Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
L'Eneide (in latino: Aeneis) è un poema epico della cultura latina scritto da Publio Virgilio Marone tra il 29 a.C. e il 19 a.C. Narra la leggendaria storia dell'eroe troiano Enea (figlio di Anchise e della dea Venere) che riuscì a fuggire dopo la caduta della città di Troia, e che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Alla morte di Virgilio il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri per un totale di 9.896 esametri, rimase privo degli ultimi ritocchi e revisioni dell'autore, testimoniate da 58 esametri incompleti; perciò nel suo testamento il poeta fece richiesta di farlo bruciare, nel caso in cui non fosse riuscito a completarlo, ma gli amici Vario Rufo e Plozio Tucca, non rispettando le volontà del defunto, salvaguardarono il manoscritto dell'opera e, successivamente, l'imperatore Ottaviano Augusto ordinò di pubblicarlo così com'era stato lasciato. I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all'Italia, mentre la seconda parte del poema narra la guerra, dall'esito vittorioso, dei troiani - alleati con i Liguri, con alcuni gruppi locali di Etruschi e con i Greci provenienti dall'Arcadia - contro i Rutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro appoggio, tra cui i Volsci e altri Etruschi; sotto il nome di Latini finiranno per essere conosciuti in seguito Enea e i suoi seguaci. Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande devozione (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e di Troia.
Attraverso quest'opera, Virglio ha reso celebri e trasmesso ai posteri numerosissime storie e racconti mitologici della classicità greca e romana. Molti racconti sono tipici della tragedia greca; "fortunatamente" per gli antichi greci e romani l'uccisione di mogli, amanti, figli, mariti, come stupri, incesti e altre violenze sessuali erano dovute all'intervento di qualche dio, che, spesso, funge da artefice e da giudice. Giova anche notare che, dall'antichità classsica, ai giorni nostri i massimi artisti si sono cimentati, con dipinti e sculture, nel raccontare e farci godere con grande intensità i racconti della mitologia tramandatici da Virgilio. Anche Dante, nelle sue metafore, ha attinto molto da lui la cui opera conosceva molto bene, a ulteriore dimostrazione dell'immensa cultura del poeta fiorentino. Giova anche notare che, allora, non era facile trovare un manoscritto dell'Eneide: se ne potevano trovare solo nelle grandi abbazie e presso i palazzi di famiglie blasonate.
LIBRO IV
RIASSUNTO
Didone si rivolge alla sorella Anna, ammettendo i sentimenti per Enea, che ha riacceso l'antica fiamma d'amore ("Agnosco veteris vestigia flammae"), il solo per cui violerebbe la promessa di fedeltà eterna fatta sulla tomba del marito Sicheo. Anna riesce a persuaderla: la sorella è infatti sola e ancora giovane, non ha prole e ha troppi nemici intorno. Didone allora immola una giovenca al tempio e riconduce Enea nelle mura. È notte. Giunone allora propone a Venere di combinare tra i due giovani il matrimonio. Venere, che intuisce il disegno di sviare Enea dall'Italia, accetta, pur facendo presente a Giunone la probabile avversità del Fato. L'indomani stesso, Didone ed Enea partono a caccia ma una tempesta li sconvolge: si rifugiano così in una spelonca, consacrando il rito imeneo. La Fama, mostro alato, avverte del connubio Iarba, pretendente respinto di Didone e re dei Getuli, che invoca Giove. Il padre degli dei invia il suo messaggero Mercurio a ricordare a Enea la fama e la gloria che attendono la sua discendenza. Enea allora chiama i suoi compagni, arma la flotta e si appresta a partire, pensando al modo più agevole di comunicare la decisione a Didone. Ma la regina, già informata dalla Fama, corre infuriata da Enea, biasimandolo di aver cercato di ingannarla e ricordandogli del loro amore e della benevolenza con cui l'aveva accolto, rinfacciandogli poi di non avere neppure coronato il loro sentimento con un figlio. Enea, pur riconoscendole i meriti, spiega che non può rimanere, perché è obbligato e continuamente sollecitato dagli dei e dall'ombra del defunto padre Anchise a cercare l'Italia (Italiam non sponte sequor). Ritornato alla flotta, rimane impassibile alla rinnovata richiesta di trattenersi mossa da Anna e alle maledizioni di Didone, che è perseguitata dal dolore con continue visioni maligne. Riferita la decisione di dedicarsi alle arti magiche per alleviare tante pene, la regina ordina quindi alla sorella di mettere al rogo tutti i ricordi e le armi del naufrago nella sua casa e invoca gli dei. Così, nella notte, mentre la regina escogita il modo e il momento del suicidio per porre fine a tanti affanni, Enea, avvertito in sonno, fugge immediatamente da quella terra. All'aurora, con la vista del porto vuoto, Didone invoca gli dei contro Enea, maledicendolo e augurandogli sventure, persecuzioni e guerra eterna tra i loro popoli. Giunta sulla pira funeraria, si trafigge con la spada di Enea, mentre le ancelle e la sorella invocano disperate il suo nome. Giunone poi invia Iride a sciogliere la regina dal suo corpo e a recidere il capello biondo della sua vita. Voltandosi indietro dal ponte della sua nave, Enea vede il fumo della pira di Didone e ne comprende chiaramente il significato: tuttavia il richiamo del destino è più forte e la flotta troiana fa vela verso l'Italia. L'amore impossibile tra Didone ed Enea è una delle storie più commoventi della letteratura mondiale.
DIDONE E LA CARA SORELLA ANNA ( 1 - 53)
Ma la regina ormai ferita da grave affanno
alimenta nelle vene la ferita ed è rosa da cieco fuoco.
Ricorre nel cuore il forte eroismo dell'eroe e il forte
onore della stirpe; s'attaccan fisse alla mente le fattezze
e le parole nè l'affanno dà alle membra placida quiete.
L'aurora seguente colla lampada febea illuminava
le terre e dal cielo aveva cacciato l'umida ombra,
quando impazzita così parrla alla sorella amatissima:
"Anna, sorella, che incubi mi atterriscono ansiosa.
