Ovidio, Metamorfosi, Libro 6. I miti di Latona, Niobe, Aracne....

INTRODUZIONE Le metamorfosi (Metamorphoseon libri XV) è un poema epico-mitologico di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. - 17 d.C.) incentrato sul fenomeno della metamorfosi. Attraverso quest'opera, ultimata poco prima dell'esilio dell'8 d.C., Ovidio ha reso celebri e trasmesso ai posteri numerosissime storie e racconti mitologici della classicità greca e romana. Giova anche notare che, dall'antichità classsica, ai girni nostri i massimi artisti si sono cimentati, con dipinti e sculture, nel raccontare e farci godere con grande intensità i racconti della mitologia tramandatici da Ovidio.
LIBRO SESTO
La dea del Tritone aveva seguito con attenzione il racconto delle Muse, elogiando il canto e giustificandone l'ira. Ma poi, tra sé: "Lodare va bene, ma anch'io voglio essere lodata, non lascerò che si disprezzi la mia divinità impunemente!". E s'impegnò a perdere Aracne di Meonia, che (l'aveva udito) non voleva riconoscerle il primato nell'arte di tessere la lana. Non per ceto o stirpe lei era famosa, ma per maestria d'arte. Suo padre, Idmone Colofonio, tingeva imbevendola con porpora di Focea la lana; morta era invece la madre, una popolana come il marito. Ma Aracne, malgrado fosse nata da famiglia umile e nell'umile Ipepe abitasse, con la sua maestria s'era fatta un gran nome nelle città della Lidia.
Per ammirare la meraviglia dei suoi lavori, avvenne che le ninfe del Timolo lasciassero i loro vigneti e che quelle del Pactolo lasciassero le loro acque. E non solo era un piacere ammirare i tessuti finiti, ma la loro creazione, tanta era la grazia del suo lavoro. Sia che iniziasse a raccogliere la lana grezza in matasse o, filandola con le dita, un dopo l'altro ne ammorbidisse con largo gesto i bioccoli simili a nuvolette, sia che ruotasse il fuso levigato con lievi tocchi del pollice o con l'ago ricamasse, era chiaro che l'ammaestrava Pallade.
Ma lei lo negava e indispettita dal carisma della maestra: "Che gareggi con me!" diceva. "Se vince, starò alla sua mercé". Vecchia si finge Pallade, di falsa canizie spruzza le tempie e in più si sostiene a un bastone come se avesse le membra inferme. Poi prende a parlare: "Non tutto è male da evitare in tarda età: più s'invecchia e più cresce l'esperienza. Ascolta il mio consiglio: aspira pure ad essere la migliore fra i mortali nel tessere la lana, ma inchinati a una dea, e di ciò che con arroganza hai detto chiedi in ginocchio venia: se l'invochi, non ti negherà il perdono".
Con sguardo torvo Aracne sospende la tessitura e trattenendo a stento le sue mani, il volto acceso d'ira, senza riconoscerla replica a Pallade in questi termini: "Una demente, ecco quello che sei, rimbambita dalla vecchiaia: vivere troppo a lungo nuoce, eccome! Queste chiacchiere propinale a tua nuora o a tua figlia, se per caso ne hai una! Io so cavarmela benissimo da sola e perché tu non creda d'aver frutto coi tuoi moniti, sappi che la penso come prima. Perché non viene qui? Perché non accetta la sfida?".

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Pallade e Aracne di Luca Giordano

E allora la dea: "È venuta!", dice; lascia l'aspetto di vecchia e si mostra come Pallade. Di fronte alla dea si prostrano le ninfe e le giovani di Lidia: soltanto lei non si sgomenta, ma sussulta, questo sì, e suo malgrado un rossore improvviso le accende il volto per subito dopo dileguarsi, così come ai primi cenni dell'aurora il cielo s'imporpora e in breve tempo, quando sorge il sole, poi si sbianca. Si ostina nel suo proposito e per insensata brama di gloria corre alla sua rovina: la figlia di Giove infatti non rifiuta, non l'ammonisce più, più non rinvia la gara. Senza indugio si sistemano ognuna dalla propria parte e col filo sottile tendono entrambe un ordito.
L'ordito è avvinto al subbio, il pettine separa i fili, con l'aiuto delle dita la spola affusolata inserisce la trama che, passata attraverso i fili, è compressa con un colpo dai denti intagliati nel pettine. Lavorano entrambe di lena e, fermata la veste intorno al petto, muovono esperte le braccia con tant'arte da non sentir fatica. Impiegano, per tessere, la porpora tinta nei bronzi di Tiro e colori a sfumature così tenui da distinguerle appena, come l'arcobaleno che dipinge, quando la pioggia rinfrange il sole, con una grande parabola un lungo tratto di cielo, ma non permette a chi guarda, benché risplenda di mille colori diversi, d'individuare il passaggio dall'uno all'altro, tanto i contigui s'assomigliano pur differendo ai margini. Filamenti d'oro sono intessuti nell'ordito e sulla tela prendono forma storie remote.
Pallade effigia il colle di Marte nella cittadella di Cècrope e l'antica contesa sul nome da dare alla contrada. Dodici numi, e Giove in mezzo, siedono con aria grave e maestosa su scanni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto la propria identità; l'aspetto di Giove è quello di un re. Poi disegna il dio del mare, mentre colpisce col lungo tridente il macigno di roccia e da questo squarciato fa balzare un cavallo indomito, perché la città gli venga aggiudicata. A sé stessa assegna uno scudo, un'asta dalla punta acuminata, un elmo e l'egida per proteggere il capo e il petto; e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia genera l'argentea pianta dell'ulivo con le sue bacche; e gli dei che guardano stupefatti; infine la propria vittoria. Ma perché la rivale comprenda da qualche esempio cosa dovrà aspettarsi per quella sua folle audacia, aggiunge ai quattro angoli altrettante sfide, vivaci nei colori, ma nitide nei tratti minuti. In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo esseri mortali, che avevano usurpato il nome degli dei maggiori. Dall'altra parte la sorte pietosa della madre dei Pigmei: avendola vinta in una gara, Giunone impose che diventasse una gru e s'azzuffasse col suo popolo. Poi effigia Antigone, che una volta osò competere con la consorte del grande Giove e che dalla regale Giunone fu mutata in uccello: né Ilio né il padre Laomedonte poterono impedire che, spuntatele le penne, come candida cicogna applaudisse sé stessa battendo il becco. Nell'angolo che rimane Cìnira, perdute le figlie, abbraccia i gradini di un tempio, già carne della sua carne, e, accasciato sulla pietra, si staglia in lacrime. Contorna tutti i margini con rami d'ulivo, emblema di pace, e con la pianta che le è sacra conclude l'opera sua.
