Dante, Paradiso, Canto VII. Il peccato originale.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO VII

Il Canto rappresenta una pausa che segue l'episodio di Giustiniano e trae spunto da una sua affermazione circa la giusta punizione del peccato originale avvenuta per mezzo della crocifissione di Cristo, e l'altrettanto giusta punizione di questa con la distruzione di Gerusalemme e la diaspora degli Ebrei. La cosa può apparire contraddittoria e suscita infatti i dubbi di Dante, che dopo l'inno intonato da Giustiniano a inizio di Canto e la sua dipartita vorrebbe chiedere spiegazioni a Beatrice, non osando parlare per deferenza, finché è la donna a leggere nella mente di Dio il dubbio del poeta e a parlare di sua iniziativa (secondo uno schema che vedremo ripetersi tante volte, con poche varianti, nel corso della Cantica). La spiegazione di Beatrice si articola in tre momenti successivi, in cui si rivolge a Dante con un elaborato discorso che segue i dettami della Scolastica: si tratta di questioni assai delicate e complesse sul piano teologico, che non tutti sono in grado di comprendere se non ardono di carità, per cui la donna invita Dante a prestare la massima attenzione (il Canto è scandito infatti da una serie di appelli: le mie parole / di gran sentenza ti faran presente; Or drizza il viso a quel ch'or si ragiona; Questo decreto... sta sepulto / a li occhi di ciascuno; a questo segno / molto si mira e poco si discerne; Fissa mo l'occhio per entro l'abisso / de l'etterno consiglio. Nella prima parte Beatrice spiega il dogma dell'incarnazione, voluta da Dio per consentire all'umanità di redimersi dopo il peccato originale, per cui Cristo si fece uomo e, come tale, subì il martirio della crocifissione: la donna distingue tra la natura umana in quanto tale, colpevole del peccato di Adamo e dunque meritevole della punizione, e la natura umana della persona di Cristo, verso la quale quell'atto fu sommamente ingiusto; la distinzione può apparire artificiosa a noi moderni, ma essa era largamente ammessa dalla dottrina cristiana e spiegava perché la crocifissione poté essere giusta in un caso e, al tempo stesso, ingiusta nell'altro. Dante affronta qui una questione assai delicata che è all'origine dell'antigiudaismo del Medioevo, ovvero l'accusa rivolta agli Ebrei di deicidio e, dunque, la giustezza della distruzione del Tempio da parte di Tito nel 70 d.C. da cui ebbe inizio la diaspora del popolo ebraico: tale accusa, che appare insensata a noi moderni e che ha causato tante ingiuste persecuzioni antisemite nel corso del secoli (senza dimenticare l'Olocausto perpetrato nella seconda guerra mondiale) era tuttavia profondamente radicata nel pensiero del Medioevo e non stupisce che Dante la faccia propria nella spiegazione di questo Canto. Del resto il Vangelo afferma che gli Ebrei condannarono Gesù per un atto di invidia, per l'astio contro Colui che si era proclamato il Messia e aveva sovvertito le loro tradizioni, dunque quel medesimo atto portò alla redenzione dell'uomo e fece aprire il Cielo, ma suscitò anche la condanna e la riprovazione di Dio, per cui la terra fu scossa da un terremoto che preannunciava la futura punizione che di lì a pochi anni sarebbe toccata agli Ebrei. Dante sente la necessità di sciogliere questo nodo con un'elevata spiegazione dottrinale perché esso poteva intaccare il concetto di giustizia divina che è al centro della III Cantica, per cui la questione è risolta (sia pure in modo inaccettabile per la nostra sensibilità religiosa) nei Canti iniziali del Paradiso, come preparazione per quanto verrà mostrato più avanti.

peccato o.
Il peccato originale di A, Nettini.

