è preceduta dalla descrizione di Virgilio che fa perno sulla gamba destra e si volta col fianco sinistro, con un movimento che «ha del ginnastico» come disse Momigliano). Seguono gli esempi di carità, gridati da voci aeree e non scolpiti come nella I Cornice, che sono assai meno ampi e particolareggiati di quelli di umiltà (si riducono a tre, ovvero il miracolo delle nozze di Cana, la nobile gara tra Oreste e Pilade e l'insegnamento della carità di Gesù ai discepoli, che a ben vedere è una massima generica e non un vero esempio). Puramente didascalica anche la successiva chiosa di Virgilio, che spiega che in questa Cornice è punita l'invidia e, ovviamente, all'uscita gli esempi saranno di invidia punita.
Interessante la descrizione della pena degli invidiosi, con una serie di immagini che riconducono tutte alla vista negata ai penitenti: Virgilio esorta Dante a ficcare li occhi per l'aere e vedere i peccatori, il discepolo li spalanca ed è per li occhi che versa lacrime, provando compassione per le anime e il loro tormento; più avanti, quando il poeta si rivolge agli invidiosi per sapere se qualcuno di loro è italiano, li definirà gente sicura... di veder l'alto lume di Dio, sottolineando che la loro pena consiste principalmente nel non poter guardare in modo malevolo come fecero quando erano in vita (invidia da invideo, «guardare di malo occhio»). Ampia la similitudine dei ciechi che chiedono l'elemosina fuori dalle chiese, con l'insistenza sul fatto che essi fanno compassione non pur per lo sonar de le parole, / ma per la vista, così come il dialogo muto con Virgilio cui Dante si rivolge per avere il permesso di parlare alle anime. E alla domanda di Dante risponde Sapìa, la quale puntualizza le parole del poeta dicendo che esse sono cittadine d'una vera città (la Gerusalemme celeste, il Paradiso), mente in Italia ognuna di loro era stata peregrina, straniera.
Questa figura è parsa non perfettamente realizzata, soprattutto perché nella prima parte del suo discorso mostra una sincera contrizione e la consapevolezza del peccato compiuto (si definisce non savia, nonostante il suo nome che si credeva collegato all'aggettivo, ammette di aver provato un'invidia smisurata e gratuita, per giunta nella fase finale della sua vita, quando avrebbe dovuto essere più accorta, fu talmente contenta della rotta dei Senesi da dire a Dio più non ti temo, paragonandosi al merlo che fece lo stesso in un giorno di sole credendo che fosse finito l'inverno), mentre nell'ultima parte mostra una sottile perfidia nel canzonare i suoi concittadini, col riferimento al porto di Talamone che essi acquistarono a caro prezzo senza ricavarne nulla, come del resto avevano fatto cercando il leggendario fiume sotterraneo della Diana, e a perderci di più saranno gli ammiragli (ovvero, ma il passo è di incerto significato, i capitani della flotta che Siena sognava di allestire, o forse gli appaltatori navali).
I commentatori moderni l'hanno infatti definita «vecchia, livida e maligna» o anche una donna con «tanta femmilità e tanta fragilità», il che dimostra che il personaggio ha in sé delle ambiguità che l'arte dantesca non ha saputo in questo caso eliminare. È probabile che la pungente canzonatura contro i Senesi che chiude il Canto risenta dello spirito fiorentino dello stesso Dante, che conservava il ricordo bruciante della sconfitta di Montaperti dovuta in gran parte proprio alla ghibellina Siena, mentre qui Sapìa rievoca la sconfitta di Colle Val d'Elsa che fu per i Guelfi una terribile rivincita (e in quella battaglia fu ucciso e decapitato Provenzan Salvani, da Dante già incontrato tra i superbi e verso il quale Sapìa provava un odio personale e gratuito). Si sono cercate nei documenti le ragioni biografiche di quest'odio della donna verso i concittadini, senza in realtà approdare a nulla in quanto del personaggio storico si sa molto poco; è probabile che Dante abbia voluto delineare un personaggio smisuratamente invidioso, al punto di desiderare la rovina della propria città, e ciò per sottolineare il carattere negativo del peccato di invidia e opposto alla carità (in questo senso acquista significato il contrappasso degli occhi cuciti, in quanto i penitenti non possono vedere il sole che è personificazione della grazia divina e dell'ardore di carità, così come forse non del tutto gratuito risulta l'appello di Virgilio all'astro in apertura di episodio).
Il canto è costruito sul tema della cecità, a partire dall'uso dell'etimo di "invidia" (da in + videre, in latino guardare contro, guardare con ostilità). La vista è tolta con una forma di contrappasso particolarmente penosa, descritta con precisione nei molti particolari e rafforzata dalla similitudine con i ciechi mendicanti alle porte dei santuari. L'assenza di vista sembra riflettersi anche nell'assenza di colore che connota questo girone, uniformemente grigio, anzi "livido", sia nella roccia sia nelle vesti dei penitenti. Quasi spettrale anche l'effetto delle voci che arrivano in volo e subito si allontanano, e dei frammenti di litanie afferrati da Dante prima di vedere, con dolore e compassione, la schiera degli invidiosi. Essi, che in vita ebbero sentimenti ostili e malevoli verso gli altri, ora si sostengono a vicenda: è una manifestazione di quello spirito di carità che, in quanto virtù contraria al peccato dell'invidia, contribuisce alla purificazione delle anime. Anche Dante si riconosce macchiato dall'invidia, ma in misura minore rispetto al peccato di superbia, sul quale ha avuto modo di riflettere percorrendo il primo girone, la cui pena ancora lo tormenta interiormente. Mentre nel canto XI Dante ha incontrato tre diversi personaggi, ora, nel quadro desolato del secondo girone, solo una voce si fa sentire, dapprima con toni cortesi, poi con accenti di pentimento e di gratitudine per chi l'ha aiutata con la sua preghiera: è Sapìa. Lo sfondo della vita di Sapìa è ancora una volta la Toscana della seconda metà del Duecento: qui la città in primo piano è Siena, definita piena di gente vana ossia vanitosa e superficiale, come già nel canto XXIX dell'Inferno (v. 122). Però, tra tanti stolti, ci fu a Siena un modesto artigiano che per pura generosità pregò per Sapìa, così da abbreviarne la sosta nell'Antipurgatorio, dato che essa si era pentita solo sul finire della vita. Nelle parole di Sapìa non manca qualche traccia di ironia, non solo verso i concittadini, ma anche verso se stessa, come nei vv.109-110 e nel v. 123 dove paragona se stessa al merlo che si illude che sia finito l'inverno quando appare un barlume di sole (come nel detto proverbiale sui giorni della merla).