Aracne invece disegna Europa ingannata dal fantasma di un toro, e diresti che è vero il toro, vero il mare; la si vede che alle spalle guarda la terra e invoca le compagne, e come, per paura d'essere lambita dai flutti che l'assalgono, ritragga timorosa le sue gambe. E raffigura Asterie che ghermita da un'aquila si dibatte, raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina; e vi aggiunge Giove che sotto le spoglie di un satiro ingravida di due gemelli l'avvenente figlia di Nicteo; che per averti, Alcmena di Tirinto, si muta in Anfitrione; che trasformato in oro inganna Dànae, in fuoco la figlia di Asopo, in pastore Mnemòsine, in serpe screziato la figlia di Cerere. Effigia anche te, Nettuno, mentre in aspetto di torvo giovenco penetri la vergine figlia di Eolo, mentre come Enìpeo generi gli Aloìdi, e inganni come ariete la figlia di Bisalte; te, che la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma conobbe destriero, che la madre con serpi per capelli del cavallo alato conobbe uccello e Melanto delfino. Ognuno di questi personaggi è reso a perfezione e così l'ambiente. E c'è pure Febo in veste di contadino, e le volte che assunse penne di sparviero o pelle di leone, e che in panni di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo. C'è come Libero sedusse Erìgone trasformandosi in uva, come Saturno in cavallo generò il biforme Chirone. Lungo l'estremità della tela corre un bordo sottile con fiori intrecciati a viticci d'edera.
Neppure Pallade o Invidia avrebbero potuto denigrare quell'opera. Ma la bionda dea guerriera si dolse del successo, fece a brandelli la tela che illustrava i misfatti degli dei e, con in mano la spola fatta col legno del monte Citoro, più volte in fronte colpì Aracne, figlia di Idmone. La sventurata non lo resse e fuor di senno corse a cingersi il collo in un cappio: vedendola pendere n'ebbe pietà Pallade e la sorresse dicendo: "Vivi, vivi, ma appesa come sei, sfrontata, e perché tu non abbia miglior futuro, la stessa pena sarà comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti". Poi, prima d'andarsene, l'asperge col succo d'erbe infernali, e al contatto di quel malefico filtro in un lampo le cadono i capelli e con questi il naso e le orecchie; la testa si fa minuta e così tutto il corpo s'impicciolisce; zampe sottili in luogo delle gambe spuntano dai fianchi; il resto è ventre: ma da questo Aracne emette un filo e ora, come ragno, torna a tessere la sua tela.
Tutta la Lidia è in fermento, nelle città di Frigia si diffonde l'eco della vicenda e in ogni luogo non si parla d'altro. Prima di sposarsi, quando giovinetta abitava sul Sìpilo in Meonia, Nìobe aveva conosciuto Aracne; tuttavia la punizione della sua conterranea non l'indusse a sottomettersi agli dei e a usare un linguaggio più misurato. Molte cose l'insuperbivano, ma non si compiaceva tanto dell'ingegno del marito, del lignaggio d'entrambi o dei domini del loro grande regno (sebbene di tutto ciò si compiacesse), quanto della sua prole; e si sarebbe potuta dire la madre più felice del mondo, se tale non si fosse considerata. Allora l'indovina Manto, figlia di Tiresia, infervorata da un impulso divino, andava ammonendo lungo le strade: "Donne tebane, accorrete tutte a offrire con preghiere devote incenso a Latona e ai suoi due figli, e cingetevi d'alloro i capelli. Per bocca mia l'ordina Latona!". Ossequenti tutte le tebane ornano le proprie tempie con le fronde prescritte e offrono incenso alle fiamme sacre recitando preghiere.

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Niobe assiste alla morte dei figli di Abraham Bloemaert

Ma ecco avanzarsi Nìobe con il folto séguito delle compagne, splendidamente vestita con stoffe di Frigia trapunte d'oro, e, per quanto lo consente l'ira, bella. Al movimento elegante della sua testa ondeggiano i capelli sparsi sulle spalle. Si ferma e, volgendo intorno lo sguardo sdegnoso, impettita: "Che follia è mai anteporre dèi solo supposti", dice, "a quelli che vedete? Perché mai si onora Latona sugli altari e non si degna d'incenso il mio nume? Figlia di Tantalo sono, l'unico a cui fu concesso di sedere alla mensa degli dei. Sorella delle Pleiadi è mia madre; il grandissimo Atlante, che regge sul collo la volta celeste, è mio nonno; Giove l'altro mio nonno, che in più mi glorio d'avere come suocero. Temuta sono dalle genti di Frigia e signora della reggia di Cadmo; le mura sorte al suono della cetra di mio marito sono rette, con chi vi vive dentro, da me e dal mio uomo. In qualunque parte della casa io volga gli occhi, si ammirano immense ricchezze; a ciò si aggiunga la bellezza mia, degna veramente di una dea, e in più sette figlie, altrettanti maschi e presto generi e nuore. Chiedetevi ora se il mio orgoglio non abbia ragione d'essere, e non permettetevi di preferirmi Latona, nata da Ceo, un Titano qualunque, Latona, a cui per sgravarsi la terra pur vastissima negò a quel tempo il più piccolo luogo. Né in cielo né in terra né in mare fu accolta la vostra dea; bandita dal mondo, se ne andava errabonda, finché impietositasi Delo le disse: "Straniera tu vaghi sulla terra, io sul mare", e le offrì un malfermo approdo. Così divenne madre di due figli: un settimo di quelli che ho partorito io! Sono felice: chi mai potrebbe negarlo? e sempre lo sarò: anche di ciò chi può dubitarne? L'abbondanza mi rassicura. Troppo grande sono perché la Fortuna mi possa nuocere: anche se molto mi togliesse, molto di più dovrebbe lasciarmi. La mia prosperità allontana i timori. Mettiamo pure che da questa folla di figli me ne venga sottratto qualcuno: per quanto spogliata, mai sarò ridotta ad averne solo due, come Latona. Che differenza c'è fra lei e chi non ha figli? Via, andatevene da questa cerimonia, e toglietevi il lauro dai capelli!". Se lo tolgono e lasciano incompiuto il rito: altro non possono fare che venerare Latona in segreto.
