Dante, Purgatorio Canto XXX. Incontro con Beatrice

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Canto XXX del Purgatorio vede protagonista assoluta Beatrice, la cui apparizione è stata più volte evocata nel corso dei Canti XXVII-XXIX e che rappresenta l'evento centrale della prima parte del poema, il primo fondamentale traguardo raggiunto da Dante nel suo percorso di redenzione.
Il Canto risulta diviso in due parti, la prima dedicata al preludio dell'apparizione della donna e alla scomparsa di Virgilio, col primo rimprovero di Beatrice, la seconda riservata al pianto di Dante e alle dure accuse di «traviamento» che lei gli rivolge.
L'episodio si apre con la stessa atmosfera di attesa con cui si era chiuso il precedente e con i ventiquattro vegliardi che si voltano a guardare il carro vuoto: uno di loro grida Veni, sponsa de Libano (il versetto del Cantico dei Cantici solitamente riferito alla Chiesa, qui rivolto evidentemente a Beatrice) e uno stuolo di angeli si alza in volo gettando rose sul carro, preparando l'avvento della donna che sarà protagonista di una sorta di trionfo e verrà descritta con forti immagini cristologiche come già nella Vita nuova (inclusa l'espressione Benedictus qui venis, il saluto rivolto a Cristo al suo ingresso a Gerusalemme e che qui è rivolto esso pure a Beatrice).
La scena è descritta con numerose citazioni scritturali e classiche, specie nel verso virgiliano Manibus... date lilia plenis tratto da Aen., VI, 883 in cui Anchise celebrava la figura di Marcello, accentuando il carattere sacrale di tutta la cerimonia: Beatrice che appare dietro la nube di fiori è paragonata a un sole nascente, immagine che rimanda al suo significato allegorico di grazia santificante e teologia rivelata, in quanto illuminerà Dante mostrandogli il giusto cammino da compiere (già in XXVII, 133 Virgilio gli aveva detto che il sole gli splendeva in fronte). Analogo significato ha anche il suo abbigliamento, con il velo bianco che la ricopre, simbolo di purezza, la ghirlanda di ulivo che rimanda a Minerva come dea della sapienza (tale accostamento è anche biblico), la veste rossa che ricorda l'abito di colore sanguigno indossato da Beatrice al primo incontro col poeta (Vita nuova, II), per quanto i tre colori siano quelli tradizionalmente associati a fede, speranza, carità, come già per le tre donne danzanti alla destra del carro.
L'apparizione di Beatrice è tale da suscitare ovviamente la forte emozione di Dante, che riconosce la donna da lui amata quando era in vita e ne rimane profondamente scosso: si volta verso Virgilio per comunicargli la sua emozione, ma il poeta latino è scomparso per lasciare il posto alla nuova guida di Dante, in quanto allegoria della ragione umana che cede il passo alla teologia. Al di là del senso allegorico, in ogni caso, Dante è toccato da un profondo dolore per l'abbandono di colui che l'ha assistito per i due terzi del viaggio, e la sua disperazione è sottolineata dalla triplice anafora Virgilio..., nonché dall'appellativo dolcissimo patre con cui il poeta latino è qualificato (patre è un forte latinismo, in contrasto col popolare mamma di pochi versi prima, anch'esso riferito indirettamente a Virgilio).
Da rimarcare anche la citazione letterale di Aen., IV, 23 (adgnosco veteris vestigia flammae) con cui Dante indica il riconoscimento di Beatrice, che è l'ultimo commosso omaggio al maestro perduto: Dante ha perso il proprio padre poetico e ha ritrovato la donna amata, ma questa gli rivolge subito dure parole di accusa, chiamandolo per nome (la prima e unica volta nel poema che questo è citato, di necessità) e rimproverandolo per aver osato accedere all'Eden, sede dell'uomo felice.
Qui si apre la seconda e altrettanto importante parte del Canto, con la prima reazione di forte vergogna da parte di Dante, le parole consolatorie degli angeli, la sua commozione e il pianto: quest'ultimo è descritto con l'ampia e complessa similitudine della neve ghiacciata sull'Appennino che si scioglie ai primi venti caldi, come il gelo del cuore del poeta si scioglie in pianto per le parole degli angeli.