Che ospite strano, questo, (che) è giunto alla nostra
casa, presentandosì come d'aspetto, di così forte petto
e di armi. Lo credo davvero, non è vana certezza che è stirpe di dei. La paura rivela i cuori vili. Ah, da quali
fati egli è sbattuto. Che guerre compiute raccontava.
Se non mi stesse fisso e immobile in cuore
di non volermi unire a nessuno col vincolo cinuigale,
dopo che il primo amore mi lasciò tradita con la morte;
se non avessi disgusto per il rito di nozze,
forse avrei potuto cedere a quest'unica colpa.
Anna, lo confesserò, dopo i destini del povero marito
Sicheo e i penati dispersi dalla strage del fratello
solo costui piegò i sentimenti e scosse il cuore
che vacilla. Conosco i segni della antica fiamma.
Ma per me vorrei o che prima la terra si spalanchi infima
o il padre onnipotente mi cacci col fulmine alle ombre,
le pallide ombre nellErebo e la notte profonda,
prima che violi, Pudore, o dissolva le tue leggi.
Lui i miei amori, lui che per primo a sé mi unì,
prese; lui li tenga con sé e li serbi nel sepolcro"
Espressasi così, riempì il seno di lacrime dirotte.
Anna riprende: "Oh più cara della luce, per tua sorella,
forse sola soffrendo sarai divorata per tutta la giovinezza
né conoscerai i dolci figli ed i regali di Venere?
Credi che questo ami la cenere e i mani sepolti?
Sia: un tempo nessun marito piegò l'addolorata,
non in Libia, non prima a Tiro: Iarba respinto
e gli altri principi, che l'Africa, terra ricca di trionfi,
alimenta: forse contrasterai a un amore gradito?
Né viene in mente nei campi di chi dimori?
Di qui città getule, stirpe insuperabile in guerra,
ti cingono e indomiti Numidi e la Sirte inospitale;
di là una regione deserta per sete e i furibondi
Barcei. Perché nominare le guerre nascenti da Tiro
e le minacce del fratello?
Certamente con gli dei favorevoli e Giunone concorde
credo che le navi di Ilio col venti ha tenuto questa rotta. Quale città, sorella, tu vedrai sorgere, questa, e che regni
con tale unione! Alleandosi le armi dei Teucri,
la gloria Punica a quali imprese si innalzerà!
Tu intanto chiedi aiuto agli dei, celebrati i sacrifici,
accorda l'ospitalità e inventa motivi per fermarsi,
mentre sul mare infuria l'inverno e il piovoso Orione,
e le navi sconquassate, mentre il clima è intrattabile."
Enea incontra Didone di N. DANCE-HOLLAND
L'AMORE DI DIDONE ( 54 -89)
Con tali parole infiammò l'animo di intenso amore
e diede speranza al cuore dubbioso e dissolse il pudore.
Prima visitano i templi e implorano pace
attorno agli altari; sacrifican pecore scelte di rito
per Cerere legislatrice e per Febo e per il padre Lieo,
per Giunone fra tutti, cui stanno a cuore i vincoli coniugali.
Lei, la bellissima Didone, tenendola con la destra, versa
la coppa tra le corna d'una candida vacca,
o presso le statue degli dei si aggira tra carichi altari,
e inizia il giorno con doni, e nei petti squarciati
degli animali, ansiosa consulta le viscere palpitanti.
Ahi, mente ignara degli indovini! A che giovano i voti
a una folle, a che i templi? La fiamma divora le molli midolla
intanto e tacita vive sotto il petto la ferita.
Si brucia l'infelice Didone e vaga pazza
per tutta la città, quale cerbiatta colpita da freccia,
che da lontano un pastore, ignaro, cacciando con armi,
incauta trafisse tra i boschi cretesi e lasciò il ferro
alato: ella in fuga percorre le selve e le gole
dittee; la punta letale aderisce nel fianco.
Ora conduce Enea con sé in mezzo alle mura
e ostenta i beni sidonii e la città pronta,
inizia a dire e si blocca in mezzo alla frase;
ora tramontando il giorno chiede uguali conviti,
e di nuovo invoca di ascoltare, pazza, i dolori di Ilio
e di nuovo pende dalla bocca del narratore.
Poi quando, divisi, anche la luna oscurata a sua volta
copre la luce e le stelle tramontando invitano ai sogni,
sola geme nella vuota reggia e sui tappeti abbandonati
si sdraia. Pur lontana, lui lontano lo ode e lo vede,
o trattiene Ascanio in grembo, presa dall'immagine
del padre, se mai potesse ingannare l'indicibile amore.
Le torri iniziate non s'alzano, la gioventù non s'allena
alle armi o non preparano i porti le difese sicure
per la guerra: pendono le opere interrotte e minacce
ingenti di muri e una macchina eguagliata al cielo.
Didone ed ENEA
PATTO TRA GIUNONE E VENERE (90 -128)
Ma appena s'accorse la cara consorte di Giove che ella era posseduta da tale peste e l'onore non bloccava la follia,
la Saturnia affronta Venere con tali parole:
"Davvero enorme gloria e ricchi bottini riportate
sia tu che il tuo fanciullo, grande e momorabile potenza,
se una donna, da sola fu vinta dall'inganno di due dei!
Né proprio mi inganno che tu temendo le nostre mura
Abbia stimato sospette le case della grande Cartagine.
Ma quale sarà la regola o dove adesso, con sì grave rivalità?
Perché piuttosto non concludiamo eterna pace e nozze
pattuite? Hai ciò che con tutto il cuore cercasti:
Brucia Didone amante e ha tirato la follia fin al midollo.
Guidiamo dunque questo comune popolo con uguali
protezioni; possa servire a marito frigio
e affidare alla tua destra i Tirii in dote."
Capì che le aveva parlato con mente ipocrita,
per volgere il regno d'Italia alle spiagge libiche,
così di rimando Venere rispose: " Chi pazza rifiuterebbe
tali cose o preferirebbe contendere in guerra con te?
Purchè la sorte favorisca l'evento che tu ricordi.