Note e passi controversi
- I vv. 13-15 intendono dire che Virgilio, per voltarsi a destra verso il sole, fa perno col piede destro e piega la parte sinistra del corpo.
- Nel v. 22 migliaio è bisillabo per effetto del trittongo -aio (alcune edizioni riportano migliai' ).
- Il primo esempio di carità (v. 29) sono le parole di Maria a Gesù alle nozze di Cana, quando la Vergine invitò il figlio a compiere il primo miracolo; il secondo (v. 32) si riferisce al personaggio classico di Oreste, figlio di Agamennone, che volle vendicare la morte del padre Agamennone ucciso dalla moglie Clitennestra con l'aiuto dell'amante Egisto. Tornato a Micene con l'amico Pilade, la congiura venne svelata e Oreste condannato a morte; Pilade finse di essere lui per salvarlo e tra i due iniziò una nobile gara dettata dall'amicizia (ciascuno pretendeva di essere Oreste).
- Il passo del perdono (v. 42) è il passaggio alla Cornice seguente, dove Dante incontrerà l'angelo della misericordia.
- La preghiera degli invidiosi (vv. 49-51) sono le litanie dei santi, che iniziano con Sancta Maria, ora pro nobis e poi continuano con Sancte Michael, poi con Sancte Petre e si chiudono con Omnes Sancti et Sanctae Dei, intercedite pro nobis.
- I perdoni citati al v. 62 sono le «indulgenze», ovvero le solennità in cui nelle chiese si lucrava su questi provvedimenti (e, per estensione, le chiese stesse).
- I vv. 71-73 alludono a una crudele pratica descritta da Federico II nel trattato De arte venandi cum avibus (II, 37), che consisteva appunto nel cucire le palpebre degli sparvieri selvaggi per addomesticarli.
- Nei vv. 88-90 Dante augura alle anime di lavare presto le macchie (schiume) della loro coscienza, in modo che il fiume della memoria torni a scorrere chiaro e limpido.
- Il v. 123 allude a un'antica leggenda, secondo cui il merlo, scambiando un giorno di sole per la fine dell'inverno, avrebbe detto «Più non ti curo, Domine, ché uscito son del verno». Tale diceria non ha a che fare con il racconto dei giorni della merla, che nell'Italia del nord indicano i giorni di gennaio più freddi dell'anno.
- Pier Pettinaio (v. 128) era un mercante di pettini vissuto a Siena e morto in odore di santità nel 1289: fu terziario francescano e Ubertino da Casale lo definì vir Deo plenus, «uomo ripieno di Dio». Sapìa intende dire che l'uomo pregò per la sua anima, permettendole di accedere subito alle Cornici senza attendere nell'Antipurgatorio.
- I propinqui (v. 150) dai quali Dante è pregato di recarsi per restaurare la fama di Sapìa sono probabilmente i suoi concittadini, ma potrebbero anche essere i suoi parenti (la donna vuole che Dante dica che non è dannata).
- I vv. 151-154 alludono malignamente al porto di Talamone, sulla costa meridionale della Toscana, acquistato dai Senesi per 8.000 fiorini al fine di procurarsi uno sbocco sul mare e allestire una potente flotta; Siena profuse ingenti somme per risanare il luogo infestato dalla malaria, ricavandone però scarsi frutti. La Diana era un leggendario fiume sotterraneo che si diceva scorresse sotto Siena e che la città cercò di trovare spendendo forti somme. Gli ammiragli potrebbero essere i capitani delle navi della flotta senese, che non fu in realtà mai approntata, ma anche gli appaltatori navali che in quella flotta speravano; altri li interpretano come gli impresari dei lavori per la ricerca infruttuosa della Diana, ma è ipotesi meno probabile.

