Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Nel Canto XI del Purgatorio Protagonista assoluto di questo Canto e del successivo è Stazio, il poeta latino che Dante pone in Purgatorio tra le anime salve come un ulteriore esempio dell'imperscrutabile giustizia divina, al pari di Catone Uticense custode del secondo regno e di Manfredi già incontrato tra i contumaci dell'Antipurgatorio. La novità rispetto agli altri personaggi è che Stazio è un poeta, il che permette a Dante di iniziare un lungo e complesso discorso intorno alla poesia che durerà almeno fino all'ingresso nel Paradiso Terrestre (da questo momento in poi, infatti, le anime incontrate dai due viaggiatori saranno unicamente di poeti).
L'episodio è stilisticamente e retoricamente elevato, specie nel discorso di Stazio che prima spiega la ragione del terremoto e del canto delle anime, poi si presenta con una elegante prosopopea; l'atmosfera è densa di immagini religiose, a cominciare dalla similitudine della Samaritana che diede da bere a Gesù e di cui Dante si serve per descrivere la sua sete di conoscenza dottrinale, per passare poi a quella di Stazio paragonato ancora a Gesù risorto che appare ai due discepoli a Emmaus (è evidente che la resurrezione è simbolo della liberazione dal peccato, come per Stazio che ha appena concluso il suo percorso di espiazione). Il penitente augura ai due viaggiatori la pace di Dio chiamandoli frati, quindi Virgilio gli ricorda che è destinato al beato concilio da cui lui è esiliato in eterno, il che sorprende Stazio al punto da fargli chiedere spiegazioni in quanto ciò sembra in contrasto con l'ordine religioso del Purgatorio. Il personaggio dimostra fin dall'inizio il pieno possesso delle conoscenze dottrinali e teologiche, come sarà chiaro dalla spiegazione successiva, il che aumenterà ancor più la sorpresa di apprendere la sua identità e la sua presenza in un luogo da cui anch'egli, al pari di Virgilio, dovrebbe essere escluso.
La spiegazione di Stazio circa il motivo del terremoto e del conseguente canto delle anime è un discorso retoricamente complesso, anticipato dalla domanda di Virgilio anch'essa stilisticamente elevata con la metafora delle Parche per indicare che Dante è ancor vivo: Stazio spiega che il Purgatorio è esente da ogni alterazione atmosferica, distinguendo tra vapore umido e secco che secondo la fisica aristotelica erano causa rispettivamente delle precipitazioni come pioggia, neve, ecc., e dei terremoti, che si pensava fossero prodotti da venti sotterranei (l'arcobaleno è indicato con la perifrasi figlia di Taumante, per indicare la dea Iride messaggera degli dei, mentre la spiegazione si conclude con la duplice anafora Trema... Tremaci).
Stazio spiega inoltre in che modo l'anima penitente si sente pronta a salire all'Eden in quanto purificata, mettendo l'accento sulla volontarietà della pena cui essa si sottopone con pieno desiderio, e distinguendo tra volontà assoluta e relativa secondo l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino i cui argomenti dottrinali egli padroneggia con disinvoltura. Non meno stilisticamente raffinata la presentazione di se stesso che Stazio fa su richiesta di Virgilio, che inizia con l'indicazione del tempo della sua vita coincidente con la distruzione del Tempio da parte di Tito (ancora il tema religioso, poiché ciò era considerato la giusta punizione per il deicidio: cfr. Par., VI, 91-93), prosegue con l'affermazione di essere stato poeta e di aver ricevuto l'alloro a Roma, si conclude con la dichiarazione del proprio nome e delle due opere principali da lui scritte, Tebaide e Achilleide. A questo punto Stazio rende omaggio al suo maestro e modello Virgilio, autore dell'Eneide che definisce preziosamente una divina fiamma le cui scintille hanno scaldato lui e illuminato mille altri, facendogli da mamma e da nutrice (da notare l'accostamento fummi, e fummi... nonché l'espressione peso di dramma particolarmente rara e difficile); l'esaltazione di Virgilio raggiunge il suo apice allorché Stazio, che ovviamente non sa di averlo di fronte, afferma che sarebbe disposto a trattenersi un altro anno nella Cornice per essere stato suo contemporaneo, cosa che ha spinto alcuni commentatori a parlare di affermazione «empia» (si tratta in realtà di un fatto manifestamente impossibile).