Ma son mossa incerta per i fati, se Giove voglia che ci sia
una sola città per i Tirii e gli esuli da Troia,
o approvi che i popoli si mischino o uniscano alleanze.
Tu da consorte, per te è possibile pregando tentarne il cuore.
Va' avanti, seguirò". Allora così riprese la regale Giunone:
"Per me sarà questo impegno. Ora in che modo si possa
concludere quello che incombe, acolta, ti insegnerò.
Enea e insieme l'infelicissima Didone si preparano ad andare
a caccia nel bosco, quando il Sole di domani alzerà
i primi inizi e ricoprirà di raggi il mondo.
Su di essi io dall'alto rovescerò una oscurante nube,
con mista grandine, mentre i battitori s'affannano e cingon
le gole con la rete e muoverò tutto il cielo col tuono.
Scapperanno i compagni e saran coperti di opaca notte:
Didone e il capo troiano giungeranno alla stessa
spelonca. Presenzierò, e se la tua volontà mi è garantita,
li unirò in stabile unione e la dichiarerò sua.
Qui ci sarà Imeneo." Senza opporsi alla richiedente
annuì e Citerea rise per gli inganni inventati.
LA CACCIA INSIDIOSA ( 129 - 159)
Intanto Aurora alzandosi lasciò Oceano.
La gioventù scelta, spuntato il raggio, esce dalle porte.
Reti rade, lacci, spiedi da caccia di ferro largo,
cavalieri massili e l'irruenza fiutante dei cani irrompono.
I capi dei Fenici aspettano sulle soglie la regina che si attarda
in camera, bello di porpora e d'oro sta lo scalpitante
e morde fiero i morsi spumegganti.
Finalmente avanza, accalcandosi una grande schiera,
avvolta in clamide sidonia con orlo ricamato;
ha una faretra d'oro, i capelli si annodan nell'oro,
una fibbia d'oro allaccia la veste purpurea.
Pure i compagni frigi e il raggiante Iulo
avanzano. Lo stesso Enea il più bello di tutti gli altri
si offre come compagno e unisce le schiere.
Quale Apollo quando lascia l'invernale Licia e le onde
di Xanto e rivede la materna Delo e inizia
le danze, e uniti Cretesi e Driopi e i dipinti Agatirsi
s'agitano attorno agli altari;
egli avanza sui gioghi del Cinto e blocca la chioma fluente
con tenero ramo aggiustandola e l'annoda nell'oro,
le frecce risuonano sulle spalle: non più lento di lui
andava Enea, sì gran bellezza risalta sul nobile volto.
Come si giunse sugli alti monti e le impervie tane,
ecco selvatiche capre lanciate dalla cima della rupe
corsero giù dai gioghi; da un'altra parte i cervi
attraversano le piane aperte e formano colla fuga
schiere polverose e lasciano i monti.
Ma il piccolo Ascanio in mezzo alle valli gode
per il fiero cavallo e ora sorpassa questi, ora quelli
al galoppo e brama con voti che si offra tra i timidi branchi
uno spumante cinghiale o che scenda dal monte un rosso leone.
LE NOZZE SEGRETE ( 160- 197)
Intanto il cielo comincia a turbarsi con un gran
brontolìo, avanza una nube con mista grandine,
e i compagni tirii e la gioventù troiana e il dardanio
nipote di Venere dappertutto con paura per i campi
cercarono diversi ripari; torrenti corron dai monti.
Alla stessa spelonca giungono Didone e il capo
troiano. Sia la Terra per prima sia Giunone pronuba
danno il segnale; rifulsero vampe e l'etere complice
nell'unione e le Ninfe ulularon sulla cime del monte.
Quel giorno fu il primo della morte e per primo fu
la causa dei mali; infatti non è distolta da decoro
o fama Didone, né medita un amore furtivo:
lo chiama connubio, con tal nome nascose la colpa.
Subito Fama va per le grandi città di Libia,
Fama, male di cui nessun altro è più veloce:
si rafforza colla mobilità e acquista forze andando,
piccola alla prima paura, poi s'innalza nell'aria,
e avanza sul suolo, ma nasconde il capo tra le nubi.
La Madre Terra, irritata dall'ira degli dei,
la generò, come raccontano, ultima sorella di Ceo
ed Encelado, veloce a piedi e con ali infaticabili,
mosro orrendo, enorme, quante ha penne nel corpo,
tanti sotto sono gli occhi vigili, mirabile a dirsi,
tante le lingue, altrettante bocche risuonano, tante orecchie drizza.
Vola di notte nel mezzo di cielo e terra nell'ombra
stridendo, né abbassa gli occhi nel dolce sonno;
con la luce sta sentinella o in cima alla sommità del tetto
o sull'alte torri, e terrorizza le grandi città,
tenace portatrice sia di falso e di male che di vero.
Costei allora riempiva i popoli di molteplice chiacchiere
godendo e parimenti decantava cose fatte e non fatte:
esser giunto Enea, nato da sangue troiano,
cui la bella Didone si degna di unirsi come a marito;
ora durante l'inverno, quanto è lungo, si tengon caldi nel lusso
immemori dei regni e rapiti da turpe passione.
Questo qua e là la sporca dea diffonde sulle bocche degli uomini.
Poi storce i passi verso il re Iarba
gli incendia cil cuore con le dicerie e accumula le ire.
IL RE IARBA SDEGNATO (198-218)
Questi nato da Ammone e dalla ninfa rapita Garamantide
creò per Giove cento immensi templi nei vasti regni,
cento altari e aveva dedicato il fuoco vigile,
eterne guardie degli dei, un suolo ricco di sangue
di mandrie e ingressi fiorenti di varie ghirlande.
E lui pazzo in cuore e acceso dall'amara diceria,
si dice, avesse pregato molto Giove supplicando con mani alzate
davanti agli altari in mezzo alle immagini degli dei:
Giove onnipotente, cui ora il popolo marusio
banchettando su ricamati letti liba l'offerta,
vedi questo? Forse, padre, quando lanci i fulmini, invano
ti temiamo, vampe cieche tra le nubi
atterriscono gli animi producono vuoti mormorii?