Da questa spiegazione nasce il secondo dubbio di Dante, ovvero perché Dio abbia scelto proprio questa strada per punire il peccato originale e redimere l'umanità: Beatrice fornisce un'altra spiegazione ancor più lunga e complessa della prima, al centro della quale sta la considerazione che l'uomo, peccando con Adamo, decadde dalla sua condizione originaria e avrebbe potuto riacquistarla solo con un atto supremo di espiazione, cui però non avrebbe mai potuto giungere da solo in quanto incapace di umiliarsi tanto quanto era insuperbito. Era necessario pertanto l'intervento di Dio, che poteva semplicemente punire o perdonare: scelse di fare entrambe le cose e di incarnarsi in Cristo per sacrificare se stesso, con un atto di straordinaria liberalità quale mai si è visto né si vedrà in tutta la storia (tra l'ultima notte e 'l primo die, in cui i due termini di inizio e fine dei tempi sono invertiti e la storia dell'uomo ridotta a un istante); in tal modo l'uomo ha potuto salvarsi e dunque il martirio di Cristo è davvero l'evento centrale di tutta la vicenda umana, come già appariva chiaro dal discorso di Giustiniano che affermava la provvidenzialità dell'Impero romano, il cui fine era appunto quello di preparare il mondo all'avvento di Gesù per la redenzione e la salvezza dell'umanità. Da questa spiegazione nasce l'ultima chiosa di Beatrice, forse quella più arida sul piano poetico, relativa alla corruttibilità degli elementi e che si rende necessaria per spiegare ciò che lei stessa aveva detto circa l'eternità dell'anima umana che è creata direttamente da Dio. Beatrice spiega al lume della Scolastica che Dio crea direttamente solo la materia prima, mentre gli oggetti sono formati dalla virtù delle influenze celesti, per cui essi sono corruttibili e mortali come lo è l'anima vegetativa e sensitiva, non creata direttamente da Dio a differenza di quella umana; ciò spiega che anche il corpo dell'uomo è incorruttibile, in quanto creato da Dio con Adamo ed Eva, e se tale privilegio è stato perduto con il peccato originale ciò è solo temporaneo, in quanto sarà riacquistato al momento della resurrezione, quando ognuno si rivestirà della propria carne e ascolterà la gran sentenza. Questa spiegazione anticipa quella più approfondita che sarà al centro del Canto XIV, mentre il concetto dell'incarnazione di Cristo (fondamentale nella storia come lo è nella dottrina cristiana) sarà affrontato alla fine del viaggio, quando Dante guarderà nella mente di Dio e vedrà il mistero spiegato attraverso l'effigie umana che risalta nella seconda sfera, che rappresenta proprio la seconda persona della Trinità.
L'affermazione di Giustiniano in Par., VI, 91-93, secondo cui la distruzione del Tempio di Gerusalemme operata da Tito nel 70 d.C. fu la giusta punizione contro gli Ebrei per aver crocifisso Cristo (punto successivamente chiarito dalla stessa Beatrice in VII, 40-51) può far pensare a un atteggiamento antigiudaico da parte di Dante, che in altri passi del poema per motivi diversi si dimostra profondamente avverso all'Islam. Il sentimento antigiudaico era del resto profondamente radicato nella cultura medievale, specie per l'accusa di deicidio che veniva rivolta al popolo ebraico e che trova la sua origine nelle opere di tanti Padri della Chiesa già nei secc. IV-V d.C.: se ne ha un riflesso nello stesso messale latino in cui, già nei secoli dell'Alto Medioevo, era inserita la preghiera Oremus pro perfidis Iudaeis, in cui l'accusa di perfidia iudaica riguardava sia il martirio di Cristo decretato dal Sinedrio di Gerusalemme, sia la concezione degli Ebrei come infedeli e quindi avversi alla vera fede cristiana (tale frase offensiva fu eliminata dalla Chiesa Cattolica solo ai tempi del Concilio Vaticano II, per iniziativa di papa Giovanni XXIII nel 1962). Non stupisce dunque che anche Dante si allinei su questo argomento col pensiero largamente condiviso dal Cristianesimo del suo tempo, per quanto egli affronti la questione sul piano teologico e la presenti come non scontata, meritevole di un severo approfondimento e di una complessa spiegazione da parte di Beatrice: va detto che nella sua opera la polemica contro il popolo ebraico non assume mai i toni di una contrapposizione su base etnica o religiosa, come si può invece affermare in parte riguardo all'Islam, per cui è lecito affermare che Dante non sembra giustificare in alcun modo le persecuzioni antisemite che nel Trecento talvolta avvenivano e sarebbero diventate drammaticamente attuali nei decenni seguenti, specie durante la peste del 1348. Del resto nel Canto XXIII dell'Inferno egli pone, sì, il sommo sacerdote Caifa tra gli ipocriti della VI Bolgia, in quanto colpevole di aver suggerito il martirio di Cristo con argomenti capziosi, ma la sua colpa è presentata come individuale e non pare coinvolgere tutto il mondo ebraico come proposto da molti teologi medievali: nessun altro dannato infernale appartiene esplicitamente alla fede ebraica, neppure fra gli usurai del terzo girone del VII Cerchio, nonostante l'accusa spesso rivolta agli Ebrei nel Medioevo di prestare il denaro a interesse, cosa di cui ci sono molteplici esempi nell'arte dei secc. XIV-XV. Dante sembra quindi anticipare per certi aspetti la posizione assunta dalla Chiesa cristiana solo molti secoli dopo, ai tempi del Concilio Vaticano II, quando nel documento Nostra aetate (1965) si prenderanno le distanze da ogni forma di antisemitismo: «E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo... La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo... deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque». Sotto questo aspetto, dunque, la posizione di Dante non sconfina nell'antigiudaismo né si può parlare di pregiudizio razziale, in quanto il poeta si limita a far proprie le convizioni dei pensatori cristiani del suo tempo, non senza (come si è visto) la necessità di fare chiarezza e di spiegare a livello dottrinale la giustizia divina in proposito. Di tutta la Commedia questo canto di argomento puramente teologico risulta il più noioso.

