Iliade, Libro VI. Andromaca ed Ettore.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

ILIADE

ifigenia
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartiene ad Omero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.

INTRODUZIONE al VI LIBRO

Sulla piana di Troia continuano gli scontri. I Troiani rischiano di cedere, ma Eleno, saggio indovino, figlio di Priamo, consiglia al fratello Ettore di organizzare una linea di resistenza e di recarsi in città dalla madre Ecuba per invitarla a rivolgere preghiere e sacrifici ad Atena, perché la dea protegga Troia dall’attacco di Diomede. Ettore, dopo aver rianimato i suoi soldati, si dirige verso la città. Glauco e Diomede Intanto sul campo di battaglia, in mezzo ai due eserciti si fanno avanti Glauco, nobile guerriero dei Lici, e Diomede. Diomede gli chiede chi mai sia: non combatterà con lui se è un dio (non vuole incorrere nella collera di Zeus), ma gli promette morte sicura se invece è un mortale. Glauco, diversamente da Diomede, sa benissimo chi sia l’eroe che gli sta di fronte, tanto da rivolgersi a lui con il suo patronimico: «Tidide (figlio di Tideo) perché mi domandi la stirpe?», cui fa seguire la famosissima similitudine delle stirpi umane caduche come le foglie investite dal vento. Che senso ha questa domanda, si chiede in altri termini Glauco: gli uomini sono fragili, anche quando sono potenti e grandi; le generazioni umane si susseguono incessantemente; la vita è legata a un alito di vento. Subito dopo, tuttavia, Glauco esaudisce la richiesta dell’avversario e sciorina la sua genealogia. Nelle sue parole c’è la fierezza di appartenere a una stirpe gloriosa, che ricorda con orgoglio ma senza millanterie. Anzi, Glauco ha accenti persino di umiltà, quando racconta che è a Troia, su mandato del padre, con il solo compito di onorare con le sue gesta la fama dei padri. Diomede risponde a Glauco ricordando con piacere il legame di ospitalità che unisce le loro stirpi: suo nonno, Oineo, un tempo ospitò Bellerofonte, forse il più prestigioso degli avi dell’eroe licio e i due eroi si scambiarono doni preziosi. Propone perciò a Glauco di evitare ogni combattimento, di stringersi le mani in segno di amicizia e di scambiarsi le armi (cosa che non comprometteva la lealtà al proprio esercito in quanto obbligo derivato dal vincolo di ospitalità), sebbene l’armatura d’oro di Glauco valga molto di più di quella bronzea di Diomede. Ettore è rientrato in città. Alle porte gli si fa incontro la folla delle madri, delle spose e delle figlie dei Troiani che gli chiedono notizie dei loro cari, ma egli le invita a recarsi nei templi a pregare gli dèi perché un grave destino incombe su Troia. Poi raggiunge la madre, Ecuba, che gli prende affettuosamente la mano: vorrebbe trattenerlo e gli offre una coppa di vino, ma l’eroe rifiuta perché teme di offuscare le sue forze e non vuole libare a Zeus con le mani ancora sporche di sangue. Come suggerito da Eleno, Ettore invita la madre ad andare al tempio di Atena per offrire alla dea un peplo e prometterle il sacrificio di dodici giovenche perché allontani Diomede dal campo di battaglia. Ecuba si reca poi nel tempio di Atena con le altre anziane, portando un peplo prezioso e promettendo alla dea un solenne sacrificio; ma Atena resta ostile alla città di Troia. Intanto Ettore giunge alla casa di Paride e lo trova nella stanza nuziale intento a lucidarsi le armi. Ettore lo rimprovera aspramente: la grave situazione impone di passare sopra ai propri crucci personali (forse Paride resta lontano dalla battaglia perché è a disagio, dopo la sconfitta subita, e sente che i Troiani non lo possono stimare). Ancora una volta Paride ammette che il richiamo del fratello è fondato. Egli si è addolorato per l’esito inglorioso del duello, ma ora spera di prendersi una rivincita e lo seguirà di certo. Lì è presente anche Elena, che, consapevole delle tragiche conseguenze della sua fuga da Sparta, si sente in colpa verso il cognato e con dolcezza lo invita a fermarsi per riposare un momento, ma Ettore, che sente il rischio di una morte imminente, desidera piuttosto passare velocemente a casa propria, per rivedere la moglie e il piccolo figlio. A casa Ettore non trova la sposa, che in preda all’ansia è salita sulla torre presso le porte Scee, dalla quale si vede gran parte del campo di battaglia. Dopo una rapida corsa di Ettore attraverso la città, i due sposi si raggiungono correndo, spinti dall’ansia e dal desiderio. Dietro Andromaca viene l’ancella che porta in braccio un bambino, il figlio di Ettore. Il padre lo chiama Scamandrio (da Scamandro, il fiume che scorre vicino a Troia), i Troiani Astianatte, “il signore della città”: è un titolo regale che i Troiani gli hanno dato per onorare il valore di Ettore e per indicare la continuità della dinastia regnante, nella speranza che la città continui a esistere e a prosperare, dopo la guerra. Vedendo il figlio, Ettore lascia spazio alla tenerezza e alla speranza. Il sorriso silenzioso del padre, che vede nel figlio il prolungamento della propria vita, è contrapposto all’angoscioso pianto della madre, che teme per la vita del marito. Per questo, pur comprendendo e stimando il suo ruolo di guerriero, tenta di moderare la sua audacia di combattere, e gli suggerisce una condotta di guerra difensiva, che non lo esponga personalmente a rischi eccessivi: lei e il bambino non hanno che lui. Andromaca ricorda i dolorosi avvenimenti accaduti alla sua famiglia: il padre e i suoi sette fratelli sono morti per mano di Achille, mentre la madre, dopo aver pagato ad Achille un forte riscatto per aver salva la vita, appena restituita alla casa del proprio padre è morta di morte improvvisa (i Greci attribuivano a una freccia della dea Artemide queste morti rapide). Dunque Ettore rappresenta per lei tutto l’amore, la protezione e il conforto del contesto familiare. Ettore dimostra di comprendere profondamente la situazione della moglie e le ansie che essa prova. Tuttavia, le ragioni dell’onore alle quali è stato educato e la sua stessa concezione della guerra, alla quale non si può sottrarre, lo spingono a volersi misurare in prima fila nello scontro. Questo è quanto desidera e quanto si attende da lui la collettività cittadina. Una condotta puramente difensiva della guerra sarebbe ingloriosa e, in ultima analisi, perdente: la città assediata sarebbe, comunque, alla fine, preda degli assalitori. Ma ciò che più addolora Ettore è la sorte della sposa, destinata alla schiavitù presso gli Achei: è un pensiero intollerabile. Piuttosto è meglio morire: affrontare lo scontro estremo per scongiurare questo destino, o comunque fare tutto il possibile per contrastarlo, e non dover assistere da vivo a questo estremo dolore e disonore. Dopo le preoccupazioni, le previsioni tragiche sulla fine di Troia e il destino di Andromaca, Ettore ha uno scatto di vitalità, di amore e di speranza nei confronti del figlio: che cresca, che diventi glorioso come lui, anzi molto più di lui; che abbia tutta la stima e il potere a Troia. Andromaca è combattuta tra la gioia per le tenere parole che il padre rivolge al figlio e il dolore per la sorte di Ettore. Di nuovo, Ettore comprende le ansie della moglie e ne sente pietà: prova a consolarla appellandosi al destino, immutabile quanto imprevedibile, che può toccare a qualunque uomo e a qualunque guerriero, anche a prescindere dalla sua condotta in guerra. Mentre Ettore si avvia sul campo di battaglia (poi raggiunto da Paride), Andromaca non rinuncia a voltarsi indietro per guardarlo un’ultima volta, e arrivata a casa coinvolge anche le ancelle in un pianto di lutto.