Segue poi un più ampio e dettagliato rimprovero di Beatrice, le cui accuse circostanziate ci permettono di parlare di traviamento da parte di Dante che corrisponde al peccato che lo ha condotto nella selva oscura iniziale, anche se è assai arduo precisare in cosa consistesse effettivamente tale peccato (si veda in proposito più oltre): di sicuro Beatrice sottolinea la natura virtuosa di Dante nella sua vita nova (in gioventù), per effetto degli influssi celesti e della grazia divina, ma anche il suo allontanamento dalla guida di lei dopo la sua morte per seguire altrui, delle imagini di ben... false che non mantengono alcuna promessa e che conducono altresì alla dannazione.
È chiaro che Beatrice accusa Dante di averne tradita la memoria con un peccato di natura morale, amando cioè altre donne (come la donna gentile), o intellettuale, trascurando la teologia per intraprendere studi filosofici, ma in ogni caso questo comportamento fu tale da fargli rischiare seriamente la dannazione ed è il motivo che l'ha spinta a scendere nel Limbo, invocare l'aiuto di Virgilio, mostrargli le perdute genti per riportarlo sulla diritta via (fuor di metafora, condurlo alla salvezza attraverso un percorso di espiazione: ora Dante ha scontato i suoi peccati e si è riappropriato della sua innocenza perduta, pronto a essere illuminato dalla grazia per proseguire il suo viaggio).
Beatrice rivolge i suoi rimproveri non direttamente al poeta, ma rivolgendosi agli angeli perché lui ascolti, dal momento che quelle creature vedono tutto nella mente di Dio e ben sanno quindi la natura delle azioni peccaminose da lui commesse: la donna sottolinea la necessità che Dante si renda conto della cattiva strada intrapresa a suo tempo e ammetta le sue colpe, attraverso un sincero pentimento manifestato attraverso il pianto, prima di essere immerso nel Lete le cui acque cancelleranno in lui ogni ricordo del peccato compiuto. Il Canto si chiude appunto con questa giustificazione di Beatrice della propria durezza agli occhi degli angeli, che avevano voluto intercedere con parole di misericordia a favore del poeta, riassumendo in breve anche la vicenda allegorica che l'aveva vista protagonista insieme a Virgilio nel Canto II dell'Inferno: la prima parte del viaggio si è conclusa e sta per iniziare quella più importante, che condurrà Dante in Paradiso e, allegoricamente, lo porterà alla vera conoscenza che non può prescindere dalla fede nelle verità rivelate, senza ombra di superbia intellettuale. Il rimprovero al poeta avrà un seguito, come si vedrà, nel Canto seguente, in cui Beatrice alluderà in modo ancor più esplicito alla sua vita peccaminosa successivamente alla sua morte terrena, prima che Matelda lo conduca al rito dell'immersione nel fiume Lete.
Non vi è dubbio che la selva oscura della scena iniziale del poema, oltre a simboleggiare il disordine morale e civile dell'Italia del tempo contro cui il poeta rivolge la propria denuncia, rappresenta anche il peccato personale da lui commesso e che rischia di portarlo alla dannazione: nel Prologo non vengono forniti ulteriori dettagli, ma nel corso dell'opera alcuni indizi permettono di avanzare qualche ipotesi circa la natura del cosiddetto «traviamento» di Dante-personaggio, specie in occasione dei rimproveri di Beatrice nel Canto XXX del Purgatorio.
In realtà già poco prima, nell'incontro con Forese Donati (XXIII, 115-117), Dante aveva parlato all'amico della vita da entrambi condotta quando Forese era ancora vivo, tale da rendere grave il memorar presente: evidente allusione al reciproco scambio di insulti della Tenzone, ma anche a uno stile di vita gaudente e disordinato che, forse, li aveva visti compagni di bagordi e che, nel caso di Dante, si riferiva a relazioni amorose con altre donne dopo la morte di Beatrice, periodo nel quale era avvenuto lo scambio di sonetti ingiuriosi con l'amico-rivale.
