Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno ad essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Grazia della fede, la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Le anime beate nella candida rosa. Di Giovanni di Paolo.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo, ultima guida di Dante negli ultimissimi canti del Paradiso. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio (Paradiso XXVII, 109-117).
Mappa delle nove sfere concentriche ruotanti intorno alla Terra, ad opera di Giovanni di Paolo (1445)
Il Canto si apre con il proemio alla III Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta così di ampiezza tripla rispetto al proemio del Purgatorio e addirittura quadrupla rispetto a quello dell'Inferno: la maggiore ampiezza e solennità si spiega con l'accresciuta importanza della materia trattata, dal momento che il poeta si accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva fatto e dovrà misurarsi con la difficoltà di riferire visioni difficili anche solo da ricordare, anticipando il tema della visione inesprimibile che tanta parte avrà nel Paradiso. Ciò spiega anche perché Dante debba invocare l'assistenza di Apollo oltre che delle Muse, chiedendo al dio pagano (che naturalmente è personificazione dell'ispirazione divina) di aiutarlo nell'ardua impresa e consentirgli di cingere l'agognato alloro poetico: Apollo dovrà ispirarlo con lo stesso canto con cui vinse il satiro Marsia che lo aveva sfidato, in maniera analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi e sottolineando il fatto che la poesia di Dante dovrà essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di gareggiare con la divinità nella rappresentazione di ciò che supera i limiti umani (ciò sarà ribadito anche nell'esordio del Canto seguente, vv. 7-9).
Dante ribadisce anche il fatto che pochi, ormai, desiderano l'alloro, per cui la sua ambizione dovrebbe rallegrare Apollo ed essere di stimolo ad altri poeti dopo di lui perché seguano il suo esempio, nel che c'è forse una fin troppo modesta excusatio propter infirmitatem, dal momento che più volte nella Cantica egli esprimerà l'orgoglio di essere il primo a percorrere questa strada poetica.
Dopo l'ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione primaverile e l'ora del mezzogiorno (è questa l'interpretazione più ovvia, mentre è improbabile che il poeta intenda l'alba), Dante vede Beatrice fissare il sole e imita il suo gesto, sperimentando l'accresciuto acume dei suoi sensi nell'Eden. I due hanno iniziato a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Cielo della Luna, anche se Dante non se n'è ancora reso conto e ha notato solo l'aumento straordinario della luce: il poeta si sente trasumanar, diventare qualcosa di più che un essere umano e non può descrivere questa sensazione se non con l'esempio ovidiano del pastore Glauco, che si tramutò in una creatura acquatica e si gettò in mare dicendo addio alla Terra (come vedremo, Dante ricorrerà spesso nella Cantica a similitudini mitologiche per rappresentare situazioni prive di termini di paragone «terreni»).
L'aumento progressivo della luce e il dolce suono con cui ruotano le sfere celesti accendono in Dante il desiderio di capirne la ragione e Beatrice è sollecita a spiegargli che i due stanno salendo verso il Cielo, come un fulmine che cade dall'alto contro la sua natura; ciò naturalmente suscita un nuovo dubbio nel poeta che si chiede come sia possibile per lui, dotato di un corpo in carne e ossa, salire contro la legge di gravità, dubbio che sarà sciolto da Beatrice con una complessa spiegazione che occupa l'ultima parte del Canto. La donna assume fin dall'inizio l'atteggiamento che avrà sempre nella Cantica, ovvero di maestra che sospira e sorride delle ingenue domande del discepolo e fornisce spiegazioni di carattere dottrinale: anche qui, infatti, la sua spiegazione non chiarisce il dubbio di Dante di natura fisica (come fa un grave a trascendere i corpi lievi, l'aria e il fuoco) ma inquadra il problema nell'ambito dell'ordinamento generale dell'Universo, collegandosi ai versi iniziali che descrivevano il riflettersi della luce divina di Cielo in Cielo.
