Dante, Paradiso, Canto X. San Tommaso d'Aquino

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO X

Il Canto descrive l'ascesa al Cielo del Sole di Dante e Beatrice, che lasciano alle spalle i primi tre Cieli in cui i beati avevano subìto un influsso limitante dai rispettivi astri ed entrano in quello che è stato definito il Paradiso vero e proprio, cui corrisponde un innalzamento della materia, sottolineato dall'elevatezza dello stile e dall'appello al lettore che è invitato a «cibarsi» da solo in quanto l'attenzione del poeta è tutta concentrata sui suoi versi, con un'apostrofe analoga a quella di Purg., IX, 70-72 (anche in quel caso, del resto, Dante stava per varcare la porta del Purgatorio presidiata dall'angelo).
L'inizio di questo Canto è una solenne descrizione del grandioso spettacolo del Creato, opera ineffabile di Dio che il lettore è invitato a contemplare in tutta la sua perfezione: la perifrasi astronomica che indica il punto equinoziale dove si trova il Sole dà modo al poeta di spiegare la funzione dell'inclinazione dello Zodiaco, responsabile del ciclo stagionale e quindi dell'ordinato procedere del mondo; l'intero Universo è una macchina meravigliosa in cui ogni ingranaggio funziona in modo perfetto, incluso il ministro maggior de la natura (il Sole) che imprime il suo benefico influsso sulla Terra e la illumina fungendo anche da unità di misura del tempo umano. Questo accenno alla misurazione del tempo tornerà alla fine del Canto, con la descrizione dell'orologio che tintinna e richiama i frati del monastero alla celebrazione del Mattutino, quindi all'inizio della giornata, riprendendo l'immagine iniziale del cosmo come una perfetta costruzione in cui nulla è lasciato al caso (su tutto domina la volontà di Dio, supremo architetto che ha reso possibile tutto questo).
Gli spiriti che appaiono in questo Cielo sono delle luci sfavillanti che risaltano per luminosità nella luce pur intensissima del Sole, in un modo che per Dante è quasi impossibile da descrivere a parole: è il preannuncio di quella poetica dell'«inesprimibile» che tanta parte avrà nella Cantica e che in questo Canto è più volte ribadita, col dire che il linguaggio umano è troppo inferiore all'elevatezza della materia (vv. 43-44: Perch'io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami, / sì nol direi che mai s'imaginasse; 74-75: chi non s'impenna sì che la sù voli, / dal muto aspetti quindi le novelle; 147-148: in dolcezza ch'esser non pò nota / se non colà dove gioir s'insempra). Inizia da questo Cielo anche l'uso di immagini astratte nell'apparizione dei beati, che infatti formano una corona di dodici spiriti che circondano Dante e Beatrice e ruotano intorno con un canto melodioso: il cerchio è simbolo di perfezione e sapienza, ricordando anche il disco solare il cui influsso questi beati hanno subìto in vita, così come negli altri Cieli vedremo i beati formare una croce, l'aquila imperiale, una scala dorata. Dopo il ringraziamento a Dio da parte di Dante, a ciò esortato da Beatrice, è san Tommaso d'Aquino a presentare se stesso come uno dei beati della corona e a indicare gli altri undici spiriti al poeta: la scelta del domenicano è ovviamente non