Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.
Cherubini - Raffaello
RIASSUNTO DEL CANTO VI
Il Canto è occupato interamente dal discorso dell'imperatore Giustiniano (caso unico nel poema) che risponde alle due domande che Dante gli ha posto alla fine del precedente, rivelando cioè la sua identità e spiegando la condizione degli spiriti del II Cielo: nella parte centrale fa seguire alla prima risposta una «giunta» che è una digressione sulla storia dell'Impero romano e della sua funzione provvidenziale, per cui il tema del Canto è politico come il VI di ogni Cantica (secondo una gradazione crescente, da Firenze, all'Italia, all'Impero).
La ragione della lunga digressione è mostrare, nelle intenzioni del personaggio, la cattiva condotta di Guelfi e Ghibellini nei confronti dell'aquila simbolo dell'Impero, in quanto i primi vi si oppongono e i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, causando molti dei mali politici che affliggono l'Italia e l'Europa del tempo; soluzione a questi mali è, secondo Dante, l'Impero universale, ovvero un'autorità che imponga il rispetto delle leggi e assicuri a tutti la giustizia, ponendo fine alla situazione di anarchia e instabilità che caratterizza soprattutto l'Italia (è lo stesso motivo presente nel VI del Purgatorio, con esplicito riferimento alle leggi emanate da Giustiniano e non fatte rispettare).
Mosaico di Giustiniano e Teodora in san Vitale
Proprio questo spiega, forse, perché Dante affidi a Giustiniano l'alta celebrazione dell'Impero provvidenziale, nonostante egli fosse un monarca dell'Impero orientale e avesse regnato su Costantinopoli e non su Roma: egli aveva emanato il Corpus iuris civilis che fu poi base del diritto di tutto il mondo romanizzato del Medioevo, un'opera giuridica immensa a cui Dante assegnava un alto valore, oltre al fatto che Giustiniano aveva tentato di ricostituire l'antica unità dell'Impero con la riconquista di Roma e dell'Italia. A tale riguardo non è da escludere che il poeta biasimasse Costantino per aver portato la capitale a Bisanzio, facendo fare all'aquila un volo contr'al corso del ciel e quindi contro natura, specie perché nel Medioevo si pensava che ciò fosse avvenuto in seguito alla famigerata donazione che per Dante era causa dei mali della Chiesa (va detto, in ogni caso, che Costantino figura tra i beati del Cielo di Giove, gli spiriti giusti che formano proprio la figura dell'aquila, quindi l'eventuale condanna non va intesa in senso troppo stretto).
Quale sia il motivo della scelta di Dante, il poeta mette in bocca a Giustiniano un alto e solenne discorso che inizia con la prosopopea dell'imperatore che si presenta come l'autore della riforma legislativa e della vittoriosa spedizione in Occidente, sia pur affidata al generale Belisario (i contrasti con quest'ultimo vengono taciuti dal poeta), opere che hanno goduto entrambe del favore divino e, anzi, l'emanazione del Corpus sarebbe stata ispirata addirittura dallo Spirito Santo. Il volere divino ha determinato anche la creazione dell'Impero, il cui valore provvidenziale è al centro di tutta la successiva digressione: Giustiniano ripercorre le vicende storiche di Roma attraverso il volo simbolico dell'aquila, simbolo politico e militare del dominio romano, dalle mitiche origini troiane (evocate attraverso il riferimento a Enea, l'antico che Lavina tolse, e il sacrificio di Pallante), al periodo monarchico, fino alla creazione della Repubblica, citando i più rappresentativi personaggi della storia romana (fonte principale, se non l'unica, è sicuramente Livio).