Beatrice spiega infatti che tutte le creature, razionali e non, fanno parte di un tutto armonico che è stato creato da Dio e ordinato in modo preciso, così che ogni cosa tende al suo fine attraverso strade diverse, come navi che giungono in porto solcando il gran mar de l'essere. Ciò vale per le cose inanimate, come il fuoco che tende a salire verso l'alto per sua natura e la terra che è attratta verso il centro dell'Universo, ma anche per gli esseri intelligenti, la cui anima razionale tende naturalmente a muoversi verso Dio; ovviamente essi sono dotati di libero arbitrio, per cui può avvenire che anziché volgersi in quella direzione siano attratti dai beni terreni, ma questo non è il caso di Dante che ha ormai purificato la sua anima nel viaggio attraverso Inferno e Purgatorio.
Egli tende dunque verso Dio che risiede nell'Empireo e ciò è un atto del tutto naturale, come quello di un fiume che scorre dall'alto verso il basso, mentre sarebbe innaturale per Dante restare a terra, come un fuoco la cui fiamma non tendesse verso l'alto. Tale spiegazione di natura metafisica anticipa quella che sarà la cifra stilistica di gran parte della III Cantica, in cui spesso i dubbi scientifici di Dante verranno sciolti con argomenti dottrinali e verrà ribadito che la sola filosofia umana è di per sé insufficiente a capire i misteri dell'Universo, proprio come lo stesso Virgilio aveva detto più volte: ciò sarà evidente anche nella spiegazione circa le macchie lunari al centro del Canto seguente, in quanto laddove la ragione umana non può arrivare deve intervenire la fede e dunque Dante deve credere che sta salendo con tutto il corpo in Paradiso, non essendo in grado di comprenderlo.
È interessante inoltre che Beatrice usi per tre volte l'immagine del fuoco per spiegare il movimento di Dante, prima paragonandolo a un fulmine che corre verso la Terra (mentre lui corre verso il Cielo), poi spiegando che il fuoco tende a salire verso il Cielo della Luna (cioè verso la sfera del fuoco, dove è diretto Dante) e infine paragonando il fulmine che cade in basso contro la sua natura a un uomo che, altrettanto forzatamente, è attratto verso i beni terreni. La luce come elemento visivo domina largamente l'episodio, segnando il passaggio di Dante dalla dimensione terrena a quella celeste, anche attraverso l'immagine del sole che è evocato nella spiegazione astronomica, poi indicato come oggetto dello sguardo di Beatrice, infine chiamato in causa con l'immagine di un secondo sole che sembra illuminare col suo splendore il cielo: il viaggio di Dante verso la luce è ovviamente il suo percorso verso Dio e tale immagine si ricollega a quella dei versi iniziali in cui la gloria divina si riverberava in tutto l'Universo.
TESTO CANTO I
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove. 3
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende; 6
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire. 9
Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto. 12
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro. 15
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso. 18
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia traesti
de la vagina de le membra sue. 21
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti, 24
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno. 27
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per triunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie, 30
che parturir letizia in su la lieta
delfica deità dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta. 33
Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda. 36
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci, 39
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella. 42
Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera, 45
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s’affisse unquanco. 48
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole, 51
così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso. 54
Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece. 57
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ferro che bogliente esce del foco; 60
e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno. 63
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote. 66
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi. 69
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba. 72
S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ‘l ciel governi,
tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti. 75
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni, 78
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso. 81
La novità del suono e ‘l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume. 84
Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quietarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio, 87
e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso. 90
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi». 93
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito, 96
e dissi: «Già contento requievi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’io trascenda questi corpi levi». 99
Ond’ella, appresso d’un pio sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro, 102
e cominciò: «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante. 105
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma. 108
Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine; 111
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti. 114
Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna; 117
né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta
ma quelle c’hanno intelletto e amore. 120
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ‘l ciel sempre quieto
nel qual si volge quel c’ha maggior fretta; 123
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto. 126
Vero è che, come forma non s’accorda
molte fiate a l’intenzion de l’arte,
perch’a risponder la materia è sorda, 129
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte; 132
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere. 135
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo. 138
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quiete in foco vivo».
Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso. 142
PARAFRASI CANTO I
La potenza di Colui (Dio) che muove ogni cosa si diffonde in tutto l'Universo e splende più in alcune parti, meno in altre (a seconda che
la cosa creata è più o meno perfetta e quindi
più o meno disposta ad accogliere in sé la
luce divina).
Io fui nel Cielo (Empireo) che è più illuminato dalla sua luce, e vidi cose che chi scende di lassù non sa né può riferire;
infatti, avvicinandosi all'oggetto del suo desiderio (Dio), il nostro intelletto si addentra tanto in profondità che la memoria non lo può seguire.
Tuttavia, l'argomento del mio canto sarà ciò che io riuscii a fissare nella mia mente del regno santo (Paradiso).
O buono Apollo, concedimi la tua ispirazione per l'ultima Cantica, tanto quanto tu richiedi per concedere l'agognato alloro poetico.
Apollo che scortica il rivale Marsia dopo la vittoria del dio nella gara di canto; dipinto di Bartolomeo Manfredi. Dante invoca Apollo per ricevere l'ispirazione necessaria per descrivere il Paradiso, facendo appello proprio alla potenza del dio da lui manifestata nella gara di cetra
Finora mi è stata sufficiente una sola cima del monte Parnaso (l'ispirazione delle Muse); ma ora devo accingermi al lavoro rimasto con l'aiuto di entrambe le cime (anche di Apollo).
Entra nel mio petto e ispirami, proprio come quando tirasti fuori Marsia dall'involucro delle sue membra (lo scorticasti vivo).
O virtù divina, se ti concedi a me quel tanto che basti a che io esprima una traccia del regno dei beati impressa nella mia mente, mi vedrai venire ai piedi del tuo amato albero, e incoronarmi con le sue foglie di cui tu e l'alto argomento del poema mi renderanno degno.
Capita così di rado, padre, che si colga l'alloro per il trionfo di un condottiero o di un poeta (per colpa e vergogna della poca ambizione umana), che la fronda di Peneo (l'alloro) dovrebbe far nascere gioia nella gioiosa divinità di Delfi (Apollo), quando è desiderata da qualcuno.
Apollo e Dafne (alloro) di Jacob Auer
Una grande fiamma segue una debole scintilla: forse dopo di me altri, con voci migliori, pregheranno perché Cirra (Apollo) risponda.
La lanterna del mondo (il sole) sorge ai mortali da diversi punti dell'orizzonte: ma da quel punto in cui quattro cerchi si intersecano formando tre croci, esso nasce in congiunzione con una stagione più mite e con una stella propizia (l'Ariete, all'equinozio primaverile) ed esercita un più benefico influsso sul mondo.
Quel punto aveva fatto pieno giorno in Purgatorio e notte sulla Terra, e un emisfero era tutto bianco e l'altro nero, quando vidi Beatrice voltata a sinistra e intenta a fissare il sole: un'aquila non lo fissò mai in tal modo.
E come il raggio riflesso è solito allontanarsi da quello di incidenza e salire in alto con lo stesso angolo, come un pellegrino che vuole tornare in patria, così dal suo atteggiamento infuso nella mia facoltà immaginativa nacque il mio, e fissai il sole al di là delle normali capacità umane.
Là nell'Eden sono permesse molte cose che non lo sono sulla Terra, grazie a quel luogo creato come proprio della specie umana.
Io non potei fissare il sole a lungo, ma neppure così poco da non vederlo sfavillare tutt'intorno, come un ferro incandescente appena uscito dal fuoco;
e subito sembrò che al giorno ne fosse stato aggiunto un altro, come se Dio avesse adornato il cielo di un secondo sole.
Beatrice teneva lo sguardo fisso sulle ruote celesti; e io fissai a mia volta lo sguardo su di lei, distogliendolo dal cielo.