TESTO LIBRO VI

Soli alla dura battaglia rimasero Achivi e Troiani,
e furïava la pugna, da entrambe le parti, nel piano,
questi su quelli scagliando diritte le aste di bronzo,
fra i rivi del Simeto e dello Xanto.
Il Telamonio Aiace, presidio agli Achivi, per primo
valse a spezzar la falange troiana, e un raggio di luce
fece brillare ai compagni, colpendo il guerriero Acamante,
dei Traci il piú gagliardo, d’Eussòro figliuol, grande e prode.
Per primo ei lo colpí nel cimiero e la cresta dell’elmo,
e l’ossa traversò fuor fuori la punta di bronzo,
si conficcò nella fronte: la tènebra gli occhi gli avvolse.
Dïomede, alto grido di guerra, die’ morte al figliuolo
di Teutrànide, Axílo, che viver soleva in Arisbe:
opulento egli era, diletto era a tutti: ché tutti
egli ospitava; e sorgeva lungo la via la sua casa.
Niuno però di quelli corse ora, che schermo gli fosse
alla fatale sciagura: ché lui col suo servo Calesio
che allor dei corridori le briglie reggea, Dïomede
uccise; e l’uno e l’altro scesero insieme sotto la terra.
E morte Euríalo diede a Dreso e a Ofeltio; poi mosse
contro Pedàso ed Esèpo; entrambi la Ninfa dei fonti
Abarbarèa generati li aveva a Bucalïone.
Era Bucalïone figliuolo di Laomedonte,
primo di tutti i fratelli, però non legittimo. Or questi,
mentre pasceva il gregge, si strinse in amor con la Ninfa;
e questa concepí i due gemini figli.
Ora la furia d’entrambi fiaccò di Mecíste il figliuolo,
prostrò le belle membra, predò dai loro omeri l’armi.
Diede ad Astíalo morte Polípete, saldo guerriero.
Ulisse con la lancia di bronzo trafisse Pidíte,
giunto da Pèrcote e Teucro Aretòne glorioso.
Con la zagaglia il figlio di Nèstore, Antíloco, uccise
Ablero; e Agamènnone, sire di popoli, Elàto,
che nell’eccelsa Pedàso, vicino alle sponde abitava,
del Satnio ricco d’acque. A Fílaco diede la morte,
mentre fuggiva, Leito: Euríalo uccise Melanzio.
E Menelao, possente guerrier, catturò Adrasto:
ché sbigottiti s’erano i suoi corridori. Nel piano,
di tamerisco in un tronco cozzato essi aveano; e, spezzato
il timone del carro, si volsero in fuga,
verso la rocca, dove fuggiano pur gli altri corsieri.
Ed egli rotolò dal cocchio, vicino alla ruota,
giú nella polvere prono, col viso alla terra: su lui
fu Menelao, figliuolo d’Atrèo, con la lunga sua lancia.
E le ginocchia Adrasto gli strinse, cosí supplicando:
«Prendimi vivo, Atríde, riscatto ne avrai che convenga.
Nell’opulenta mia casa paterna son molti tesori:
oro v’è, bronzo, e ferro foggiato con vario travaglio:
te ne darebbe mio padre quantità infinita, di cuore,
quando sapesse che vivo sono io, degli Achei su le navi».
Disse: e il cuor gli molcì nel seno, con queste parole;
e al servo stava già per darlo, che via lo guidasse,
alle veloci navi. Ma in quella Agamènnone giunse,
e un grido alto levò, gli volse cosí la parola:
«Tenero cuor, Menelao, perché sei cosí pïetoso?
Devi lodarti davvero, di quello che in casa t’han fatto
questi Troiani! Nessuno ci deve sfuggir dalle mani,
sfuggir da trista morte; neppure se alcuno la mamma
ancora in grembo lo porta, ci deve sfuggire:
tutti spariscano, e niuno li pianga, né traccia ne resti».
L’eroe con questi detti la mente piegò del fratello,
si ch’ei mutasse avviso. Respinse da sé con la mano
Adrasto; e lo colpí nel fianco Agamènnone forte.
Supino giú piombò: sul petto puntandogli il piede,
fuor dalle carni la lancia di frassino svelse l’Atríde.
Nèstore poi gli Argivi chiamò, favellando a gran voce:
«O Dànai, prediletti campioni, seguaci di Marte,
niuno ci sia tra voi, che, indotto da brama di preda,
resti indietro, per poi bottino alle navi portare.
Ora, uccidiamo nemici: ché dopo, a bell’agio ciascuno
per la pianura potrà spogliare dell’arme i caduti».
Cosi, con questi detti, spronava ed eccitava ciascuno.
E nuovamente i Troiani, respinti dai validi Achei,
vinti da codardia, tornati sarebbero in Ilio,
se qui non fosse accorso,
 dov’era con Ettore ed Enea,
Èleno, figlio di Priamo, tra gli auguri sommo che disse:
«Ettore ed Enea, voi due, che fra tutti i Troiani e i Lici
nelle battaglie reggete lo sforzo piú grande, che i primi
siete dovunque si pugna, per opra di senno e di mano,
fate argine, correte da tutte le parti, le turbe
lungi tenete dai valli, che, in fuga, alle femmine in braccio
non debban mai piombare e dar grande sollazzo ai nemici!
Poi, quando tutte abbiate frenate, animate le schiere,
noi, rimanendo qui, sosterremo coi Dànai la pugna,
e sia pur dura prova: ché forza è suprema. E tu, torna
Ettore, alla città
; e quivi, di’ ciò ch’io ti dico
nostra madre: ch’essa, raccolte le bianche matrone,
sopra la rocca, nel tempio d’Atena dagli occhi azzurrini,
con la sua chiave schiuda le porte del santo recesso,
e nella reggia un peplo scelto, il piú bello di tutti,
quello che piú leggiadro le sembri, il piú caro al suo cuore,
su le ginocchia lo ponga d’Atena dal fulgido crine;
e dodici giovenche prometta immolar nel suo tempio,
candide, ancor non dome, si ch’ella a pietà si commuova
della città, delle spose troiane, dei pargoli infanti,
dalla sacra Troia lontano il figliuol di Tidèo
tenga,
 il selvaggio guerriero, di morte il possente ministro,
il piú gagliardo, io penso, fra quanti combattono Achivi.
Neppure Achille, sire di genti, è cosí temerario,
ch’è d’una Dea pur figlio, si dice. Ma troppa è la furia
del figlio di Tidèo; né alcuno può stargli di contro».
Disse cosi. Senza indugio seguì del germano i consigli
Ettore.
 Strette l’armi, balzò giú dal cocchio; e, vibrando
le due zagaglie acute, correva per tutte le file,
e li spronava alla zuffa, destava la mischia feroce.
Volsero quelli la fronte, ristetter dinanzi agli Achivi:
questi cederono il campo, sospesero l’opra di morte,
immaginando che alcuno dei Numi del cielo stellato
fosse a soccorrerli sceso: ci fu quel restare improvviso.
Ettore allor, fra i Troiani, gridando, lanciò questo appello:
«O valorosi Troiani, di gloria famosi alleati,
uomini siate, amici, reggete ben saldi a la pugna,
sin ch’io mi rechi a Ilio
, per dire ai vegliardi e a le spose
ch’alzino preci ai Numi, promettano scelte ecatombi».
Ettore dunque, poi ch’ebbe ciò detto, partiva. E, movendo,
l’orlo di cuoio negro che tutto d’intorno girava
l’umbilicato scudo, batteva i calcagni ed il collo.

glauco
Diomede e Glauco

Glauco, d’Ippòloco figlio, nel mezzo, e il figliuol di Tidèo,
d’ambe le parti convennero, entrambi bramosi di pugna.
Or quando l’un contro l’altro movendo, già eran vicini,
primo a parlare prese l’ardito guerrier Dïomede:
«Da quale umana stirpe provieni tu mai, valoroso,
ch’io prima d’ora non t’ho visto mai nella nobile zuffa?
Ma ti sei fatto innanzi, ma tutti hai di molto or precorso.
Nel tuo valore ben fidi, se attendi la lunga mia lancia:
ché la mia furia affronta soltanto chi nacque a sciagura.
Ma se tu fossi un Nume, se fossi disceso dal cielo,
io non combatterò davvero coi Numi celesti:

poiché neppur Licurgo, possente figliuol di Driante,
a lungo visse, quando contese coi Numi immortali,
ei che le Ninfe, nutrici dell’ebro Diòniso, un giorno
cacciò pei gioghi santi di Nisa. Gittarono quelle
tutte i lor tirsi a terra, battute dal pungolo aguzzo
dell’omicida Licurgo: Diòniso, tutto sgomento,
giú si tuffò nei flutti del mare; e lui pavido accolse
Teti nel grembo; e per gli urli del sire era tutto un tremore.
Ma si crucciaron con lui gli Dei dalla facile vita,
e lo privò della vista di Crono il figliuolo; né a lungo
visse: ché l’odio ei divenne di tutti gli eterni Celesti.
Dunque non io coi Numi beati combatter vorrei.
Ma se degli uomini sei, che pascono il frutto dei campi,
fatti piú presso, ché prima tu giunga al confine di morte».
E gli rispose cosí d’Ippòloco il fulgido figlio:
«O valoroso Tidíde, perché la mia stirpe tu chiedi?
Simili sono le stirpi degli uomini a stirpi di foglie.
Le foglie, queste a terra le spargono i venti, e la selva
altre ne germina, e torna di nuovo a fiorir primavera:
cosí le stirpi umane, spunta una, quell’altra appassisce.
Pure, se tu vuoi questo sapere, se fatto esser certo
qual sia la mia progenie: è dessa a molti uomini nota.
V’è la città d’Efíra nel cuor dell’Argòlide equestre,
dove Sísifo nacque, che fu dei mortali il piú scaltro,
Sísifo, d’Èolo figlio. Da Sísifo Glauco nacque,
e fu Glauco padre del nobile Bellerofonte,
ch’ebbe dai Numi in dono bellezza e virile prodezza.
Pur, contro lui macchinò nell’animo infesti disegni
Preto, e via lo scacciò dalla patria; e ben era possente
ei fra gli Argivi: ché Giove li aveva soggetti al suo scettro.
Arsa di folle brama, voleva la sposa di Preto,
la diva Antèa, con lui mescolarsi d’amore furtivo;
ma non sedusse Bellerofonte, l’onesto, l’accorto.
E corse allora a Preto con questa menzogna, e gli disse:
«Muori tu, Preto, o dà la morte a Bellerofonte,
che mi voleva pigliare d’amore, se ben mi schermivo».
Disse, e a queste parole fu invaso il sovrano dall’ira.
Schivò di porlo a morte, ché in cuore pur n’ebbe ritegno;
ma lo mandò nella Licia, scrivendogli cifre funeste
entro due chiuse assicelle: dicendo che al suocero suo
quelle mostrasse, per farlo morir: ch’eran cifre di morte.
Dunque, in Licia egli andò con la scorta secura dei Numi.
E quando giunto in Licia, presso i rivi dello Xanto,
il re dell’ampia Licia lo accolse, gli fe’ grande onore,
l’ospitò nove giorni, sgozzò nove bovi ai Celesti.
Ma quando poi spuntò, col decimo giorno, l’Aurora,
anche domande allora gli volse, le cifre vedere
volle, che aveva a lui recate del genero Preto.
Quando ebbe viste poi le cifre funeste del sire,
prima gli comandò che uccidesse l’immane Chimera.
Era quel mostro stirpe di Numi, non già di mortali:
sopra leone, capra nel mezzo, di drago la coda,
terribilmente spirando la furia di fuoco avvampante.
Pur, nei propizi prodigi dei Numi fidando, ei la uccise.
Poi s’azzuffò coi magnanimi Sòlimi: e dire soleva
che quella era la pugna piú dura che avesse affrontata.
Terzo, poi, sterminò le Amazzoni, cuori virili.
E il sire macchinò, quand’ei fu tornato, una frode.
Scelti dall’ampia Licia quanti eran piú prodi guerrieri,
un’insidia gli tese; ma a casa non tornarono quelli:
tutti li sterminò l’invincibile Bellerofonte.
Or, quando il sire conobbe ch’egli era di stirpe di Numi,
presso di sé lo tenne, gli die’ per consorte la figlia,
gli diede la metà di tutti gli onori regali:
e gli assegnarono i Lici di campi una fertile stesa,
bella di vigne e maggesi, ché quivi egli avesse dimora.
E generò tre figli la sposa a Bellerofonte:
Laödamia, con Isandro e Ippòloco.
 Il saggio Croníde
giacque con Laödamia, che a luce Sarpèdone diede,
divino eroe, dall’armi di bronzo. Ma Bellerofonte
cadde nell’odio di tutti i beati Celesti.
Onde a vagare prese solo pei campi d’Alèo,
e si rodeva il cuore, schivava degli uomini l’orme.
E al figliuolo Isandro, quando egli coi Sòlimi prodi
pugnava, Ares die’ morte, il Dio non mai sazio di guerre:
Artèmide, la dea briglia d’oro, gli spense la figlia:
Ippòloco a me diede la vita, io di quello son figlio,
ch’or m’inviava a Troia, porgendomi molti consigli:
ch’io primeggiassi sempre, che sempre fra gli altri emergessi,
né svergognassi la stirpe dei padri, che in Èfira sempre,
e della Licia nell’ampie contrade eran primi tra i primi.
È questo il sangue ond’io mi onoro, questa è la progenie».
Disse; e nel cuor s’allegrò Dïomede possente guerriero,
e conficcò ne le zolle del suolo ferace la lancia,

e con melliflui detti si volse al pastore di genti:
«Ospite dunque antico per parte di padre a me sei.
Sappi che accolse Enèo magnanimo sotto il suo tetto,
per venti giorni, Bellerofonte
, l’eroe senza pecca.
Fecero poi, l’uno e l’altro, scambio di doni ospitali.
Enèo diede una fascia di porpora bella, fulgente,
Bellerofonte una coppa d’oro,
ch’io custodita in casa lasciai quando venni alla guerra.
Non mi ricordo Tidèo: ché quando ero piccolo tanto,
ei mi lasciò; ché quel sire d’Achivi spirò sotto Tebe.
Ospite dunque io sono per te, se tu in Argo venissi,
tu ne la Licia a me, se tra il popolo io giungo dei Lici.