Il punto finale di tutto questo processo è ovviamente la nascita del principato con Cesare e Augusto, voluta da Dio per unificare il mondo in un'unica legge e favorire così la venuta di Cristo: dopo la celebrazione di coloro che per Dante erano i due primi imperatori, vi è quella del terzo (Tiberio) sotto il cui dominio Cristo viene crocifisso, evento centrale nella storia umana e che ha la funzione di punire il peccato originale; in seguito tale punizione viene a sua volta punita da Tito, artefice della distruzione di Gerusalemme che Dante gli attribuisce quando era già imperatore, mentre in realtà ciò avvenne sotto Vespasiano (tale affermazione susciterà i dubbi del poeta che saranno chiariti da Beatrice nel Canto seguente).
Il disegno provvidenziale si esaurisce qui, poiché negli anni seguenti l'Impero inizia il suo lento declino culminato proprio nel trasferimento della capitale a Bisanzio e nella successiva divisione tra Oriente e Occidente, cui sarà Giustiniano a porre rimedio sia pure in modo effimero; da qui si arriva velocemente a Carlo Magno, protettore della Chiesa contro i Longobardi e, quindi, legittimo erede dell'autorità imperiale (Dante afferma una volta di più che l'Impero germanico è erede e continuatore di quello romano, quindi legittimato a imporre la sua autorità su tutto il mondo come ribadito più volte nel poema e nel Monarchia).
Dalla digressione nasce poi l'aspra invettiva contro Guelfi e Ghibellini, che per motivi diversi oltraggiano il sacrosanto segno e sono da biasimare in quanto causa dei mali politici dell'Europa di inizio Trecento: l'attacco è soprattutto contro Carlo II d'Angiò, più volte biasimato da Dante nel poema (cfr. soprattutto Purg., VII, 124 ss.; XX, 79-81) e contro cui Giustiniano rivolge un duro richiamo affinché non si illuda che la monarchia francese possa sostituirsi all'autorità dell'Impero, che è la stessa polemica portata avanti da Dante contro il re di Francia Filippo il Bello (cfr. Purg., XXXII, con l'analoga simbologia dell'aquila imperiale).
La risposta alla seconda domanda di Dante, ovvero la condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena (che godono di un minore grado di beatitudine ma non se ne dolgono, confermando quindi quanto già dichiarato da Piccarda Donati) dà modo a Giustiniano di concludere il Canto indicando un altro beato di questo Cielo, quel Romeo di Villanova ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario e vittima, secondo una diffusa diceria, delle calunnie degli altri cortigiani che lo costrinsero a lasciare la corte vecchio e povero. Non si tratta solo di un edificante esempio di cristiana rassegnazione, dal momento che tale aneddoto ha una valenza politica che si collega al tema centrale del Canto: la figura di Romeo, cacciato dalla Provenza nonostante il suo ben operare, adombra quella di Dante stesso, che subì la stessa condanna da parte dei fiorentini che si pentiranno del loro gesto, come è toccato ai provenzali passati sotto la tirannia degli Angioini (e il riferimento è quindi a Carlo II d'Angiò citato poco prima).
L'ingiusto destino che accomuna Dante e Romeo è anche il prodotto della decadenza politica, quindi (nel caso di Dante) è causato dall'assenza di un potere imperiale in grado di applicare le leggi e assicurare la giustizia; secondo alcuni Giustiniano loda la figura di Romeo per fare ammenda della sua condotta verso Belisario, il grande generale con cui ebbe contrasti e che sollevò dal suo incarico alla fine della guerra greco-gotica, ipotesi suggestiva anche se non suffragata da elementi certi. Di sicuro l'accenno a Romeo che, ridotto in miseria, è obbligato a chiedere l'elemosina, ricorda molto la figura di Provenzan Salvani (Purg., XI, 133 ss.) in cui Dante si identificava in quanto anche lui, durante l'esilio, dovrà mendicare l'aiuto dei potenti: l'umiliazione di questi personaggi è la stessa che subirà l'orgoglioso poeta e che gli sarà profetizzata da Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso, proprio nel momento in cui gli affiderà l'alta missione morale e poetica che è al centro di questa Cantica e di tutto il poema.
