Dante, Purgatorio, Canto XIV. Ancora gli invidiosi

INTRODUZIONE
Il Canto XIV chiude l'episodio dedicato agli invidiosi iniziato con il XIII e che prosegue senza alcuna introduzione con il dialogo di Guido del Duca e Rinieri da Calboli, stupiti della presenza in Purgatorio di un vivo di cui vorrebbero conoscere il nome e la provenienza: in realtà il vero protagonista del Canto è Guido, il nobile ravennate che nella prima parte dell'episodio condanna la degenerazione dei popoli di Valdarno, nella seconda critica il declino morale e il tramonto delle virtù cavalleresche della Romagna.
L'occasione per il primo discorso di Guido è offerta da Dante personaggio, che si presenta allusivamente come un viaggiatore venuto dalla valle dell'Arno, fiume che non viene nominato ma indicato con una perifrasi che contiene precise indicazioni geografiche (il poeta non rivela il proprio nome perché non ancora famoso, gesto che ad alcuni è sembrato un atto di umiltà che segue la confessione di superbia del Canto precedente). Guido giustifica la reticenza sul nome dell'Arno condannando come poco virtuosi i popoli che ne abitano la valle, anche da lui descritta con una complessa perifrasi che ne illustra i confini geografici e ricorda in parte l'excursus di Virgilio su Mantova di Inf., XX, 55 ss.: Casentinesi, Aretini, Fiorentini e Pisani sono paragonati ad animali come se avessero subìto una trasformazione da parte della maga Circe, ed è chiaro che ciascun animale rispecchia un difetto o un vizio di ognuno (i Casentinesi sono porci in quanto sudici, gli Aretini sono botoli perché bravi a parlare ma non altrettanto ad agire, i Fiorentini sono lupi per la loro cupidigia e avarizia, i Pisani sono volpi in quanto astuti e imbroglioni).
Il quadro è dominato dagli odi e dalle rivalità dei Comuni toscani al tempo di Dante, il quale attacca anche il governo dei Neri a Firenze attraverso la profezia sul nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli: durante la sua podesteria a Firenze nel 1303 eseguì in nome dei Guelfi Neri persecuzioni e vendette nei confronti dei Bianchi, diventando uno spietato cacciatore che sgomenta i lupi fiorentini sulle sponde del fero fiume; l'immagine è decisamente cupa e degna di una descrizione infernale, con Fulcieri che vende la carne dei Fiorentini ancor vivi, li uccide come antica belva, esce tutto sporco di sangue dalla città definita triste selva, ridotta in tale stato che ci vorranno mille anni perché torni allo stato originale (è l'ennesimo preannuncio dell'esilio sia pure in termini molto indiretti, nonché un duro attacco contro il declino politico e morale della Toscana del tempo e, in generale, dell'Italia intera che si ricollega all'invettiva del Canto VI).
Solo a questo punto Guido presenta se stesso e il compagno di pena, su preghiera di Dante che è rimasto colpito dalle parole del penitente e dall'aspetto corrucciato di Rinieri per ciò che ha udito del nipote: la presentazione dell'altro invidioso permette a Guido di iniziare un secondo discorso sulla decadenza morale della sua terra, la Romagna, un tempo dominata da signori in pieno possesso di quelle virtù cavalleresche che ora, invece, non esistono più. Dante rimpiange la scomparsa del mondo cavalleresco-feudale a vantaggio della civiltà comunale e mercantile, dominata dall'avarizia e dalla bramosia di denaro (lo stesso tema sarà affrontato da Marco Lombardo nel Canto XVI e, più ampiamente, nei Canti XV-XVI del Paradiso attraverso la rievocazione dell'antica Firenze da parte dell'avo Cacciaguida).
Guido del Duca esalta Rinieri come esempio delle virtù cortesi di un mondo scomparso, iniziando una lunga rassegna di nobili uomini del passato che illustravano la Romagna, attraverso la formula dell'ubi sunt...? che risale ai testi patristici: è la rievocazione di una società in cui si coltivavano le virtù cavalleresche della liberalità, della cortesia, del valore guerresco, dove le donne e' cavalier si dedicavano ad affanni e agi, ovvero ai doveri militari del rango nobiliare e ai signorili riposi cui erano spinti da amore e cortesia (sono gli elementi tipici del mondo cortese, al punto che Ludovico Ariosto riprenderà questi versi nel proemio dell'Orlando Furioso). Quella società ora non esiste più e gli eredi di quegli uomini nobili non dimostrano le stesse virtù, per cui fanno bene quelle famiglie che non hanno lasciato discendenti che sarebbero degeneri rispetto a quel glorioso passato; Guido interrompe bruscamente il discorso congedando Dante, poiché le sue stesse parole lo spingono a piangere per l'amarezza dei concetti espressi e per la constatazione del declino morale della sua terra, proprio come poco prima egli aveva aspramente condannato quello politico della Toscana (non a caso questo Canto è stato definito «tosco-romagnolo»).
Il Canto si chiude con gli esempi di invidia punita, ovvero quello di Caino uccisore del fratello e di Aglauro, tramutata in pietra perché invidiosa degli amori della sorella Erse per Mercurio; le ultime parole sono di Virgilio, che sottolinea la follia degli uomini che si lasciano attrarre dalle lusinghe del male anziché scegliere il bene offerto dal Cielo, per cui è ovvio che siano duramente puniti da chi tutto discerne, cioè da Dio. La condanna di Virgilio è rivolta contro la corruzione umana, collegandosi al discorso di Guido che aveva in fondo lo stesso significato e che sottolineava proprio come la gente umana desideri più spesso i beni materiali, ovvero quelli il cui possesso esclude la partecipazione altrui (al contrario di quelli celesti: e l'allusione di Guido darà modo a Virgilio di chiarirne il significato nel Canto seguente, preparando il terreno all'ampia descrizione della struttura morale del Purgatorio contenuta nel Canto XVII).

