Dante, Paradiso, Canto XI. San Francesco

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XI

Il Canto è dedicato in gran parte alla figura di san Francesco e ha struttura speculare rispetto al XII, in quanto qui è il domenicano san Tommaso a pronunciare il panegirico di Francesco e a biasimare i difetti del proprio Ordine, mentre nel Canto seguente sarà il francescano san Bonaventura a tessere le lodi di san Domenico e a criticare le mancanze dei Francescani. Tommaso prende spunto dal dubbio di Dante circa le sue parole alla fine del Canto X, quando parlando dei domenicani (v. 96) aveva detto u' ben s'impingua se non si vaneggia, per cui la agiografia del santo di Assisi servirà soprattutto a mettere in luce la corruzione diffusa tra i membri degeneri dell'Ordine domenicano: del resto il Canto si apre con l'accusa di Dante contro l'insensata cura de' mortali, che anziché ricercare i beni celesti si affannano a cercare quelli terreni, a differenza del poeta che è libero ormai da tutte queste lusinghe ed è accolto in gloria insieme a Beatrice nell'alto dei Cieli. Tommaso sceglie di raccontare la vita di Francesco in quanto sia lui sia san Domenico hanno perseguito il medesimo fine di assistere la Chiesa e agevolarne il cammino, entrambi ordinati dalla Provvidenza come suoi principi e campioni: l'immagine era frequente nella letteratura trecentesca, così come il ritratto dei due santi che erano visti in modo complementare, Francesco acceso di ardore di carità e Domenico pieno di sapienza divina, paragonati anche da Tommaso a un Serafino e a un Cherubino.
La biografia di Francesco si apre con una grandiosa descrizione geografica di Assisi, che nella sua solennità ricorda molto quella del Canto VIII nelle parole di Carlo Martello; Dante indica Francesco come un Sole che è nato per illuminare il mondo, come il Sole vero e proprio quando sorge nell'estremo Oriente (il Gange) nell'equinozio di primavera ed è più benefico, giocando forse sul nome Ascesi che era diffuso nell'Italia centrale del tempo e che può indicare anche l'elevazione spirituale. Segue poi la descrizione della sua vita, per la quale Dante si è certo rifatto alle fonti diffuse nel primo Trecento, anche se il poeta trascura gli elementi più popolari e aneddotici, per concentrarsi soprattutto sulle metaforiche nozze con la Povertà e, quindi, descrivendo Franscesco come una figura esemplare di uomo di Chiesa che perseguì un ideale di povertà evangelica, in contrasto con la corruzione ecclesiastica. Ciò è coerente sia con l'apertura del Canto, sia col finale dedicato alla rampogna di Tommaso contro i domenicani corrotti: Francesco entra in contrasto col padre per sposare la Povertà, rimasta senza marito dopo la morte di Cristo, si spoglia pubblicamente di tutti i beni e, dopo le mistiche nozze, ama la sposa di giorno in giorno più intensamente (fin dall'inizio è evidente l'imitatio Christi da parte del santo, che Dante descrive come alter Christus soprattutto per la scelta di vivere poveramente e in umiltà). Attorno a Francesco e alla sua sposa si raccoglie una famiglia di seguaci che si fa via via più numerosa, per cui i frati imitano il loro maestro spogliandosi di ogni cosa e seguendolo scalzi, cingendo i fianchi con l'umile capestro (il cinto francescano) che sarà simbolo della loro scelta di vita. La severa Regola francescana riceverà poi tre «sigilli» che ne sanciranno