Note
- I vv. 1-3 alludono al trasferimento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio compiuto da Costantino, che portò l'aquila simbolo dell'Impero da occidente a oriente: il percorso è contrario rispetto a quello da Troia al Lazio seguito da Enea (l'antico che Lavina tolse, cioè prese che in moglie Lavinia), nel che alcuni studiosi hanno visto una critica a Costantino. Da quel momento all'incoronazione di Giustiniano passarono meno di duecento anni (v. 4), ma Dante segue probabilmente la cronologia di Brunetto Latini che nel Trésor indica le date del 333 e del 539, quindi con un intervallo di 206 anni.
- I monti citati al v. 6 sono quelli della Troade.
- Al v. 10 l'imperatore si presenta con un elegante chiasmo (Cesare fui... son Iustiniano) e con i diversi tempi verbali relativi al ruolo di imperatore in vita e all'identità personale (cfr. Purg., V, 88: Io fui di Montefeltro, io son Bonconte).
- Il primo amor (v. 11) che ispirò a Giustiniano l'opera legislativa è lo Spirito Santo.
- Agapito (v. 16) fu papa nel 533-536: si recò a Costantinopoli per trattare la pace coi Goti e il basileus bizantino, e in quell'occasione avrebbe convinto Giustiniano del suo errore quanto al monofisismo (la fonte è il Trésor).
- Il v. 21 indica che Giustiniano vede le verità di fede chiaramente, come Dante vede che in un giudizio contraddittorio una frase è falsa e una è vera (è il principio aristotelico di «non contraddizione»: se si dice che Socrate o è vivo o è morto, vuol dire che una delle due frasi è vera, l'altra per forza falsa, in quanto tertium non datur).
- La parola «fede» è ripetuta tre volte da Giustiniano, ai vv. 15, 17, 19.
- Nella lunga digressione sull'Impero (vv. 34-96) il soggetto è quasi sempre l'aquila, simbolo dell'autorità imperiale.
- Il v. 39 allude alla leggenda degli Orazi e dei Curiazi, che secondo il racconto di Livio (Ab Urbe condita, I, 24 ss.) lottarono a tre a tre per decidere le sorti della guerra tra Roma e Alba Longa.
- I vv. 43-45 accennano alla guerra di Roma contro i Galli di Brenno (387 a.C.), contro Pirro (282-272 a.C.) e contro altri monarchi e repubbliche dell'Italia centrale.
Torquato e Quinzio (v. 46) sono rispettivamente T. Manlio Torquato, vincitore di Galli e Latini, e L. Quinzio Cincinnato, vincitore degli Equi, così chiamato perché era ricciuto e non per la chioma arruffata (cirro negletto); l'errore, presente anche in Petrarca, nasce forse da una chiosa errata di Uguccione da Pisa.
- Al v. 49 i Cartaginesi di Annibale sono detti anacronisticamente Aràbi, come i genitori di Virgilio erano detti Lombardi (Inf., I, 68).
- Il colle citato al v. 53 è Fiesole, distrutta secondo la leggenda dai Romani (fra cui si pensava fosse anche Pompeo, che in realtà era in Oriente) dopo la guerra con Catilina.
I fiumi citati ai vv. 58-60 sono tutti della Gallia e videro le imprese di Cesare: Varo e Reno costituiscono i confini occidentale e settentrionale, l'Isara è l'Isère, l'Era è prob. la Loira (ma potrebbe essere la Saône, detta Arar in latino).
- I vv. 67-39 alludono alla deviazione che Cesare avrebbe fatto nella Troade per visitare il sepolcro di Ettore, mentre inseguiva Pompeo in Egitto: Antandro e Simeonta (Simoenta nella grafia latina) sono rispettivamente il porto della Frigia da cui salpò Enea e il fiume che scorreva accanto a Troia.
- Al v. 73 bàiulo indica «portatore» ed è latinismo.