aglauro
Aglauro e le sorelle di Jasper van der Lanen

Il canto XIV rappresenta un passaggio importante nello sviluppo del tema politico, che Dante ha iniziato a costruire fin dal VI canto dell'Inferno e progressivamente ampliato e approfondito. Nel Purgatorio, il tema ha trovato una forte ripresa nel V canto, nel quale due dei tre personaggi morti violentemente sono stati vittime delle contrapposizioni politiche; il canto successivo, con l'apostrofe Ahi serva Italia, di dolore ostello estende lo sguardo alla condizione di tutta l'Italia, per convergere infine su Firenze. Anche nel canto XI, tra i superbi, risuonano accenni alle guerre intestine della Toscana. Il canto XIV, nella peculiare costruzione dialogica, tra personaggi che rivelano solo tardivamente il proprio nome, offre il massimo risalto alla durezza delle immagini e dei giudizi espressi prima sulla Toscana, identificata con le diverse zone percorse dall'Arno dalla sorgente alla foce, poi sulla Romagna, evocata attraverso una fitta serie di nomi di località e di famiglie nobili. Il quadro complessivo è di una decadenza che appare senza scampo: i cittadini toscani sono visti come bestie luride, violente, insidiose; i nobili romagnoli hanno come unica via d'uscita l'estinzione delle loro famiglie. Le parole pronunciate da Guido del Duca, nobile ravennate che aveva esercitato in Romagna la funzione di giudice, traggono spunto dalla perifrasi che usa Dante, invece di nominare l'Arno: come se - commenta Rinieri - fosse una di quelle cose orribili che è meglio tacere. Di fatto, questa è l'occasione che dà modo a Guido (e in realtà al poeta) di iniziare un monologo ampio (vv.29-66) e di linguaggio volu amente aspro. Dante non commenta, ma mette in rilievo il turbamento di Rinieri. Alla domanda di Dante di sapere chi siano, Guido presenta se stesso e Rinieri Paolucci di Calboli, in Romagna, che conquistò e dominò brevemente Forlì. Ora Dante può comprendere meglio chi sia il «nipote» di Rinieri (ossia Fulcieri) del quale Guido ha parlato ponendolo al centro di una profezia sull'immediato futuro di Firenze. Dopo una scena così intensa, dominata dal protagonista Guido, il canto si conclude in tono alto e severo con le parole di Virgilio, che richiama gli uomini al rispetto dei loro limiti e a tendere lo sguardo al cielo e alle sue «bellezze eterne», invece di lasciarsi imprigionare nelle bassezze terrene. Note e passi controversi
- Il Falterona (v. 17) è il monte dell'Appennino da cui nasce l'Arno, che in effetti all'inizio è poco più di un fiumicel.
- Il verbo accarno (v. 22) significa «penetro profondamente nella carne», detto solitamente di un'arma o dei denti; chi sta parlando usa una metafora animalesca e venatoria, che introduce le immagini della successiva descrizione dei popoli di Valdarno.
- I vv. 31-36 indicano il corso dell'Arno dalla sorgente alla foce: la sorgente è indicata come l'Appennino (l'alpestro monte) che è pregno, nel senso che è ricco d'acqua o forse massiccio, e che è stato separato dai monti Peloritani che ne sono la continuazione orografica in Sicilia (la definizione è geologicamente esatta); la foce è definita come il mare cui il fiume restituisce l'acqua che dal mare è evaporata e ha alimentato il fiume stesso attraverso pioggia e neve.