TESTO

Noi eravamo al sommo de la scala, 
dove secondamente si risega 
lo monte che salendo altrui dismala.                             3

Ivi così una cornice lega 
dintorno il poggio, come la primaia; 
se non che l’arco suo più tosto piega.                            6

Ombra non lì è né segno che si paia: 
parsi la ripa e parsi la via schietta 
col livido color de la petraia.                                              9

«Se qui per dimandar gente s’aspetta», 
ragionava il poeta, «io temo forse 
che troppo avrà d’indugio nostra eletta».                      12

Poi fisamente al sole li occhi porse; 
fece del destro lato a muover centro, 
e la sinistra parte di sé torse.                                          15

«O dolce lume a cui fidanza i’ entro 
per lo novo cammin, tu ne conduci», 
dicea, «come condur si vuol quinc’entro.                      18

Tu scaldi il mondo, tu sovr’esso luci; 
s’altra ragione in contrario non ponta, 
esser dien sempre li tuoi raggi duci».                           21

Quanto di qua per un migliaio si conta, 
tanto di là eravam noi già iti, 
con poco tempo, per la voglia pronta;                            24

e verso noi volar furon sentiti, 
non però visti, spiriti parlando 
a la mensa d’amor cortesi inviti.                                     27

La prima voce che passò volando 
Vinum non habent’ altamente disse, 
e dietro a noi l’andò reiterando.                                      30

E prima che del tutto non si udisse 
per allungarsi, un’altra ‘I’ sono Oreste’ 
passò gridando, e anco non s’affisse.                          33

«Oh!», diss’io, «padre, che voci son queste?». 
E com’io domandai, ecco la terza 
dicendo: ‘Amate da cui male aveste’.                            36

E ‘l buon maestro: «Questo cinghio sferza 
la colpa de la invidia, e però sono 
tratte d’amor le corde de la ferza.                                   39

Lo fren vuol esser del contrario suono; 
credo che l’udirai, per mio avviso, 
prima che giunghi al passo del perdono.                     42

Ma ficca li occhi per l’aere ben fiso, 
e vedrai gente innanzi a noi sedersi, 
e ciascuno è lungo la grotta assiso».                            45

Allora più che prima li occhi apersi; 
guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti 
al color de la pietra non diversi.                                      48

E poi che fummo un poco più avanti, 
udia gridar: ‘Maria, òra per noi’: 
gridar ‘Michele’ e ‘Pietro’, e ‘Tutti santi’.                        51