Anche per ciò nella pugna le lancie evitiam l’un dell’altro.
Molti a me restano sempre Troiani e valenti alleati
da sterminare, se un Dio me li offre, se al corso li aggiungo:
restano molti Achivi per te, se ad ucciderli vali.
Su via, dunque, tu ed io scambiamoci l’arme: ché tutti
veggano quale ci stringe dagli avi legame ospitale».
Dette queste parole, balzati dai cocchi giú a terra,
strinser la mano l’uno dell’altro, scambiaron la fede.
E il Croníde Giove del senno qui Glauco fe’ privo,
che col figliuol di Tidèo scambiò l’armi sue: queste d’oro,
quelle di bronzo; e die’ cento giovenchi per nove giovenchi.

Ettore al faggio intanto giungeva, e alle porte Sceèe.
Qui dei Troiani le spose gli corsero incontro e le figlie;
e gli chiedeva ciascuna dei figli, i fratelli, i consorti,
d’ogni parente. A ciascuna rispose che preci ai Celesti
ora levassero.
 E molte restaron col lutto nel cuore.
Ma poi, quando alla casa di Priamo  giunse,
tutta recinta in giro di portici al sole fulgenti —
ché da una parte v’eran di lucida pietra cinquanta
talami, l’uno all’altro costrutti vicini; e i figli
di Priamo qui dormiano accanto a legittime spose;
e dirimpetto a questi, nell’ala sorgevano opposta
dodici talami, bene coperti di lucida pietra,
l’uno vicino all’altro costrutti, e i generi quivi
dormivano del re, vicino alle nobili spose —
e dunque, incontro allora gli venne la madre amorosa,
che Laödice, la figlia piú bella di tutte, cercava.
E per la mano lo prese, gli volse cosí la parola:
«Figlio, perché la guerra crudele hai lasciata, e qui giungi?
I maledetti figli d’Acaia c’incalzano troppo
nella battaglia, alle mura d’intorno; o il tuo cuore t’ha spinto
qui, perché tu dalla rocca, tendessi le mani al Croníde?
Dunque, rimani, ché il vino soave di miele io ti rechi,
si che tu possa a Giove libare e agli altri Celesti,
prima, e tu stesso quindi ne beva, e ne tragga conforto:
sai che ristora il vino le forze d’un uomo spossato,
come spossato sei tu coi tuoi, rintuzzando il nemico».
Ettore, il prode dall’elmo fulgente, cosí le rispose:
«Nobile madre, il vino soave non offrirmi,
ch’io non mi stempri bevendo, ché oblio del valor non mi colga.
Né con le mani impure libar vino limpido a Giove
io oserei: ché a Giove dai nugoli negri, le preci
volger non è concesso, bruttati di fango e di sangue.
Ma le matrone tu raccogli, e al tempio d’Atena
récati,
 della Dea predatrice, con fumi d’incenso.
E nelle stanze un peplo scelto, il piú bello e il piú grande,
quello ch’è molto piú d’ogni altro diletto al tuo cuore,
ponilo su le ginocchia d’Atena dal fulgido crine;
e dodici giovenche prometti immolar nel suo tempio,
fulve, del pungolo ignare, ov’ella a pietà si commuova
della città di Troia, dei teneri figli e le spose.
Muovi or tu dunque al tempio d’Atena, la Dea predatrice,
e io mi recherò da Paride: voglio chiamarlo,
se per ventura il richiamo sentisse. Cosí l’inghiottisse
dove si trova, la terra: ché in lui Giove Olimpio ha creato
per i Troiani, per Priamo, pei figli di Priamo, un flagello.
Se lo vedessi giú ne le case discender d’Averno,
quasi direi che il mio cuore dovesse obliare il suo pianto!».
Disse. Ed entrata in casa, la madre chiamava le ancelle,
che via per tutta Troia girando, adunar le matrone.
Essa discese poi nel talamo tutto fragrante,
dov’eran chiusi i pepli di mille colori, tessuti
dalle donne sidonie. Da Sídone il vago Alessandro
li avea su recati, quando
Elena in Ilio, la bella di Giove figliuola condusse.
Ecuba uno di questi scelse, e l’offerse ad Atena,
quello ch’era piú bello, piú vario di tinte, piú grande,
fulgido come un astro, riposto, per ultimo, in fondo:
quindi si mosse, e insieme moveano con lei le matrone.
Or, quando giunsero al tempio d’Atena, sovressa la rocca,
schiuse le porte ad esse Teàno, la figlia di Cisse,
la sposa guancia bella d’Antènore, il prode cavaliere,
ché aveano lei prescelta d’Atena ministra i Troiani.
Tutte con alte grida rivolser le mani ad Atena:
quindi, preso il bel peplo, Teàno dal viso leggiadro,
sulle ginocchia d’Atena dal fulgido crin lo depose,