Indignata, la dea, sulla vetta del Cinto, con questi accenti si rivolse ai suoi due figli: "Ecco che io, vostra madre, fiera di avervi generato, io che a nessuna dea, tranne Giunone, cederei la palma, vedo messa in dubbio la mia divinità: nei secoli sarò esclusa dal culto, se voi, figli miei, non m'aiutate! E non è questo solo il mio dolore: la figlia di Tantalo al sacrilegio ha aggiunto le ingiurie, ha osato posporre voi ai figli suoi e, usando la stessa lingua perfida di suo padre, ha affermato (e su di lei si ritorca) che è come se non ne avessi!". A questo sfogo era Latona sul punto di aggiungere preghiere:
"Basta!", disse Febo, "ritardano solo la pena i tuoi lamenti!". Lo stesso disse Diana, e solcando in un lampo il cielo, raggiunsero, nascosti dalle nubi, la rocca di Cadmo. C'era, sotto le mura, una pianura vasta e aperta, battuta senza fine dai cavalli: il turbinare delle ruote e l'inclemenza degli zoccoli ne avevano sconvolto il suolo. È qui che alcuni dei sette figli di Anfione montano i loro intrepidi cavalli, premendo groppe ammantate di porpora e reggendo redini tempestate di borchie d'oro. Uno di loro, Ismeno, ch'era stato a suo tempo il primo fardello della madre, mentre costringe in un cerchio perfetto la corsa del cavallo, domandone la bocca schiumante, "Ahimè!" grida, e porta ficcata in mezzo al petto una freccia; dalla mano morente lascia cadere le briglie e adagio scivola sul fianco dalla spalla destra del cavallo. Vicino a lui, sentendo nell'aria il tintinnare d'una faretra, Sìpilo si lancia a briglia sciolta, come un nocchiero che alla vista di un nembo, presagendo la pioggia, fugge a vele spiegate, perché in teli afflosciati non si perda il minimo soffio di vento. A briglia sciolta si lancia, ma inesorabile una freccia l'insegue e si pianta vibrando nella nuca uscendogli col ferro nudo dalla gola. Tutto curvo in avanti com'è, rotola sulla criniera e giù lungo le zampe in corsa, bagnando del suo sangue ardente la terra. Lo sventurato Fèdimo e Tantalo, che dal nonno aveva ereditato il nome, finita la loro cavalcata, erano passati, lucidi d'olio, agli esercizi giovanili di palestra, e avvinghiati uno all'altro, petto contro petto, lottavano fra loro: una freccia scocca dall'arco teso e, uniti così come sono, li trapassa entrambi. Insieme lanciano un gemito, insieme si accasciano al suolo contratti dal dolore, insieme volgono supini l'ultimo sguardo al cielo, insieme esalano l'anima loro. Li vede Alfènore che, battendosi per lo strazio il petto, accorre a sollevare fra le braccia i loro corpi gelidi e in quell'atto pietoso stramazza: il dio di Delo gli aveva squarciato il petto sino al cuore con un ferro micidiale, e quando lui se lo strappa, con l'amo estrae brandelli di polmone, e il sangue con la vita si disperde nel vento. A Damasìctone, che ha lunghi capelli, non viene invece inferta un'unica ferita: colpito in cima alla gamba, dove i tendini del garretto formano una giuntura elastica, lui tenta di sfilare con la mano la freccia letale, ma un'altra gli trafigge la gola penetrando sino alla cocca. Il sangue poi l'espelle e zampillando verso l'alto sgorga a fiotti, schizza lontano crivellando l'aria. Leva inutilmente le braccia in atto di preghiera Ilioneo, l'ultimo fra loro: "O dei," dice, "tutti quanti voi siete", ignorando che non tutti sono da supplicare, "pietà!". L'arciere divino ne fu commosso, ma la freccia ormai non può tornare indietro. A ucciderlo però è una ferita irrisoria: la freccia gli scalfisce appena il cuore.
La voce della disgrazia, il dolore di tutti e il pianto dei suoi non lasciano dubbi alla madre sull'abbattersi della sciagura: come avessero i celesti potuto e osato tanto, si chiedeva sbigottita nel suo sdegno, come ne avessero l'autorità. Dal canto suo Anfione, il padre, s'immerse nel petto una lama, ponendo fine ai suoi giorni e al suo strazio. Ahimè, com'era diversa questa Nìobe, che ora muove a pietà persino i nemici, da quella che un attimo fa scacciava la gente dagli altari di Latona e incedeva impettita per le strade della città invidiata dai suoi! Sui corpi gelidi si accascia e a caso, come capita, dispensa a tutti i suoi figli gli ultimi baci. Poi, levando al cielo le braccia illividite: "Rallégrati", dice, "e sazia il tuo petto col mio lutto! Rallégrati, avanti, crudele Latona, del mio dolore, sazia il tuo cuore di belva! Da sette funerali sono sepolta. Esulta, nemica mia, trionfa per la vittoria! Ma quale vittoria? Resta sempre più a me nella sciagura mia, che a te nella tua esultanza: anche dopo tante morti ti supero!".
Questo aveva detto, che si sentì vibrare la corda di un arco: tutti ne furono atterriti, tutti, ma non Nìobe. La sventura la rendeva spavalda. Vegliavano le sorelle, vestite di nero, a chiome sciolte, le spoglie dei loro fratelli. Nell'atto di estrarre una freccia conficcatasi nelle sue viscere, una si afflosciò moribonda col viso sul corpo di un fratello; un'altra, che cercava di consolare la madre disperata, d'un tratto ammutolì, piegandosi in due per un'occulta ferita: serrò le labbra, ma l'anima ormai se n'era già fuggita. Questa stramazza mentre tenta di fuggire, quella spira sulla sorella; questa si nasconde, quella corre sbigottita. Sei erano morte di ferite diverse; restava l'ultima: facendole scudo col corpo e con la veste, gridò la madre: "Questa, la più piccola, lasciami questa sola! Di tante non ti chiedo che la più piccola, questa sola!".