L'elogio appassionato dell'Eneide e del suo autore, che sarà causa del siparietto ironico che conclude il Canto e che ha protagonista un imbarazzato Dante (anch'egli del resto cultore di Virgilio), è in realtà un'esaltazione del ruolo e dell'importanza della poesia, che nella vita di Stazio ha avuto un peso essenziale anche per la salvezza come dirà lui stesso nel Canto seguente. È anche una celebrazione della grandezza assoluta di Virgilio, già riconosciuto da Dante come suo maestro e autore nell'incontro iniziale del poema e qui ulteriormente elogiato attraverso le parole di Stazio, anch'egli rientrante nel canone dei poeti classici più ammirati nel Medioevo e più volte citato da Dante stesso nella Commedia: Virgilio era riconosciuto come indiscussa autorità poetica e filosofico-morale, il che spiega perché Dante lo scelga come sua guida nella prima parte del viaggio e si giustifica con il culto dell'Eneide che durava almeno dalla tarda antichità, dando origine a svariati commenti dell'opera e alla sua rilettura in chiave cristiana. In questa luce non stupisce l'appassionato omaggio che Dante attribuisce a Stazio nel momento in cui incontra l'anima di Virgilio, ma neppure che attraverso la lettura dei suoi versi egli si sia ravveduto dai suoi peccati e abbia abbracciato il Cristianesimo, come lui stesso dirà nel Canto XXII; ciò rientra in quell'errata interpretazione della letteratura classica che lo stesso Dante pienamente condivide, ed è al tempo stesso l'affermazione che la salvezza segue percorsi inconoscibili per l'intelletto umano, come gli esempi di Rifeo e Traiano dimostreranno ampiamente nel Paradiso.
La scena finale di Stazio che si getta ai piedi dell'antico maestro chiude la «scenetta» comica dell'equivoco svelato poi da Dante (e che tuttavia ha delle analogie con l'episodio evangelico di Gesù risorto a Emmaus, non ricosciuto subito dai discepoli), anche se conserva tutta la sostanza dell'omaggio al grande poeta e al suo altissimo magistero: il Canto seguente spiegherà quanto grande sia il debito di riconoscenza che Stazio ha verso l'opera di Virgilio, e sarà il primo passo di un percorso di riflessione intorno alla poesia che avrà il suo punto finale nell'ingresso nell'Eden e nell'incontro, anch'esso non privo di riferimenti letterari, con Beatrice.
Note e passi controversi
- L'episodio evangelico cui alludono i vv. 1-3 è narrato da Giovanni (IV, 6-15) e ha come protagonista una donna di Samaria a cui Gesù chiese dell'acqua: Gesù spiega che chi beve quell'acqua avrà ancora sete, ma chi berrà l'acqua che lui gli darà non avrà sete in eterno (Omnis qui bibit ex aqua hac sitiet iterum; qui autem biberit ex aqua quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum). Nel passo evangelico l'acqua è simbolo della grazia, qui della rivelazione divina.
- I vv. 7-9 alludono all'episodio di Gesù risorto che apparve ai due discepoli sulla via di Emmaus (Luc., XXIV, 13-17).
- La verace corte (v. 17) di cui parla Virgilio è il giudizio divino che lo relega nel Limbo.
- La scaletta di tre gradi breve (v. 48) è la scala di tre gradini che conduce alla porta del Purgatorio.
- La figlia di Taumante è Iride, la messaggera degli dei identificata dagli antichi con l'arcobaleno.
- I vv. 64-66 si rifanno alla dottrina tomistica della volontà assoluta e relativa espressa nella Summa Theologiae: la volontà relativa è il talento, che in vita queste anime hanno rivolto al peccato, mentre in Purgatorio, per volontà divina, è tutta rivolta all'espiazione e contrasta la volontà assoluta, che è ovviamente di salire in Cielo.
- Il vb. cappia (v. 81) può voler dire «sia contenuto», oppure «abbia luogo»; ne le parole tue può avere valore strumentale («attraverso le tue parole») oppure di luogo figurato.
- Al v. 89 Stazio è detto Tolosano, mentre in realtà era nato a Napoli: il poeta era confuso in parte col retore L. Stazio Ursolo, che era appunto originario di Tolosa. La notizia dell'incoronazione poetica è vera, ma Dante non la trasse dalle Silvae che erano ignote nel Medioevo, bensì dall'Achilleide (I, 9-12: fronde secunda / necte comas, l'invocazione ad Apollo).