la validità, i primi due da parte dei papi Innocenzo III e Onorio III, l'ultimo (il più importante) da parte dello Spirito Santo attraverso le stimmate, segno più evidente dell'imitatio Christi: da rilevare che, se Dante segue la biografia di Bonaventura nelle linee essenziali, anche invertendo l'ordine di alcuni eventi, nondimeno dipinge Francesco come una figura altamente regale e dignitosa a dispetto della sua umiltà, come nel momento in cui si presenta di fronte a papa Innocenzo per sottoporgli la sua Regola; qualcosa di simile avviene anche nell'incontro col Sultano d'Egitto, qui presentato come sovrano superbo (mentre le fonti parlano di un'accoglienza benevola da parte del re musulmano) di fronte al quale Francesco si presenta per desiderio di martirio, non riuscendo tuttavia a convertire quei popoli restii ad ascoltare il messaggio evangelico. Tornato in Italia, dopo l'episodio delle stimmate e quando a Dio piacque di chiamarlo a sé, ancora una volta il santo raccomanda ai suoi confratelli la fedeltà alla sposa-Povertà (quindi alla severità della Regola) e poi si fa seppellire nudo nella nuda terra senza altra bara, a sottolineare in quell'ultimo gesto la sua volontà di vivere privo di qualunque ricchezza; va ricordato che Bonaventura, nella sua rampogna ai francescani degeneri, spiegherà proprio che essi si divisero fra spirituali e conventuali, ovvero tra coloro che inasprirono e attenuarono la Regola contrariamente alla volontà del fondatore, che venne quindi fraintesa in entrambi i casi.
Il finale del Canto è occupato dal rimprovero di Tommaso contro i confratelli del suo Ordine, che vengono accusati soprattutto di aver tradito la Regola di san Domenico per desiderio di beni terreni, per cui il gregge al quale il beato appartenne in vita si è allontanato dal pastore e va in cerca di altri pascoli in quanto ghiotto di altro cibo: la metafora evangelica serve a Dante per criticare la corruzione assai diffusa proprio fra i domenicani, specie attraverso la vendita delle indulgenze e l'intepretazione capziosa del diritto canonico, per cui le parole di Tommaso si rifanno a quelle di Folchetto nel finale del Canto IX (dove aveva parlato di pecore e... agni deviati e allontanatisi dal pastore diventato un lupo, a causa della sete di ricchezze alimentata dal maladetto fiore, il fiorino). Il discorso di Tommaso si rifà al tema, assai frequente nella III Cantica, della corruzione della Chiesa, anticipando altri celebri passi come il durissimo attacco contro papa Giovanni XXII del finale del Canto XVIII, nonché il discorso altrettanto severo di san Pietro contro Bonifacio VIII e la Curia papale corrotta; lo stesso Bonaventura nel Canto seguente descriverà san Domenico come un dottore della Chiesa intento a studiare la dottrina non per arricchirsi grazie ai cavilli legali del diritto canonico, ma per mettere la propria sapienza al servizio della Cristianità e stroncare le eresie, nonostante il pontefice spesso devii dalla retta via tracciata dal messaggio evangelico. Gli esempi di corruzione ecclesiastica sono ovviamente opposti a quello di Francesco, che con la sua vita semplice ha voluto riproporre l'ideale di povertà evangelica di Gesù e dei suoi discepoli, troppo spesso disatteso dai papi e dai prelati corrotti contro i quali, in molti passi del poema e in particolare del Paradiso, Dante rivolge le sue critiche e il suo duro richiamo.