Nel guardarla divenni dentro tale quale diventò Glauco quando mangiò l'erba, che lo trasformò in una divinità marina.
Glauco e Scilla di B. SPRANGER
Elevarsi al di là dei limiti umani non si potrebbe spiegare a parole: perciò basti l'esempio mitologico a coloro ai quali la grazia divina riserva l'esperienza diretta.
Se io ero solo ciò che tu, amore che governi il Cielo, creasti per ultima (l'anima razionale), lo sai tu che mi sollevasti con la tua luce.
Quando il movimento rotatorio dei Cieli, che tu rendi eterno col desiderio delle ruote celesti di avvicinarsi a te, attirò la mia attenzione con l'armonia che tu regoli e stabilisci, il cielo mi sembrò a tal punto acceso dalla luce del sole che la pioggia o un fiume non crearono mai un lago tanto ampio.
La novità del suono e la luce intensa accesero in me il desiderio di conoscerne la causa, così acuto come non lo sentii mai.
Allora Beatrice, che leggeva nella mia mente come me stesso, prima che le chiedessi qualcosa aprì la bocca per placare il mio animo turbato e disse: «Tu stesso ti rendi incapace di comprendere con una falsa immaginazione, così che non vedi ciò che vedresti se te fossi liberato.
Tu non sei in Terra, come credi: ma un fulmine, lasciando la sua sede naturale (la sfera del fuoco), non corse così velocemente come tu che torni al luogo che ti è proprio (l'Empireo)».
Se io fui liberato dal primo dubbio grazie a quelle brevi e sorridenti parole, fui colto da un altro dubbio, e dissi: «Ora la mia grande meraviglia si è placata; ma adesso mi stupisco di come io possa salire oltre questi corpi leggeri (aria e fuoco)».
Allora lei, dopo un sospiro devoto, mi guardò con l'aspetto di una madre che si rivolge al figlio che dice sciocchezze, e iniziò: «Tutte le cose create sono ordinate fra loro, e questa è la forma che rende l'Universo simile a Dio.
In questo ordine le creature razionali (uomini e angeli) vedono l'impronta della virtù divina, che è il fine ultimo di tutto l'ordine medesimo.
In quest'ordine che dico tutte le nature ricevono la loro inclinazione, in modi diversi, più o meno vicine al loro principio creatore (Dio);
per cui tendono a diversi obiettivi nell'ampiezza dell'Universo, e ciascuna è spinta da un istinto dato ad essa.
Questo istinto porta il fuoco verso l'alto; esso muove i cuori degli esseri irrazionali ed esso stringe e rende coesa la terra;
quest'istinto fa muovere non solo le creature prive di intelligenza, ma anche quelle dotate di anima razionale.
La Provvidenza, che stabilisce tutto questo, fa sempre quieto con la sua luce il Cielo (Empireo) nel quale ruota quello più veloce (Primo Mobile; Dio risiede nell'Empireo);
e ci porta lì, come a un sito stabilito, la forza di quell'istinto naturale che indirizza a buon fine ogni essere che muove.
È pur vero che, come la forma molte volte non corrisponde all'intenzione dell'artista, perché la materia non risponde come dovrebbe, così talvolta la creatura razionale si allontana da questo corso, avendo il potere (libero arbitrio) di piegare in altra direzione, pur così ben indirizzata;
e come si può vedere un fulmine che cade da una nuvola, così l'istinto naturale può far tendere l'uomo verso il basso, attirato dal falso piacere dei beni terreni.
Non devi più stupirti, se giudico correttamente, per il fatto che tu sali, se non come di un fiume che scorre dalla montagna a valle.
Ci sarebbe da stupirsi se tu, privo di impedimenti, fossi rimasto a terra, proprio come un fuoco che rimanesse quieto e non salisse verso l'alto». Dopo le sue parole, Beatrice rivolse lo sguardo al Cielo.
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Eugenio Caruso - 13 - 05 - 2021