- Le galle (v. 43) sono le ghiande di cui sono ghiotti i maiali, cui sono paragonati i Casentinesi: può darsi che Dante si riferisca al castello di Porciano nell'alto Casentino, uno dei feudi dei conti Guidi.
- Gli Aretini (vv. 46-48) sono definiti botoli... ringhiosi, forse perché sullo stemma di Arezzo si leggeva a cane non magno saepe tenetur aper, cioè «spesso un cinghiale è preso da un piccolo cane».
- I pelaghi cupi del v. 52 sono i bacini profondi in cui l'Arno scorre nel suo corso inferiore, verso Pisa.
- Non è chiaro a chi si riferisca Guido dicendo altri al v. 55, potendo trattarsi di Dante oppure di Rinieri (più probabile la prima ipotesi).
- I vv. 86-87 indicano i beni materiali, il cui possesso esclude che possano essere condivisi con altri, come i beni spirituali. L'espressione di Guido, volutamente oscura, sarà spiegata a Dante da Virgilio nel Canto seguente.
- Il vero e il trastullo (v. 93) sono l'oggetto delle virtù cavalleresche, che devono portare a coltivare il bene e a concedersi piaceri signorili (li affanni e li agi citati al v.109: questo verso sarà imitato da Ariosto nel Proemio del Furioso, che inizia proprio dicendo Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori...).
- Nei vv. 97-111 Guido del Duca cita una serie di personaggi nobili della Romagna antica: Lizio di Valbona fu guelfo e aiutò Rinieri da Calboli contro i Ghibellini di Forlì; Arrigo Mainardi, di Bertinoro, fu amico di Guido; Pier Traversaro, di origini bizantine, fu signore di Ravenna nella prima metà del Duecento; Guido di Carpegna fu guelfo e si oppose a Federico II; Fabbro dei Lambertazzi fu capo dei Ghibellini bolognesi e combatté valorosamente contro Modena e Ravenna; Bernardino di Fosco, di umili origini, divenne uno dei principali cittadini di Faenza; Guido da Prata era un gentiluomo faentino; Ugolino d'Azzo appartenne alla nobile famiglia toscana degli Ubaldini che visse in Romagna (da qui la lezione vivette nosco) e fu parente dell'arcivescovo Ruggieri; Federigo Tignoso, forse di Rimini, era detto così per antifrasi avendo dei bellissimi capelli biondi e si circondava di una brigata di giovani noti per la loro liberalità; i Traversari e gli Anastagi erano nobili famiglie ravennati.
- Ai vv. 112 ss. sono citate alcune città le cui nobili famiglie erano note per la loro liberalità: Bertinoro era una cittadina tra Forlì e Cesena, i cui signori erano parenti di Guido; Bagnacavallo era dominata dai Malvicini; Castrocaro e Conio erano castelli posseduti da signori con titolo di conti; i Pagani erano i signori di Faenza e il demonio è Maghinardo da Susinana, con cui la stirpe ebbe fine; Ugolino dei Fantolini era un nobiliuomo di Cerfugnano, signore di parecchi castelli in territorio faentino e morto intorno al 1278.
- Il v. 133 cita le parole dette da Caino a Dio dopo l'uccisione di Abele (Gen., IV, 14: omnis igitur qui invenerit me, occidet me).
- I vv. 134-135 alludono alla credenza medievale per cui il tuono era il rumore prodotto dalla nube squarciata dal vapore igneo, ovvero il fulmine che vi si dilatava.
- Il camo citato da Virgilio (v. 143) è il freno che deve guidare l'uomo (è immagine biblica: Ps., XXI, 9).