Franc. mantello
Giotto: Francesco regala il mantello


Note
- Al v. 2 il termine silogismi  indica i ragionamenti propri della logica aristotelica e scolastica.
- Al v. 4 iura indica gli studi giuridici, mentre gli amforismi  si rifanno agli studi medici (Aforismi era il titolo dell'opera di Ippocrate).
- Al v. 13 ne lo è rima composta, da leggere «nèlo».
- Il v. 26 propone la lez. nacque di contro a surse, in quanto attestata da quasi tutti i mss. (non è strettamente necessario che Tommaso citi letteralmente le proprie parole).
- Ai vv. 29-30 aspetto / creato  vuol dire la vista di ogni creatura, umana o angelica.
- La  sposa del v. 32 è ovviamente la Chiesa, unita a Cristo (colui ch'ad altre grida / disposò lei col sangue benedetto).
- Francesco e Domenico (vv. 37-39) sono paragonati rispettivamente a un Serafino e a un Cherubino, poiché proprio Tommaso nella Summa theol.  riconduceva l'etimologia dei due termini all'ardore di carità e alla sapienza. La stessa immagine si trova anche nella Legenda maior  di san Bonaventura.
L'acqua del v. 43 è il fiume Chiascio, che scorre dal monte Ausciano (il colle) dove Ubaldo Baldassini si ritirò a vita eremitica nel XII sec.
- I vv. 46-48 indicano che Perugia trae vantaggio dalla sua posizione, poiché il monte Subasio le rimanda il calore estivo e il freddo dell'inverno, mentre Nocera e Gualdo, che sorgono dal lato opposto del monte, sono in posizione svantaggiosa. Improbabile, come pure alcuni critici hanno ipotizzato, che Dante si riferisca al dominio politico di Perugia sulle due città.
- Al v. 51 questo indica il Sole vero e proprio, che quando sorge nell'equinozio primaverile dal Gange (cioè, secondo la geografia del tempo, dall'estremo Oriente) è più luminoso e più benefico. Ciò spiega perché Assisi sia definita Oriente, avendo dato i natali a Francesco-Sole (la forma Ascesi era normale nella lingua dell'Italia centrale, anche se non si può escludere che Dante pensasse all'ascesi spirituale).
- Al v. 55 orto è latinismo e vuol dire «nascita» (il latino ortus era spesso usato in riferimento al sorgere del Sole).
- La spirital corte del v. 61 è il tribunale episcopale, di fronte al quale il padre di Francesco citò il figlio.
- Il primo marito della Povertà (v. 64) è Gesù, che morendo sulla croce la lasciò vedova.
- I vv. 67-69 si rifanno a Lucano, che nella Phars. (V, 519 ss.) racconta di un pescatore, Amiclàte, talmente povero da non temere di lasciare la porta della sua capanna aperta durante le scorrerie di Cesare (colui ch'a tutto 'l mondo fé paura) e Pompeo durante la guerra civile. Dante cita l'episodio anche in Conv., IV, 13.
- Bernardo di Quintavalle (v. 79) fu, secondo Bonaventura, il primo discepolo del santo: fondò a Bologna nel 1211 il primo convento francescano e assistette alla morte del santo. Egidio e Silvestro (v. 83) furono altri suoi seguaci, uomo semplice e modesto il primo, prete di Assisi il secondo (in base a una leggenda, avrebbe seguito Francesco dopo un sogno in cui il santo difendeva Assisi minacciata da un terribile dragone).
- I vv. 95-96 (la cui mirabil vita / meglio in gloria del ciel si canterebbe) indica prob. che la vita di Francesco dovrebbe essere elogiata non per la sua persona, ma per la gloria celeste; altri intendono un riferimento ai francescani corrotti (la sua vita si celebra in Cielo meglio di quanto non si faccia sulla Terra).
- Al v. 97 redimita è latinismo e vuol dire «coronata», mentre al v. 99 archimandrita è grecismo e significa «pastore». Entrambi i termini impreziosiscono notevolmente il linguaggio di Tommaso.
- Il crudo sasso  citato al v. 106 è il monte della Verna, sull'Appennino toscano, dove Francesco ricevette le stimmate.
- Al v. 111 pusillo è latinismo e vuol dire «umile».
- Il v. 137 va interpretato «vedrai da dove ha origine la corruzione dell'Ordine domenicano».
- Al v. 138 corrègger è infinito sostantivato e significa «inciso», «correzione», con riferimento all'espressione se non si vaneggia. Alcuni critici leggono correggér nel senso di «frate domenicano» e riferito a Tommaso stesso, detto così perché i frati del suo Ordine indossavano una correggia e non il cinto francescano (per cui i francescani erano detti cordiglieri).