E mentre implora, lei per cui implora è uccisa. Senza più nessuno, si accascia tra i cadaveri dei figli, delle figlie, del marito, impietrendosi per il dolore: il vento non le muove un capello, sul volto ha un pallore mortale, nelle sue orbite spente gli occhi sono sbarrati; nulla di vivo c'è nei suoi tratti. Persino la lingua, persino quella, nel palato irrigidito si congela, e le vene perdono la forza di pulsare; il collo non può più piegarsi, le braccia compiere movimenti, i piedi camminare; anche dentro le viscere non v'è che pietra. Eppure piange; e travolta dal turbinare impetuoso del vento è trascinata in patria. Lì, confitta in cima a un monte, si strugge e ancor oggi dal marmo trasudano lacrime. E d'allora tutti, uomini e donne, temono il manifestarsi dell'ira divina e con maggior zelo tutti tributano onori al tremendo potere della dea madre di due gemelli; e come accade, dal fatto recente risalgono ai precedenti.
"Anche nelle terre della fertile Licia", dice uno, "avvenne un tempo che i contadini a loro rischio spregiassero la dea. La cosa è poco nota, è vero, per la modestia dei personaggi, eppure sorprendente. Coi miei occhi ho visto la palude e il luogo famosi per il prodigio. Mio padre, troppo vecchio ormai per affrontare il viaggio, mi aveva ordinato di portargli dalla Licia dei buoi di razza e m'aveva dato per guida un uomo di quella regione. Mentre con lui perlustravo i pascoli, ecco balzarmi agli occhi in mezzo a un lago un vecchio altare annerito dal fuoco dei riti e cinto da un fluttuare di giunchi. La mia guida si fermò bisbigliando con timore: "Proteggimi, ti prego", e come lui bisbigliai anch'io "Proteggimi". Ma poi gli chiesi a chi fosse consacrata l'ara, se a qualche Naiade, a un Fauno o a una divinità locale. Mi rispose: "Non è a un dio dei monti, ragazzo mio, che è sacro questo altare: lo considera suo la dea che un giorno dal mondo fu messa al bando dalla consorte di Giove, la dea che fu accolta nel suo vagare da Delo, quando come un'isola galleggiante errava leggera.
Lì, appoggiandosi a una palma e all'albero di Pallade, Latona mise al mondo due gemelli, a dispetto della matrigna. E si racconta che di lì, dopo il parto, per sottrarsi a Giunone fuggisse portandosi in seno i figli, quei due esseri divini. Raggiunta la patria della Chimera, nel territorio di Licia, sotto il sole infuocato che ardeva i campi, sfinita dal gran correre, per il caldo opprimente si sentì riarsa dalla sete: di tutto il latte le avevano i figli affamati svuotato il seno. Per ventura vide in lontananza, in fondo a una valle, un laghetto: laggiù dei contadini raccoglievano vimini pieni di germogli, giunchi ed alghe di palude. Avvicinatasi, la figlia del Titano si chinò, piegando un ginocchio a terra, per attingere l'acqua e bere. Ma quella masnada glielo vietò, costringendola a replicare: 'Perché mi negate l'acqua? ne hanno diritto tutti. La natura a nessuno ha dato in proprietà il sole, l'aria o l'acqua limpida: a un bene comune mi sono accostata e malgrado ciò vi supplico di farmene dono. Non avevo intenzione di lavarmi qui corpo e membra affaticate, ma solo di dissetarmi. Parlo, sì, ma ho la bocca secca e la gola tutta un fuoco, tanto che a stento vi passa la voce. Un sorso d'acqua nèttare sarà per me, e ammettere dovrò d'aver riavuto la vita: con l'acqua me la donerete voi. E abbiate almeno pietà di questi, che dal mio seno tendono le loro braccine'. E in quel momento i piccoli le tendevano.
Chi non si sarebbe commosso alle dolci parole della dea? Quelli invece, di fronte alle preghiere, si ostinano nel divieto e aggiungono minacce, se non se ne va, e ingiurie per di più. E come se non bastasse con mani e piedi intorbidano il lago e con cattiveria dal fondo del suo letto sollevano la fanghiglia saltando qua e là. La collera fa dimenticare la sete alla figlia di Ceo: non supplica più quella gente indegna, oltre non si abbassa a discorsi che umiliano una dea; alle stelle leva le palme e: 'Che viviate in eterno in questo stagno!' grida. E il voto si avvera: da allora quelli godono di stare in acqua, a volte d'immergersi con tutto il corpo nel fondo dello stagno, altre di sporgere il capo o di nuotare a fior d'acqua, spesso di sostare sulla riva, spesso di rituffarsi nel lago gelido. Ma non smettono mai di esercitare le loro malelingue nelle liti e senza alcun pudore, anche stando sott'acqua, sott'acqua cercano d'imprecare. Roca si è fatta la loro voce, le guance tumide si gonfiano e le stesse ingiurie dilatano ancor più le loro bocche enormi. Il capo è infossato nelle spalle, il collo sembra che manchi; il dorso è verde e il ventre, che è quasi tutto il corpo, bianchiccio: assunto l'aspetto di rane, sguazzano nel fango del pantano"."
Quando quello sconosciuto terminò di narrare la fine dei Lici, un altro si sovvenne del Satiro che, vinto dal figlio di Latona in una gara col flauto di Pallade, fu da questi punito. "Perché mi scortichi vivo?" urlava; "Mi pento, mi pento! Ahimè, non valeva tanto un flauto!". Urlava, mentre dalla carne la pelle gli veniva strappata: altro non era che un'unica piaga. D'ogni parte sgorga il sangue, scoperti affiorano i muscoli, senza un filo d'epidermide pulsano convulse le vene; si potrebbe contargli le viscere che palpitano e le fibre che gli traspaiono sul petto. Lo piansero le divinità dei boschi, i Fauni delle campagne e i Satiri suoi fratelli, lo piansero Olimpo a lui sempre caro e le ninfe, e con loro tutti quanti su quei monti pascolano greggi da lana e armenti con le corna. Di quella pioggia di lacrime s'intrise la terra fertile, che in sé madida le accolse, assorbendole nel fondo delle vene; poi mutatele in acqua, le liberò disperdendole nell'aria. Da lui prende il nome quel fiume che tra il declinare delle rive corre rapido verso il mare, Marsia, il più limpido della Frigia.