invidiosi

TESTO

«Chi è costui che ‘l nostro monte cerchia 
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?».                    3

«Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo: 
domandal tu che più li t’avvicini, 
e dolcemente, sì che parli, acco’lo».                               6

Così due spirti, l’uno a l’altro chini, 
ragionavan di me ivi a man dritta; 
poi fer li visi, per dirmi, supini;                                          9

e disse l’uno: «O anima che fitta 
nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai, 
per carità ne consola e ne ditta                                     12

onde vieni e chi se’; ché tu ne fai 
tanto maravigliar de la tua grazia, 
quanto vuol cosa che non fu più mai».                          15

E io: «Per mezza Toscana si spazia 
un fiumicel che nasce in Falterona, 
e cento miglia di corso nol sazia.                                   18

Di sovr’esso rech’io questa persona: 
dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno, 
ché ‘l nome mio ancor molto non suona».                   21

«Se ben lo ‘ntendimento tuo accarno 
con lo ‘ntelletto», allora mi rispuose 
quei che diceva pria, «tu parli d’Arno».                          24

E l’altro disse lui: «Perché nascose 
questi il vocabol di quella riviera, 
pur com’om fa de l’orribili cose?».                                 27

E l’ombra che di ciò domandata era, 
si sdebitò così: «Non so; ma degno 
ben è che ‘l nome di tal valle pèra;                                 30

ché dal principio suo, ov’è sì pregno 
l’alpestro monte ond’è tronco Peloro, 
che ‘n pochi luoghi passa oltra quel segno,                33

infin là ‘ve si rende per ristoro 
di quel che ‘l ciel de la marina asciuga, 
ond’hanno i fiumi ciò che va con loro,                            36

vertù così per nimica si fuga 
da tutti come biscia, o per sventura 
del luogo, o per mal uso che li fruga:                             39

ond’hanno sì mutata lor natura 
li abitator de la misera valle, 
che par che Circe li avesse in pastura.                         42

Tra brutti porci, più degni di galle 
che d’altro cibo fatto in uman uso, 
dirizza prima il suo povero calle.                                     45

Botoli trova poi, venendo giuso, 
ringhiosi più che non chiede lor possa, 
e da lor disdegnosa torce il muso.                                 48

Vassi caggendo; e quant’ella più ‘ngrossa, 
tanto più trova di can farsi lupi 
la maladetta e sventurata fossa.                                     51

Discesa poi per più pelaghi cupi, 
trova le volpi sì piene di froda, 
che non temono ingegno che le occùpi.                       54

Né lascerò di dir perch’altri m’oda; 
e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta 
di ciò che vero spirto mi disnoda.                                   57

Io veggio tuo nepote che diventa 
cacciator di quei lupi in su la riva 
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.                                  60

Vende la carne loro essendo viva; 
poscia li ancide come antica belva; 
molti di vita e sé di pregio priva.                                      63

Sanguinoso esce de la trista selva; 
lasciala tal, che di qui a mille anni 
ne lo stato primaio non si rinselva».                              66

Com’a l’annunzio di dogliosi danni 
si turba il viso di colui ch’ascolta, 
da qual che parte il periglio l’assanni,                           69

così vid’io l’altr’anima, che volta 
stava a udir, turbarsi e farsi trista, 
poi ch’ebbe la parola a sì raccolta.                                 72

Lo dir de l’una e de l’altra la vista 
mi fer voglioso di saper lor nomi, 
e dimanda ne fei con prieghi mista;                               75

per che lo spirto che di pria parlòmi 
ricominciò: «Tu vuo’ ch’io mi deduca 
nel fare a te ciò che tu far non vuo’mi.                            78

Ma da che Dio in te vuol che traluca 
tanto sua grazia, non ti sarò scarso; 
però sappi ch’io fui Guido del Duca.                               81

Fu il sangue mio d’invidia sì riarso, 
che se veduto avesse uom farsi lieto, 
visto m’avresti di livore sparso.                                       84

Di mia semente cotal paglia mieto; 
o gente umana, perché poni ‘l core 
là ‘v’è mestier di consorte divieto?                                 87