- L'espressione peso di dramma (v. 99) indica l'ottava parte dell'oncia (dalla moneta greca dracma), quindi circa quattro grammi; Stazio intende dire che senza l'ispirazione di Virgilio non avrebbe scritto nulla che avesse peso poetico.
- Forte (v. 126) è sostantivo e significa «abilità», «maestria».
TESTO
La sete natural che mai non sazia
se non con l’acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia, 3
mi travagliava, e pungeami la fretta
per la ‘mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta. 6
Ed ecco, sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a’ due ch’erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca, 9
ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria, 12
dicendo; «O frati miei, Dio vi dea pace».
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
rendéli ‘l cenno ch’a ciò si conface. 15
Poi cominciò: «Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne l’etterno essilio». 18
«Come!», diss’elli, e parte andavam forte:
«se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v’ha per la sua scala tanto scorte?». 21
E ‘l dottor mio: «Se tu riguardi a’ segni
che questi porta e che l’angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni. 24
Ma perché lei che dì e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila, 27
l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia,
venendo sù, non potea venir sola,
però ch’al nostro modo non adocchia. 30
Ond’io fui tratto fuor de l’ampia gola
d’inferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto ‘l potrà menar mia scola. 33
Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli
diè dianzi ‘l monte, e perché tutto ad una
parve gridare infino a’ suoi piè molli». 36
Sì mi diè, dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna. 39
Quei cominciò: «Cosa non è che sanza
ordine senta la religione
de la montagna, o che sia fuor d’usanza. 42
Libero è qui da ogne alterazione:
di quel che ‘l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d’altro, cagione. 45
Per che non pioggia, non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
che la scaletta di tre gradi breve; 48
nuvole spesse non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade; 51
secco vapor non surge più avante
ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,
dov’ha ‘l vicario di Pietro le piante. 54
Trema forse più giù poco o assai;
ma per vento che ‘n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai. 57
Tremaci quando alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
per salir sù; e tal grido seconda. 60
De la mondizia sol voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
l’alma sorprende, e di voler le giova. 63
Prima vuol ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento. 66
E io, che son giaciuto a questa doglia
cinquecent’anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia: 69
però sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto sù li ‘nvii». 72
Così ne disse; e però ch’el si gode
tanto del ber quant’è grande la sete,
non saprei dir quant’el mi fece prode. 75
E ‘l savio duca: «Omai veggio la rete
che qui v’impiglia e come si scalappia,
perché ci trema e di che congaudete. 78
Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
qui se’, ne le parole tue mi cappia». 81
«Nel tempo che ‘l buon Tito, con l’aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond’uscì ‘l sangue per Giuda venduto, 84
col nome che più dura e più onora
era io di là», rispuose quello spirto,
«famoso assai, ma non con fede ancora. 87
Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto. 90
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma. 93
Al mio ardor fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille; 96
de l’Eneida dico, la qual mamma
fummi e fummi nutrice poetando:
sanz’essa non fermai peso di dramma. 99
E per esser vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
più che non deggio al mio uscir di bando». 102
Volser Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse ‘Taci’;
ma non può tutto la virtù che vuole; 105
ché riso e pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
che men seguon voler ne’ più veraci. 108
Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;
per che l’ombra si tacque, e riguardommi
ne li occhi ove ‘l sembiante più si ficca; 111
e «Se tanto labore in bene assommi»,
disse, «perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?». 114
Or son io d’una parte e d’altra preso:
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso 117
dal mio maestro, e «Non aver paura»,
mi dice, «di parlar; ma parla e digli
quel ch’e’ dimanda con cotanta cura». 120
Ond’io: «Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli. 123
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forza a cantar de li uomini e d’i dèi. 126
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti». 129
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi». 132
Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda». 136
PARAFRASI
La sete di conoscenza, che non si può mai estinguere se non con quell'acqua di cui la donna samaritana chiese grazia a Gesù (la rivelazione), mi tormentava e la fretta mi spingeva lungo la via ingombra dietro al mio maestro, e come lui provavo compassione per la giusta punizione inflitta alle anime.
Ed ecco, così come è scritto nel Vangelo di Luca che Cristo apparve ai due discepoli sulla via, già risorto dalla sua tomba, che lì apparve un'anima che veniva dietro di noi, mentre badavamo a non calpestare le anime stese a terra;
e non ci accorgemmo di lei, finché non parlò per prima dicendo: «O mie fratelli, la pace di Dio sia con voi». Noi ci voltammo subito e Virgilio rispose con un conveniente cenno di saluto.