Da questi racconti la gente tornò bruscamente al presente, piangendo Anfione spentosi con tutta la sua stirpe. L'esecrazione era solo per Nìobe: l'unico a versare lacrime anche per lei fu Pèlope, a quanto si dice, che dal petto si stracciò le vesti, mostrando l'avorio della spalla sinistra. Quando nacque, questa spalla aveva lo stesso colore dell'altra, la stessa natura corporea; ma si racconta che il padre lo squartasse con le sue mani e che poi gli dei lo ricomponessero: ritrovati tutti i pezzi, mancava solo quello che congiunge collo e capo del braccio. A rimpiazzarlo gliene fu applicato uno d'avorio e così Pèlope riebbe la sua integrità. Dai dintorni affluiscono a Tebe uomini illustri, e ai propri re le città vicine affidano il compito di recare conforto: Argo, Sparta e Micene nel Peloponneso, Calidone non ancora invisa alla minacciosa Diana, la fertile Orcòmeno e Corinto famosa per i suoi bronzi, la fiera Messene, Patre e la piccola Cleone, Pilo Nelea e Trezene non ancora in mano a Pitteo, e tutte le città circondate dai due mari dell'Istmo e quelle che, poste di fronte ai due mari, si vedono dall'Istmo.
Chi lo crederebbe? l'unica ad astenersi fosti tu, Atene. Questo dovere ti fu impedito dalla guerra: giunte dal mare, truppe straniere spargevano il terrore sulle tue mura. Col suo esercito le sgominò Tereo di Tracia, accorso in aiuto, e con questa vittoria acquistò gran nome. Sedotto dal potere che gli davano ricchezze e uomini, considerato poi che discendeva dal grande Gradivo, Pandìone a sé lo legò dandogli in sposa Progne. Ma né Giunone, dea delle unioni, né Imeneo o le Grazie assistettero alle nozze. Furono le Furie a reggere le fiaccole, trafugandole a un rito funebre, le Furie a preparare il letto, e un gufo immondo calò sul tetto, appollaiandosi sopra la camera nuziale. Con questi auspici si unirono Progne e Tereo, sì, con questi divennero genitori. Con loro, certo, si felicitò la Tracia, e loro ringraziarono gli dei, proclamando festivi sia il giorno in cui Pandìone diede in sposa la figlia a quel re illustre, sia il giorno in cui nacque Iti. A tal punto s'ignora ciò che giova! Già per cinque autunni aveva condotto il Sole l'incessante corso degli anni, quando con voce carezzevole Progne disse al marito: "Se un po' ti sono cara, mandami a trovare mia sorella o lascia che qui lei venga. A tuo suocero puoi d'altra parte promettere che tornerà presto. Per me rivederla sarebbe il maggior regalo che puoi farmi". E lui fa calare in mare le navi e a forza di vele e di remi penetra nel porto di Cècrope e attracca alla banchina del Pireo.
Ammesso com'è alla presenza del suocero, una stretta di mano e il colloquio si avvia con gli auspici migliori. Ma aveva appena iniziato a riferire il messaggio della moglie, motivo del viaggio, promettendo un pronto ritorno della giovane, quando apparve Filomela, sfoggiando abbigliamenti splendidi e forme ancora più splendide, simili a quelle che avrebbero Naiadi e Driadi, si sente, quando incedono in mezzo ai boschi, se a loro fosse concessa uguale raffinatezza d'ornamenti. Alla vista di quella vergine, Tereo s'infiamma, come se qualcuno appiccasse il fuoco a spighe secche o incendiasse frasche ed erbe riposte in un fienile. Seducente è la sua bellezza, certo, ma una libidine innata concorre ad eccitarlo, tanto incline alla lussuria è in quei paesi la gente: divampa per vizio congenito e vizio proprio. L'impulso è quello di corrompere l'affezione delle compagne e l'onestà della nutrice, o di sedurla a viso aperto con regali sontuosi, sacrificando magari tutto il regno, oppure di rapirla e serbarsi la preda a costo di una guerra. Non c'è niente che non oserebbe, travolto com'è da un amore senza freni, e il suo petto non sa più contenere le fiamme. Ogni indugio gli pesa: con parole cariche di desiderio riprende il messaggio di Progne e in segreto insegue i suoi voti. L'amore lo rende eloquente, e ogni volta che eccede nelle preghiere, pretende che tale sia la volontà di Progne. E aggiunge lacrime, come se anche di queste fosse incaricato. O dei, di che tenebra fitta è avvolto il cuore dei mortali! Proprio nell'atto di tramare un crimine, Tereo passa per uomo giusto e il suo misfatto gli procura elogi.
E Filomela? non l'asseconda forse cingendo con le braccia le spalle al padre per addolcirlo, e pregandolo, se le vuol bene (ma è proprio contro il suo bene), di mandarla a trovare la sorella? Tereo la contempla, accarezzandola e spogliandola con lo sguardo, e quei baci, quelle braccia intorno al collo, che spia, sono altrettanti stimoli, fiaccole ed esche per la sua passione: ogni volta che in un abbraccio lei si stringe al padre, essere suo padre vorrebbe ed essere più empio non potrebbe. Cede il padre alle preghiere delle figliole e Filomela in festa lo ringrazia con calore, pensando, sventurata, che sia un successo per entrambe ciò che per entrambe sarà lutto. Ormai non restava a Febo che un piccolo percorso; i suoi cavalli scalpitavano lungo le pendici dell'Olimpo: s'imbandisce un banchetto regale e in coppe d'oro si versa il vino; poi, come è giusto, i corpi s'abbandonano a un placido sonno. Ma anche allora che Filomela non gli è più accanto, il re dei Traci brucia per lei e, ripensando al suo volto, ai gesti, alle mani, così come lo vorrebbe immagina ciò che ancora non ha visto, e alimenta in sé il suo fuoco con tale smania da perdere il sonno. Si fa giorno, e Pandìone, stringendo la mano al genero che riparte, con le lacrime agli occhi gli raccomanda la figlia: "Genero caro, poiché ragioni d'affetto mi costringono e questa è la volontà d'entrambe, come la tua, Tereo, io te l'affido, ma in nome della lealtà, della parentela e degli dei io t'imploro di vegliarla con l'amore di un padre e, perché lenisca dolcemente l'angoscia della mia vecchiaia, di rimandarmela al più presto: eterno mi parrebbe ogni ritardo.