Questi è Rinier; questi è ‘l pregio e l’onore 
de la casa da Calboli, ove nullo 
fatto s’è reda poi del suo valore.                                     90

E non pur lo suo sangue è fatto brullo, 
tra ‘l Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno, 
del ben richesto al vero e al trastullo;                            93

ché dentro a questi termini è ripieno 
di venenosi sterpi, sì che tardi 
per coltivare omai verrebber meno.                                96

Ov’è ‘l buon Lizio e Arrigo Mainardi? 
Pier Traversaro e Guido di Carpigna? 
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!                                 99

Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? 
quando in Faenza un Bernardin di Fosco, 
verga gentil di picciola gramigna?                                 102

Non ti maravigliar s’io piango, Tosco, 
quando rimembro con Guido da Prata, 
Ugolin d’Azzo che vivette nosco,                                    105

Federigo Tignoso e sua brigata, 
la casa Traversara e li Anastagi 
(e l’una gente e l’altra è diretata),                                  108

le donne e ‘ cavalier, li affanni e li agi 
che ne ‘nvogliava amore e cortesia 
là dove i cuor son fatti sì malvagi.                                  111

O Bretinoro, ché non fuggi via, 
poi che gita se n’è la tua famiglia 
e molta gente per non esser ria?                                  114

Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; 
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, 
che di figliar tai conti più s’impiglia.                              117

Ben faranno i Pagan, da che ‘l demonio 
lor sen girà; ma non però che puro 
già mai rimagna d’essi testimonio.                              120

O Ugolin de’ Fantolin, sicuro 
è il nome tuo, da che più non s’aspetta 
chi far lo possa, tralignando, scuro.                              123

Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta 
troppo di pianger più che di parlare, 
sì m’ha nostra ragion la mente stretta».                      126

Noi sapavam che quell’anime care 
ci sentivano andar; però, tacendo, 
facean noi del cammin confidare.                                 129

Poi fummo fatti soli procedendo, 
folgore parve quando l’aere fende, 
voce che giunse di contra dicendo:                               132

‘Anciderammi qualunque m’apprende’; 
e fuggì come tuon che si dilegua, 
se sùbito la nuvola scoscende.                                     135

Come da lei l’udir nostro ebbe triegua, 
ed ecco l’altra con sì gran fracasso, 
che somigliò tonar che tosto segua:                            138

«Io sono Aglauro che divenni sasso»; 
e allor, per ristrignermi al poeta, 
in destro feci e non innanzi il passo.                             141

Già era l’aura d’ogne parte queta; 
ed el mi disse: «Quel fu ‘l duro camo 
che dovria l’uom tener dentro a sua meta.                  144

Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo 
de l’antico avversaro a sé vi tira; 
e però poco val freno o richiamo.                                  147

Chiamavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira, 
mostrandovi le sue bellezze etterne, 
e l’occhio vostro pur a terra mira; 

onde vi batte chi tutto discerne».                                   151

PARAFRASI

Chi è costui che sale lungo il nostro monte prima di essere morto, e apre e chiude gli occhi a suo piacimento?»

«Non so chi sia, ma so che non è da solo: chiediglielo tu che gli sei più vicino, e acccoglilo cortesemente, così da indurlo a parlare».

Così due spiriti, chinati l'uno verso l'altro, parlavano di me alla mia destra; poi alzarono i volti, come per parlarmi;

e uno di loro disse: «O anima che te ne vai verso il cielo quando ancora sei dentro il corpo, in nome della carità consolaci e dicci da dove vieni e chi sei; infatti, con la grazia di cui sei oggetto ci fai stupire di una cosa che non è mai avvenuta».

E io: «Nella parte centrale della Toscana scorre un piccolo fiume che nasce dal Falterona, e il suo corso si estende per più di cento miglia.

Io vengo dalla sua valle: se vi dicessi il mio nome parlerei vanamente, perché esso non è ancora molto famoso».

Quello che parlava prima mi disse: «Se il mio intelletto comprende bene ciò che vuoi dire, tu parli del fiume Arno».

E l'altro chiese: «Perché ha omesso di pronunciare il nome di quel fiume, come si fa con le cose orribili?»