Non credo che per terra vada ancoi 
omo sì duro, che non fosse punto 
per compassion di quel ch’i’ vidi poi;                             54

ché, quando fui sì presso di lor giunto, 
che li atti loro a me venivan certi, 
per li occhi fui di grave dolor munto.                               57

Di vil ciliccio mi parean coperti, 
e l’un sofferia l’altro con la spalla, 
e tutti da la ripa eran sofferti.                                            60

Così li ciechi a cui la roba falla 
stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna, 
e l’uno il capo sopra l’altro avvalla,                                 63

perché ‘n altrui pietà tosto si pogna, 
non pur per lo sonar de le parole, 
ma per la vista che non meno agogna.                         66

E come a li orbi non approda il sole, 
così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora, 
luce del ciel di sé largir non vole;                                   69

ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra 
e cusce sì, come a sparvier selvaggio 
si fa però che queto non dimora.                                   72

A me pareva, andando, fare oltraggio, 
veggendo altrui, non essendo veduto: 
per ch’io mi volsi al mio consiglio saggio.                   75

Ben sapev’ei che volea dir lo muto; 
e però non attese mia dimanda, 
ma disse: «Parla, e sie breve e arguto».                      78

Virgilio mi venìa da quella banda 
de la cornice onde cader si puote, 
perché da nulla sponda s’inghirlanda;                          81

da l’altra parte m’eran le divote 
ombre, che per l’orribile costura 
premevan sì, che bagnavan le gote.                              84

Volsimi a loro e «O gente sicura», 
incominciai, «di veder l’alto lume 
che ‘l disio vostro solo ha in sua cura,                          87

se tosto grazia resolva le schiume 
di vostra coscienza sì che chiaro 
per essa scenda de la mente il fiume,                          90

ditemi, ché mi fia grazioso e caro, 
s’anima è qui tra voi che sia latina; 
e forse lei sarà buon s’i’ l’apparo».                               93

«O frate mio, ciascuna è cittadina 
d’una vera città; ma tu vuo’ dire 
che vivesse in Italia peregrina».                                      96

Questo mi parve per risposta udire 
più innanzi alquanto che là dov’io stava, 
ond’io mi feci ancor più là sentire.                                  99

Tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava 
in vista; e se volesse alcun dir ‘Come?’, 
lo mento a guisa d’orbo in sù levava.                           102

«Spirto», diss’io, «che per salir ti dome, 
se tu se’ quelli che mi rispondesti, 
fammiti conto o per luogo o per nome».                      105

«Io fui sanese», rispuose, «e con questi 
altri rimendo qui la vita ria, 
lagrimando a colui che sé ne presti.                            108

Savia non fui, avvegna che Sapìa 
fossi chiamata, e fui de li altrui danni 
più lieta assai che di ventura mia.                                 111

E perché tu non creda ch’io t’inganni, 
odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle, 
già discendendo l’arco d’i miei anni.                            114

Eran li cittadin miei presso a Colle 
in campo giunti co’ loro avversari, 
e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.                            117

Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari 
passi di fuga; e veggendo la caccia, 
letizia presi a tutte altre dispari,                                     120

tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia, 
gridando a Dio: "Omai più non ti temo!", 
come fé ‘l merlo per poca bonaccia.                             123

Pace volli con Dio in su lo stremo 
de la mia vita; e ancor non sarebbe 
lo mio dover per penitenza scemo,                               126

se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe 
Pier Pettinaio in sue sante orazioni, 
a cui di me per caritate increbbe.                                  129

Ma tu chi se’, che nostre condizioni 
vai dimandando, e porti li occhi sciolti, 
sì com’io credo, e spirando ragioni?».                        132

«Li occhi», diss’io, «mi fieno ancor qui tolti, 
ma picciol tempo, ché poca è l’offesa 
fatta per esser con invidia vòlti.                                     135

Troppa è più la paura ond’è sospesa 
l’anima mia del tormento di sotto, 
che già lo ‘ncarco di là giù mi pesa».                           138

Ed ella a me: «Chi t’ha dunque condotto 
qua sù tra noi, se giù ritornar credi?». 
E io: «Costui ch’è meco e non fa motto.                      141

E vivo sono; e però mi richiedi, 
spirito eletto, se tu vuo’ ch’i’ mova 
di là per te ancor li mortai piedi».                                  144

«Oh, questa è a udir sì cosa nuova», 
rispuose, «che gran segno è che Dio t’ami; 
però col priego tuo talor mi giova.                                  147

E cheggioti, per quel che tu più brami, 
se mai calchi la terra di Toscana, 
che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.                      150

Tu li vedrai tra quella gente vana 
che spera in Talamone, e perderagli 
più di speranza ch’a trovar la Diana; 

ma più vi perderanno li ammiragli».                             154

PARAFRASI

Noi eravamo in cima alla scala dove il monte, che, salendo, purifica dai peccati, è tagliato per la seconda volta.