casuale, trattandosi del maggior filosofo cristiano del Medioevo e appartenente a uno dei due principali Ordini mendicanti, così come filosofi e teologi di primo piano sono i beati che formano con lui la corona. Il lungo discorso di san Tommaso è stilisticamente elevato, con la metafora iniziale del vino e della fiala («ampolla») che dovrà soddisfare la sete di conoscenza di Dante, l'adynaton dell'acqua che non può non scendere verso il basso, il paragone tra i beati della corona e i fiori che formano una ghirlanda, che in questo caso abbellisce Beatrice che ha portato fin qui Dante. San Tommaso presenta gli undici spiriti partendo dal suo maestro Alberto Magno alla sua destra e procedendo in quella direzione, facendo di ognuno il nome tranne nel caso di Salomone, indicato come colui che fu tanto saggio che a veder tanto non surse 'l secondo (questa frase susciterà il dubbio di Dante, che Tommaso chiarirà nel Canto XIII); tra gli altri spicca soprattutto Boezio, una delle principali fonti dantesche il cui cristianesimo è dubbio per i moderni, nonché Sigieri di Brabante, la cui ortodossia fu messa in discussione della Chiesa e da Tommaso stesso, che qui invece lo presenta come assertore di verità dottrinali (il loro accostamento in Paradiso è simmetrico a quello di san Bonaventura e Gioacchino da Fiore, in XII, 139-141). Tommaso presenta invece se stesso come uno degli agnelli della santa greggia di san Domenico, l'Ordine dove ci si arricchisce di meriti a condizione di non deviare dalla regola, altra affermazione che indurrà Dante a dubitare e il cui chiarimento sarà occupato interamente dal Canto successivo: il beato farà infatti il panegirico di san Francesco, fondatore dell'altro Ordine mendicante, per poi biasimare i difetti del proprio e cioè l'inclinazione peccaminosa ai beni terreni e alle ricchezze, parte della polemica contro la corruzione della Chiesa che diventerà essenziale nella III Cantica (il Canto XII avrà invece struttura speculare rispetto all'XI, poiché san Bonaventura, francescano, dopo il panegirico di san Domenico biasimerà i difetti del proprio Ordine, ovvero la poca fedeltà dei confratelli alla regola di Francesco).
Il Canto si chiude come detto con la descrizione del movimento armonioso della corona che viene paragonata al meccanismo di un orologio, i cui ingranaggi si integrano perfettamente per far suonare il richiamo alle ore canoniche: l'immagine si ricollega a quella iniziale del Sole indicato come principale indicatore del tempo e rimanda a quella del monastero dove il tempo è suddiviso nei momenti liturgici e dove i monaci vivono in perfetta armonia come gli spiriti di questo Cielo (che appartennero quasi tutti, come quelli della seconda corona, a ordini monastici). Da rilevare infine la presenza nei versi finali dell'onomatopea tin tin, che riproduce il suono dell'orologio in maniera semplice e immediata, e del verbo s'insempra che chiude il Canto ed è uno dei tanti neologismi danteschi presenti nella Cantica, che qui come altrove ha la funzione di impreziosire ed innalzare lo stile in corrispondenza con un argomento elevato (tali artifici, come si vedrà, diventeranno via via più frequenti nel corso del Paradiso).