e invocò, scongiurando, la figlia di Giove possente:
«O somma Atena, o Dea fra le Dee, che la rocca proteggi,
a Dïomede spezza la lancia nel pugno, e lui stesso
fa’ che bocconi soccomba dinanzi alle porte Sceèe:
e dodici giovenche verremo a immolar nel tuo tempio,
candide, al giogo non dome, qualora a pietà tu ti muova
della città, delle spose troiane, dei teneri figli».
Disse; ma Pallade Atena il capo in su volse, a diniego.
Queste preghiere dunque volgeano alla figlia di Giove.
Ettore intanto alla casa movea del divino Alessandro,
ch’ei stesso aveva costrutta con quanti a quel tempo
sperti maestri di mura contava la fertile Troia.
E avevano costrutta la casa la sala e il letto
presso alle case di Priamo e d’Ettore, in cima alla rocca.
Ettore quivi giunse diletto ai Celesti; e la lancia
d’undici cubiti in pugno stringeva: la cuspide in vetta
lampi mandava di bronzo, cingevala d’oro un anello.
E lo trovò che l’armi nel talamo stava pulendo,
il corsaletto e lo scudo bellissimi, e l’arco ricurvo.
Elena poi, l’Argiva, sedea fra le donne di casa,
e alle ancelle dava comandi, e compieano bell’opre.
Ettore, come lo vide, lo invase di rampogne:
«Oh sciagurato! Hai proprio ragione di fare l’offeso!
Alla città d’attorno, d’attorno alle mura, le genti
cadono nella battaglia: fiammeggiano intorno a la rocca
l’urlo di guerra e la mischia: tu pure arderesti di sdegno
qualora altri vedessi non darsi pensier de la pugna!
Su, ché la rocca presto non arda pel fuoco nemico!» —
E Alessandro che un Nume sembrava, cosí gli rispose:
«Ettore, si che a ragione rampogna mi fai, non a torto.
Dunque ti risponderò; tu ascoltami e intendimi bene.
Non per collera no, né per sdegno contro i Troiani,
io me ne stavo chiuso nel talamo, in preda all’accidia.
Anzi la sposa, or ora, volgendomi blande parole,
ch’io tornassi a guerra, mi spronava: e il meglio è sembrato
questo anche a me: la vittoria sorride ora a questo ora a quello.
Aspettami ora un po’, ché l’arme di guerra io rivesta.
Oppur, va, ch’io ti seguo: di certo raggiungerti penso».
Disse: né a lui risposta veruna diede Ettore prode.
E disse Elena a Ettore queste parole:
«Cognato mio, davvero pensi ch’io sia una cagna funesta!
Oh, se quel giorno che a luce la madre mi diede,
una maligna procella di venti m’avesse rapita,
o sovra un’alpe, o fra l’onde, fra i mille frastuoni del mare,
che m’inghiottissero i gorghi, che tanta sciagura non fosse!
Ma poi che tanti mali volean che seguissero, i Numi,
deh!, fossi almeno stata la sposa d’un uomo piú prode,
non come questo
, sordo degli uomini al biasimo e all’onta!
Saldo volere questi non ha, né sarà mai che l’abbia
per l’avvenire; e un giorno dovrà ben pagarne la pena!
Ma dunque, entra, su’ via, su questo sgabello ti siedi,
cognato mio, ché piú d’ogni altro te grava il travaglio,
cagna ch’io sono, per me, d’Alessandro pel tristo destino:
ché Giove sopra noi volle infitta la sorte malvagia,
ché noi fossimo oggetto di biasimo alle genti future».
Ettore, il prode dall’elmo lucente, cosí le rispose:
«Elena, pur se ti preme di me, non mi chieder ch’io segga.
Non m’indurresti: ché il cuore mi sprona ch’io corra al soccorso
dei miei guerrier, che molto mi bramano, ed io sono lontano.
Scuoti bensí costui, s’affretti egli stesso ad armarsi,
sí che raggiungermi possa mentre io sono ancor fra le mura.
Io vado intanto a casa, ché voglio vedere i miei cari,
la prediletta sposa, col pargolo infante: ché ignoro
se dalla pugna a essi potrò ritornare, o se i Numi
spento mi vogliano oggi per le man’ degli Achivi».

andromaca 2
Ettore saluta la famiglia

Dette queste parole, l’eroe dal fulgente cimiero,
Ettore, mosse: e alla sua casa in un attimo giunse.
Ma non trovò nelle stanze la sposa dal candido braccio:
ch’essa col bimbo e l’ancella dal peplo fulgente, recata
s’era alla torre, e lí, piangeva, levava lamenti.
Ettore, poi che in casa non trovò la pura sua sposa,
sopra la soglia i passi fermò, si rivolse alle ancelle:
“Donne, di casa, sapete di Andromaca dirmi,
sicuramente dove si trovi? Che è fuor della casa.
Dalle cognate è andata fors’ella, o nel tempio d’Atena,
dove la Dea tremenda imploran le donne di Troia?». —
La dispensiera fida con queste parole rispose:
«Ettore, come tu chiedi, ti posso dar certa risposta.
Non già dalle cognate né al tempio d’Atena ella è andata,
dove la Dea imploran le donne di Troia;
ma sovra l’alta torre di Troia, quand’ella ha sentito
c’han gran vantaggio gli Achivi, che cadono stanchi i Troiani.
Subito allora è corsa di furia, verso le mura
come una pazza; e con lei la nutrice, recando il bambino».
La dispensiera disse cosí. Si lanciò dalla casa
Ettore, su la medesima via, per le belle contrade.
Ora, quand’egli, tutta la grande città traversata,
giunse alle porte Sceèe, dond’era l’uscita sul piano,
quivi gli venne incontro, correndo, la florida sposa,
Andromaca
, la figlia d’Etíone dall’animo grande,
d’Etíone, che sottesse le selve,
nell’Ipoplacia Tebe, di genti cilicie signore;
e d’Ettore, fulgente guerriero, fu sposa la figlia.
Contro or gli mosse; e l’ancella seguiala, che il bimbo recava
parvolo ancora, 
né ancora parola dicea, tra le braccia,
d’Ettore il figlio diletto, che un astro del cielo sembrava.
Ettore lo chiamava Scamandrio; ma gli altri Troiani
Astïanatte: ché il padre, da solo era schermo di Troia.
Ecco, e sorrise in silenzio, com’egli il suo pargolo vide.
Ma, lagrime versando, vicina gli venne la sposa,
e per la man lo prese, gli volse cosí la parola:

«Misero te, la tua furia sarà la tua perdita, e il bimbo
non ti commuove a pietà, non io sciagurata, che presto
vedova rimarrò di te: ché ben presto gli Achei
t’uccideranno, piombando su te tutti insieme. E allora,
quando di te sarò priva, meglio è ch’io discenda sotterra;
poi che nessun conforto, se un tristo destino ti coglie,
piú mi rimane, ma solo cordoglio. Non padre, non madre
piú mi rimane. Ché il padre m’uccise il terribile Achille,

e la fiorente abbatté popolosa città dei Cilíci,
Tebe dall’alta porta. Die’ morte ad Etíone, Achille,
né lo spogliò dell’armi, ché n’ebbe nel cuor peritanza;
ma, chiuso ancor nell’armi sue belle, lo diede alle fiamme,
e su le ceneri il tumulo estrusse; e le Ninfe montane,
figlie di Giove, che l’ègida scuote, lo cinsero d’olmi.
Nella mia casa con me vivevano sette fratelli;
ma nello stesso giorno piombarono tutti nell’Ade;
ché tutti quanti Achille, l’eroe piú gagliardo, li uccise,
presso alle tarde loro giovenche, alle pecore bianche.
La madre mia, la sposa del sire di Tebe Ipoplacia,
qui la condusse Achille con l’altre sue prede di guerra.
Poi rimandata l’aveva, ché n’ebbe riscatto infinito;
ma nella casa del padre, d’Artèmide un dardo la spense.
Ettore, dunque per me tu sei padre, sei tenera madre,
fratello sei per me, sei florido sposo.
 Oh, t’imploro,
muoviti adesso a pietà! Rimani con noi sulla torre,
non lasciar orfano il bimbo, né vedova me tua compagna!
E la gente raccogli, ove il varco
s’apre piú facile verso la rocca, e piú agevole è il muro:
ché già l’hanno tentato tre volte i piú prodi guerrieri,
stretti agli Aiaci intorno, intorno ai due figli d’Atrèo,
a Idomenèo, valoroso campione, al figliuol di Tidèo,
sia che scaltriti li abbia qualcuno d’oracoli esperto,
sia che l’animo loro li spinga e costì li diriga».
Ettore grande, il prode dall’elmo corrusco, rispose:
«Di tutto questo anch’io pensiero mi do, sposa mia;
ma dei Troiani troppo temo io, delle donne troiane,
se come un vile in disparte mi faccio, se schivo la guerra;
né mi v’induca il mio cuore, ché appresi a condurmi da prode,
sempre,
 a combattere sempre fra i primi guerrieri di Troia,
gloria pel padre mio, per me gloria sempre acquistando.
E bene questo io so: me lo dicono l’anima e il cuore:
giorno verrà che cadrà la rocca santissima d’Ilio,
e il re Priamo, e la gente di Priamo, maestra di lancia.
Ma non cosí dei Troiani la doglia futura mi cruccia,
non d’Ècuba mia madre, né pure del vecchio mio padre,
né dei fratelli miei, che molti, che forti, dovranno
sotto i nemici colpi cader nella polvere spenti,
come di te, quando alcuno dei duri guerrieri d’Acaia
via lagrimosa ti tragga, lontana dai liberi giorni,
e in Argo debba tu filare al telaio d’un’altra,

e da Messíde l’acqua tu debba portar, da Iperèa,
ben repugnante; ma pure costretta sarai dal destino.
E forse alcun dirà, vedendo che lagrime versi:
«D’Ettore è questa la sposa, che primo fra tutti i Troiani
era in valor, quando a Troia d’attorno ferveva la pugna».
Questo qualcuno dirà, nuova doglia sarà nel tuo cuore,
priva dell’uom che potrebbe strapparti alla vita servile.
Ah! Ma la terra sparsa sovresso il mio corpo mi asconda,
pria che il tuo lagno ascolti,
 che via tratta schiava io ti sappia!».
Poi ch’ebbe detto cosí, le mani tese Ettore al bimbo.
Ma con un grido il bimbo il viso nascose nel grembo
della nutrice sgomento all’aspetto del padre:
ché sbigottí, vedendo rifulgere il bronzo, e i crini
terribilmente ondeggiare su l’alto cimiero de l’elmo.
Sorrise il padre caro, sorrise la nobile madre.
E súbito dal capo via l’elmo si tolse l’eroe,
e a terra lo posò, che fu tutto un barbaglio di raggi.
Quand’ebbe poi baciato, palleggiato il figlio suo caro,
tale preghiera a Giove rivolse e a tutti i Celesti:
«Giove, e voi tutti, o Numi, deh!, fate che tale divenga
questo mio figlio, quale sono io, dei Troiani l’insigne,
forte cosí di membra, sicuro signore di Troia.

E quando ei tornerà dal campo, taluno abbia dire:
«Questi è più forte molto del padre!». E, trafitto il nemico,
rechi di sangue intrise le spoglie; e s’allegri la madre».
Detto cosi, fra le braccia depose alla sposa diletta
il suo bimbo. Andromaca al seno odoroso lo strinse,
e fra le lagrime rise. 
vide lo sposo quel riso,
e si commosse, 
e a farle carezza distese la mano:
«O poverina! — le disse — non stare ad affliggerti troppo:
ché contro il fato nessuno potrà giù nell’Ade piombarmi:
ché la sua sorte, ti dico, nessuno degli uomini schiva,
né buono, né malvagio, come essa per lui sopraggiunga.
Via, dunque, adesso, a casa ritorna, ed all’opere attendi,
alla tua rocca, al telaio, partisci comandi alle ancelle,
ch’esse lavorino. E gli uomini, quanti ne nacquero in Ilio,
— io più che tutti gli altri — dovranno pensare alla guerra».