Lì una Cornice circonda il monte come la prima, salvo che la sua circonferenza è minore.

Lì non c'è alcuna immagine, né alcuna scultura: la parete del monte e la strada sono lisce, del colore livido della pietra.

Virgilio rifletteva: «Se qui aspettiamo qualcuno per domandare, temo che forse la nostra scelta ci farà indugiare troppo».

Poi guardò con fissità il sole; fece perno sul piede destro e torse il lato sinistro del suo corpo.

Diceva: «O dolce lume, confidando nel quale io intraprendo il nuovo cammino, tu ci guidi come si deve fare in questo luogo.

Tu scaldi il mondo e lo illumini; se non c'è una ragione apertamente contraria, i tuoi raggi devono sempre essere guida».

Noi ci eravamo mossi di là tanto quanto corrisponde qui sulla Terra un miglio, in breve tempo per l'ardente desiderio;

ed ecco che sentimmo, senza vederli, degli spiriti che volavano e rivolgevano cortesi inviti alla mensa della carità.

La prima voce che passò volando, disse gridando: 'Non hanno vino', e l'andò ripetendo dietro di noi.

E prima che svanisse del tutto per la distanza, un'altra passò gridando: 'Io sono Oreste', e anche questa non si fermò.

Io dissi: «Oh! padre, che voci sono queste?» E non appena domandai, ecco la terza che diceva: 'Amate coloro che vi hanno fatto del male'.

E il buon maestro disse: «Questa Cornice punisce il peccato di invidia, e perciò le corde della sferza sono tratte dall'amore (gli esempi sono di carità.

Il freno sarà invece di segno contrario (saranno esempi di invidia punita); credo che li sentirai prima di giungere al passaggio del perdono (dov'è l'angelo).

Ma spingi lo sguardo con attenzione nell'aria e vedrai anime che si siedono davanti a noi, ciascuna appoggiata lungo la parete».

Allora aprii gli occhi più di prima; mi guardai di fronte e vidi delle anime che indossavano mantelli di colore simile alla pietra.

E quando fummo avanzati un poco, sentivo gridare: 'Maria, prega per noi': e poi 'Michele', 'Pietro' e 'Tutti i santi'.

Non credo che in Terra ci sia un uomo così crudele da non provare compassione per quello che poi vidi;

infatti, quando fui giunto vicino a quelle anime tanto da vedere bene i loro gesti, versai lacrime di dolore dai miei occhi.

Mi sembravano coperti di un vile cilicio, e l'uno sosteneva l'altro con la spalla, e tutti erano appoggiati alla parete del monte.

Così i ciechi, privi del sostentamento, stanno davanti alle chiese nei giorni di indulgenze a chiedere l'elemosina, e l'uno sostiene il capo dell'altro, per suscitare presto la pietà altrui, non solo col suono delle parole ma anche con la vista che provoca non minor compassione.

E come ai ciechi non arriva la luce del sole, così a quelle anime nella Cornice, di cui sto parlando, il cielo non vuole concedere la sua luce;

infatti un fil di ferro trapassa a tutti loro le ciglia e le cuce, proprio come si fa a uno sparviero selvaggio quando non è tranquillo.

A me sembrava, camminando, di commettere un oltraggio vedendo gli altri e non essendo visto: allora mi rivolsi al mio saggio consigliere.

Egli sapeva bene cosa volessi dire, anche se non parlavo; quindi non attese la mia domanda, ma disse: «Parla, e sii breve e conciso».

Virgilio era accanto a me, dal lato della Cornice dal quale si può cadere nel vuoto, perché non c'è nessun argine;

dall'altra parte stavano le devote anime, che facevano uscire le lacrime attraverso l'orribile cucitura, bagnando le guance.