Note
- I vv. 1-5 indicano che Dio (lo primo e ineffabile Valore), guardando il Figlio con lo Spirito Santo (l'Amore) che spira da entrambi, ha creato il movimento armonioso dei Cieli (quanto per mente e per loco si gira, ovvero grazie alle Intelligenze angeliche motrici).
- Al v. 9 l'un moto e l'altro indicano i due opposti movimenti rotatori dei corpi celesti, quello diurno da est a ovest sul piano dell'Equatore celeste e quello annuo da ovest a est, sull'eclittica. I due piani di Equatore celeste ed eclittica formano un angolo di 23 gradi e mezzo e si intersecano in due punti detti equinoziali, che corrispondono alla posizione del Sole ai due equinozi: in questo momento il Sole si trova al punto dell'equinozio di primavera.
- L'oblico cerchio (v. 13) è lo Zodiaco, che in realtà è una fascia larga circa 18 gradi: la sua inclinazione e quella dell'eclittica rispetto all'Equatore celete è responsabile del ciclo delle stagioni e rende quindi possibile la vita sulla Terra (vv. 16-21).
- Al v. 22 il banco è probabilmente quello dello studente, mentre alcuni pensano al «desco» del convivio in quanto Dante usa poi la metafora del cibo. I vv. 31-32 indicano che il Sole è nel punto equinoziale (cfr. vv. 8-9). Le spire indicano l'orbita descritta dal Sole, che nel sistema tolemaico si riteneva ruotasse intorno alla Terra e perciò percorreva un'orbita a spirale ascendente e discendente (ora siamo dopo l'equinozio di primavera, quindi il Sole ogni giorno sorge un po' più presto).
- Al v. 37 il vb. scorge significa «guida»; di bene in meglio indica il passaggio da un Cielo a quello superiore, più perfetto.
- Al v. 53 il Sol de li angeli è ovviamente Dio, con metafora che rimanda all'astro di questo Cielo (anche al v. 76: quelli ardenti soli, riferito ai beati della prima corona). Al v. 55 digesto è latinismo e vuol dire «digerito», nel senso di «ben disposto».
- I vv. 67-69 alludono all'alone luminoso che talvolta, nel cielo notturno, circonda la Luna (figlia di Latona, perché anticamente identificata con Diana): zona vale «fascia», «cintura», mentre il fil è il «raggio» lunare trattenuto dall'aria pregna di umidità.
- Il v. 78 si riferisce al moto apparente delle stelle più vicine al polo celeste, lento e perfettamente circolare.
- I vv. 79-81 alludono alla danza delle «ballate», in cui le donne danzavano appunto in cerchio al suono della ripresa; dopo un giro intero, veniva cantata la prima strofa e il ballo riprendeva, continuando così per tutta la ballata. Dante si riferisce al momento in cui le danzatrici, terminata la ripresa o una strofa, si fermano attendendo la prosecuzione della danza.
- Il v. 96 (u' ben s'impingua se non si vaneggia) si riferisce alla corruzione dell'Ordine domenicano, come san Tommaso spiegherà a Dante in XI, 118-139).
- Al v. 104 l'uno e l'altro foro indicano probabilmente la distinzione tra legge divina e umana elaborata da Graziano, base del diritto canonico.
- I vv. 107-108 alludono alle parole del prologo dei Libri sententiarum di Pietro Lombardo, in cui lo scrittore diceva di voler offrire alla Chiesa il suo tributo, come la povera vedova del Vangelo (Luc., XXI, 1-4).
- Il v. 111 si riferisce al dubbio sulla salvezza di Salomone, per via della sua lussuria senile (III Reg., XI, 1-9). Il re biblico è definito come l'uomo più saggio mai vissuto (a veder tanto non surse il secondo), frase che san Tommaso spiegherà in XIII, 31 ss.
- I vv. 115-117 presentano Dionigi l'Areopagita, cui veniva attribuito il trattato De coelesti Hierarchia che sarà base dell'angelologia dantesca (cfr. Canto XXVIII). L'avvocato de' tempi cristiani indicato al v. 119 è probabilmente lo storico Paolo Orosio, autore degli Historiarum libri VII adversus paganos che scrisse su consiglio di sant'Agostino per avvalorare il De civitate Dei (alcuni pensano invece al retore Mario Vittorino).
- Al v. 128 Cieldauro indica la basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia, dove fu sepolto Boezio. I pensieri / gravi (vv. 134-135) che afflissero Sigieri di Brabante e gli fecero sembrare tardo il morire sono probabilmente le persecuzioni degli avversari, tra cui lo stesso Tommaso, ma forse indicano i dubbi sull'indagine filosofica (le due ipotesi non si escludono a vicenda).
- Il Vico de li Strami (v. 137) è la Rue du Fouarre («via della paglia») a Parigi, dov'erano le scuole di filosofia in cui Sigieri insegnava. Si chiamava così perché gli studenti portavano con sé della paglia dove sedersi durante le lezioni.
- I vv. 139 ss. sono una delle prime attestazioni degli orologi nel Medioevo, meccanismi rudimentali che funzionavano con ruote dentate e contrappesi e che facevano suonare dei martelletti o dei campanelli, come sveglia. La sposa di Dio è la Chiesa, che si alza all'alba per mattinar lo sposo («recitare il Mattutino in onore di Cristo»). Il vb. s'insempra (v. 148) vuol dire «diventa eterno» ed è neologismo dantesco, coniato sull'avverbio «sempre» (cfr. t'insusi, XVII, 13 e s'indova, XXXIII, 138).