crocefisso
La crocefissione di D. di Buoninsegna

Note
- L'inno intonato da Giustiniano ai vv. 1-3 è invenzione dantesca, in cui Osanna sanctus Deus riecheggia il Sanctus della Messa e il linguaggio scritturale è presente con le parole Osanna, sabaoth («degli eserciti»), malacoth («dei regni», per quanto nella Vulgata si leggesse mamlacoth). Superillustrans è pure creazione di Dante, poiché nel lat. med. esiste solo l'aggettivo superillustris come titolo onorifico).
- Difficile interpretare il senso del doppio lume (v. 6) riferito all'anima di Giustiniano: secondo alcuni è la luce del beato unita a quella di Dio, secondo altri la luce della beatitudine con quella della dignità imperiale; altri ancora pensano alla luce del guerriero e del legislatore, in rapporto all'opera dell'imperatore. S'addua (v. 6) è neologismo dantesco, come s'incinqua (IX, 40), s'intrea (XIII, 57), s'inmilla (XXVIII, 93).
- Il v. 14 vuol dire che Dante prova riverenza solo all'udire la sillaba iniziale o finale del nome di Beatrice.
- L'uom che non nacque (v. 26) è naturalmente Adamo.
- Il v. 48, che contiene un chiasmo, allude al fatto che grazie al martirio di Cristo il Cielo si aprì, quindi l'umanità fu redenta, ma la Terra tremò a minacciare il castigo che avrebbe colpito gli Ebrei.
- Al v. 60 adulto significa «cresciuto», «nutrito» (dal lat. adolesco).
- La virtute de le cose nove (v. 72) è l'influenza dei Cieli, detti così per distinguerli da Dio che è causa prima. -
- Al v. 86 nel seme suo vuol dire in Adamo, «seme» del genere umano.
- Al v. 133 gli alimenti sono gli «elementi» naturali (la forma è attestata nella lingua delle Origini).
- La creata virtù citata al v. 135 è l'inlfuenza celeste, che dà forma alla materia prima creata direttamente da Dio.
- Complession potenziata (v. 140) è tecnicismo della Scolastica, a indicare la mistura degli elementi disposta a ricevere la forma.
- I primi parenti (v. 148) sono i primi progenitori, Adamo ed Eva.

TESTO CANTO VII

«Osanna, sanctus Deus sabaòth, 
superillustrans claritate tua 
felices ignes horum malacòth!».                                      3

Così, volgendosi a la nota sua, 
fu viso a me cantare essa sustanza, 
sopra la qual doppio lume s’addua:                               6

ed essa e l’altre mossero a sua danza, 
e quasi velocissime faville, 
mi si velar di sùbita distanza.                                           9

Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’ 
fra me, ‘dille’, dicea, ‘a la mia donna 
che mi diseta con le dolci stille’.                                     12

Ma quella reverenza che s’indonna 
di tutto me, pur per Be e per ice
mi richinava come l’uom ch’assonna.                           15

Poco sofferse me cotal Beatrice 
e cominciò, raggiandomi d’un riso 
tal, che nel foco faria l’uom felice:                                   18