Una donna, che errando creò nei nostri paesi una piccola
città col danaro, cui concedemmo il litorale da arare,
cui pure le leggi del luogo, respinse le nostre nozze
e accolse come signore Enea nei regni.
E ora quel Paride con un codazzo effeminato,
allacciando il mento e la chioma fradicia con mitra
meonia, è padrone del furto: noi davvero ai tuoi templi
portiamo doni e nutriamo un culto vuoto?"
Enea e Didone di POMPEO BATONI
ORDINI DI GIOVE A ENEA (219 -295)
Lo sentì che pregava con tali parole e tenendo
gli altari l'Onnipotente, storse gli occhi alle mura regali
e agli amanti dimentichi di fama migliore.
Allora così parla a Mercurio e questo gli affida:
"Su, va', figlio, chiama gli Zefiri e scendi a volo
e parla al capo dardanio, che ora aspetta nella tiria
Cartagine e non guarda alle città concesse dai fati
e riferisci veloce le mie parole nel cielo.
Non ce lo promise tale la bellissima madre
e lo protegge perciò due volte dall'armi dei Grai;
ma che guidasse l'Italia gravida di potenze e fremente
di guerra, che propagasse la stirpe dal grande sangue
di Teucro e mettesse sotto leggi il mondo intero.
Se nessuna gloria di sì grandi imprese lo accende
né lui si smuove all'impegno per il suo onore,
come padre invidia forse ad Ascanio le rocche romane?
Che combina? O con quale mira si ferma tra gente nemica
e non guarda alla prole ausonia e ai campi di Lavinio?
Navighi! Questa è la conclusione, questo sia il nostro avviso".
Aveva sentenziato. Egli si preparava a ubidire all'ordine
del gran padre; e prima si allaccia i calzari d'oro ai piedi,
che lo portano altissimo con le ali sia sopra le acque
e la terra ugualmente con veloce soffio.
Allora prende la verga: con questa egli richiama le anime
pallide dall'Orco, altre le invia sotto i tristi Tartari,
dà i sonni e li toglie, e libera gli occhi dalla morte.
Munendosi di essa spinge i venti e trapassa le torbide
nuvole. Ormai volando vede la vetta e i fianchi ripidi
del duro Atlante che regge col capo il cielo,
di Atlante, cui la testa ricca di pini frequentemente
è cinta di nere nubi ed è battuta da vento e da pioggia,
la neve scesa copre le spalle, poi fiumi precipitano dal mento
del vecchio e l'ispida barba s'irrigidisce pel ghiaccio.
Qui dapprima il Cillenio splendente si fermò con l'ali
appaiate; di qui con tutto il corpo si lanciò capofitto nell'onde
simile a uccello, che attorno alle spiagge, attorno
ai pescosi scogli vola basso vicino alle acque.
Non diversamente volava tra cielo e terra
verso il lido sabbioso di Libia, e la prole cillenia
provenendo dall'avo materno tagliava i vemti.
Appena con le piante alate toccò i sobborghi,
vede Enea che fonda le rocche e crea nuove case.
Egli aveva pure una spada costellata di rosso
diaspro e un mantello di porpora tiria,che scendeva
dalle spalle, splendeva: questo dono l'aveva fatto
la ricca Didone e l'aveva trapuntato la stoffa d'oro sottile.
Subito l'assale: " Tu adesso poni le fondamenta della grande
Cartagine e ligio alla moglie costruisci una bella città.
Ahimè, dimentico del regno e delle tue imprese.
Lo stesso re degli dei mi invia dallo splendido
Olimpo, lui che con potenza volge cielo e terra,
lui ordina di recare questi ordini nei cieli veloci:
cosa combini? O con che speranza rovini il tempo in terre libiche?
Se non ti smuove nessuna fama di tante imprese
né tu affronti l'impegno per la tua gloria,
guarda ad Ascanio che cresce e alle speranze dell'erede
Iulo, cui è dovuto il regno d'Italia e la terra
Romana." Dopo aver parlato con tale espressione il Cillenio
lasciò le sembianze mortali nel mezzo del discorso
e disparve dagli occhi nell'aria leggera.
Ma Enea davvero alla vista ammutolì, fuor di sé,
e le chiome dritte e la voce s'attaccò alle fauci.
Brucia di andarsene in fuga e lasciare le dolci terre,
attonito per sì grande monito e ordine degli dei.
Ahi, che fare? Con quale parola osare avvicinare
la regina impazzita? Quali iniziative prender per prime?
Ed ora divide la mente veloce ora qui ora là
la strappa in vari pezzi e si volge dappertutto.
A lui altalenante questo parere parve migliore:
chiama Menesteo e Sergesto e il forte Seresto,
zitti allestiscan la flotta e spingan ai lidi i compagni,
preparino armi e dissimulino quale sia la causa
per cambiare i piani; lui intanto, poiché l'ottima Didone
non sa e non spera che sì grandi amori si spezzino,
tenterà le strade e i momenti più teneri
di parlare, quale sia il modo adatto alle cose. Subito tutti
lieti obbediscono all'ordine ed eseguono i comandi.
Mercurio ordina a Enea di lasciare Cartagine di G.B. TIEPOLO
LAMENTO DI DIDONE (296 -330)
Ma la regina (chi potrebbe ingannare un amante?)
presentì, per prima colse i movimenti futuri
temendo ogni sicurezza. La stessa empia Fama riferì
a lei impazzita, che si allestiva la flotta e si preparava la rotta.
Impazza annichilita nel cuore e furiosa per la città
smania come baccante, come Tiade scossa, iniziati i riti,
quando udito Bacco, le orge triennali la stimolano
e il notturno Citerone la chiama col frastuono.
Infine spontaneamente affronta Enea con queste frasi:
"Sperasti pure poter dissimulare, perfido, sì gran
sacrilegio e zitto allontanarti dalla mia terra?
Né ti trattiene il nostro amore né la destra data un giorno
né una Didone destinata a morte crudele?
Anzi anche con stella invernale allestisci la flotta
e ti affretti ad andare al largo in mezzo agli Aquiloni,
crudele? Che? Se non cercassi campi stranieri e
case ignote e restasse l'antica Troia, Trioa sarebbe
cercata con flotte per il mare ondoso?