- Il lito rubro (v. 79) è il Mar Rosso, con cui si allude alla conquista da parte di Ottaviano dell'Egitto.
- Il terzo Cesare (v. 86) è Tiberio, che per Dante era il terzo imperatore (dopo Cesare e Augusto).
- I vv. 91-93 alludono alla distruzione del Tempio di Gerusalemme operata da Tito nel 70 d.C., giusta punizione secondo la dottrina medievale per la crocifissione di Cristo: in realtà Tito non era ancora succeduto al padre Vespasiano.
- Al v. 106 Carlo novello è Carlo II d'Angiò, figlio e successiore di Carlo I.
- I vv. 109-110 non sono chiarissimi, poiché Dante apprezzava i figli di Carlo II (specie Carlo Martello, che fu suo amico) e non sembra verosimile che qui profetizzi le loro sventure come punizione divina del padre; forse la massima è generale.
- Al v. 118 gaggi vuol dire «premi», «riconoscimenti» (è francesismo).
- Le quattro figlie (v. 133) di Raimondo Berengario IV furono Margherita, moglie di Luigi IX il Santo re di Francia; Eleonora, moglie di Enrico III d'Inghilterra; Sancia, moglie di Riccardo conte di Cornovaglia e re dei Romani nel 1257; Beatrice, moglie di Carlo I d'Angiò. Secondo la tradizione cui si rifà Dante, questi quattro matrimoni regali furono tutti organizzati da Romeo di Villanova.
- L'espressione a frusto a frusto (v. 141) significa «a tozzo a tozzo» e allude al fatto che Romeo dovette mendicare il pane.
TESTO CANTO VI
«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse, 3
cento e cent’anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo; 6
e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ‘l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne. 9
Cesare fui e son Iustiniano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano. 12
E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento; 15
ma ‘l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue. 18
Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
vegg’io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera. 21
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; 24
e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi. 27
Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta, 30
perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’al sacrosanto segno
e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone. 33
Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l’ora
che Pallante morì per darli regno. 36
Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora. 39
E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine. 42
Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri principi e collegi; 45
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ‘ Fabi
ebber la fama che volontier mirro. 48
Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Annibale passaro
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi. 51
Sott’esso giovanetti triunfaro
Scipione e Pompeo; e a quel colle
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro. 54
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle. 57
E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna
e ogne valle onde Rodano è pieno. 60
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo,
che nol seguiteria lingua né penna. 63
Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo. 66
Antandro e Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov’Ettore si cuba;
e mal per Tolomeo poscia si scosse. 69
Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba. 72
Di quel che fé col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente. 75
Piangene ancor la trista Cleopatra,
che, fuggendoli innanzi, dal colubro
la morte prese subitana e atra. 78
Con costui corse infino al lito rubro;
con costui puose il mondo in tanta pace,
che fu serrato a Giano il suo delubro. 81
Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face
fatto avea prima e poi era fatturo
per lo regno mortal ch’a lui soggiace, 84
diventa in apparenza poco e scuro,
se in mano al terzo Cesare si mira
con occhio chiaro e con affetto puro; 87
ché la viva giustizia che mi spira,
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,
gloria di far vendetta a la sua ira. 90
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse
de la vendetta del peccato antico. 93
E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse. 96
Omai puoi giudicar di quei cotali
ch’io accusai di sopra e di lor falli,
che son cagion di tutti vostri mali. 99
L’uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli. 102
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’altro segno; ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte; 105
e non l’abbatta esto Carlo novello
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
ch’a più alto leon trasser lo vello. 108
Molte fiate già pianser li figli
per la colpa del padre, e non si creda
che Dio trasmuti l’arme per suoi gigli! 111
Questa picciola stella si correda
di buoni spirti che son stati attivi
perché onore e fama li succeda: 114
e quando li disiri poggian quivi,
sì disviando, pur convien che i raggi
del vero amore in sù poggin men vivi. 117
Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi. 120
Quindi addolcisce la viva giustizia
in noi l’affetto sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia. 123
Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote. 126
E dentro a la presente margarita
luce la luce di Romeo, di cui
fu l’ovra grande e bella mal gradita. 129
Ma i Provenzai che fecer contra lui
non hanno riso; e però mal cammina
qual si fa danno del ben fare altrui. 132
Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
Romeo, persona umìle e peregrina. 135
E poi il mosser le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece, 138
indi partissi povero e vetusto;
e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe». 142
Cesare
PARAFRASI
«Dopo che Costantino portò l'aquila imperiale contro il corso del cielo (da Occidente a Oriente), che essa seguì dietro a Enea che prese in sposa Lavinia, l'uccello divino rimase più di duecento anni nell'estremità dell'Europa, vicino ai monti della Troade dai quali iniziò il suo volo;
e lì governò il mondo all'ombra delle penne sacre, passando di mano in mano, fino a giungere nelle mie.