E anche tu, Filomela (già tanto mi manca tua sorella), se mi vuoi un po' di bene, cerca di tornare al più presto". Così raccomanda e intanto, mentre bacia la figlia, tra una parola e l'altra gli scendono lacrime di commozione. Come pegno di lealtà chiede a entrambi di porgergli le mani, che stringe fra le sue, poi li prega di salutare l'altra figlia e il nipotino, che anche lontani sempre ricorda, e a fatica, con voce rotta dai singhiozzi, dice addio per l'ultima volta, angosciato dai presentimenti del suo cuore. Salita Filomela sulla nave variopinta, non appena i remi guadagnano il mare allontanando la terra: "Vittoria!" esclama Tereo, "via con me porto i miei sogni!". Esulta quel barbaro e con rammarico rimanda il proprio piacere, ma da lei mai un attimo distoglie gli occhi, come l'uccello di Giove quando nel nido inaccessibile ha deposto una lepre ghermita dai suoi artigli adunchi: per la preda non c'è scampo, il rapace cova la sua vittima. E ormai il viaggio è finito, ormai dalle navi malridotte tutti sono sbarcati in patria, quando il re trascina in un grande casale fra le tenebre d'una foresta antica la figlia di Pandìone, e lì, pallida, tremante, piena di terrore, la chiude, mentre lei con le lacrime agli occhi chiede dove sia la sorella. Svelate le sue voglie infami, benché disperata, disperata lei invochi il padre, la sorella e, più di tutti, gli dei del cielo, Tereo violenta quella vergine, quella fanciulla sola. E lei trema atterrita come un'agnella che, scampata alle fauci di un lupo grigio, nel trauma ancora non si sente sicura, o come una colomba che con le piume intrise di sangue ancora si spaura al ricordo degli artigli che l'avevano afferrata. Poi, quando torna in sé, si strappa i capelli scomposti, come se fosse in lutto, si percuote in lacrime le braccia e tendendo le mani, grida: "Barbaro, quale infamia hai compiuto! Scellerato! neppure le preghiere e le lacrime appassionate di mio padre t'hanno commosso, o il pensiero di mia sorella, della mia verginità, dei vincoli coniugali. Tutto hai sconvolto: rivale di mia sorella io, bigamo tu: punirmi come nemica, questo si deve. Perché, infame, non mi uccidi, così che intentato non ti rimanga alcun delitto? Oh, se l'avessi fatto prima di questo nefando accoppiamento! immacolata sarebbe rimasta l'ombra mia! Ma se i celesti scorgono tutto ciò, se il loro potere conta qualcosa, se non tutto col mio onore è perduto, un giorno ne sconterai tu la pena. Gettato al vento il pudore, io stessa racconterò le tue gesta; se concesso mi sarà, andrò tra la gente; se prigioniera sarò tenuta nei boschi, lo griderò ai boschi e i sassi chiamerò a testimoni. Il cielo udrà la mia voce e l'udranno gli dei, se lì ve ne sono!".

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Il pranzo di Tereo di Belisario Carenzio

A queste parole il feroce tiranno è scosso dall'ira e al tempo stesso da una paura che nulla ha da invidiare all'ira. Spinto dall'una e l'altra, sguaina la spada che porta al fianco, l'afferra per i capelli, le torce le braccia dietro la schiena e la costringe in ceppi. Filomela protende la gola, con la speranza, vista la spada, d'essere uccisa; ma lui le stringe in una morsa la lingua che impreca, che invoca senza posa il nome del padre, che lotta per parlare, e senza pietà gliela mozza. Guizza in gola la radice della lingua, che a terra in mezzo al sangue pulsa rantolando: come si dibatte la coda recisa a un serpente, palpita moribonda cercando le tracce della sua padrona. Persino dopo questo misfatto pare, e quasi non riesco a crederlo, che lui risfogasse la sua lussuria su quel corpo martoriato. Compiute le sue prodezze, ha il coraggio di ripresentarsi a Progne, che vedendolo gli chiede della sorella. E quell'ipocrita scoppia in lamenti, inventandosi la storia della sua morte e il pianto gli dà credito. Dalle spalle si strappa Progne i veli tutti scintillanti di lembi dorati, si veste di nero, erige una pietra sepolcrale, offre sacrifici funebri a un'ombra inesistente e piange, non per ciò che si dovrebbe, la sorte della sorella.
Dodici costellazioni aveva percorso il sole, un anno intero. E Filomela? Guardie armate le impediscono la fuga; intorno alla prigione si erge un muro di macigni invalicabile; muta com'è non può svelare il crimine. Ma del dolore immense sono le risorse e nella sventura, lì, s'acuisce l'ingegno. Con un accorgimento allaccia un ordito a un telaio primitivo e sulla tela bianca ricama a caratteri di fuoco l'accusa di stupro. Terminato il lavoro l'affida a una donna, pregandola a gesti di portarlo alla regina, e la donna lo consegna a Progne, senza sapere cosa cela ciò che porta. La consorte del feroce tiranno srotola la tela, legge le tragiche vicissitudini della sorella e, come possa è un mistero, non fiata: il dolore l'ammutolisce, la lingua cerca parole che esprimano tutto il suo sdegno, ma non le trova; non piange neppure; pronta a violare ogni legge, corre alla propria rovina col solo pensiero della vendetta.