Poi iniziò: «Possa la giustizia di Dio porti in pace nel regno dei beati, mentre relega me nell'eterno esilio del Limbo».
Egli disse, mentre intanto camminavamo veloci: «Come! se voi siete anime che Dio non ammetterebbe in Cielo, chi vi ha permesso di salire fino a questo punto?»
E il mio maestro: «Se tu osservi i segni (le P) che Dante porta sulla fronte e che l'angelo ha inciso, capirai che egli è degno di essere ammesso tra i beati.
Ma poiché colei (Lachesi) che fila giorno e notte non aveva ancora filato tutta la quantità della sua vita che Cloto stabilisce per ognuno e avvolge, la sua anima, che è sorella mia e tua, non poteva venire fin quassù da sola, in quanto non vede al nostro stesso modo.
Perciò io fui tratto fuori dall'ampia fossa infernale per mostragli il mondo ultraterreno, e continuerò fin dove la mia scuola potrà condurlo.
Ma dimmi, se lo sai, perché poco fa il monte fu scosso dal terremoto e perché sembrò gridare a una voce fino alle sue pendici bagnate dal mare».
Virgilio, domandando, indovinò il mio desiderio di sapere, così che la mia sete si spense un poco nella speranza di una risposta.
Quello iniziò: «L'assetto religioso della montagna non può sentire nulla che sfugga al suo ordine, o che sia fuori del consueto.
Questo luogo è libero da ogni alterazione atmosferica: vi possono essere solo fenomeni causati dall'influsso celeste, e nient'altro.
Quindi qui non cade pioggia, né grandine, né neve, né rugiada, né brina più in alto della corta scala di tre gradini (la porta del Purgatorio);
non appaiono mai nuvole dense o rade, né si vedono lampi, né appare l'arcobaleno che sulla Terra spesso cambia posizione;
il vapore secco non sorge più in alto dei tre gradini di cui ho parlato, dove il vicario di san Pietro (l'angelo guardiano) pone i piedi.
Forse più in basso la terra trema poco o intensamente; ma quassù, non so come, la terra non tremò mai a causa di un vento sotterraneo.
Qui la terra trema quando un'anima si sente purificata, cosicché si alza o si muove per salire in alto; e il grido che hai sentito accompagna tale ascesa.
Della avvenuta purificazione è prova la sola volontà, che spinge liberamente a cambiare compagnia e sorprende l'anima, e di tale volere l'anima gioisce.
Prima vuole certo la stessa cosa, ma non glielo permette la volontà relativa (talento) che la divina giustizia rivolge alla pena contro la volontà assoluta, come sulla Terra lo fu al peccato.
E io, che ho subìto questa pena per più di cinquecento anni, solo poco fa ho sentito la libera volontà di cambiare luogo:
per questo hai sentito il terremoto e i devoti spiriti che rendevano lode al Signore, perché li mandi presto in Cielo».
Ci disse così; e poiché si gode del bere tanto quanto è intensa la sete, non saprei dire quanto quell'anima mi diede giovamento.
E il saggio maestro: «Ormai capisco qual è la rete che vi trattiene qui e come ve ne liberate, perché qui la terra trema e di che cosa gioite tutti insieme.
Ora ti piaccia rivelarmi chi fosti e nelle tue parole sia chiarito perché sei stato disteso qui tanti secoli».
Quello spirito rispose: «Al tempo in cui il buon Tito, con l'aiuto di Dio, vendicò le ferite da cui uscì il sangue (di Cristo) venduto da Giuda, io vissi sulla Terra col nome (di poeta) che dura di più e più dà onore, molto famoso ma non ancora con fede cristiana.
Il mio canto poetico fu tanto dolce che, nato a Tolosa, mi portò a Roma dove meritai di ornare le tempie col mirto (l'incoronazione poetica).
Sulla Terra la gente mi chiama ancora Stazio: scrissi la Tebaide e l'Achilleide, ma morii prima di completare il secondo poema.
Il mio ardore poetico fu alimentato dalle scintille, che mi scaldarono, di quella fiamma divina da cui sono illuminati più di mille poeti;
parlo dell'Eneide, la quale fu per me una madre e una nutrice nel poetare: senza di essa non avrei scritto nulla di importante.
E per essere vissuto sulla Terra nello stesso periodo in cui visse Virgilio, sarei disposto a stare qui un anno di più di quanto devo per uscire da questo esilio del Purgatorio».