TESTO DEL CANTO XI

O insensata cura de’ mortali, 
quanto son difettivi silogismi 
quei che ti fanno in basso batter l’ali!                             3

Chi dietro a iura, e chi ad amforismi 
sen giva, e chi seguendo sacerdozio, 
e chi regnar per forza o per sofismi,                                6

e chi rubare, e chi civil negozio, 
chi nel diletto de la carne involto 
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,                                     9

quando, da tutte queste cose sciolto, 
con Beatrice m’era suso in cielo 
cotanto gloriosamente accolto.                                       12

Poi che ciascuno fu tornato ne lo 
punto del cerchio in che avanti s’era, 
fermossi, come a candellier candelo.                            15

E io senti’ dentro a quella lumera 
che pria m’avea parlato, sorridendo 
incominciar, faccendosi più mera:                                 18

«Così com’io del suo raggio resplendo, 
sì, riguardando ne la luce etterna, 
li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.                          21

Tu dubbi, e hai voler che si ricerna 
in sì aperta e ‘n sì distesa lingua 
lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,                           24

ove dinanzi dissi "U’ ben s’impingua", 
e là u’ dissi "Non nacque il secondo"; 
e qui è uopo che ben si distingua.                                 27

La provedenza, che governa il mondo 
con quel consiglio nel quale ogne aspetto 
creato è vinto pria che vada al fondo,                             30

però che andasse ver’ lo suo diletto 
la sposa di colui ch’ad alte grida 
disposò lei col sangue benedetto,                                 33

in sé sicura e anche a lui più fida, 
due principi ordinò in suo favore, 
che quinci e quindi le fosser per guida.                        36

L’un fu tutto serafico in ardore; 
l’altro per sapienza in terra fue 
di cherubica luce uno splendore.                                   39

De l’un dirò, però che d’amendue 
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende, 
perch’ad un fine fur l’opere sue.                                     42

Intra Tupino e l’acqua che discende 
del colle eletto dal beato Ubaldo, 
fertile costa d’alto monte pende,                                    45

onde Perugia sente freddo e caldo 
da Porta Sole; e di rietro le piange 
per grave giogo Nocera con Gualdo.                             48

Di questa costa, là dov’ella frange 
più sua rattezza, nacque al mondo un sole, 
come fa questo tal volta di Gange.                                 51

Però chi d’esso loco fa parole, 
non dica Ascesi, ché direbbe corto, 
ma Oriente, se proprio dir vuole.                                    54

Non era ancor molto lontan da l’orto, 
ch’el cominciò a far sentir la terra 
de la sua gran virtute alcun conforto;                             57

ché per tal donna, giovinetto, in guerra 
del padre corse, a cui, come a la morte, 
la porta del piacer nessun diserra;                                60

e dinanzi a la sua spirital corte 
et coram patre le si fece unito; 
poscia di dì in dì l’amò più forte.                                     63

Questa, privata del primo marito, 
millecent’anni e più dispetta e scura 
fino a costui si stette sanza invito;                                  66

né valse udir che la trovò sicura 
con Amiclàte, al suon de la sua voce, 
colui ch’a tutto ‘l mondo fé paura;                                   69

né valse esser costante né feroce, 
sì che, dove Maria rimase giuso, 
ella con Cristo pianse in su la croce.                            72

Ma perch’io non proceda troppo chiuso, 
Francesco e Povertà per questi amanti 
prendi oramai nel mio parlar diffuso.                            75

La lor concordia e i lor lieti sembianti, 
amore e maraviglia e dolce sguardo 
facieno esser cagion di pensier santi;                          78

tanto che ‘l venerabile Bernardo 
si scalzò prima, e dietro a tanta pace 
corse e, correndo, li parve esser tardo.                         81

Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! 
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro 
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.                              84

Indi sen va quel padre e quel maestro 
con la sua donna e con quella famiglia 
che già legava l’umile capestro.                                     87

Né li gravò viltà di cuor le ciglia 
per esser fi’ di Pietro Bernardone, 
né per parer dispetto a maraviglia;                                90

ma regalmente sua dura intenzione 
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe 
primo sigillo a sua religione.                                           93