E l'anima cui fu domandato questo rispose così: «Non lo so, ma certo è giusto che il nome di quella valle scompaia;

infatti dalla sorgente di quel fiume, dove l'Appennino che è separato dal Peloro è tanto massiccio che in pochi altri punti lo è di più, fino alla foce dove restituisce al mare l'acqua che da esso evapora e alimenta il fiume attraverso piogge e nevi, tutti fuggono la virtù come una biscia, o per sfortuna del luogo o per una cattiva abitudine che li induce a questo:

per cui gli abitanti della misera valle hanno mutato la loro natura, tanto che sembra che Circe li abbia trasformati in bestie.

La valle dell'Arno indirizza dapprima il suo piccolo corso tra sudici porci, più degni di mangiare ghiande che altro cibo per gli uomini.

Poi, scorrendo verso il basso, trova botoli che ringhiano più di quanto la loro forza consenta, e devia il suo corso disdegnosa da essi.

La valle maledetta e sciagurata scende ancora più in basso e quanto più si allarga, tanto più trova cani divenuti dei lupi.

Discesa poi in bacini profondi, trova delle volpi così dedite alla frode che non temono alcuna astuzia che possa catturarle.

E non cesserò di parlare perché qualcuno mi ascolta; e sarà vantaggioso per costui (Dante), se si rammenterà la verace profezia che sto per fare.

Io vedo tuo nipote (Fulcieri) che diventa cacciatore di quei lupi sulle sponde del feroce fiume, e li terrorizza tutti.

Vende la loro carne quando sono ancora vivi; poi li uccide come un'antica belva; priva molti della vita e se stesso di onore.

Esce dalla triste selva tutto sporco di sangue; la lascia in tale stato, che ci vorranno più di mille anni perché torni alle condizioni iniziali».

Come all'annuncio di fatti dolorosi il viso di chi ascolta si turba, da qualunque parti lo assalga il pericolo, così io vidi l'altra anima, che ascoltava con attenzione, turbarsi e rattristarsi, dopo che ebbe sentito quelle parole.

Le parole dell'una e l'aspetto dell'altra mi resero desideroso di sapere i loro nomi, cosa che chiesi con preghiere;

allora lo spirito che prima mi aveva parlato ricominciò: «Tu vuoi che io mi induca a fare ciò che tu invece mi neghi.

Ma poiché Dio vuole che la sua grazia traspaia così tanto attraverso di te, non rifiuterò la tua domanda; sappi dunque che fui Guido del Duca.

Il mio sangue fu a tal punto roso dall'invidia, che se io avessi visto un uomo allietarsi mi avresti visto diventare livido.

Da quella semente raccolgo questa paglia (sconto la pena per i miei peccati); o gente umana, perché desideri quei beni il cui possesso esclude la condivisione?

Questi è Rinieri, questi è il pregio e l'onore della famiglia da Calboli, dove poi nessuno ha raccolto l'eredità del suo valore.

E tra il Po, le montagne, il mare Adriatico e il Reno (in Romagna) non è solo la sua stirpe ad aver abbandonato le virtù necessarie al vero e ai piaceri cortesi;

infatti entro questi limiti geografici è pieno di sterpi velenosi, al punto che sarebbe tardi estirparli per coltivare la terra.

Dove sono il buon Lizio e Arrigo Mainardi? E Pier Traversaro e Guido di Carpegna? Oh, Romagnoli imbastarditi!

Quando mai può rinascere a Bologna un Fabbro dei Lambertazzi? e a Faenza un Bernardino di Fosco, nobile rampollo di umili origini?

Non stupirti, Toscano, se io piango quando rammento Guido da Prata, Ugolino d'Azzo che visse insieme a noi,

Federigo Tignoso e la sua brigata, la famiglia dei Traversari e degli Anastagi (ed entrambe sono prive di eredi),

le dame e i cavalieri, le fatiche militari e i piaceri signorili che amore e cortesia ci inducevano a perseguire, mentre ora là i cuori sono malvagi.

O Bertinoro, perché non fuggi via ora che se ne è andata la tua casata insieme a molta gente, per non essere malvagia?

Fa bene Bagnacavallo a non lasciare eredi, mentre fa male Castrocaro e peggio ancora Conio, che continuano a generare conti così sciagurati.

Faranno bene i Pagani, dopo che il loro demonio (Maghinardo) se ne andrà; ma non al punto che il ricordo di lui non si conservi.