Della stessa cosa sembra parlare anche Beatrice in occasione del suo incontro con Dante (XXX, 100 ss.), allorché lo accusa di aver tradito le alte aspettative riposte nella sua persona e giustificate dalle qualità che egli possedeva virtualmente, salvo poi voltare le spalle al bene e darsi altrui, quando la donna era morta e non poteva più guidarlo sulla retta via. Beatrice pare alludere ad amori peccaminosi e sensuali cui Dante si sarebbe dedicato dopo la sua morte terrena, cosa che il poeta stesso aveva in parte ammesso nella Vita nuova descrivendo la «donna gentile», una giovane nobile donna che lo aveva consolato della perdita della gentilissima, senza contare la Petra cantata nelle Petrose che era oggetto di una passione amorosa ben più carnale dell'amore spiritualizzato al centro del libello.
Nel primo rimprovero Beatrice parla di imagini di ben... false che Dante seguì dopo la sua morte, che nulla promession rendono intera, mentre in XXXI, 34 ss. Dante parlerà di cose che col falso lor piacer deviarono i suoi passi e poco oltre Beatrice parlerà di serene che hanno sviato il poeta e, in particolare, di una pargoletta (una giovane donna) che lo ha indotto a gravar le penne in giuso, a volare basso verso la Terra anziché verso il Cielo.
Chiunque sia la pargoletta di cui si parla in questo passo (la «donna gentile», Petra, la donna che con questo nome è cantata da Dante nelle Rime, LXXXVII-LXXXIX), tutto lascia intendere che Beatrice rimproveri a Dante relazioni amorose cui egli si diede dopo la sua morte, e che sarebbero avvenute più o meno nello stesso periodo della Tenzone con Forese; se non fosse che in quello stesso periodo Dante si dedicò anche agli studi filosofici da cui sarebbe poi nato il Convivio e che proprio in quest'opera (II, 12) Dante identifica la «donna gentile» della Vita nuova come allegoria della filosofia, per cui è lecito supporre che Dante, in realtà, abbia tradito la memoria di Beatrice in quanto allegoria della teologia per darsi a studi filosofici, commettendo un peccato di natura intellettuale ben più grave di qualche amore disordinato e sensuale.
Tale interpretazione non è in contrasto con l'altra, in quanto è semplicemente la rilettura in chiave allegorica di una stessa vicenda biografica: essa è inoltre confermata dalle parole che Beatrice rivolge a Dante alla fine della II Cantica (XXXIII, 85-90), quando il poeta si stupisce di non riuscire a capire le sue parole e lei risponde che ciò serve a fargli comprendere quanto quella scuola che lui ha seguito e la sua dottrina siano lontane dai suoi discorsi, e quanto quella via percorsa da Dante sia distante da quella di Dio, tanto quanto la Terra è distante dal Primo Mobile.
Il termine «dottrina» fa pensare a un insegnamento filosofico, il che ci riporta a quanto detto da Dante stesso nel Convivio: si tratta di una dottrina indipendente dagli studi teologici, un tentativo di arrivare alla conoscenza senza tener conto della verità rivelata e, quindi, un peccato di superbia intellettuale, un traviamento che poteva portarlo alla dannazione non meno della sua vita gaudente e spregiudicata al tempo delle Petrose. Ciò non significa, naturalmente, che si debba pensare a un Dante eretico o seguace addirittura dell'Averroismo, ma è indubbio che i suoi studi filosofici culminati nel Convivio siano stati poi interpretati come una sorta di conversio ad temporalia, di eccessivo amore per i beni e la scienza terrena, se non proprio come aversio a Deo; di sicuro Dante riteneva quella stagione come un allontanamento colpevole da Beatrice in quanto rivelazione, uno straniarsi da lei che l'aveva condotto direttamente nella selva oscura da cui lei stessa, sollecitando l'intervento di Virgilio, l'aveva salvato: il metaforico viaggio per mare che Dante aveva intrapreso nel Convivio era terminato in un naufragio, non diversamente da quello metaforico di Ulisse giunto in prossimità del Purgatorio, colpevole non meno di Dante di superbia e orgoglio intellettuale nel non voler sottostare ai decreti divini in materia di conoscenza.