Poi che la gente poverella crebbe 
dietro a costui, la cui mirabil vita 
meglio in gloria del ciel si canterebbe,                         96

di seconda corona redimita 
fu per Onorio da l’Etterno Spiro 
la santa voglia d’esto archimandrita.                            99

E poi che, per la sete del martiro, 
ne la presenza del Soldan superba 
predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro,                           102

e per trovare a conversione acerba 
troppo la gente e per non stare indarno, 
redissi al frutto de l’italica erba,                                     105

nel crudo sasso intra Tevero e Arno 
da Cristo prese l’ultimo sigillo, 
che le sue membra due anni portarno.                       108

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo 
piacque di trarlo suso a la mercede 
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,                                  111

a’ frati suoi, sì com’a giuste rede, 
raccomandò la donna sua più cara, 
e comandò che l’amassero a fede;                              114

e del suo grembo l’anima preclara 
mover si volle, tornando al suo regno, 
e al suo corpo non volle altra bara.                               117

Pensa oramai qual fu colui che degno 
collega fu a mantener la barca 
di Pietro in alto mar per dritto segno;                            120

e questo fu il nostro patriarca; 
per che qual segue lui, com’el comanda, 
discerner puoi che buone merce carca.                      123

Ma ‘l suo pecuglio di nova vivanda 
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote 
che per diversi salti non si spanda;                              126

e quanto le sue pecore remote 
e vagabunde più da esso vanno, 
più tornano a l’ovil di latte vòte.                                      129

Ben son di quelle che temono ‘l danno 
e stringonsi al pastor; ma son sì poche, 
che le cappe fornisce poco panno.                               132

Or, se le mie parole non son fioche, 
se la tua audienza è stata attenta, 
se ciò ch’è detto a la mente revoche,                           135

in parte fia la tua voglia contenta, 
perché vedrai la pianta onde si scheggia, 
e vedra’ il corrègger che argomenta 

"U’ ben s’impingua, se non si vaneggia"».                 139

rinuncia
Giotto: Francesco rinuncia a i beni terreni


PASRAFRASI CANTO XI

O desiderio folle degli uomini, quanto sono fallaci i ragionamenti che ti inducono a volgerti verso i beni terreni!

Chi seguiva gli studi giuridici, chi quelli medici, chi si dedicava al sacerdozio, chi cercava di regnare con la violenza o con l'inganno, chi rubava, chi si dedicava agli affari politici, chi si lasciava andare ai piaceri carnali, chi all'ozio, quando io, libero da tutte queste lusinghe, venivo accolto con Beatrice in Cielo in maniera così gloriosa.

Dopo che ogni luce fu ritornata nel punto della corona in cui si trovava prima, si fermò, simile alla candela di un candelabro.

E io sentii che dentro quella luce (san Tommaso) che prima mi aveva parlato, il beato ricominciava a parlare, perché sorridendo quella luce diventava più luminosa:

«Poiché io risplendo del raggio della luce eterna (Dio), guardando in essa capisco da dove derivano le tue incertezze.

Tu hai alcuni dubbi, e desideri che ti sia spiegato in un discorso aperto e chiaro quello che ho detto prima, in modo tale che sia comprensibile alla tua intelligenza, quando poco fa ho detto "Dove ci si arricchisce di beni spirituali" e quando ho detto "Non nacque un altro uguale"; e qui è necessario operare una distinzione.

La Provvidenza, che guida il mondo con quella saggezza (di Dio) nella quale la vista di ogni creatura si perde prima di arrivare al fondo (è inconoscibile), affinché andasse verso il suo amato la sposa (Chiesa) di Colui (Cristo) che la sposò fra le alte grida col suo sangue benedetto (sulla croce), sicura si se stessa e ancora più fedele a Lui, dispose in suo favore due principi, che la guidassero da un lato e dall'altro.

Uno (Francesco) fu pieno di ardore come i Serafini; l'altro (Domenico) per la sua saggezza in Terra fu uno splendore di luce come i Cherubini.