O Ugolino dei Fantolini, il tuo nome è sicuro dal momento che, non avendo eredi degeneri, non teme di diventare oscuro.

Ma ora va' via, Toscano, perché ho troppa voglia di piangere anziché di parlare, a tal punto nostro discorso mi ha afflitto».

Noi sapevamo che quelle anime fortunate ci sentivano andar via; perciò, tacendo, ci facevano confidare nel nostro cammino.

Dopo che, procedendo, rimanemmo soli, ci venne incontro una voce che sembrò il fulmine quando fende l'aria, dicendo: 'Chiunque mi incontrerà, mi ucciderà'; e se ne andò come il tuono che svanisce, se squarcia subito la nube.

Non appena non la sentimmo più, ecco un'altra voce che fece un gran fracasso, come un tuono che ne segue un altro; disse: «Io sono Aglauro che divenni sasso»; allora, per accostarmi a Virgilio, procedetti verso destra e non di fronte.

L'aria era tornata silenziosa; ed egli mi disse: «Quello fu il duro freno che dovrebbe tenere l'uomo entro i suoi limiti.

Ma voi abboccate all'esca, così che l'amo del demonio vi attira a sé; e dunque servono a poco il freno o il richiamo.

Il Cielo vi chiama e vi gira attorno, mostrandovi le sue eterne attrattive, e il vostro sguardo è sempre rivolto a terra: per questo chi vede tutto (Dio) vi castiga».

GUIDO DEL DUCA
Nobile ravennate della famiglia degli Onesti, signori di Bertinoro, imparentato coi Traversari e i Mainardi, di parte ghibellina; fu per lunghi anni giudice in varie città della Romagna, tra cui Imola, Faenza, Rimini e nella stessa Bertinoro dove visse a lungo. L'ultimo documento che lo cita è del 1249. Dante lo include fra gli invidiosi, facendone il protagonista (insieme a Rinieri da Calboli) del Canto XIV ; non sappiamo perché gli attribuisca questo peccato. I due penitenti si accorgono che Dante è vivo e non ha gli occhi cuciti, per cui uno di loro gli chiede di dire il proprio nome e il luogo da cui proviene. Dante risponde di provenire dalla valle dell'Arno usando una perifrasi, rifiutando di dire il proprio nome in quanto non è ancora abbastanza noto e sarebbe inutile. Rinieri si domanda perché il poeta abbia omesso di pronunciare il nome dell'Arno e Guido risponde di non saperlo, anche se è giusto che il nome di quella valle sparisca: infatti l'Arno scorre fra terre abitate da popoli che rifuggono ogni virtù, dai Casentinesi (paragonati a porci), agli Aretini (botoli ringhiosi), ai Fiorentini (lupi famelici), fino ai Pisani (volpi dediti alla frode). Guido profetizza a Dante che il nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli, si metterà in caccia dei lupi di Firenze e ne farà strage, uscendo coperto di sangue da quella trista selva che non sarà ripopolata prima di mille anni (Guido allude al fatto che Fulcieri sarà podestà a Firenze nel 1303, diventando lo strumento dei Guelfi Neri nella persecuzione dei Bianchi). Le parole di Guido fanno turbare Rinieri, per cui Dante prega i due di presentarsi. Guido osserva che il poeta chiede loro di fare ciò che lui rifiuta, ma il privilegio concessogli dalla grazia è tale che non può celare la sua identità e si presenta come Guido del Duca, che in vita fu pieno di invidia. Presenta il suo compagno come Rinieri da Calboli e lo definisce pregio e onore della sua casata, cosa che non può dirsi dei suoi discendenti. Ciò vale anche per altre famiglie nobili della Romagna, che conosce una grave decadenza dei costumi cavallereschi: Guido inizia una lunga rassegna di antichi cavalieri romagnoli, ormai scomparsi e i cui eredi non dimostrano certo lo stesso valore. Ben fanno quelle casate che evitano di lasciare figli, mentre fanno male quelle che lasciano molti eredi; alla fine il penitente prega Dante di andarsene, poiché questi discorsi gli hanno fatto venire la voglia di piangere.