«Secondo mio infallibile avviso, 
come giusta vendetta giustamente 
punita fosse, t’ha in pensier miso;                                 21

ma io ti solverò tosto la mente; 
e tu ascolta, ché le mie parole 
di gran sentenza ti faran presente.                                 24

Per non soffrire a la virtù che vole 
freno a suo prode, quell’uom che non nacque,
dannando sé, dannò tutta sua prole;                             27

onde l’umana specie inferma giacque 
giù per secoli molti in grande errore, 
fin ch’al Verbo di Dio discender piacque                       30

u’ la natura, che dal suo fattore 
s’era allungata, unì a sé in persona 
con l’atto sol del suo etterno amore.                              33

Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona: 
questa natura al suo fattore unita, 
qual fu creata, fu sincera e buona;                                 36

ma per sé stessa pur fu ella sbandita 
di paradiso, però che si torse 
da via di verità e da sua vita.                                            39

La pena dunque che la croce porse 
s’a la natura assunta si misura, 
nulla già mai sì giustamente morse;                             42

e così nulla fu di tanta ingiura, 
guardando a la persona che sofferse, 
in che era contratta tal natura.                                         45

Però d’un atto uscir cose diverse: 
ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte; 
per lei tremò la terra e ‘l ciel s’aperse.                          48

Non ti dee oramai parer più forte, 
quando si dice che giusta vendetta 
poscia vengiata fu da giusta corte.                                 51

Ma io veggi’ or la tua mente ristretta 
di pensiero in pensier dentro ad un nodo, 
del qual con gran disio solver s’aspetta.                      54

Tu dici: "Ben discerno ciò ch’i’ odo; 
ma perché Dio volesse, m’è occulto, 
a nostra redenzion pur questo modo".                          57

Questo decreto, frate, sta sepulto 
a li occhi di ciascuno il cui ingegno 
ne la fiamma d’amor non è adulto.                                60

Veramente, però ch’a questo segno 
molto si mira e poco si discerne, 
dirò perché tal modo fu più degno.                                 63

La divina bontà, che da sé sperne 
ogne livore, ardendo in sé, sfavilla 
sì che dispiega le bellezze etterne.                                66

Ciò che da lei sanza mezzo distilla 
non ha poi fine, perché non si move 
la sua imprenta quand’ella sigilla.                                 69

Ciò che da essa sanza mezzo piove 
libero è tutto, perché non soggiace 
a la virtute de le cose nove.                                              72

Più l’è conforme, e però più le piace; 
ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia, 
ne la più somigliante è più vivace.                                 75

Di tutte queste dote s’avvantaggia 
l’umana creatura; e s’una manca, 
di sua nobilità convien che caggia.                                78

Solo il peccato è quel che la disfranca 
e falla dissìmile al sommo bene, 
per che del lume suo poco s’imbianca;                        81

e in sua dignità mai non rivene, 
se non riempie, dove colpa vòta, 
contra mal dilettar con giuste pene.                               84

Vostra natura, quando peccò tota 
nel seme suo, da queste dignitadi, 
come di paradiso, fu remota;                                           87

né ricovrar potiensi, se tu badi 
ben sottilmente, per alcuna via, 
sanza passar per un di questi guadi:                             90

o che Dio solo per sua cortesia 
dimesso avesse, o che l’uom per sé isso 
avesse sodisfatto a sua follia.                                         93

Ficca mo l’occhio per entro l’abisso 
de l’etterno consiglio, quanto puoi 
al mio parlar distrettamente fisso.                                  96

Non potea l’uomo ne’ termini suoi 
mai sodisfar, per non potere ir giuso 
con umiltate obediendo poi,                                            99

quanto disobediendo intese ir suso; 
e questa è la cagion per che l’uom fue 
da poter sodisfar per sé dischiuso.                              102

Dunque a Dio convenia con le vie sue 
riparar l’omo a sua intera vita, 
dico con l’una, o ver con amendue.                              105

Ma perché l’ovra tanto è più gradita 
da l’operante, quanto più appresenta 
de la bontà del core ond’ell’è uscita,                            108

la divina bontà che ‘l mondo imprenta, 
di proceder per tutte le sue vie, 
a rilevarvi suso, fu contenta.                                            111