Parlerò solo del primo, poiché elogiando uno dei due (qualunque si scelga) è come se si parlasse di entrambi, in quanto le loro opere ebbero il medesimo fine.

Fra il fiume Topino e il Chiascio, che scorre dal monte Ausciano dove il beato Ubaldo pose il suo eremo, digrada la fertile costiera di un alto monte (il Subasio), dal quale Perugia sente il freddo e il caldo dal lato di Porta Sole; e dalla parte opposta piangono, perché in posizione più svantaggiosa, Nocera Umbra e Gualdo Tadino.

Da questa costiera, nel punto in cui essa diventa meno ripida (ad Assisi), nacque un Sole per il mondo (Francesco) come questo (il Sole vero e proprio) talvolta nasce dal Gange.

Dunque, chi parla di questo luogo, non lo chiami "Assisi", poiché direbbe poca cosa, ma lo chiami "Oriente", se proprio vuole parlarne.

Non era ancora molto lontano dalla sua nascita, quando Francesco cominciò a riflettere in Terra la sua luminosa virtù;

infatti, ancora giovane, si scontrò col padre per una donna (la Povertà) alla quale nessuno vuole unirsi, come se fosse la morte;

e di fronte al tribunale episcopale e in presenza del padre le si unì in nozze; in seguito, l'amò sempre di più ogni giorno.

Essa, privata del primo marito (Cristo), era rimasta per più di millecento anni da sola, disprezzata da tutti, fino a Francesco;

non le servì che gli uomini udissero che Cesare, che fece paura a tutto il mondo, trovasse la Povertà sicura al suono della propria voce, insieme al pastore Amiclàte;

e non le servì neppure essere fedele e fiera, al punto che, quando Maria rimase ai piedi della croce, lei invece pianse insieme allo sposo Cristo.

Ma affinché io non parli in modo troppo oscuro, intendi in tutto il mio discorso che questi amanti furono Francesco e la Povertà.

La loro concordia, il loro lieto aspetto, l'amore, la meraviglia e il loro dolce sguardo producevano negli altri dei santi pensieri;

al punto che il venerabile Bernardo di Quintavalle fu il primo a togliersi le calzature e corse dietro a quella pace (seguì il santo) e, pur correndo, gli sembrava di essere lento.

O ricchezza sconosciuta! o bene fecondo! Egidio e Silvestro si tolgono anch'essi i calzari e seguono lo sposo (Francesco), tanto piace la sposa (Povertà).

In seguito quel padre e quel maestro se ne va (a Roma) con la sua donna e con la sua famiglia, che già cingeva i fianchi con l'umile cinto.

E la viltà d'animo non gli fece abbassare lo sguardo, essendo figlio di Pietro Bernardone, né per essere tanto umile da suscitare meraviglia;

ma svelò a papa Innocenzo III la sua severa Regola con atteggiamento regale, e da lui ebbe il primo avallo al suo Ordine.

E dopo che i seguaci poveri aumentarono dietro a Francesco, la cui vita ammirevole si canterebbe meglio a gloria del Paradiso, la volontà santa di questo pastore venne coronata dallo Spirito Santo con una seconda corona, attraverso papa Onorio III.

E dopo che, per desiderio del martirio, predicò Cristo e i suoi discepoli alla presenza superba del Sultano d'Egitto, e dopo che, avendo trovato quei popoli restii alla conversione e per non stare lì invano, era tornato in Italia, sul monte della Verna tra Tevere e Arno ricevette da Cristo l'ultimo sigillo (le stimmate), che il suo corpo portò per due anni.

Quando a Dio, che l'aveva destinato a un tale bene, piacque di chiamarlo in Paradiso alla ricompensa che egli aveva meritato nel farsi umile, raccomandò ai suoi confratelli, come a legittimi eredi, la sua donna più cara (la Povertà) e comandò loro che l'amassero restandole fedeli;

e dal grembo della Povertà la sua anima illustre volle muoversi, tornando in Paradiso, mentre al suo corpo non volle altra bara che non fosse la nuda terra.