TESTO CANTO X

Guardando nel suo Figlio con l’Amore 
che l’uno e l’altro etternalmente spira, 
lo primo e ineffabile Valore                                               3

quanto per mente e per loco si gira 
con tant’ordine fé, ch’esser non puote 
sanza gustar di lui chi ciò rimira.                                     6

Leva dunque, lettore, a l’alte rote 
meco la vista, dritto a quella parte 
dove l’un moto e l’altro si percuote;                                9

e lì comincia a vagheggiar ne l’arte 
di quel maestro che dentro a sé l’ama, 
tanto che mai da lei l’occhio non parte.                         12

Vedi come da indi si dirama 
l’oblico cerchio che i pianeti porta, 
per sodisfare al mondo che li chiama.                          15

Che se la strada lor non fosse torta, 
molta virtù nel ciel sarebbe in vano, 
e quasi ogne potenza qua giù morta;                            18

e se dal dritto più o men lontano 
fosse ‘l partire, assai sarebbe manco 
e giù e sù de l’ordine mondano.                                     21

Or ti riman, lettor, sovra ‘l tuo banco, 
dietro pensando a ciò che si preliba, 
s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.                   24

Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba; 
ché a sé torce tutta la mia cura 
quella materia ond’io son fatto scriba.                          27

Lo ministro maggior de la natura, 
che del valor del ciel lo mondo imprenta 
e col suo lume il tempo ne misura,                               30

con quella parte che sù si rammenta 
congiunto, si girava per le spire 
in che più tosto ognora s’appresenta;                           33

e io era con lui; ma del salire 
non m’accors’io, se non com’uom s’accorge, 
anzi ‘l primo pensier, del suo venire.                             36

È Beatrice quella che sì scorge 
di bene in meglio, sì subitamente 
che l’atto suo per tempo non si sporge.                       39

Quant’esser convenia da sé lucente 
quel ch’era dentro al sol dov’io entra’mi, 
non per color, ma per lume parvente!                            42

Perch’io lo ‘ngegno e l’arte e l’uso chiami, 
sì nol direi che mai s’imaginasse; 
ma creder puossi e di veder si brami.                           45

E se le fantasie nostre son basse 
a tanta altezza, non è maraviglia; 
ché sopra ‘l sol non fu occhio ch’andasse.                  48

Tal era quivi la quarta famiglia 
de l’alto Padre, che sempre la sazia, 
mostrando come spira e come figlia.                            51

E Beatrice cominciò: «Ringrazia, 
ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo 
sensibil t’ha levato per sua grazia».                               54

Cor di mortal non fu mai sì digesto 
a divozione e a rendersi a Dio 
con tutto ‘l suo gradir cotanto presto,                             57

come a quelle parole mi fec’io; 
e sì tutto ‘l mio amore in lui si mise, 
che Beatrice eclissò ne l’oblio.                                       60

Non le dispiacque; ma sì se ne rise, 
che lo splendor de li occhi suoi ridenti 
mia mente unita in più cose divise.                               63

Io vidi più folgór vivi e vincenti 
far di noi centro e di sé far corona, 
più dolci in voce che in vista lucenti:                              66

così cinger la figlia di Latona 
vedem talvolta, quando l’aere è pregno, 
sì che ritenga il fil che fa la zona.                                    69

Ne la corte del cielo, ond’io rivegno, 
si trovan molte gioie care e belle 
tanto che non si posson trar del regno;                        72

e ‘l canto di quei lumi era di quelle; 
chi non s’impenna sì che là sù voli, 
dal muto aspetti quindi le novelle.                                  75

Poi, sì cantando, quelli ardenti soli 
si fuor girati intorno a noi tre volte, 
come stelle vicine a’ fermi poli,                                       78

donne mi parver, non da ballo sciolte, 
ma che s’arrestin tacite, ascoltando 
fin che le nove note hanno ricolte.                                   81

E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando 
lo raggio de la grazia, onde s’accende 
verace amore e che poi cresce amando,                      84

multiplicato in te tanto resplende, 
che ti conduce su per quella scala 
u’ sanza risalir nessun discende;                                   87

qual ti negasse il vin de la sua fiala 
per la tua sete, in libertà non fora 
se non com’acqua ch’al mar non si cala.                     90

Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora 
questa ghirlanda che ‘ntorno vagheggia 
la bella donna ch’al ciel t’avvalora.                                 93