Forse fuggi me? Io per queste lacrime,
poiché io stessa non lasciai null'altro a me misera,
per i nostri vincoli, per le nozze incominciate,
se per te meritai bene qualcosa, o per te ci fu qualche
mia tenerezza, abbi pietà d'una casa che crolla e cancella,
ti prego, se ancora c'è un posto per le preghiere, questa idea.
A causa di te i popoli libici e i tiranni dei Nomadi
mi odiano, contrari i Tirii; proprio a causa di te
fu estinto il pudore e la fama per prima, per la quale io sola
salivo alle stelle. A chi mi abbandoni moribonda, ospite,
solo questo nome da un marito mi resta?
Che aspetto? Forse fin che il fratello Pigmalione distrugga
le mie mura o il getulo Iarba mi porti prigioniera?
Almeno se prima della fuga mi fosse nato da te
un figlio, se un piccolo Enea mi giocasse
nella reggia, che ti richiamasse col volto,
non mi sembrerei del tutto delusa e abbandonata"
LA RISPOSTA DI ENEA (331- 361)
Aveva detto. Egli teneva gli occhi immobili agli ordini
di Giove e sforzandosi premeva il dolore dentro il cuore.
Finalmente proferisce poche cose: "Io mai negherò che tu
hai meriti, i maggiori che parlando sei in grado di enumerare,
o regina, né mi rincrescerà ricordarmi di Elissa, fin che io stesso
sia memore di me, fin che lo spirito regga queste membra.
Per il fatto dirò poco. Né io sperai nasconder con frode
questa fuga, non credere, né mai ho alzato fiaccole
di marito o venni a tali patti.
Io se i fati permettessero di condurre la vita secondo miei
desideri e calmare gli affanni di mia scelta,
anzitutto onorerei la città troiana e i dolci resti dei miei,
si manterrebbero le alte regge di Priamo, e con mano
ostinata avrei rifatto Pergamo per i vinti.
Ma ora Apollo e gli oracoli dei Licia mi han
comandato di raggiungere Italia;
questo il mio amore, questa è la mia patria. Se le rocche
di Cartagine e la vista d'una città libica trattiene te, Fenicia,
quale invidia c'è che finalmente i Teucri si fermino su terra
ausonia? E' fato che anche noi cerchiamo regni stranieri.
Me terrorizza la sconvolta immagine del padre Anchise e mi ammonisce in sogno, quando, piovendo le ombre,
la notte ricopre le terre, quando gli astri ignei sorgono;
Me, pure, il piccolo Ascanio e il torto del caro volto
che defraudo del regno d'Esperia e dei campi fatali.
Ora anche l'interprete degli dei mandato dallo stesso Giove,
lo giuro sul capo d'entrambi, inviò ordini attraverso i cieli
veloci: io stesso vidi il dio in chiara visione che penetrava
le mura e ne assorbii la voce con queste orecchie.
Smetti di incendiare me e te coi tuoi pianti;
l'Italia la inseguo non spontaneamente."
DISPERAZIONE DI DIDONE (362 -392)
Lo guarda dir tali cose
girando qua e là con gli occhi e tutto lo squadra
con sguardi muti e così accesa prorompe:
"Né una dea ti fu genitrice né Dardano capostipite,
perfido, ma ti generò da duri macigni l'orrendo
Caucaso e tigri ircane offriron le mammelle.
Ma che dissimulo o a quali cose maggiori mi riservo?
Forse che gemette al nostro pianto? Forse chinò gli sguardi?
Forse, vinto, versò lacrime o commiserò l'amante?
Cosa opporrò a cosa? Ormai neppure la massima Giunone
né il padre saturnio guarda questo con occhi giusti.
In nessun luogo lealtà sicura. L'ho accolto buttato sul lido,
bisognoso e io pazza lo misi a parte del regno.
Riportai la flotta perduta e i compagni da morte.
Ahi, incendiata dalle furie son portata..: ora Apollo augure,
ora i responsi di Licia, ora anche l'interprete degli dei
mandato dallo stesso Giove porta per i cieli i comandi.
Senz'altro questa è la pena per i celesti, tale affanno affatica
i tranquilli. Né ti trattengo né ribatto le parole:
Va, insegui coi venti l'Italia, cerca regni attraverso le onde.
Spero davvero che in mezzo a scogli, se le pie preghiere
posson qualcosa, berrai i supplizi e spesso chiamerai per nome "Didone!". Assente t'inseguirò con neri fuochi
e, quando la morte separerà le membra dall'anima,
io, ombra sarò in tutti i luoghi. Pagherai, malvagio, il fio.
Sentirò anche sotto i profondi Mani verrà tale notizia".
Con queste parole ruppe a metà il discorso e i cieli
fugge, malata, e si toglie dagli occhi,
lasciandolo molto tentennante di paura e preparandosi a dire
molto: la sorreggono le ancelle e riportano le membra crollate
sul letto di marmo e le ripongono sui cuscini.
PREPARATIVI PER LA PARTENZA (393 - 407)
Ma il pio Enea, benchè brami lenire la dolente
consolandola e allontanare con parole gli affanni,
molto gemendo travolto nell'animo dal grande amore
esegue tuttavia i comandi degli dei e rivisita la flotta.
Allora davvero i Teucri lavorano e portan le alte navi
su tutto il lido. Galleggia la carena unta,
e portano rami frondosi dai boschi e tavole
non lavorate per la smania di fuga.
Li vedresti migrare e correre da tutta la città:
e come quando le formiche saccheggiano un gran mucchio
di farro memori dell'inverno e lo ripongono in casa,
va per i campi la nera schiera e trascinano la preda tra l'erbe
per angusto sentiero; parte spingono enormi grani
portandoli sulle spalle, parte spingono le schiere
e sgridano le pigre, tutta la strada ferve di lavoro.
ULTIMO TENTATIVO DI DIDONE (408- 454)
Quale sensazione allora per te, Didone, che osservavi tali cose
che gemiti mandavi, spiando dall'alto della rocca attorno
animarsi i lidi e vedendo davanti agli occhi
tutto il mare sconvolgersi di così alte grida.