Mi rivolsi a loro e iniziai: «O anime sicure di vedere l'alta luce (di Dio) che è il solo oggetto del vostro desiderio,

possa la grazia eliminare presto le schiume della vostra coscienza, così che il fiume della memoria scenda da essa con acque limpide;

ditemi, perché mi sarà molto gradito, se tra voi c'è un'anima che sia italiana; e forse le sarà utile se io lo apprendo».

«O fratello mio, ciascuna di noi è cittadina di una vera città (il Paradiso); ma tu vuoi dire che vivesse come straniera in Italia».

Questo mi sembrò di udire come risposta, un po' più avanti rispetto a dove mi trovavo, per cui mi feci sentire ancora più vicino.

Tra le altre ombre ne vidi una che aveva l'aria di aspettare; e se qualcuno volesse chiedere 'Come?', sappia che alzava il mento come fanno i ciechi.

Io dissi: «Spirito, che per salire il monte ti mortifichi, se tu sei quello che mi hai risposto, manifestati dicendo il luogo da dove vieni o il tuo nome».

Rispose: «Io fui senese, e purifico la mia vita peccaminosa con questi altri, piangendo verso colui (Dio) perché si presti a noi (concedendoci la luce).

Non fui saggia, benché fossi chiamata Sapìa, e fui molto più lieta delle sventure altrui che della mia fortuna.

E perché tu non creda che ti sto ingannando, senti se fui folle, come io ti dico, quando ormai ero nella fase finale della mia vita.

I miei concittadini erano giunti in battaglia coi loro nemici presso a Colle Val d'Elsa, e io pregavo Dio di ciò che poi volle.

Qui i Senesi furono sconfitti e costretti a un'amara fuga; e vedendo quella rotta, provai una gioia superiore a qualunque altra, tanto che volsi al cielo la faccia ardita, gridando a Dio: "Ormai non ti temo più!", come fece il merlo per un breve giorno di sole.

Chiesi perdono a Dio alla fine dei miei giorni; e il mio dovere di fare penitenza sarebbe ancora tutto intero, se non fosse per Pier Pettinaio che si ricordò di me nelle sue sante preghiere, e al quale rincrebbe di me per la sua carità.

Ma tu chi sei, che domandi della nostra condizione e hai gli occhi liberi, come io credo, e parli respirando?»

Io dissi: «Gli occhi mi saranno cuciti in questa Cornice, ma per poco tempo, poiché ho peccato lievemente volgendoli con invidia.

La mia anima ha molta più paura del tormento della Cornice sottostante, tanto che il carico del macigno di laggiù già pesa sulle mie spalle».

E lei a me: «Dunque chi ti ha guidato quassù tra noi, visto che credi di tornare sulla Terra?» E io: «Questi (Virgilio), che è con me e resta in silenzio.

E sono in vita; perciò, spirito eletto, chiedimi se vuoi che io, sulla Terra, muova per te i miei piedi mortali (vada da qualcuno per tuo conto)».

Rispose: «Oh, questa è una novità tale che è un segno dell'amore che Dio ha per te; perciò, talvolta, ricordami nelle tue preghiere.

E ti chiedo, in nome di ciò che tu desideri di più, se mai andrai in Toscana, che tu ripari la mia reputazione presso i miei congiunti.

Li troverai tra quel popolo vanesio, che spera in Talamone e vi perderà più soldi che nella speranza di trovare il fiume della Diana; ma a perderci di più saranno gli appaltatori».