Fui imperatore romano e mi chiamo Giustiniano: sono colui che, ispirato dallo Spirito Santo, eliminai dalle leggi ciò che era superfluo e ciò che era inutile.
E prima che mi dedicassi a quest'opera, credevo che in Cristo ci fosse la sola natura divina, ed ero contento di questa fede;
ma il benedetto Agapito, che fu sommo pontefice, mi indirizzò alla vera fede con le sue parole.
Io gli credetti; e ora vedo ciò che era nella sua fede così chiaramente, come tu vedi che in un giudizio contraddittorio c'è una frase vera e una falsa.
Non appena rientrai in seno alla Chiesa, Dio volle per sua grazia ispirarmi l'alta opera (il Corpus iuris civilis) e io mi dedicai anima e corpo ad esso;
e affidai le armi al mio generale Belisario, che fu assistito dal cielo a tal punto che ciò fu segno che io dovessi fermarmi.
Ora qui termina la mia prima risposta; ma ciò che ho detto mi induce a far seguire una aggiunta, affinché tu veda quanto ingiustamente agiscano contro il sacrosanto simbolo dell'aquila sia coloro che se ne appropriano (i Ghibellini), sia coloro che gli si oppongono (i Guelfi).
Vedi quanta virtù ha reso il segno degno di riverenza; e ciò iniziò dal giorno in cui Pallante morì per assicurargli un regno.
Tu sai che esso dimorò più di trecento anni ad Alba Longa, fino al momento in cui Orazi e Curiazi lottarono ancora per lui.
E sai cosa fece dal ratto delle Sabine fino all'oltraggio a Lucrezia, all'epoca dei sette re di Roma, vincendo i popoli circonvicini.
Sai che cosa fece, portato dai nobili Romani contro Brenno e Pirro, e contro altre repubbliche e monarchi dell'Italia;
per cui Torquato e Quinzio Cincinnato, che fu detto così per la chioma trascurata, nonché Deci e Fabi ebbero la fama che io volentieri onoro.
Esso abbatté l'orgoglio dei Cartaginesi che al seguito di Annibale passarono le Alpi, dalle quali tu, o fiume Po, discendi.
Sotto di esso trionfarono, da giovani, Scipione e Pompeo; e parve amaro a quel colle (Fiesole) sotto il quale tu sei nato.
Poi, quando fu vicino il tempo in cui il Cielo volle far diventare tutto il mondo sereno a sua immagine (per la nascita di Cristo), Cesare assunse il segno dell'aquila per volere di Roma.
E ciò che esso (con Cesare) fece in dal fiume Varo fino al Reno, lo videro l'Isère, la Loira, la Senna e ogni valle di cui è pieno il Rodano.
Quello che fece dopo essere uscito da Ravenna ed aver passato il Rubicone, fu un volo così veloce che né la lingua né la penna potrebbero descriverlo.
Rivolse le truppe contro la Spagna e poi verso Durazzo, e colpì Farsàlo a tal punto che il dolore arrivò sino al caldo Nilo.