Né tra l’ultima notte e ‘l primo die 
sì alto o sì magnifico processo, 
o per l’una o per l’altra, fu o fie:                                      114

ché più largo fu Dio a dar sé stesso 
per far l’uom sufficiente a rilevarsi, 
che s’elli avesse sol da sé dimesso;                           117

e tutti li altri modi erano scarsi 
a la giustizia, se ‘l Figliuol di Dio 
non fosse umiliato ad incarnarsi.                                  120

Or per empierti bene ogni disio, 
ritorno a dichiararti in alcun loco, 
perché tu veggi lì così com’io.                                        123

Tu dici: "Io veggio l’acqua, io veggio il foco, 
l’aere e la terra e tutte lor misture 
venire a corruzione, e durar poco;                                  126

e queste cose pur furon creature; 
per che, se ciò ch’è detto è stato vero,
esser dovrien da corruzion sicure".                               129

Li angeli, frate, e ‘l paese sincero 
nel qual tu se’, dir si posson creati, 
sì come sono, in loro essere intero;                             132

ma li elementi che tu hai nomati 
e quelle cose che di lor si fanno 
da creata virtù sono informati.                                        135

Creata fu la materia ch’elli hanno; 
creata fu la virtù informante 
in queste stelle che ‘ntorno a lor vanno.                      138

L’anima d’ogne bruto e de le piante 
di complession potenziata tira 
lo raggio e ‘l moto de le luci sante;                               141

ma vostra vita sanza mezzo spira 
la somma beninanza, e la innamora 
di sé sì che poi sempre la disira.                                  144

E quinci puoi argomentare ancora 
vostra resurrezion, se tu ripensi 
come l’umana carne fessi allora 

che li primi parenti intrambo fensi».                             148


PARAFRASI CANTO VII

«Osanna, o santo Dio degli eserciti, che illumini dall'alto con la tua luce i beati fuochi di questi regni!»

Così, danzando al ritmo del suo canto, mi sembrò che cantasse quell'anima, nella quale risplende una doppia luce:

essa e le altre si mossero al ritmo di quella danza, e come delle scintille rapidissime scomparvero alla mia vista per la distanza.

Io ero in dubbio e fra me dicevo: 'Parla, parla! Parla alla mia donna, che mi disseta con le dolci gocce del suo sapere'.

Ma quella riverenza che si impossessa tutta di me, al solo sentire le sillabe 'Be' e 'ice', mi faceva chinare la testa come colui che è preso dal sonno.

Beatrice tollerò per poco che io fossi in quello stato e iniziò a parlare, illuminandomi con un sorriso tale che renderebbe felice un uomo nelle fiamme:

«In base al mio giudizio infallibile, tu hai dei dubbi su come sia possibile che una giusta vendetta sia stata giustamente punita;

ma io risolverò presto la questione; e tu ascolta, poiché le mie parole ti faranno dono di una grande verità.

Quell'uomo che non nacque (Adamo), per non aver sopportato alla sua volontà un freno a suo vantaggio, condannando se stesso condannò tutta la stirpe umana;

per cui l'umanità giacque per molti secoli sulla Terra in un grave errore, finché al Figlio di Dio piacque di scendere là (nel grembo di Maria) dove unì a sé la natura umana, che si era allontanata dal suo Creatore, in una sola persona, col solo atto dello Spirito Santo.

Ora presta attenzione a quello che sto per dire: questa natura umana, unita al suo Creatore (in Cristo), fu pura e scevra dal peccato come era stata creata (in Adamo);

ma per se stessa essa fu cacciata dall'Eden, poiché si allontanò col peccato originale dalla strada della verità.

Dunque, la pena rappresentata dalla croce fu assolutamente giusta, se si considera la natura umana di per se stessa;

invece, se si guarda alla persona (di Cristo) che la subì e che era unita a tale umana natura, fu assolutamente ingiusta.

Perciò dallo stesso atto sortirono effetti diversi: infatti a Dio e ai Giudei piacque la stessa morte (di Cristo); per essa, la Terra fu scossa da un terremoto e il Cielo si aprì.

Ormai non ti deve più sembrare difficile capire perché si dice che una giusta vendetta, in seguito, fu vendicata da un giusto tribunale.

Ma adesso vedo che la tua mente, di pensiero in pensiero, è stretta da un altro nodo, dal quale ha grande desiderio di essere sciolta.