Malvagio Amore, a cosa non spingi i cuori mortali?
Ancora è costretta a gettarsi in lacrime, ancora a tentare
supplice, pregando, di soggiogare all'amore i sentimenti,
per non lasciare invano qualcosa destinata a morire.
"Anna, vedi che ci si affretta attorno a tutto il lido:
si son radunati da ogni parte; ormai la vela invoca i venti,
e allegri i marinai misero sulle poppe le corone.
Se io potei immaginare questo sì gran dolore,
sorella, potrò pure sopportarlo. Per me misera tuttavia,
Anna, esegui solo questo: quel perfido infatti te sola
onorava, a te pure affidava arcani sentimenti;
tu sola conoscevi le tenere vie e i momenti dell'uomo.
Va, sorella, e supplice parla al superbo nemico:
non io giurai con i Danai di sterminare il popolo troiano
in Aulide o mandai a Pergamo la flotta,
né violai il cenere o i Mani del padre Anchise:
perché rifiuta di accogliere nelle dure orecchie le mie parole?
Dove scappa? Dia questo ultimo dono alla misera amante:
aspetti una fuga facile e venti che aiutino.
Non chiedo più l'antica unione, che tradì,
né che si privi del bel Lazio e abbandoni il regno.
Chiedo un tempo vuoto, quiete e spazio al furore,
fin che la mia sorte mi insegni a soffrire, vinta.
Questa ultima grazia prego, abbi pietà della sorella,
e se me la concederà la restituirò accresciuta dalla morte."
Con tali parole pregava, e la miserrima sorella
porta e riporta tali pianti. Ma lui non è smosso da alcun
pianto o arrendevole ascolta alcuna espressione;
i fati lo vietanoed un dio chiude le calme orecchie dell'eroe.
E come quando le Bore alpine gareggiano tra loro a
sradicare una forte quercia di annosa forza con soffi
ora di qui ora di là; va lo stridore e le alte fronde
cospargono la terra, essendo scosso il tronco;
lei aderisce ai macigni e quanto colla cima tende
ai cieli, altrettanto con la radice al Tartaro:
non diversamente l'eroe è colpito da una parte e dall'altra
da frasi continue, e nel gran petto recepisce gli affanni;
la mente resta immota, le lacrime scorrono inutili.
Didone abbandonata di ANDREA SACCHI
PRESAGI FUNESTI PER DIDONE (450- 473)
Allora davvero l'nfelice Didone, atterrita dai fati
prega la morte; l'infastidisce guardare la convessità del cielo.
Per concluder meglio il proposito e lasciare la luce,
vide, ponedo i doni sugli altari fumanti incenso,
(orribile a dirsi) annerirsi le sacre acque e i vini
versati cambiarsi in sangue.
A nessuno raccontò questa visione, neppure alla stessa sorella.
Ancora ci fu nella regga un tempio di marmo
del vecchio marito, che venerava con grande onore,
addobbato di nivee lane e fronde festive:
di qui sembrò si sentissero voci e parole del marito
che chiamava, mentre la notte copriva le terre,
e unico il gufo dai tetti con canto funereo
spesso lamentarsi e volgere in pianto lunghi versi;
e inioltre molte predizioni di antichi indovini
con terribile monito terrificano. Lo stesso Enea nei sogni
crudele tormenta la furiosa, sempre si vede sola,
abbandonata, sempre andare per una lunga via,
senza seguito, su terra deserta cercare i Tirii,
come Penteo, pazzo, vede mostrarsi le schiere
delle Eumenidi e doppio sole e doppia Tebe,
o come l'agamenninio Oreste spinto sulle scene,
quando fugge la madre armata di fiaccole e neri
serpenti e le Dire vendicatrici siedono sulla soglia.
La flotta dei troiani si allontana
PREPARAZIONE DELLA MORTE (474 -503)
Perciò come accolse le furie, vinta dal dolore,
e decise di morire, lei stessa tra sé sceglie tempo
e modo, e rivolgendosi con parole alla mesta sorella
copre la decisione in volto e in fronte rasserena speranza.
"Trovai, sorella, la via (rallegrati con la sorella),
che mi restituisca lui o da lui sciolga me che l'amo.
Vicino al confine dell'Oceano e al sole cadente
c'è un luogo, l'ultimo degli Etiopi, dove il massimo Atlante
a spalla gira l'asse unito alle ardenti stelle:
Di qui mi fu mostrata una sacerdotessa del popolo massilo,
custode del tempio delle Esperidi, che dava cibo al drago
e conservava sacri rami su di una pianta,
spargendo umidi mieli e soporifero papavero.
Costei promette con canti di sciogliere le menti,
che vuole, anzi di mandare ad altri i duri affanni,
fermar l'acque nei fiumi e volgere indietro le stelle,
e muove i Mani notturni: vedrai muggire la terra
sotto i piedi e gli orni scendere dai monti.
Giuro, cara, per gli dei e per te, sorella, e la tua
dolce persona, che contro voglia mi accingo ad arti magiche.
Tu innalza silenziosa nell'interno della casa un rogo
sotto i cieli e le armi dell'uomo, che lasciò fisse sul letto,
l'empio, e tutte le spoglie e il letto coniugale,
per cui morii, metti sopra: piace cancellare tutti
i ricordi dell'uomo nefando e lo dichiara la sacerdotessa".
Ciò detto, tace, intanto il pallore occupa il volto.
Tuttavia Anna non crede nasconda coi riti strani
la morte, né con la mente concepisce sì grandi pazzie
o teme cose più gravi della morte di Sicheo.
Perciò esegue gli ordini.
RITI SEGRETI E MAGIA (504 -521)
Ma la regina, eretto il grande rogo nella parte interna
sotto i cieli con rami di pino e leccio tagliato,
riveste il luogo di ghirlande e l'incorona di fronda
funerea; pone sul letto le spoglie e la spada lasciata
l'effigie non ignara del futuro.
Gli altari stanno attorno e la sacerdotessa, sciolta i capelli,
trecento volte grida gli dei, Erebo e Caos
e la triplice Ecate, i tre volti della vergine Diana.