L'aquila rivide il porto di Antandro e il fiume Simoenta da cui si mosse, e il sepolcro di Ettore; e poi ripartì per l'Egitto, con nefaste conseguenze per Tolomeo.
Da lì scese come una folgore contro Giuba, re di Mauritania, e poi si portò nell'Occidente del vostro mondo, dove sentiva la tromba dei Pompeiani.
Di quello che esso fece col successore di Cesare (Ottaviano), Bruto e Cassio ancora latrano nell'Inferno e Modena e Perugia ne furono dolenti.
Ne piange ancora la triste Cleopatra, che, fuggendogli davanti, si diede la morte improvvisa e atroce col serpente.
Con Ottaviano l'aquila corse fino al Mar Rosso; con lui ridusse il mondo in pace, al punto che fu chiuso il tempio di Giano.
Ma ciò che il segno di cui parlo aveva fatto in precedenza e avrebbe fatto dopo per il regno mortale che gli è sottomesso, diventa poca cosa in apparenza se lo si paragona a ciò che fece col terzo imperatore (Tiberio), se si guarda con chiarezza e sincerità;
infatti la giustizia divina che mi ispira gli concesse, in mano a Tiberio, la gloria di punire il peccato originale (con la crocifissione di Cristo).
Ora prendi ammirazione per ciò che aggiungo: in seguito con Tito corse a vendicare la vendetta dell'antico peccato (con la distruzione di Gerusalemme).
E quando la violenza dei Longobardi si rivolse contro la Santa Chiesa, Carlo Magno la soccorse sotto le ali dell'aquila, sconfiggendo quel popolo.
Ormai puoi giudicare la condotta di quelli che ho accusato prima e le loro colpe, che sono causa di tutti i vostri mali.
Gli uni (i Guelfi) oppongono al simbolo imperiale i gigli gialli della casa di Francia, e gli altri (i Ghibellini) se ne appropriano per la loro parte politica, così che è arduo stabilire chi sbagli di più.
I Ghibellini facciano la loro politica sotto un altro simbolo, giacché chi lo separa sempre dalla giustizia ne fa un cattivo uso;
e non creda di abbatterlo coi suoi Guelfi Carlo II d'Angiò, ma abbia timore dei suoi artigli che scuoiarono leoni più feroci di lui.
Molte volte i figli hanno già pagato per le colpe dei padri, e quindi non creda Carlo che Dio cambi il proprio simbolo con i suoi gigli!
Questo piccolo pianeta (Mercurio) accoglie i buoni spiriti che sono stati attivi nella ricerca dell'onore e della fama:
e quando i desideri sono rivolti a questo, così deviando dal loro fine, è inevitabile che l'amore sia meno rivolto verso Dio.
Tuttavia, se paragoniamo i nostri premi col nostro merito, ciò ci induce letizia, poiché non li vediamo né minori né maggiori.
In tal modo la giustizia divina addolcisce il nostro sentimento, così che esso non può mai essere rivolto a un pensiero malvagio.
Diverse voci producono dolci melodie; così i diversi gradi della nostra beatitudine rendono una dolce armonia in questi Cieli.
E dentro questa stella risplende la luce di Romeo di Villanova, la cui opera bella e grande fu poco apprezzata.
Ma i Provenzali, che agirono contro di lui, non hanno riso (furono puniti) e dunque percorre una cattiva strada chi è invidioso e considera un proprio danno le buone azioni degli altri.
Raimondo Berengario ebbe quattro figlie, ognuna sposa di re, e ciò fu il risultato dell'opera di Romeo, persona umile e straniera.
E poi le parole invidiose dei cortigiani lo indussero a chiedere conto dell'operato di quel giusto, che aveva accresciuto le rendite statali, per cui Romeo se ne andò povero e vecchio;
e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a mendicare il pane, lo loderebbe ancor più di quanto già non faccia».
AUGUSTO
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Eugenio Caruso - 18- 06 - 2021