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Dante e Beatrice di Carl W. F. OESTERLY

RIASSUNTO

Continua la descrizione della processione simbolica, che si ferma all'inizio di questo canto. Uno dei ventiquattro anziani che la precedevano (questi ventiquattro «seniori» sono detti qui «gente verace»,, perché rappresentano i libri della Bibbia, che è veritiera in quanto ispirata da Dio) acclama tre volte, seguito da tutti gli altri: «Veni, sponsa, de Libano!», parole del Cantico dei Cantici di Salomone nelle quali tradizionalmente si identifica la sponsa con la Chiesa. In risposta si levano le voci degli angeli sul carro, che cantano «Benedictus qui venis!» le parole che nel Nuovo Testamento gli ebrei rivolgono a Gesù quando questi entra in Gerusalemme — e «Manibus, o date, lilia plenis!» (Spargete gigli a piene mani), citazione dall'Eneide VI, dove si compiangeva la morte prematura di Marcello, erede di Augusto —.
È l'alba — momento allegorico di rinascita e speranza — e con questa similitudine viene introdotta l'apparizione di Beatrice, che appare velata dalla nuvola di fiori gettatale dagli angeli, vestita con un abito rosso fuoco (allegoria della carità), coperto da un mantello verde (allegoria della speranza), e con un velo candido (allegoria della fede: quindi le tre virtù teologali), e cinta da una corona di ulivo, pianta sacra a Minerva che rappresenta la sapienza. Dante non può ancora vederla, ma già ne sente la potenza — secondo un modulo tipico della poesia di Cavalcanti — e, tremante, si volge a Virgilio pronto a citare le sue stesse parole «Conosco i segni de l'antica fiamma» (v. 48: tratti dall'Eneide IV, ov'erano pronunciati da Didone): ma Virgilio è sparito, se n'è andato, e Dante per lo sconforto piange.
Virgilio se n'è andato, alle soglie del Paradiso terrestre, perché la sua figura rappresenta la ragione umana, e la sua funzione è esaurita: perché Dante apprenda i misteri della fede e si avvicini a Dio occorre ora la ragione divina, la teologia, rappresentata da Beatrice. La scomparsa di Virgilio è carica di pathos, soprattutto in quanto non viene descritta direttamente, e fa piangere Dante, che in tal modo sporca di nuovo le proprie guance pulite dalla rugiada prima di entrare nel Purgatorio. A rimproverarlo di questa manifestazione umana interviene bruscamente Beatrice, chiamandolo per nome (unica volta in tutta la Commedia, come ci ricorda Dante stesso ai vv. 62-63).
«Dante, non piangere ora, per la partenza di Virgilio: dovrai infatti piangere per ben altro dolore!». Beatrice si erge sul carro di là dal fiume Lete come un ammiraglio continuando: «Guardami, sono proprio io, Beatrice! Come ti sei permesso di accedere al monte (del Purgatorio)? Non sapevi che qui l'uomo è felice?». Con sarcasmo e ironia gli rimprovera il suo pianto, facendogli abbassare gli occhi dalla vergogna, e gli angeli intervengono in suo favore cantando un salmo di fede nella misericordia divina: «In te, Domine, speravi», fino a «... pedes meos». Per la vergogna, allora, Dante piange di nuovo.
In risposta agli angeli, ma in realtà rivolta a lui, Beatrice espone allora le colpe di lui, perché la colpa e il dolore — dice — siano in eguale misura (perché cioè Dante si penta quanto deve del suo peccato): «Non solo per l'influsso dei cieli alla sua nascita, ma anche per la generosità della grazia divina, troppo alta per essere nota agli uomini, Dante ebbe tali potenzialità nella sua giovinezza, che avrebbe potuto dare ammirevoli prove di sé. Io lo sostenni per qualche tempo con il mio volto, mostrando i miei giovani occhi a lui e indirizzandolo sulla retta via, ma quando morii, egli si distolse da me, e si diede a un'altra: quando ascesi da carne a spirito e crebbi in bellezza e virtù, io gli fui meno gradita, ed egli si diresse su una via non vera, seguendo false immagini di bene che non rendono per intero ciò che promettono. Né mi valse richiedere ispirazioni a Dio, con le quali lo richiamai in sogno e per altri mezzi: così poco gliene importò! Cadde così in basso, che per salvarlo dalla perdizione non ci fu altro modo che mostrargli le perdute genti (l'Inferno), ed è per questo che visitai il Limbo, che è la soglia dell'Inferno, e piangendo chiesi a Virgilio di guidarlo. La volontà divina sarebbe infranta, se egli passasse il Lete ora, senza offrire in compenso un pentimento tale da farlo piangere.» Si assiste in questi canti a un innalzamento dello stile, che prelude già alla maggiore difficoltà del Paradiso. Notevole è l'impasto dantesco di fonti classiche e cristiane, come per esempio nelle molteplici citazioni tratte soprattutto da Virgilio e dalla Bibbia.
Al verso 55, unica ricorrenza di tutta la Divina Commedia, compare il nome di Dante, prima parola pronunciata da Beatrice — il cui nome è pure citato, pochi versi dopo —, a meglio sottolineare l'importanza del passo, la forte connotazione autobiografica, ma anche religiosa, di una letteratura che si caratterizza come vocazione. Beatrice era stata celebrata nella Vita Nova, nella quale, secondo le convenzioni stilnovistiche, si parla di un amore puro, ma riferito sempre a una donna terrena; qui Beatrice perde i suoi connotati reali per assumere una funzione allegorica. In questo canto, poi, ella non è totalmente visibile, nascosta dal velo e dalla nuvola di fiori; tuttavia la sua potenza si fa sentire.
La sua è una presenza severa e imperiosa, è quella di un «ammiraglio», ma anche quella di una madre (si noti che poco prima anche Virgilio era stato indirettamente paragonato a una madre, a meglio sottolineare la continuità della funzione rivestita dai due personaggi): si delineano così due aspetti complementari di Beatrice che meglio si definiranno nel Paradiso, quello della maestra, guida, e quello della madre affettuosa, che fa piangere il figlio (il tema del pianto è molto presente in tutto il canto, e vengono rappresentati diversi tipi di pianto: pianto di dolore, pianto liberatorio, pianto di commozione, partecipazione, e infine pianto di pentimento), ma sempre per il suo bene.
Il critico Charles Singleton applica un'interpretazione figurale alla Divina Commedia, secondo un procedimento tipico del Medioevo, perché vede nella realtà sensibile una prefigurazione di verità eterne e valorizza dei personaggi la realtà terrena che, nel disegno provvidenziale, prefigura una realtà ultraterrena. Beatrice figura della Grazia divina non è semplice allegoria, frutto di invenzione poetica, perché mantiene nella vita ultraterrena la sua realtà umana e storica. Alle soglie del Paradiso, essa giudica Dante allo stesso modo in cui farà Cristo il giorno del Giudizio Universale. In ciò si esprime la caratterizzazione figurale del personaggio, nell'essere donna reale e nell'annunciare, nel contempo, una Verità più alta e universale, al pari di Cristo.