Io fui de li agni de la santa greggia 
che Domenico mena per cammino 
u’ ben s’impingua se non si vaneggia.                         96

Questi che m’è a destra più vicino, 
frate e maestro fummi, ed esso Alberto 
è di Cologna, e io Thomas d’Aquino.                            99

Se sì di tutti li altri esser vuo’ certo, 
di retro al mio parlar ten vien col viso 
girando su per lo beato serto.                                        102

Quell’altro fiammeggiare esce del riso 
di Grazian, che l’uno e l’altro foro 
aiutò sì che piace in paradiso.                                       105

L’altro ch’appresso addorna il nostro coro, 
quel Pietro fu che con la poverella 
offerse a Santa Chiesa suo tesoro.                              108

La quinta luce, ch’è tra noi più bella, 
spira di tal amor, che tutto ‘l mondo 
là giù ne gola di saper novella:                                      111

entro v’è l’alta mente u’ sì profondo 
saver fu messo, che, se ‘l vero è vero 
a veder tanto non surse il secondo.                              114

Appresso vedi il lume di quel cero 
che giù in carne più a dentro vide 
l’angelica natura e ‘l ministero.                                      117

Ne l’altra piccioletta luce ride 
quello avvocato de’ tempi cristiani 
del cui latino Augustin si provide.                                  120

Or se tu l’occhio de la mente trani 
di luce in luce dietro a le mie lode, 
già de l’ottava con sete rimani.                                       123

Per vedere ogni ben dentro vi gode 
l’anima santa che ‘l mondo fallace 
fa manifesto a chi di lei ben ode.                                   126

Lo corpo ond’ella fu cacciata giace 
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro 
e da essilio venne a questa pace.                                129

Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro 
d’Isidoro, di Beda e di Riccardo, 
che a considerar fu più che viro.                                    132

Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, 
è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri 
gravi a morir li parve venir tardo:                                    135

essa è la luce etterna di Sigieri, 
che, leggendo nel Vico de li Strami, 
silogizzò invidiosi veri».                                                   138

Indi, come orologio che ne chiami 
ne l’ora che la sposa di Dio surge 
a mattinar lo sposo perché l’ami,                                  141

che l’una parte e l’altra tira e urge, 
tin tin sonando con sì dolce nota, 
che ‘l ben disposto spirto d’amor turge;                      144

così vid’io la gloriosa rota 
muoversi e render voce a voce in tempra 
e in dolcezza ch’esser non pò nota 

se non colà dove gioir s’insempra.                               148

PASRAFRASI CANTO X

La prima e indicibile Potenza (il Padre), guardando il Figlio con lo Spirito Santo che spira eternamente da entrambi, creò l'armonioso movimento dei Cieli in modo così perfetto che non è possibile ammirarlo senza godere dell'immagine divina.

Dunque, o lettore, alza lo sguardo con me alle sfere celesti, proprio verso quel punto in cui i due movimenti opposti si intersecano (il punto equinoziale);

e comincia ad ammirare lì l'opera d'arte di quell'artefice (Dio) che la ama dentro di sé, al punto che non ne distoglie mai lo sguardo.

Vedi come da lì diverge lo Zodiaco che porta con sé i pianeti, per soddisfare le esigenze della Terra che li invoca (per le influenze e per il ciclo stagionale).

Infatti, se la sua traiettoria non fosse obliqua rispetto all'Equatore celeste, molti influssi astrali sarebbero inutili e qui, sulla Terra, ogni potenzialità della natura resterebbe inattiva;

e se la divergenza fosse maggiore o minore, l'ordine del mondo sarebbe assai manchevole in entrambi gli emisferi.

Adesso resta, lettore, sopra il tuo banco, pensando a ciò che ti dico e che si preannuncia, se vuoi rallegrarti prima di essere stanco.

Io ti ho posto le vivande di fronte; adesso devi mangiare da solo, poiché quella materia (il Paradiso) che io sono chiamato a trascrivere attira a sé tutta la mia attenzione.