Queste parole indussero Virgilio a voltarsi verso di me, con uno sguardo che, senza dire nulla, sembrava dire 'Taci'; ma la volontà non è in grado di fare tutto;
infatti il riso e il pianto seguono immediatamente il sentimento che li provoca, così che non seguono la volontà nelle persone più sincere.
Io sorrisi come chi ammicca, per cui l'ombra di Stazio tacque e mi guardò negli occhi dove è più evidente il sentimento;
e disse: «Possa tu giungere al buon esito della tua grande fatica (il viaggio ultraterreno): perché poco fa il tuo viso manifestò un improvviso sorriso?»
Ora io sono incalzato da ambo le parti: Virgilio mi impone di tacere, ma l'altro mi supplica di parlare; dunque io sospiro e sono capito dal mio maestro, che mi dice: «Non aver paura di parlare, ma digli pure ciò che domanda con tanta insistenza».
Allora dissi: «Forse tu ti stupisci, antico spirito, del sorriso che ho fatto; ma voglio che tu ti meravigli ancor di più.
Costui che guida i miei occhi in alto è quel Virgilio dal quale tu traesti ispirazione a cantare degli uomini e degli dei.
Se tu hai creduto che il mio sorriso avesse un altro motivo, trascuralo come non vero, e credi che la causa erano quelle parole che hai detto su di lui».
Già Stazio si chinava ad abbracciare i piedi del mio maestro, ma quello gli disse: «Fratello, non farlo, perché tu sei un ombra e vedi davanti a te un'altra ombra».
Ed egli, rialzandosi: «Ora puoi capire quanto grande è l'amore che provo per te, visto che dimentico la nostra inconsistenza, trattando le ombre come fossero corpi materiali».
STAZIO
Publio Papinio Stazio (45-96) è stato un poeta romano e uno dei principali esponenti della poesia epica dell'età flavia, assieme a Silio Italico e a Valerio Flacco. È generalmente conosciuto per essere l'autore di due poemi epici, la Tebaide, opera in XII libri che narra la guerra dei sette contro Tebe e la lotta dei fratelli Eteocle e Polinice, e l'Achilleide, opera rimasta incompiuta al II libro (la giovinezza del Pelide) sulla vita e le gesta di Achille, e autore di una raccolta di 32 componimenti, le Silvae.
Figlio di un maestro di retorica italiota (elemento non trascurabile, questo, nella sua formazione poetica) originario di Velia, Stazio incarna - forse più di altri - la figura del poeta "professionista". Si trasferì a Roma per tentare la fortuna durante l'impero di Domiziano e, in breve tempo, effettivamente si guadagnò - nelle recitazioni pubbliche e nelle gare poetiche - il favore del pubblico e dei grandi signori, che divennero suoi protettori.
D'ingegno duttile e versatile, in questo primo periodo compose libretti per mimi e, oltre al suo primo poema epico, la Tebaide, alcune Silvae, componimenti lirici di circostanza in uno stile facile ed elegante. Ma, dopo alcuni rovesci, nonostante le preghiere insistenti della moglie Claudia, una musicista, decise di abbandonare la città per far ritorno in Campania, dove condusse lo stesso genere di esistenza di poeta mondano al servizio dei nobili romani, che in quella regione approdavano in massa per i loro soggiorni primaverili ed estivi. A Napoli, forse, trovò la morte nel 96.
La produzione poetica di Stazio è abbondante e comprende diverse opere, tre delle quali pervenuteci.
Il capolavoro staziano, la Tebaide, pubblicata nel 92, è in 12 libri e narra la lotta fra i due fratelli Eteocle e Polinice per la successione in Tebe al trono di Edipo (ma anche se il tema è mitologico, dotato di un complesso apparato divino, la vera sostanza del contenuto riporta irresistibilmente verso la Pharsalia di Lucano).
In un insolito epilogo programmatico, Stazio dichiara poi di avere un modello altissimo, anche se preso coi dovuti rispetti: l'Eneide, di cui le due esadi riproducono fedelmente la metà odissiaca di preparazione e quella iliadica di guerra.
In verità, i modelli poetici sono molti: Stazio dimostra una buona conoscenza della tragedia greca (Eschilo) e forse anche di alcuni poemi ciclici (Antimaco di Colofone) o di loro riassunti. Talora (oltre che l'Omero mediato da Virgilio) appaiono anche modelli più insoliti: Euripide, Apollonio Rodio, persino Callimaco (e gli alessandrini in genere); infine, lo stile narrativo e la metrica risentono della lezione tecnica di Ovidio, mentre la sua immagine del mondo dell'influsso di Seneca, da cui mutua anche, volendo, il gusto dell'orrido e la tendenza al patetico (caratteristiche comunque comuni alla letteratura del tempo).