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Apparizione di Beatrice DI A. NATTINI

Note
- L'espressione settentrion del primo cielo (v. 1) indica i sette candelabri, definiti come una costellazione dell'Empireo, appunto il primo Cielo (septem triones, lett. «sette buoi», è il nome latino dell'Orsa Minore; 'l più basso è invece la costellazione dell'Orsa che mostra la via ai naviganti, in quanto collocata nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse e perciò più in basso rispetto all'Empireo).
- Al v. 11 è parafrasato il versetto del Cantico dei Cantici (IV, 8) in cui si dice Veni de Libano, sponsa mea, / veni de Libano, veni; l'esegesi biblica riferiva queste parole solitamente alla Chiesa, sposa di Cristo.
- Al v. 15 la revestita voce indica il fatto che le anime, dopo la resurrezione il Giorno del Giudizio, si riapproprieranno del corpo (il vb. «alleluiare» è prob. usato in senso intransitivo ed è una sorta di abl. assoluto: «mentre la voce, rivestita del corpo, intonerà alleluia»). Alcuni mss. leggono carne in luogo di voce, ma è variante tarda.
- Il termine basterna (v. 16) vuol dire «carro» e deriva dal lat. tardo, in cui indicava la lettiga per le matrone.
- Benedictus qui venis (v. 19) sono le parole rivolte a Gesù al suo ingresso in Gerusalemme (Benedictus qui venit in nomine Domini, Matth., XXI, 9; Marc., XI, 10; Luc., XIX, 38). L'invocazione è certo da riferire a Beatrice, associata all'immagine di Cristo e per questo indicata col maschile.
- Il v. 21 è citazione diretta di Aen., VI, 883, con l'interposizione di oh per quadrare la misura dell'endecasillabo (sono le parole con cui Anchise celebra la figura di Marcello, il nipote di Augusto destinato a una morte precoce).
- I vv. 40-42 rimandano al cap. II della Vita Nuova, in cui è narrato il primo incontro con Beatrice quando Dante aveva nove anni; la puerizia finiva a dieci anni.
- Al v. 46 dramma indica una quantità minima, come in XXI, 99 (peso di dramma).
- Il v. 48 è traduzione letterale di Aen., IV, 23 (adgnosco veteris vestigia flammae, tratto dal dialogo di Didone con la sorella Anna sul suo amore per Enea).
- L'antica matre citata al v. 52 è Eva.
- Al v. 55 il nome di Dante è citato per la prima e unica volta nel poema (più avanti, v. 63, il poeta se ne scusa dicendo di essere costretto a registrarlo di necessità).
- Al v. 56 anco potrebbe voler dire «così presto» e non «ancora» come in fine di verso.
- Il vb. Guardaci al v. 73 vuol dire «guarda qui» e non è un pluralis maiestatis: alcuni mss. leggono Ben sem, ben sem Beatrice, ma è prob. una correzione per riportare tutto alla prima persona plurale (così come altri mss. leggono Guardami ben).
- Il vb. degnasti (v. 74) è stato interpretato nel senso di «degnarsi», «avere la compiacenza», quindi Beatrice direbbe a Dante che finalmente si è degnato di accedere all'Eden; più probabile che la donna lo accusi di avere l'ardire di presentarsi lì (nel senso di «avere il coraggio»).
- Il Salmo intonato dagli angeli ai vv. 82-84 è il XXX della Vulgata e Dante intende dire che arrivarono solo al versetto che si chiude con le parole pedes meos (più avanti il Salmo non è più adatto alla circostanza).
- I venti schiavi (v. 87) sono i venti freddi della Schiavonia, la regione balcanica degli Slavi, che fanno ghiacciare la neve tra gli alberi (le vive travi) dell'Appennino (lo dosso d'Italia). La terra che perde ombra (v. 89) è l'Africa, da cui spirano i venti caldi, così definita perchè lì l'ombra a mezzogiorno è sempre più corta man mano che ci si avvicina all'Equatore.
- Il vb. notan (v. 92) può voler dire «cantano» (gli angeli canterebbero seguendo l'armonia delle sfere celesti), ma l'interpretazione è dubbia.
- Ai vv. 109-111 Beatrice intende dire che Dante aveva ricevuto un benefico influsso astrale alla nascita, anche perché era nato sotto il segno dei Gemelli che disponeva alle lettere e alla scienza (cfr. Inf., XV, 55-60, le parole di Brunetto Latini, e Par., XXII, 112-114).
- Al v. 125 seconda etade indica la giovinezza, che si riteneva iniziasse a 25 anni dopo l'adolescenza (cfr. Conv., IV, 24).