RINIERI DA CALBOLI
Appartenne alla nobile famiglia guelfa dei Paolucci, signori di Calboli, e fu nativo di Forlì. Fu coinvolto nelle lotte che lacerarono la Romagna nella seconda metà del sec. XIII, ricoprendo la carica di podestà a Faenza nel 1247, a Parma nel 1252 e a Ravenna nel 1265. Nella guerra del 1276 si ribellò, aiutato da Fiorentini e Bolognesi, al Comune di Forlì, ma fu sconfitto da Guido da Montefeltro. Dopo l'integrazione della Romagna nello Stato della Chiesa, cercò di riguadagnare prestigio presso i Guelfi e nel 1291 fu insieme a Malatesta da Verrucchio tra i garanti dell'accordo con il rettore pontificio della Romagna. L'anno successivo, però, riuscì a impadronirsi con un colpo di mano di Forlì, scacciandone il rettore; espulso nuovamente dalla sua città nel 1294, vi rientrò nel 1296 ma senza insediarsi stabilmente. Il castello di Calboli venne assediato dai Forlivesi ghibellini, guidati da Scarpetta Ordelaffi, ed egli morì in quello stesso anno nel tentativo di riprendere la città. Dante lo include fra gli invidiosi, facendone il protagonista (insieme a Guido del Duca) del Canto XIV. Nell'episodio resta per lo più in silenzio, limitandosi a chiedere a Guido perché Dante abbia omesso di nominare l'Arno dalla cui valle proviene, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. Guido spiega che la valle dell'Arno ospita popoli privi di virtù, profetizzando l'azione di Fulcieri da Calboli, nipote di Rinieri, come podestà a Firenze nel 1303, occasione nella quale perseguiterà molti Guelfi bianchi e ne farà strage. Le parole di Guido provocano il suo turbamento, cosa che spinge Dante a chiedere il nome dei due penitenti e solo allora Guido presenterà Rinieri come il pregio e l'onore della propria casata, cosa che non può dirsi dei suoi discendenti. Guido prosegue deplorando la decadenza morale e dei costumi cavallereschi propri della Romagna.

AGLAURO
Aglauro (in greco antico: Áglauros) o Agraulo (in greco antico: Ágraulos) è un personaggio della mitologia greca, figlia di Cecrope e Aglauro (omonima, figlia di Atteo) . Ha avuto due figlie con due dei diversi, Alcippe (con Ares) e Cerice (con Ermes) e ci sono numerose versioni del suo mito. Secondo la Biblioteca, Efesto tentò di possedere Atena, ma fallì così il suo seme cadde sulla terra, fecondando Gea che, partorito il bambino Erittonio non lo volle tenere così lo diede alla dea Atena. Atena chiuse il bambino in un cesto e lo diede a tre donne (Aglauro e le sue due sorelle Erse e Pandroso) avvertendole di non aprirla mai. Aglauro ed Erse aprirono la cesta. La visione del bambino (che aveva una coda di serpente al posto della gambe) fece diventare entrambe pazze e si lanciarono giù dall'Acropoli, oppure secondo Igino, nel mare. Un'altra versione del mito è questa, mentre Atena era andata a prendere una montagna di calcare dalla Penisola Calcidica per usarla nell'Acropoli, le sorelle, ancora senza Pandroso, aprirono la scatola. Un corvo, assistendo all'apertura, volò via per dirlo ad Atena, che si infuriò e lasciò cadere la montagna (ora Licabetto). Ancora una volta, Erse e Agraulo impazzirono e si lanciarono da una scogliera. Un altro mito rappresenta Agraulo in una luce differente. Atene fu coinvolta in una lunga guerra, e un oracolo dichiarò che sarebbe cessata se qualcuno si fosse sacrificato per il bene della sua patria. Agraulo si fece avanti e si butto giù dall'Acropoli. Gli ateniesi, essendole grati per questo, le costruirono un tempio nell'Acropoli, nel quale è successivamente diventato usuale per i giovani ateniesi ricevere il loro primo vestito dell'armatura, per fare un giuramento: avrebbero difeso sempre la loro patria fino alla fine.. Secondo Ovidio, Ermes si innamorò di Erse ma sua sorella gelosa, che lui chiama Agraulo, si mise tra di loro, sbarrando l'entrata di Ermes alla casa e si rifiutò di muoversi. Ermes si arrabbiò per la sua presunzione e la trasformò in una pietra.

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Eugenio Caruso - 03-12-2020



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