Aveva pure sparso le acque simulate della fonte d'Averno,
si cercano erbe rigonfie con latte di nero veleno
mietute sotto la luna con falci di bronzo;
si cerca anche l'amore strappato dalla fronte d'un cavallo
nascente rubato alla madre.
Lei stessa con farina e mani pie presso gli altari,
toltasi un piede dai calzari in veste discinta,
destinata a morire invoca gli dei e le stelle consce
del fato; poi se c'è una qualche potenza, giusta e benevola,
ha a cuore gli amanti con sorte ingiusta, la prega.
Didone pensa al suicidio di J. H. TISCHBEIN
L'ULTIMA VEGLIA DI DIDONE (522 - 552)
Era notte e i corpi stanchi prendevan placido riposo
sulle terre, le selve e i mari crudeli eran quieti,
quando le stelle volgono a metà del giro,
quando ogni campo tace, le mandrie e gli uccelli variopinti,
che occupano attorno i limpidi laghi e campagne aspre
di spini, riposti nel sonno sotto notte silenziosa.
[addolcivano gli affanni e i cuori dimentichi delle fatiche]
ma non la Fenicia infelice nel cuore, né mai
si scioglie nel sonno o coglie negli occhi e nel cuore
la notte: si raddoppiano gli affanni e di nuovo
incrudelisce amore e vacilla nella gran vampa delle ire.
Così di più insiste e tra sé così medita in cuore:
" Ecco, che faccio? Forse di nuovo derisa affronterò
i vecchi pretendenti, supplice cercherò le nozze dei Nomadi,
quei mariti che ormai tante volte ho sdegnato?
Inseguirò dunque le flotte iliache e gli ultimi ordini
dei Teucri? Forse perché serve sian stati prima alleviati da
aiuto e sta bene la riconoscenza presso i memori d'un vecchio fatto?
Chi poi, ammetti di volerlo, permetterà o accoglierà me odiata
sulle superbe barche? Ahimè, non sai, disperata e non capisci
i tradimenti del popolo laomedonteo?
Chè dunque? Da sola in fuga accompagnerò marinai festanti?
O attorniata dai Tirri e da ogni schiera dei miei
mi trascinerò e, quelli che a stento portai dalla città sidonia,
di nuovo porterò per il mare e ordinerò di dare la vele ai venti?
Muori piuttosto come hai meritato, cancella con la spada il dolore.
Tu vinta dalle mie lacrime, sorella, tu per prima mi aggravi
di questi mali e butti me pazza davanti al nemico.
Non fu lecito passar la vita priva di nozze senza colpa
come una fiera, e non toccare tali affanni;
non fu salvata la fede promessa alla cenere di Sicheo".
IMPROVVISA PARTENZA DI ENEA (553- 583)
Ella prorompeva dal suo cuore così grandi lamenti:
Enea sull'alta poppa ormai sicuro di andare
prendeva sonno, già ben preparate le cose.
A lui si offrì nei sogni l'immagine del dio che tornava
con lo stesso volto e di nuovo parve ammonire così:
in tutto simile a Mercurio, e voce e colore
e biondi capelli e membra belle di giovinezza:
"Figlio di dea, puoi continuare il sonno in questa situazione,
né vedi quali pericoli poi siano attorno a te,
pazzo, né senti gli Zefiri spirare favorevoli?
Lei macchina tranelli in cuore e crudele delitto,
sicura di morire, ed eccita varie tempeste di ire.
Non fuggi di qui di fretta, mentre c'è possibilità di affrettarsi?
Ormai vedrai il mare scuotersi di legni e brillare fiamme
crudeli, ormai i lidi ribollire di fiamme, se Aurora
ti coglierà a indugiare su queste terre
Orsù vai, rompi gli indugi. E' sempre un essere vario e mutevole
la donna". Detto così, si confuse nella nera notte.
Allora Enea atterrito dalle ombre improvvise
strappa il corpo dal sonno e sprona i compagni
rapidi: "Vigilate, uomini, e sedete ai remi;
svelti sciogliete le vele. Un dio inviato dall'alto cielo
ecco di nuovo ci stimola ad affrettare la fuga
e tagliare le corde attorcigliate. Ti seguiamo, santo tra gli dei,
chiunque sia, e di nuovo festanti obbediamo al comando.
Oh, assistici, aiutaci benevolo e porta dal cielo
stelle propizie." Disse ed estrae dal fodero la spada
fulminea e, impugnata l'arma, taglia gli ormeggi.
Insieme lo stesso ardore prende tutti, si buttano e corrono;
lasciarono i lidi, il mare è nascosto sotto le flotte,
sforzandosi taglian le spume e spazzan l'azzurro.
PAROLE DI MALEDIZIONE CONTRO ENEA (584- 629)
E gia la prima Aurora lasciando giaciglio di croco
di Titone spruzzava le terre di nuova luce.
La regina dalle vedette come vide biancheggiare la prima
luce e la flotta procedere a vele spiegate,
e s'accorse dei lidi e dei porti vuoti senza un rematore,
percuotendo il bel petto con la mano e tre e quattro volte
e sciolta nelle biondeggianti chiome " Oh Giove. Andrà
costui, dice, e lo straniero si befferà dei nostri regni?
Gli altri non prenderanno le armi e inseguiranno da tutta la città
e strapperanno le barche dagli arsenali? Andate,
rapidi portate fiamme, date armi, spingete i remi.
Che dico? O dove sono? Che pazzia cambia la mente?
Infelice Didone, ora fatti sacrileghi ti colpiscono?
Allora andò bene, quando davi lo scettro. Ecco destra e lealtà,
quello che dicono portare con sé i sacri penati,
che dicono aver sostenuto sulle spalle il padre logorato dall'età.
Non ho potuto strappare il corpo maciullato e spargerlo
sulle onde? Non sbranare i compagni, lo stesso Ascanio
con la spada e metterlo da mangiare sulle mense paterne?
Davvero era dubbia la sorte della battaglia. Lo fosse stata:
chi temetti, destinata a morire? Avrei portato le fiamme nell'accampamento, riempito di fuochi le tolde, estinto
il figlio ed il padre con la stirpe, e posto me stessa su quelli.