andromaca
Ettore e Andromaca

Detto cosi, raccolse dal suolo il crinito cimiero
Ettore; e verso casa moveva la sposa diletta,
spesso volgendosi addietro, versando amarissimo pianto.
Subito, quindi alla grande magione d’Ettore giunse,
d’Ettore, sterminatore di genti; e trovò molte ancelle
quivi raccolte, che tutte levaron, vedendola, un pianto.
Ettore, vivo ancora, piangevano nella sua casa,
ché non avevano più speranza che vivo tornasse

dalla battaglia, e alle mani sfuggisse e al furor degli Achivi.
Né troppo a lungo indugiava nell’alta magione Alessandro.
Anzi, poiché le belle armi di bronzo a intarsi ebbe cinte,
come un cavallo, d’orzo pasciuto,
traverso la città si lanciò sui piedi veloci,
uso a tuffare le membra nell’ampia corrente del fiume,
che, quando i lacci spezzò, scalpitando si lancia sul piano,
fiero, tenendo pur erta la testa: d’attorno, sul dorso
balzano i crini; e, ratte, lo portano via le ginocchia,
conscio di sua beltà, dove pascono gli altri corsieri.
Paride similemente, di Pergamo via per la rocca,
tutto fulgente nell’armi correa, come un sole, e levava
alte le grida, portandolo i piedi veloci; e d’un tratto,
Ettore, il prode fratello raggiunse, che appunto dal luogo
si distaccava dove parlato egli avea con la sposa.

paride 3
Ettore rimprovera Paride che si è rifugiato da Elena


Primo Alessandro, che un Nume sembrava, lo vide, e gli disse:
«Caro fratello, troppo tardare ti fo, quando hai fretta:
ché m’indugiai, né, come volevi, qui subito giunsi».
Ettore, il prode dall’elmo fulgente, cosí gli rispose:
«Fratello mio, nessuno, pur ch’egli sia giusto, potrebbe
biasimo darti nell’opre di guerra: ché sei valoroso.
Ma, come puoi, t’abbandoni, volere non sai: si che tutto
mi duole il cuor, se ascolto di che vitupèri coprirti
usa la gente di Troia, che tanto per te si travaglia.
Ora si vada: ché ammenda faremo di tutto, se un giorno
Giove conceda che ai Numi del ciel sempiterno si possa
dentro le case libare la coppa dei liberi giorni,
dopo scacciati gli Achivi guerrieri dal suolo di Troia».


ANDROMACA
Andromaca (in greco antico: Andromáche, "colei che combatte gli uomini") è un personaggio della mitologia greca. Fu principessa di Tebe Ipoplacia. I miti e la tradizione hanno delineato un ritratto sconsolato, rammaricato ed eternamente perseguitato di Andromaca, una figura toccante per essere destinata a perdere tutti i suoi cari. In contrasto con la relazione tra Elena e Paride, quella tra Andromaca ed Ettore coincide con l'ideale greco di un matrimonio d'amore felice e di reciproca fedeltà, che intensifica la tragedia che condivideranno. Andromaca è venerata per la sua fedeltà, sincerità e bontà d'animo. Trova sempre una soluzione ai problemi ed è sempre razionale e realista. Figlia di Eezione, sposò Ettore e fu madre di Astianatte, Laodamante ed Ossinio; in seguito come concubina di Neottolemo divenne madre di Molosso Pielo e Pergamo. Da Eleno infine, ebbe un figlio, chiamato Cestrino. Andromaca fu mandata dal padre a Troia per dare un erede a Ettore in un matrimonio combinato , ma subito se ne innamorò. In altre fonti fu Ettore stesso ad andare a Tebe, portandole numerosi doni e chiedendole la mano. La figura di Andromaca compare per la prima volta nell'Iliade (libro VI), mentre scongiura il marito Ettore di combattere rimanendo sulla difensiva contro Achille e di fermarsi all'albero di caprifico (fico selvatico), nel punto in cui le mura di Troia sono più deboli, ma egli riesce a farla desistere dai suoi intenti, ricordandole il suo ruolo di sposa e di madre, e di non abbattersi e lasciare le faccende riguardanti la guerra a lui, poiché Ettore, in qualità di principe ereditario, è costretto a combattere. Circa un anno dopo il suo arrivo a Troia, un'incursione achea contro gli alleati d'Ilio le aveva sterminato il padre Eezìone e tutti i fratelli maschi a eccezione di Pode. La casata di Priamo divenne quindi il suo unico supporto e la sua unica famiglia a cui far riferimento. Andromaca perse nel giro di pochi giorni sia Pode che Ettore, uccisi nel decimo anno della guerra di Troia rispettivamente da Menelao e Achille, ma le sue tragedie continuarono anche dopo che gli Achei conquistarono la città: il figlio Astianatte le fu strappato da Neottolemo, che seguendo il consiglio di Odisseo lo gettò dalle mura della città per evitare che la stirpe di Priamo avesse una discendenza. Una volta che la città fu rasa al suolo, gli Achei si spartirono le donne della casa reale e Andromaca fu fatta schiava di Neottolemo che fece di lei la sua concubina. Ma Andromaca non dimenticò mai l'amore che provava per Ettore, e questo generò in Neottolemo una grande rabbia. La bellezza di Andromaca scatenò anche la gelosia di Ermione, la promessa sposa di Neottolemo. Dopo che fu abbandonata da Neottolemo sposò Eleno e divenne madre di Cestrino. Nell'Eneide virgiliana Enea incontra Andromaca che ha ritrovato la pace elevando un cenotafio al defunto Ettore e sposando in terze nozze Eleno, il fratello indovino di Ettore, che regna sulla rocca di Butrinto. Gli esuli vi hanno costruito una piccola Troia per ritrovare quella patria e quella famiglia dalla quale le vicende di una rovinosa guerra li avevano allontanati con violenza.

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Traduzione di Ettore Romagnoli

Eugenio Caruso - 12 - 08 - 2021

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