Era il tempo in cui ogni tre anni le donne di Sitonia celebrano le feste di Bacco. La notte è complice dei riti. Di notte il Ròdope risuona del tintinnare acuto dei bronzi; e quella notte la regina esce di casa, acconciata come per partecipare all'orgia, con tutto il corredo del culto: capo coperto di tralci, una pelle di cervo che pende sul fianco sinistro, un'asta leggera appoggiata alla spalla. Irrompendo nei boschi con lo stuolo delle sue compagne, Progne, terribile, sconvolta dalla furia del dolore, si finge, Bacco, una tua devota. E arriva a quel casale sperduto; qui con grida inumane, invasata, abbatte la porta, rapisce la sorella rivestendola coi simboli delle Baccanti, le nasconde il viso con viticci d'edera e, trascinandola via sbigottita, la porta nel suo palazzo. Quando s'accorge d'essere entrata nella casa di quell'infame, la povera Filomela rabbrividisce e tutta sbianca in volto. Trovato il luogo adatto, Progne toglie all'infelice i simboli del culto, le scopre il viso rosso di vergogna e la stringe a sé in un abbraccio. Ma lei, sentendosi in colpa verso la sorella, non osa alzare gli occhi a sostenere quello sguardo, e col volto fisso a terra vorrebbe giurare, chiamando a testimoni gli dei, che quel disonore a viva forza le è stato inflitto e usa i gesti come voce. Non potendo contenere l'ira che l'arde, Progne rimprovera la sorella perché piange: "No, non servono lacrime," le dice, "ma un ferro o, se trovi qualcosa che possa vincere il ferro, quello! Io sono pronta, sorella mia, a qualsiasi delitto.
Ecco, o incendierò con le torce questa reggia e getterò tra le fiamme quello spergiuro di Tereo o gli strapperò con un ferro la lingua, gli occhi e quel membro che t'ha sottratto l'onore, o con mille e mille ferite sputare gli farò quell'anima criminale. Ad ogni atrocità son pronta; quale, ancora non so". E mentre termina di parlare, le viene incontro Iti: la presenza del figliolo le ricorda il potere che possiede e, guardandolo con occhio duro, esclama: "Ah, quanto assomigli a tuo padre!". Non aggiunge altro e, ribollendo d'ira in cuore, medita il suo atroce delitto. Vero è che quando il figliolo s'avvicina, la saluta gettandole al collo le sue piccole braccia, e blandendola con le sue moine la riempie di baci, la madre si commuove, e per un attimo la collera si smorza, intridendole gli occhi di lacrime a stento trattenute. Ma come sente che per troppo affetto il suo cuore di madre comincia a vacillare, da lui stacca gli occhi, torna a volgerli sulla sorella e, osservandoli entrambi a vicenda, così ragiona: "Perché Iti mi blandisce e lei con la lingua mozza non può farlo? Se lui mi chiama madre, perché lei non mi chiama sorella? Non vedi, figlia di Pandìone, a chi ti sei unita? Tu sragioni: un delitto è la pietà con uomini come Tereo!".
Senza indugio Progne trascina Iti con sé, come nelle tenebre del bosco trascina la tigre del Gange un cerbiatto appena nato, e quando arrivano in una parte remota dell'immensa reggia, mentre lui, intuendo la propria sorte, tende le mani e nel tentativo di aggrapparsi al suo collo "Mamma!" grida, "Mamma!", lo colpisce con la spada tra il fianco e il petto, senza distogliere gli occhi. Per ucciderlo sarebbe bastata quell'unica ferita: no, Filomela gli recide la gola. Palpitanti, quelle membra, che serbano ancora un soffio di vita, son fatte a pezzi; una parte è messa a bollire in pentole di bronzo, il resto stride sugli spiedi. Tutta la stanza è invasa dal sangue. Dopo avere allontanato convitati e servitù col pretesto di un rito al quale nella sua patria solo il marito può assistere, queste vivande Progne imbandisce a Tereo che nulla sospetta. Assiso con alterigia sul trono degli avi, Tereo banchetta, trangugiando la carne della sua carne, e la sua mente tanto è ottenebrata che ordina: "Fate venire Iti". Progne non riesce più a dissimulare la sua crudele esultanza e smaniosa di annunciargli lei stessa lo scempio compiuto: "Quello che chiedi l'hai dentro!" prorompe. Lui si guarda intorno e chiede dove: mentre chiede e senza posa lo chiama, lo chiama, ecco che Filomela, così com'è, coi capelli scarmigliati dal furore del massacro, irrompe e gli scaglia in faccia la testa insanguinata del figlio. Mai come allora lei vorrebbe poter parlare per gridargli la sua gioia nel modo che merita.
Con un urlo inumano il re di Tracia rovescia la tavola ed evoca dal fondo dello Stige le Furie cinte di vipere; ora vorrebbe squarciarsi il ventre per vomitare, se potesse, quel cibo orrendo e le viscere che ha ingoiato; ora piange definendo sé stesso sepolcro abbietto del figlio; ora con la spada sguainata insegue le figlie di Pandìone. Ma i corpi delle due donne sembrano alzarsi in volo: si alzano in volo. Una si dirige verso il bosco; l'altra s'infila sotto il tetto, e dal suo petto scomparse non sono oggi ancora le tracce della strage: macchia il sangue le sue piume. Tereo, travolto dal dolore e dalla sete di vendetta, si trasforma in un uccello che ha una cresta dritta sul capo e un becco smisurato che si protende lungo come una lancia. Upupa è il nome di questo uccello; a vederlo sembra armato. Questa tragedia spedì anzitempo Pandìone tra le ombre del Tartaro, prima del limite estremo d'una lunga vecchiaia.
Lo scettro e il governo della regione passarono ad Eretteo, non si sa se più valente per giustizia o destrezza d'armi. Al mondo aveva messo Eretteo quattro maschi e quattro femmine, ma di queste, due gareggiavano in bellezza. Cèfalo, nipote di Eolo, fu tuo felice marito, Procri; il dio Borea, invece, essendo di Tracia, per colpa di Tereo dovette attendere a lungo prima di avere l'amata Oritìa, almeno finché la chiese usando preghiere in luogo della forza. Ma visto che nulla otteneva con le blandizie, stravolto d'ira, come fin troppo spesso è naturale a Borea, a questo vento: "Ben mi sta!" disse. "Perché mai ho rinnegato le mie armi, la violenza, l'impeto, l'ira, il pungolo delle minacce, e sono ricorso alle preghiere, una prassi che non mi si addice? Virtù mia è la forza: con la forza scaccio le nubi che incombono, con la forza sconvolgo il mare e abbatto le querce nodose, rendo ghiaccio la neve e tempesto di grandine la terra. E ancora, quando nel cielo aperto (l'arena mia è quella) sorprendo i miei fratelli, li affronto con tale furia, che tutto l'etere intorno rintrona ai nostri scontri e dal cuore delle nubi saettando guizzano i fulmini. Ancora, quando m'infilo nelle fessure della terra e infuriato inarco il dorso contro la volta delle sue caverne, terrorizzo coi miei sussulti i morti e il mondo intero. Con questi mezzi dovevo cercare di sposarla! Con i fatti, non con le preghiere dovevo farmi suocero Eretteo!".