Insomma, proprio qui - ovvero nel contrasto tra fedeltà alla tradizione virgiliana e le inquietudini modernizzanti - sta il vero centro dell'ispirazione epica di Stazio. Tuttavia, nonostante tale costellazione di influssi, e nonostante l'abbondanza di episodi minuti e di "miniature" sentimentali o pittoresche, l'opera non manca affatto di unità: anzi, il difetto tipico sono piuttosto gli ossessivi "corsi e ricorsi" a motivi e atmosfere: tutta la storia risulta, ad esempio, dominata da una ferrea "necessità universale" (la cui funzione è enfatizzata in un apparato divino come detto tipicamente virgiliano), che appiattisce le cose, gli uomini e le stesse divinità (è qui che Stazio si avvicina invece più a Lucano).
Dopo il poema tebano, Stazio si proponeva un ulteriore magnum opus con la Achilleide che, interrotta all'inizio del II libro per la morte del poeta, sarebbe stato un poema epico sull'educazione e le vicende della vita di Achille: ma la narrazione giunge fino alla partenza dell'eroe per Troia. Il tono è più disteso e idillico che nella barocca Tebaide, benché nell'opera tutta si evidenzi una forte accentuazione della componente etica.
Di estrema rilevanza per ricostruire lo sfondo culturale e sociale dell'autore e dell'epoca sono le Silvae, una raccolta di 32 componimenti poetici d'occasione divisi in 5 libri, per un totale di circa 3300 versi. Ciascun libro è preceduto da un'epistola dedicatoria in prosa. I primi 4 libri furono pubblicati tra il 92 e il 95; il quinto uscì probabilmente dopo la morte dell'autore. Il metro prevalente è l'esametro: dei 32 componimenti solo quattro sono in endecasillabi, uno è un'ode saffica e un altro è un'ode alcaica. Il titolo Silvae allude alla varietà dei contenuti della raccolta ("materiale vario"), e anche al loro stato di "abbozzo", di poesia composta con rapidità e quasi improvvisando ("materiale grezzo").
Tra le poesie contenute nelle Silvae si trovano epicedi per la morte di persone o anche di animali, encomi, genetliaci, poesie di ringraziamento, descrizioni, per lo più collocate in contesti encomiastici, mentre alcuni carmi sono di argomento autobiografico.
Perduti sono il De bello germanico, un poema sulle campagne germaniche di Domiziano e Agave, una pantomima di successo, ricordata da Giovenale.
Dante lo confonde con Lucio Stazio Ursulo, noto retore vissuto ai tempi di Nerone e nativo di Tolosa. La confusione risale ad autori latini tardoantichi come san Girolamo e Fulgenzio.
Stazio compare nella Divina Commedia come accompagnatore di Dante assieme a Virgilio nel canto XXI del Purgatorio. Dante, infatti, unico tra i suoi contemporanei a quanto se ne sa, credeva che il poeta si fosse convertito al Cristianesimo, sempre grazie a Virgilio, suo mentore certo nella poesia, che il Medioevo considerava precursore e profeta dell'avvento di Cristo.
Tale convinzione fu facilitata dall'oblio da cui erano avvolte ancora al tempo di Dante le Silvae, che avrebbero illuminato certi aspetti privati della personalità di Stazio. Ma, anche prima di Dante, la Tebaide costituiva un'importante fonte di ispirazione per gli scrittori medievali che aspiravano allo sviluppo di un'epica allegorica.
Lo stesso Dante attinge dalla Tebaide, per esempio per il noto episodio dedicato alla figura del conte Ugolino (Inferno, canto XXXII), ispirato al crudo episodio di Tideo e Melanippo (Tebaide, libro VIII, vv. 733 ss.); oppure per l'immagine delle due lingue di fuoco che ospitano gli spiriti di Ulisse e Diomede (Inferno, canto XXVI), chiaramente ispirato alla scena del libro XII della Tebaide dove, per ironia della sorte, Eteocle e Polinice si trovano a dividere lo stesso rogo funebre e nemmeno nella morte gli spiriti dei due fratelli trovano pace: il fuoco infatti si divide in due lingue distinte, in una lotta e in un'avversione senza fine.
AUDIO
Eugenio Caruso - 07/02/2021