Il maggiore ministro della natura (il Sole), che diffonde il suo benefico influsso sulla Terra e con la sua luce misura il tempo, unito con quel punto (equinoziale) che ho detto prima, ruotava in quella spirale in cui ogni giorno sorge un po' prima;

E io ero con lui; ma non mi accorsi di esservi asceso, se non come colui che si accorge di un pensiero improvviso solo dopo che questo è comparso.

Beatrice guida da un Cielo a quello superiore così rapidamente, che il suo atto è praticamente istantaneo.

Le luci dei beati che erano dentro al Cielo del Sole dovevano essere davvero splendenti, perché io le distinguevo anche se non erano di colore diverso!

Per quanto io invochi il mio ingegno, l'arte e l'esperienza, non potrei descrivere tutto ciò per renderne un'idea compiuta; tuttavia si può credere e dunque bisogna desiderare di vederlo.

E se il nostro linguaggio è così inadeguato a una materia così alta, non bisogna stupirsi; infatti nessun occhio umano ha mai visto una luce più intensa di quella del Sole.

Qui si presentava in tal modo la quarta schiera dei beati (spiriti sapienti), che il Padre sazia di continuo mostrandogli il mistero della Trinità.

E Beatrice iniziò: «Ringrazia, ringrazia il Sole degli angeli (Dio) che per sua grazia ti ha sollevato a questo Sole materiale».

Il cuore di un uomo non fu mai così ben disposto alla devozione e così pronto a rendersi a Dio con tutta la sua gratitudine, come lo fui io a quelle parole; e il mio amore si rivolse a Lui a tal punto che si dimenticò totalmente di Beatrice.

A lei non dispiacque, anzi, ne sorrise, al punto che lo splendore dei suoi occhi gioiosi indusse la mia mente a dividersi tra più cose (Dio e il suo sorriso beato).

Io vidi diverse luci vivide e sfolgoranti più del Sole circondarci come una corona, di cui noi eravamo il centro, che cantavano più dolcemente di quanto fossero luminose:

così, talvolta, vediamo la Luna circondata da un alone, quando l'aria è umida e trattiene il raggio lunare che forma una fascia.

Nella corte del Paradiso, da dove ritorno, si trovano molti gioielli belli e preziosi, tanto che non si possono portar via da quel regno;

e il canto di quelle luci era uno di questi gioielli; chi non è in grado di volare fin lassù (diventando beato dopo la morte) non si aspetti che io lo descriva, come un muto non può recare le notizie.
Dopo che quei soli ardenti (gli spiriti), cantando così, ebbero compiuto tre giri, come stelle vicine ai poli celesti, mi sembrarono delle donne che ancora stanno danzando e che si fermano in silenzio, ascoltando finché non hanno sentito la musica che fa riprendere il ballo.

E dentro a una di quelle luci sentii dire: «Poiché il raggio della grazia divina, dal quale si accende il vero amore che poi, amando, continua a crescere, risplende moltiplicato in te, visto che ti conduce su per quella scala (il Paradiso) dalla quale nessuno scende senza risalire;

se qualcuno ti negasse il vino della sua ampolla per placare la tua sete (di conoscenza), non agirebbe in libertà proprio come un'acqua che non scendesse dal monte fino al mare.

Tu vuoi sapere di quali fiori è formata questa ghirlanda (la corona di spiriti) che contempla tutt'intorno alla bella donna che ti guida al Cielo.

Io fui uno degli agnelli del santo gregge che san Domenico conduce per il cammino, dove ci si arricchisce di beni spirituali se non si devia dalla regola.

Questi, che è immediatamente alla mia destra, fu frate e fu mio maestro: è Alberto Magno di Colonia, e io sono Tommaso d'Aquino.

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San Tommaso d'Aquino. Ritratto del XV secolo


Se tu vuoi sapere i nomi di tutti gli altri, segui le mie parole facendo scorrere lo sguardo lungo le luci di questa beata corona.

Quell'altra luce fiammeggiante è prodotta dal sorriso di Francesco Graziano, che aiutò l'una e l'altra legge in modo tale che piace al Paradiso.

L'altro che dopo di lui abbellisce la nostra schiera, fu quel Pietro Lombardo che offrì alla Santa Chiesa ogni suo avere come la poverella del Vangelo.