Tu dici: "Ho capito bene quanto ho udito; ma non capisco perché Dio abbia voluto scegliere questo modo per redimerci".

Questa verità, fratello, è sepolta agli occhi di ciascuno il cui ingegno non sia ancora nutrito dalla fiamma della carità.

Tuttavia, dal momento che riguardo a questo argomento è difficile capire perfettamente, ti spiegherò perché quel modo fu il più giusto.

La bontà divina, che disprezza ogni odio, ardendo in se stessa splende in modo tale che emana le bellezze eterne.

Ciò che è creato da essa direttamente non ha fine (è eterno), perché la sua impronta, dopo che il sigillo è stato impresso, non può mutare.

Ciò che deriva da essa direttamente è del tutto libero, perché non è sottomesso alla virtù delle influenze celesti.

Più una creatura è conforme alla bontà divina, più piace ad essa; infatti l'ardore santo che illumina ogni cosa è più vivo nelle creature che più gli somigliano.

La creatura umana possiede tutte queste doti; e se una sola vien meno, è inevitabile che perda la sua nobiltà.

Il peccato è l'unica cosa che la rende schiava e la fa difforme dal sommo bene (Dio), poiché risplende poco della sua luce;

e non può riacquistare la sua dignità, se non ricolma il vuoto lasciato dalla colpa con una giusta pena contraria ai suoi malvagi desideri.

La vostra natura, quando peccò totalmente in Adamo, fu allontanata da questa dignità come dall'Eden;

né tale dignità si poteva recuperare, se ragioni in modo sottile, in nessun modo, senza passare per una di queste strade:

Dio, in virtù della Sua generosità, poteva perdonare, oppure l'uomo poteva per se stesso espiare la sua colpa.

Figgi lo sguardo nell'abisso della giustizia divina, per quanto tu possa tenerlo stretto alle mie parole.

L'uomo per sua natura non avrebbe mai potuto espiare da solo, poiché non poteva umiliarsi e obbedire tanto quanto insuperbì al momento del peccato; e questa è la ragione per cui all'uomo fu preclusa la via di riparare di sua iniziativa.

Dunque era necessario che Dio aiutasse l'uomo a rimediare nella sua intera vita, in un modo (perdonando) o nell'altro (punendo), o in entrambi.

Ma poiché l'opera è tanto più gradita a chi agisce quanto più manifesta la bontà del cuore da cui è scaturita, la bontà divina che suggella a sua immagine il mondo volle usare tutte e due le strade (punizione e perdono) per riscattarvi.

E in tutta la storia umana non si è mai visto né si vedrà un atto altrettanto magnifico, per l'uno o per l'altro modo: infatti Dio fu più generoso a sacrificare se stesso per riscattarvi, di quanto non sarebbe stato se avesse semplicemente perdonato;

e tutte le altre strade erano insufficienti alla giustizia divina, se il Figlio di Dio non si fosse umiliato incarnandosi.

Ora, per soddisfare pienamente ogni tuo desiderio, voglio precisare bene un punto affinché tu veda chiaramente tanto quanto me.

Tu dici: "Io vedo che l'acqua, il fuoco, l'aria, la terra e tutti i loro composti sono corruttibili e non sono eterni;

e queste cose sono comunque delle creature; per cui, se ciò che mi è stato detto è vero, dovrebbero essere sicure dalla corruzione (essere incorruttibili)".

Fratello, gli angeli e il Cielo in cui ti trovi sono stati creati nella pienezza del loro essere;

invece gli elementi che hai nominato e quegli oggetti che ne sono composti, hanno ricevuto la forma dall'influenza dei Cieli.

La materia di cui essi sono fatti fu creata direttamente; fu creata la virtù informativa in questi astri che ruotano intorno ad essi.

Il raggio e il movimento degli astri trae fuori l'anima vegetativa e sensitiva dalla materia atta a ricevere la forma;

invece la vostra anima intellettiva è creata direttamente dalla bontà divina, che la fa innamorare di sé, tanto che poi desidera sempre ricongiungersi ad essa.

Da ciò puoi comprendere anche la vostra resurrezione della carne, se pensi che il corpo umano fu creato direttamente da Dio insieme ai primi progenitori (Adamo ed Eva)».

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Eugenio Caruso - 29- 06 - 2021

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