Sole, che illumini di raggi tutte le opere delle terre,
tu pure mediatore e consapevole di questi affanni,
Ecate ululata nelle città nei trivi notturni
e Dire vendicatrici e dei della morente Elissa,
accettate questo, volgete ai malvagi la giusta vendetta
e ascoltate le nostre preghiere. Se è necessario cle l'infame
persona tocchi i porti e navighi su terre
e così chiedono i fati di Giove, questo traguardo è fisso,
però oppresso dalla guerra d'un popolo fiero e dalle armi,
esule dai territori, strappato dall'abbraccio di Iulo
implori aiuto e veda le indegne morti dei suoi;
né, consegnatosi sotto leggi di iniqua pace, goda
del regno o della luce desiderata, ma cada
prima del tempo e insepolto in mezzo alla sabbia.
Questo prego, verso questa ultima frase col sangue.
Poi, voi, o Tirii, trattate con odio la stirpe e tutto
il popolo futuro, e inviate alla nostra cenere questi
regali. Per i popoli non ci siano alcun amore e patti.
Sorgi tu, un vendicatore, dalle nostre ossa
sì, insegui i coloni dardanii col ferro e col fuoco
.
Prego lidi opposti a lidi, onde a flutti,
armi ad armi: combattano sia loro, sia i nipoti."
MORTE DELLA REGINA DIDONE (630-666)
Questo disse, e volgeva la mente in tutte le parti,
cercando di troncare l'odiata luce al più presto.
Poi brevemente si rivolse a Barce, nutrice di Sicheo,
(infatti la nera cenere teneva la sua nell'antica patria):
" Nutrice a me cara, chiama qui la sorella Anna:
di' che s'affretti a cospargersi il corpo di acqua fluviale,
e porti con sé gli animali e i sacrifici indicati.
Venga così, tu pure con la pia benda copri le tempie.
L'idea è di completare i riti, che preparai bene,
a Giove stigio e porre fine agli affanni e
affidare il rogo dell'uomo alla fiamma.".
Così disse. Quella affrettava il passo con lena senile.
Ma trepidante e furente per i propositi atroci, Didone
volgendo lo sgardo di sangue, chiazzata le guance
frementi di chiazze e pallida della futura morte,
irrompe nelle stanze interne della casa e sale
impazzita gli alti roghi e sguaina la spada
Dardania, regalo chiesto non per questi usi.
Qui, dopo che guardò le vesti iliache e il noto
letto, fermatasi un po' per lacrime e pensiero
si buttò sul letto e disse le ultime parole:
"Dolci spoglie, fin che i fati e il dio permetteva,
accogliete quest'anima e scioglietemi da questi affanni.
Vissi e il corso che la sorte mi diede, l'ho compiuto,
e ora la grande immagine di me andrà sotto le terre.
Fondai una città famosa, vidi le mie mura,
vendicato il marito, ricevetti soddisfazione dal fratello nemico,
felice, ahi, troppo felice, se soltanto le carene
dardanie non avessero mai toccato i nostri lidi.".
Disse e impressa la bocca sul letto"Moriremo invendicate,
ma moriamo" disse. "Così, così è bello andar sotto le ombre.
Il crudele dardano beva con gli occhi questo fuoco
dall'alto, e porti con sé i presagi della nostra morte".
Aveva detto, e le compagne in mezzo a tali parole la vedono crollata sull'arma, e la spada spumeggiante di sangue
e cosparse le mani. Va il grido alle alte
stanze: Fama furoreggia per la città sconvolta.
DISPERAZIONE DELLA SORELLA ANNA (667- 705)
Di lamenti e di pianto e di ululare femminile
fremono le case, l'aria risuona delle alte grida.,
non diversamente che, entrati i nemici, Cartagine
tutta o l'antica Tiro crolli e le fiamme furiose
s'avvolgano per i tetti degli uomini e degli dei.
Sente esanime la sorella e atterrita con tremante corsa
rovinandosi il volto con le unghie e il petto coi pugni
corre in mezzo e chiama la morente per nome:
"Questo fu proprio, sorella? Mi colpivi con l'inganno?
Questo mi riservava tale rogo, questo i fuochi e gli altari?
Abbandonata di che mi lamenterò prima? Morendo hai rifiutato
la sorella come compagna? Mi avessi chiamata agli stessi fati, lo stesso dolore e la stessa ora avesse prese entrambe con la spada.
Costruii anche con queste mani e invocai con la voce
gli dei patrii perché fossi, crudele, posta lontano da te?
Uccidesti, sorella, te e me e il popolo e gli antenati
sidonii e la tua città. Date, con le acque laverò
le ferite e, se un ultimo sospiro vaga ancora, lo raccoglierò
con la bocca." Detto così aveva scalato gli alti gradini,
e abbracciatala scaldava sul petto la sorella semiviva
con gemiti e asciugava colla veste il nero sangue.
Ella tentando di alzare i pesanti occhi di nuovo
sviene; nel petto la piaga impressa stride.
Tre volte alzandosi e appoggiandosi al gomito si levò,
tre volte si riversò sul letto e con gli occhi erranti in alto
cercò in cielo la luce e gemette ritrovatala.
Allora Giunone onnipotente commmiserando il lungo dolore
del difficile trapasso mandò Iride dall'Olimpo
che sciogliesse l'anima lottante e le membra incatenate.
Infatti poiché moriva né per fato nè per morte meritata,
ma infelice prima del giorno e accesa da improvviso furore,
non ancora Proserpina le aveva strappato dal capo il biondo
capello e condanata la persona all'Orco stigio.
Perciò Iride rugiadosa con le penne di croco per il cielo
traendo mille vari colori nel sole davanti vola giù
e si fermò sopra la testa. "Io comandata porto questo
sacro a Dite e sciolgo te da questo corpo":
così disse e con la destra taglia il capello, tutto il calore
insieme svanì e la vita si disperse nei venti.
Morte di Didone del GUERCINO
AUDIO
Eugenio Caruso - 03-04 - 2021