La quinta luce, che è la più bella fra noi, spira di un tale amore che tutto il mondo desidera conoscere il suo destino:

dentro vi è l'alta mente dove fu infuso un sapere così profondo, che, se le Scritture dicono il vero, non ci fu un uomo più saggio di lui (Salomone).

Vicino vedi la luce di quel cero (Dionigi l'Areopagita) che quando era vivo vide più addentro di ogni altro la natura e la funzione degli angeli.

Nell'altra luce più piccola ride quell'avvocato dei tempi cristiani (Paolo Orosio) della cui opera in latino si avvalse sant'Agostino.

Ora, se tu fai scorrere di luce in luce l'occhio della tua mente dietro le mie parole, ti resta da scoprire chi sia l'ottava luce.

Dentro vi gode l'anima santa che dimostra la fallacia del mondo a chi legge bene le sue opere, giacché ora vede il sommo bene (Severino Boezio).

Lo corpo da cui essa fu strappata giace sulla Terra nella basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro; e la sua anima giunse a questa pace dal martirio e dall'esilio terreno.

Oltre vedi fiammeggiare lo spirito ardente di Isidoro di Siviglia, del Venerabile Beda, di Riccardo di San Vittore che nella contemplazione di Dio fu più che un uomo.

E questi, dal quale il tuo sguardo torna su di me, è la luce di uno spirito che fu oppresso da gravi pensieri, tanto che la morte gli sembrò tarda:

essa è la luce eterna di Sigieri di Brabante, che, esercitando l'insegnamento nella 'Via della paglia' a Parigi, dimostrò delle verità dottrinali che suscitarono invidie contro di lui».

A quel punto, come un orologio che, nell'ora in cui la Chiesa si leva, la chiama a recitare il Mattutino a Cristo affinché egli la ami ancora, in cui una parte tira e l'altra spinge (le ruote dentate), tintinnando in modo così dolce che riempie d'amore lo spirito ben disposto;

così io vidi quella gloriosa corona di spiriti muoversi e cantare con un'armonia e una melodia così dolce che non la si può capire, se non in Paradiso dove la gioia diventa eterna.

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Pietro Lombardo rappresentato in una miniatura a decorazione di una littera notabilior di un manoscritto