Detto questo ed altro ancora dello stesso tenore, Borea agitò le ali, e a quel battito tutta la terra fu percorsa dal vento e la distesa del mare ne fu sconvolta. Trascinando il suo mantello di polvere sulla cima dei monti, l'innamorato spazzò il suolo e, nascosto dalla caligine, abbracciò Oritìa, tremante di paura, con le sue ali fulve. E mentre vola, l'eccitazione rinfocolò la sua passione; ma non pose fine alla sua corsa sfrenata nello spazio, se non quando ebbe raggiunto la gente e le città dei Cìconi. Lì, l'ateniese Oritìa divenne moglie del gelido signore, e madre: partorì due gemelli, che in tutto assomigliavano a lei, se si escludono le ali, dote del padre. Queste però, si racconta, non nacquero con loro: finché sotto la rossa chioma non spuntò loro la barba, Càlai e Zete, i due fanciulli, furono implumi. Poi, come negli uccelli, penne e ali cominciarono a fasciare i loro fianchi e le guance ad assumere riflessi biondi. E così, quando l'infanzia lasciò il passo alla giovinezza, solcarono coi Minii, a bordo della prima nave, il mare ignoto alla conquista del vello che abbaglia con la luce dei suoi fiocchi.

Pallade e Aracne
Aracne (detta anche Aragne) è una figura mitologica. Ovidio narra la sua storia nel VI libro delle Metamorfosi, ma pare che il personaggio, già citato nelle Georgiche virgiliane, sia d'origine greca. Aracne viveva a Colofone, nella Lidia. La fanciulla, figlia del tintore Idmone e sorella di Falance, era abilissima nel tessere, tanto che girava voce che avesse imparato l'arte direttamente da Atena, mentre lei affermava che fosse la dea ad aver imparato da lei. Ne era tanto sicura che sfidò la dea a duello. Di lì a poco un'anziana signora si presentò ad Aracne, consigliandole di ritirare la sfida per non causare l'ira della dea. Quando lei replicò con sgarbo, la vecchia uscì dalle proprie spoglie rivelandosi come la dea Atena, e la gara iniziò. Aracne scelse come tema della sua tessitura gli amori degli dei; il suo lavoro era così perfetto ed ironico verso le astuzie usate dagli dei per raggiungere i propri fini che Atena si adirò, distrusse la tela e colpì Aracne con la sua spola. Aracne, disperata,cercò di impiccarsi, ma la dea la trasformò in un ragno costringendola a filare e tessere per tutta la vita dalla bocca, punita per l'arroganza dimostrata (hýbris) nell'aver osato sfidare la dea.

Niobe e Leto
Apollo aveva il potere di mandare i mali a coloro che voleva punire, come le morti improvvise. Per esempio lanciò frecce col suo arco d'argento per l'ingiusto oltraggio fatto al sacerdote Crise e così diffuse la peste nel campo greco, come è detto nel I libro dell'Iliade. La sua vittima più infelice fu Niobe. Nella Frigia c'era un ricco re, Tantalo, che era protetto dagli dèi celesti, tanto da essere invitato sull'Olimpo. Tuttavia Tantalo fraintese la benevolenza divina e divulgò alcuni segreti che Zeus gli aveva confidati. Per questo fu cacciato nel Tartaro e condannato a un eterno supplizio. Tantalo, in vita, aveva avuto parecchi figli, tra cui Pelope e Niobe, che aveva sposato Anfione dal quale aveva avuto sette robusti figli maschi e sette bellissime figlie femmine. Niobe si vantava di essere più feconda di Leto, madre di Apollo e Artemide, e pretendeva che a lei spettassero gli onori divini. Questa superbia arrivò alle orecchie di Leto che incaricò i suoi figli di punire Niobe. Infatti Apollo uccise con il suo arco di argento i suoi sette figli e successivamente anche Artemide sterminò le sette figlie (o, secondo una variante del mito, ne lasciarono in vita solo due, rispettivamente un maschio, Amicla, ed una femmina, Cloride, o due femmine). La sventurata Niobe pianse amaramente, riconoscendo ormai troppo tardi la propria colpa e, ammettendo di essere stata punita giustamente, pregò Zeus di trasformarla in pietra. Il suo corpo venne tramutato in roccia conservando la sua forma. Anche in pietra Niobe continua a piangere e piangerà in eterno. Secondo l'Iliade di Omero i giovani uccisi rimasero insepolti per dieci giorni, finché gli dèi stessi non si occuparono della tumulazione. Secondo quanto narra Ovidio, oppure anche Anacreonte, Niobe, in lacrime, si tramutò in blocco di marmo dal quale scaturì una fonte. In una roccia che si trova sul monte Sipilo in Lidia, presso Magnesia, si è voluta scorgere la Niobe divenuta pietra. Il mito che narra della superbia di Niobe e della morte dei suoi figli, i Niobidi, fu ampiamente diffuso nell'arte e nella letteratura degli antichi, come attestano le numerose menzioni, e il suo significato pedagogico (evitare la superbia) evidente. Le tragedie di Eschilo e di Sofocle ispirate ad esso sono andate perdute.

Progne
La sua leggenda è legata a quella di sua sorella Filomela, violentata dal proprio marito Tereo, re della Tracia. Filomela, sebbene Tereo l'avesse privata della lingua affinché nessuno conoscesse il suo gesto, riuscì a comunicare l'accaduto alla sorella tessendone le immagini su di una tela. Così Procne fece a pezzi suo figlio Iti e lo diede in pasto a Tereo che, compresa la natura del pasto, minacciò di morte le due sorelle. Secondo il mito furono tramutate dagli dei rispettivamente in usignolo e rondine, mentre Tereo in un'upupa.

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Eugenio Caruso - 28- 12-2020



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