ORESTE E PILADE
Oreste era il figlio di Agamennone, re di Micene, e di Clitennestra. La sorella Elettra, dopo l'assassinio del padre ad opera della sua stessa sposa e dell'amante di lei, Egisto, lo affidò, ancora bambino, allo zio Strofio, re della Focide, che lo allevò insieme a suo figlio Pilade, divenuto poi il compagno inseparabile di ogni impresa. Fattosi adulto, Oreste tornò a Micene con l'amico Pilade per vendicare la morte del padre, ma scoperta la congiura con la quale era riuscito a uccidere sia la madre Clitennestra che Egisto, venne condannato a morte a sua volta. Pilade allora, per salvare la vita dell'amico, assunse la sua identità, iniziando così una nobile gara, che divenne proverbiale come la loro amicizia. Oreste, perseguitato dalle Erinni materne, fu costretto a recarsi ad Atene per ottenere la purificazione dall'Areopago, grazie all'intercessione di Atena. Recatosi, poi, con Pilade in Tauride per portare ad Atena la statua di Artemide che era lì venerata, vi incontrò la sorella Ifigenia. Ella salvò i due amici dal sacrificio umano cui erano destinati gli stranieri e fece ritorno con loro in Grecia, dove Pilade sposò Elettra. Il mito greco è ricordato in Ovidio (Pont. III II 69) e in Valerio Massimo (IV 7), ma la fonte di Dante per l'episodio della nobile gara di solidarietà fra i due amici è Cicerone, che ricorda, nel "De Amicitia" (VII 24), come il teatro risonasse di applausi durante la rappresentazione di una tragedia di Pacuvio, ispirata a questo episodio del mito. Nel "De Finibus" (V XXII 63) di Cicerone è scritta la frase, "Ego sum Orestes", che in Dante costituisce l'esempio di carità gridato dalle voci nell'aria della seconda Cornice.

oreste
Oreste perseguitato dalle erinni materne

SAPIA SENESE
Appartenne alla famiglia senese dei Salvani (era zia di Provenzano, incluso da Dante fra i superbi della I Cornice del Purgatorio) e fu sposa di Ghinibaldo di Saracino, signore di Castiglioncello presso Monteriggioni (citato da Dante nella similitudine di Inf., XXXI, 41 relativa ai giganti). Non si conosce molto della sua vita, tranne che forse collaborò col marito per la fondazione dell'ospizio di S. Maria per i Pellegrini, lungo la Via Francigena (vi lasciò un legato nel testamento del 1274). Dante la colloca fra gli invidiosi: è Dante a rivolgersi alle anime, che non possono vederlo perché hanno gli occhi cuciti, pregando di dirgli se qualcuna tra esse è di origine italiana; Sapìa risponde dicendo che ognuna di loro è cittadina del Paradiso, mentre in Italia è stata solo di passaggio. Dante chiede alla penitente di presentarsi e questa dichiara di essere stata senese e di chiamarsi Sapìa, benché in vita non sia stata savia. Aggiunge che quando i suoi concittadini erano impegnati nella battaglia di Colle Vel d'Elsa contro i Guelfi fiorentini lei pregò Dio di farli sconfiggere, cosa che poi avvenne: fu lieta a tal punto della rotta dei senesi che ebbe l'ardire di rivolgersi a Dio dicendo di non temerlo più. Si pentì in punto di morte e sarebbe ancora nell'Antipurgatorio, se Pier Pettinaio non avesse pregato per la sua anima. Sapìa chiede poi a Dante chi sia, visto che ha intuito che lui è vivo e ha gli occhi aperti, e il poeta risponde che quando sarà in Purgatorio sosterà poco tempo in questa Cornice, avendo molto più timore del peccato di superbia che si sconta in quella sottostante. Sapìa gli chiede chi lo abbia condotto lì e Dante indica Virgilio, aggiungendo che, se la penitente vuole, lui potrà andare da qualcuno per suo conto in Terra. Sapìa gli chiede di restaurare la sua fama presso i concittadini senesi, che definisce come un popolo vano che spera nel porto di Talamone (i Senesi l'avevano acquistato a caro prezzo, per procurarsi uno sbocco sul mare) e non otterrà mai ciò che spera.

PIER PETTINAIO
Pietro da Campi, frate laico del Terz'Ordine Francescano (Campi, 1180 circa – Siena, 4 dicembre 1289), è stato un religioso, mercante e beato italiano. Famoso per la sua onestà e pietà, una volta morto (alla veneranda età di 109 anni), fu ritenuto santo e venerato dai Senesi, che nel 1328 istituirono una festa annuale in suo onore. L'Anonimo Fiorentino racconta: " Andava a Pisa a comperare pettini, e comperavagli a dozzina; poi che gli avea comperati, se ne venia con questi pettini in sul ponte vecchio di Pisa, e sceglieva i pettini, e se niuno ve n'avea che fosse fesso o non buono, elli il gettava in Arno. Fugli detto più volte:«Poiché il pettine sia fesso e non così buono, egli pur vale qualche denaro: vendilo per fesso!». Piero rispondea: «Io non voglio che niuna persona abbia da me mala mercatantia»".

 

AUDIO

Eugenio Caruso - 26 -11-2020



www.impresaoggi.com