San Tommaso d'Aquino
È uno dei principali filosofi e teologi del Medioevo (1225 -1274): entrato fanciullo nel monastero di Montecassino, studiò poi a Napoli dove ebbe maestri Martino di Dacia e Pietro d'Irlanda; entrato fra i domenicani, ricevette l'abito religioso nel 1243-1244. Studiò forse all'Università di Parigi, poi fu discepolo di Alberto Magno a Colonia. Tornato a Parigi, vi insegnò tra 1252 e 1255 col titolo di baccalarius biblicus et sententiarum; a questo periodo risalgono i primi scritti teologici. Tornato in Italia (1259), creato lector Curiae da Urbano IV (1261), compose numerose opere e iniziò tra l'altro la Summa Theologiae e il De regimine principum. Insegnò teologia allo Studio di Napoli nel 1272-1274, mentre proseguiva il lavoro intorno alla Summa; chiamato al Concilio di Lione del 1274, morì durante il viaggio (secondo una voce diffusasi in seguito e priva di conferme, sarebbe stato fatto avvelenare da Carlo I d'Angiò per timore di ciò che avrebbe detto contro di lui al Concilio). Fu canonizzato da papa Giovanni XXII nel 1323, mentre Pio V lo dichiarò dottore angelico nel 1567 (festa il 28 gennaio). Enorme è l'influsso da lui esercitato sulla dottrina cristiana in Occidente, al punto che la sua filosofia ha creato una vera e propria scuola che prende il nome di tomismo (o Scolastica, dal docente di teologia che era detto scolasticus): il suo pensiero tentò di conciliare la filosofia aristotelica con la dottrina cristiana, spesso in polemica con l'averroismo e suscitando le reazioni diffidenti degli agostiniani, per via della maggiore attenzione riservata all'elemento intellettivo rispetto al sentimento della fede. L'impalcatura dottrinale e astronomica della Commedia dantesca poggia quasi interamente sul pensiero di san Tommaso, per cui si può affermare che la sua presenza sia quasi una costante nel poema. Per quanto riguarda il suo destino ultraterreno, Dante lo colloca tra gli spiriti sapienti del IV Cielo del Sole: dopo il suo ingresso nel Cielo, a Dante appare una prima corona di dodici beati (Par., X, 64 ss.) che gira intorno al poeta e a Beatrice cantando con indicibile dolcezza, quindi si arresta e uno dei beati (san Tommaso) si rivolge a Dante e presenta se stesso e gli altri spiriti che formano la corona. Dopo una nuova danza e un nuovo canto delle anime, il santo riprende la parola (XI) e chiarisce il primo di due dubbi di Dante relativi alle sue affermazioni precedenti: per spiegare la frase u' ben s'impingua, se non si vaneggia (X, 96) riferita all'ordine domenicano, Tommaso fa il panegirico di san Francesco e poi biasima i difetti del proprio ordine. Dopo l'apparizione della seconda corona di beati (XII) e dopo che san Bonaventura ha fatto il panegirico di san Domenico, biasimando i difetti dell'ordine francescano, Tommaso riprende la parola (XIII) e chiarisce il secondo dubbio di Dante, relativo alla frase a veder tanto non surse il secondo (X, 114) che si riferiva all'anima di Salomone facente parte della prima corona. Tommaso spiega che la massima sapienza era quella infusa da Dio in Adamo e in Cristo-uomo, quindi l'affermazione su Salomone si riferiva alla sua saggezza di re e non di uomo. Il santo trae poi spunto dalla sua spiegazione per ammonire gli uomini a non dare giudizi troppo affrettati, onde evitare di cadere in errori come alcuni celebri filosofi pagani e come alcuni eretici. Occorre grande prudenza, specie nei riguardi della salvezza futura, perché il fatto che uno rubi e un altro faccia sacrifici non garantisce che il primo sarà dannato e il secondo salvo. Alla fine di queste parole Tommaso tace (XIV, 1-9) e Beatrice invita le altre anime a risolvere ulteriori dubbi di Dante circa la resurrezione dei corpi.

PIETRO LOMBARDO
Pietro Lombardo nacque nel territorio di Novara (da qui l'appellativo "Lombardo") sul finire dell'XI secolo. Compiuti gli studi a Bologna, iniziò la sua carriera di insegnante a Reims, passando poi a Parigi, prima nella scuola del monastero di S. Vittore, dove fu accreditato dallo stesso S. Bernardo, poi nella scuola della cattedrale. Nel 1159 fu nominato vescovo di Parigi e abbandonò l'insegnamento, ma già l'anno successivo morì. Nel corso degli anni di insegnamento Pietro Lombardo si era dedicato all'esegesi biblica, scrivendo il commento alle Lettere di S. Paolo e al Libro dei Salmi. La sua opera più nota e di più larga diffusione, tuttavia, sono i "Libri quattuor Sententiarum", un compendio di teologia cristiana fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, opera che gli valse l'appellativo di "Magister sententiarum". I pregi di questo lavoro sono riscontrabili non solo nelle numerose e importanti citazioni, importanti anche per ricostruire l'opera stessa degli auctores citati, come, ad esempio, Agostino, Ilario, Ambrogio, Cassiodoro e Severino Boezio, ma anche nell'accurata risistemazione della materia esposta, che meritò l'approvazione del IV Concilio Lateranense e fu autorevolmente commentata da Bonaventura, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. Dante nel paradiso scrive "quel Pietro fu che con la poverella offerse a Santa Chiesa il suo tesoro". I versi danteschi prendono spunto dal prologo dei "Libri quattuor Sententiarum" in cui Pietro Lombardo affermava che quest'opera era il suo contributo alla Chiesa, così come l'obolo che la vedova evangelica (Luca, 21) gettò nelle casse del Tempio di Gerusalemme: entrambi offrirono tutto ciò che possedevano.

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Eugenio Caruso - 19- 08 - 2021

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