TESTO

Quando il settentrion del primo cielo, 
che né occaso mai seppe né orto 
né d’altra nebbia che di colpa velo,                                 3

e che faceva lì ciascun accorto 
di suo dover, come ‘l più basso face 
qual temon gira per venire a porto,                                  6

fermo s’affisse: la gente verace, 
venuta prima tra ‘l grifone ed esso, 
al carro volse sé come a sua pace;                                9

e un di loro, quasi da ciel messo, 
Veni, sponsa, de Libano’ cantando 
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.                             12

Quali i beati al novissimo bando 
surgeran presti ognun di sua caverna, 
la revestita voce alleluiando,                                            15

cotali in su la divina basterna 
si levar cento, ad vocem tanti senis
ministri e messaggier di vita etterna.                             18

Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’, 
e fior gittando e di sopra e dintorno, 
Manibus, oh, date lilia plenis!’.                                        21

Io vidi già nel cominciar del giorno 
la parte oriental tutta rosata, 
e l’altro ciel di bel sereno addorno;                                24

e la faccia del sol nascere ombrata, 
sì che per temperanza di vapori 
l’occhio la sostenea lunga fiata:                                     27

così dentro una nuvola di fiori 
che da le mani angeliche saliva 
e ricadeva in giù dentro e di fori,                                     30

sovra candido vel cinta d’uliva 
donna m’apparve, sotto verde manto 
vestita di color di fiamma viva.                                         33

E lo spirito mio, che già cotanto 
tempo era stato ch’a la sua presenza 
non era di stupor, tremando, affranto,                            36

sanza de li occhi aver più conoscenza, 
per occulta virtù che da lei mosse, 
d’antico amor sentì la gran potenza.                              39

Tosto che ne la vista mi percosse 
l’alta virtù che già m’avea trafitto 
prima ch’io fuor di puerizia fosse,                                   42

volsimi a la sinistra col respitto 
col quale il fantolin corre a la mamma 
quando ha paura o quando elli è afflitto,                       45

per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma 
di sangue m’è rimaso che non tremi: 
conosco i segni de l’antica fiamma’.                             48

Ma Virgilio n’avea lasciati scemi 
di sé, Virgilio dolcissimo patre, 
Virgilio a cui per mia salute die’mi;                                51

né quantunque perdeo l’antica matre, 
valse a le guance nette di rugiada, 
che, lagrimando, non tornasser atre.                            54

«Dante, perché Virgilio se ne vada, 
non pianger anco, non pianger ancora; 
ché pianger ti conven per altra spada».                        57

Quasi ammiraglio che in poppa e in prora 
viene a veder la gente che ministra 
per li altri legni, e a ben far l’incora;                               60

in su la sponda del carro sinistra, 
quando mi volsi al suon del nome mio, 
che di necessità qui si registra,                                      63

vidi la donna che pria m’appario 
velata sotto l’angelica festa, 
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.                              66

Tutto che ‘l vel che le scendea di testa, 
cerchiato de le fronde di Minerva, 
non la lasciasse parer manifesta,                                  69

regalmente ne l’atto ancor proterva 
continuò come colui che dice 
e ‘l più caldo parlar dietro reserva:                                 72

«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. 
Come degnasti d’accedere al monte? 
non sapei tu che qui è l’uom felice?».                           75

Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; 
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba, 
tanta vergogna mi gravò la fronte.                                   78

Così la madre al figlio par superba, 
com’ella parve a me; perché d’amaro 
sente il sapor de la pietade acerba.                               81

Ella si tacque; e li angeli cantaro 
di subito ‘In te, Domine, speravi’; 
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.                             84

Sì come neve tra le vive travi 
per lo dosso d’Italia si congela, 
soffiata e stretta da li venti schiavi,                                 87

poi, liquefatta, in sé stessa trapela, 
pur che la terra che perde ombra spiri, 
sì che par foco fonder la candela;                                  90

così fui sanza lagrime e sospiri 
anzi ‘l cantar di quei che notan sempre 
dietro a le note de li etterni giri;                                       93

ma poi che ‘ntesi ne le dolci tempre 
lor compatire a me, par che se detto 
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,                     96

lo gel che m’era intorno al cor ristretto, 
spirito e acqua fessi, e con angoscia 
de la bocca e de li occhi uscì del petto.                         99

Ella, pur ferma in su la detta coscia 
del carro stando, a le sustanze pie 
volse le sue parole così poscia:                                    102

«Voi vigilate ne l’etterno die, 
sì che notte né sonno a voi non fura 
passo che faccia il secol per sue vie;                           105

onde la mia risposta è con più cura 
che m’intenda colui che di là piagne, 
perché sia colpa e duol d’una misura.                         108

Non pur per ovra de le rote magne, 
che drizzan ciascun seme ad alcun fine 
secondo che le stelle son compagne,                         111

ma per larghezza di grazie divine, 
che sì alti vapori hanno a lor piova, 
che nostre viste là non van vicine,                                 114

questi fu tal ne la sua vita nova 
virtualmente, ch’ogne abito destro 
fatto averebbe in lui mirabil prova.                                 117

Ma tanto più maligno e più silvestro 
si fa ‘l terren col mal seme e non cólto, 
quant’elli ha più di buon vigor terrestro.                       120

Alcun tempo il sostenni col mio volto: 
mostrando li occhi giovanetti a lui, 
meco il menava in dritta parte vòlto.                             123

Sì tosto come in su la soglia fui 
di mia seconda etade e mutai vita, 
questi si tolse a me, e diessi altrui.                              126

Quando di carne a spirto era salita 
e bellezza e virtù cresciuta m’era, 
fu’ io a lui men cara e men gradita;                               129

e volse i passi suoi per via non vera, 
imagini di ben seguendo false, 
che nulla promession rendono intera.                         132

Né l’impetrare ispirazion mi valse, 
con le quali e in sogno e altrimenti 
lo rivocai; sì poco a lui ne calse!                                    135

Tanto giù cadde, che tutti argomenti 
a la salute sua eran già corti, 
fuor che mostrarli le perdute genti.                               138

Per questo visitai l’uscio d’i morti 
e a colui che l’ha qua sù condotto, 
li prieghi miei, piangendo, furon porti.                          141

Alto fato di Dio sarebbe rotto, 
se Leté si passasse e tal vivanda 
fosse gustata sanza alcuno scotto 

di pentimento che lagrime spanda».                            145

PARAFRASI

Quando la costellazione formata da sette stelle dell'Empireo (i candelabri), che non ha mai conosciuto alba o tramonto, né è mai stata offuscata da nebbia se non quella del peccato, e che lì indicava a ciascuno il suo dovere, proprio come l'Orsa Maggiore indica la via a chiunque gira il timone per giungere in porto, si fermò, la gente santa (i ventiquattro vecchi) che era venuta tra essa e il grifone si voltò verso il carro, come alla sua pace;

e uno dei vecchi, come se fosse un inviato del cielo, gridò cantando per tre volte 'Vieni, sposa, dal Libano', seguito da tutti gli altri.

Come i beati risorgeranno solleciti all'ultima chiamata (il Giorno del Giudizio), ognuno dalla sua tomba, cantando alleluia con la voce proveniente dal corpo di cui si saranno rivestiti, così sul carro divino si alzarono cento ministri e messaggeri di vita eterna (angeli), in risposta alla voce di un vecchio tanto autorevole.

Tutti dicevano: 'Benedetto tu che vieni!', e, gettando fiori in alto e tutt'intorno, aggiungevano: 'Oh, spargete gigli a piene mani!'

Io ho già visto all'inizio del giorno la parte orientale tutta di colore roseo, e il resto del cielo adornato da un bel colore sereno;

e ho visto il sole nascere dietro un velo, così che l'occhio poteva fissarlo a lungo grazie a spessi vapori che lo temperavano:

allo stesso modo, dentro la nuvola di fiori che saliva dalle mani degli angeli e ricadeva in basso dentro il carro e di fuori, mi apparve una donna che indossava un velo bianco ed era incoronata di ulivo, sotto un verde mantello e vestita di colore rosso fiammante.

E il mio spirito, che era stato già tanto tempo senza tremare, colpito dallo stupore per la sua presenza, anche senza vederla con gli occhi, grazie a una virtù nascosta che mosse da lei, sentì la grande potenza di un antico amore.

Non appena la mia vista fu colpita dall'alta virtù amorosa che già mi aveva trafitto prima che io uscissi dalla fanciullezza (quando avevo nove anni), mi voltai a sinistra con l'ansia con cui il bambino corre dalla mamma, quando ha paura o è turbato da qualcosa,

per dire a Virgilio: 'Non mi è rimasta neppure una goccia di sangue che non tremi: conosco i segni dell'antica fiamma amorosa'.

Ma Virgilio ci aveva lasciati privi di sé, Virgilio, dolcissimo padre, Virgilio, al quale mi affidai per la mia salvezza;

e tutto ciò (l'Eden) che perse l'antica madre (Eva) non impedì alle mie guance pulite dalla rugiada di tornare sporche per il mio pianto.

«Dante, per il fatto che Virgilio se ne sia andato non piangere così presto, non piangere ancora, poiché dovrai piangere per altri motivi».

E come un ammiraglio che a poppa e a prora va a sorvegliare i marinai che governano le altre navi, e li sprona a far bene;

così io vidi sul fianco sinistro del carro, quando mi voltai al suono del mio nome che sono costretto a citare in questi versi, la donna che prima mi era apparsa velata dai fiori gettati dagli angeli, che fissava lo sguardo verso di me al di qua del fiume (Lete).

Anche se il velo che le scendeva sulla testa, coronato dalle fronde di Minerva (ulivo), non permetteva di vederla in viso, ancora regalmente altera nel suo atteggiamento continuò, come colui che parla e riserva gli argomenti più efficaci per la fine del discorso:

«Guarda bene qui! Sì, sono proprio io, sono proprio Beatrice! Come hai osato accedere al Paradiso Terrestre? Non sapevi che questa è la sede dell'uomo felice?»

Gli occhi mi caddero giù nelle acque chiare del fiume; ma vedendo la mia immagine riflessa, li volsi all'erba perché una grande vergogna mi fece chinare la fronte.

Come la madre sembra superba al figlio, così lei sembrava a me; infatti l'affetto che si manifesta col rimprovero ha un sapore amaro.

La donna tacque; e gli angeli cantarono subito 'In te, o Signore, ho riposto la mia speranza', ma non andarono oltre il versetto che dice 'I miei piedi'.

Come la neve si ghiaccia tra gli alberi dell'Appennino, colpita dai venti freddi della Schiavonia, poi, liquefatta, si scioglie poco a poco, non appena l'Africa manda i suoi venti caldi, così che sembra una candela sciolta dal fuoco;

allo stesso modo io fui senza lacrime e sospiri, prima del canto di quelli (gli angeli) che cantano sempre dietro l'armonia delle ruote celesti;

ma dopo che sentii nelle loro dolci melodie che mi compativano, come se avessero detto: 'Donna, perché lo avvilisci in tal modo?',

il gelo che mi si era stretto intorno al cuore si trasformò in acqua e fiato, e uscì fuori dalla bocca e dagli occhi con angoscia.

Beatrice, sempre stando ferma sul fianco sinistro del carro, rivolse poi le sue parole a quelle creature devote (gli angeli):

«Voi vegliate nell'eterna luce di Dio, così che né la notte né il sonno vi sottraggono alcun passo che il mondo compie nelle sue vie (sapete tutto ciò che accade sulla Terra);

perciò la mia risposta ha lo scopo di farsi sentire da colui che piange al di là del fiume, perché il dolore sia commisurato alla colpa.

Non solo grazie all'influenza dei Cieli, che indirizzano ciascun essere al suo fine secondo la virtù della stella che presiede alla sua nascita, ma anche per la generosità della grazia divina, che piove da nubi così alte che la nostra vista non può neppure avvicinarsi, questi (Dante) nella sua gioventù ebbe tali virtù in potenza che in lui ogni buona attitudine avrebbe portato a straordinari risultati.

Ma un terreno si fa tanto più cattivo e selvatico, con cattive sementi e quando non è coltivato, quanto più esso è dotato di fertilità naturale.

Per qualche tempo sostenni Dante col mio volto: mostrandogli i miei occhi giovani, lo conducevo con me sulla retta strada.

Ma non appena io fui sulla soglia della mia giovinezza e cambiai vita (morii), questi tradì la mia memoria e si diede ad altre donne.

Quando mi ero trasformata da carne a spirito e la mia bellezza e virtù erano accresciute, io gli fui meno cara e meno gradita;

e rivolse i suoi passi per una via fallace, seguendo false immagini di bene, che non mantengono nessuna promessa fatta.

Non mi servì ottenere dal Cielo buona ispirazione, con cui lo richiamai in sogno e in altro modo; a lui importò così poco!

Cadde tanto in basso, che ormai ogni mezzo per salvarlo era inefficace, salvo che mostrargli le genti perdute (i dannati).

Per questo visitai la soglia dell'Inferno (il Limbo) e rivolsi, piangendo, le mie preghiere a colui (Virgilio) che l'ha portato fin quassù.

L'alta volontà di Dio sarebbe infranta se Dante superasse il Lete e gustasse una tale vivanda (bevesse l'acqua del fiume) senza provare un pentimento tale da fargli versare lacrime».

AUDIO

Eugenio Caruso - 25-03/2021

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