A questo punto puoi capire chi fu colui (san Domenico) che fu degno collega di Francesco nel mantenere la nave della Chiesa nella giusta rotta, in alto mare;

e questo fu il nostro patriarca; e chi lo segue attenendosi alla sua Regola, non può che imbarcare buona merce (arricchirsi spiritualmente).

Ma il suo gregge è diventato ghiotto di nuovi cibi (i beni terreni), per cui è inevitabile che si disperda in diversi pascoli;

e quanto più le pecore se ne allontanano vagabonde, tanto più povere di latte tornano all'ovile.

Certo, ce ne sono alcune che temono il danno e si tengono strette al pastore (seguono la Regola), ma sono così poche che serve poco panno a confezionare le loro cappe.

Ora, se le mie parole non sono oscure, se mi hai ascoltato con attenzione, se richiami alla tua mente quanto ho detto prima, in parte il tuo desiderio sarà soddisfatto, perché vedrai da dove ha origine la corruzione dell'Ordine domenicano, e capirai la correzione che argomenta "Dove ci si arricchisce spiritualmente, se non si devia dalla Regola"».

stigmate
Giotto: Francesco riceve le stigmate


SAN FRANCESCO

Francesco d'Assisi, nato Giovanni di Pietro di Bernardone (Assisi, 1181/1182 – Assisi, 3 ottobre 1226), è stato diacono e fondatore dell'ordine che da lui poi prese il nome (Ordine Francescano), è venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Comunione anglicana; proclamato, assieme a santa Caterina da Siena, patrono principale d'Italia il 18 giugno 1939 da papa Pio XII. Profondamente ascetico, era conosciuto anche come "il poverello d'Assisi" per via della sua scelta di spogliarsi di ogni bene materiale e condurre una vita minimale, in totale armonia di spirito. Oltre all'opera spirituale, Francesco, grazie al Cantico delle creature, è riconosciuto come uno degli iniziatori della tradizione letteraria italiana. Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, eletto Papa nel conclave del 2013, ha assunto, primo nella storia della Chiesa, il nome pontificale Francesco proprio in onore del santo di Assisi. La città di Assisi, a motivo del suo illustre cittadino, è assurta a simbolo di pace, soprattutto dopo aver ospitato i quattro grandi incontri tra gli esponenti delle maggiori religioni del mondo, promossi da papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 2002, da papa Benedetto XVI nel 2011 e da papa Francesco nel 2016.
L'infanzia
Francesco, che aveva almeno un fratello di nome Angelo, nacque nel 1181 o nel 1182 da Pietro di Bernardone e, secondo testimonianze molto tardive, dalla nobile provenzale Madonna Pica, in una famiglia della borghesia emergente della città di Assisi che, grazie all'attività di commercio di stoffe, aveva raggiunto ricchezza e benessere. Sua madre lo fece battezzare con il nome di Giovanni nella chiesa costruita in onore del patrono della città, il vescovo e martire Rufino, cattedrale dal 1036. Tuttavia il padre decise di cambiargli il nome in Francesco, insolito per quel tempo, probabilmente in onore della Francia che aveva fatto la sua fortuna. La sua casa, situata al centro della città, era provvista di un fondaco, utilizzato come negozio e magazzino per lo stoccaggio e l'esposizione delle stoffe che il mercante si procurava con i suoi frequenti viaggi in Provenza. Il padre Pietro vendeva la sua pregiata merce in tutto il territorio del Ducato di Spoleto di cui, all'epoca, faceva parte anche la città di Assisi. Le varie agiografie del santo non parlano molto della sua infanzia e della sua giovinezza: è comunque ragionevole ritenere che egli fosse stato indirizzato dal padre a prendere il suo posto negli affari della famiglia. Dopo aver frequentato la scuola presso i canonici della cattedrale, nella chiesa di San Giorgio (dove, a partire dal 1257, venne costruita l'attuale basilica di Santa Chiara), a 14 anni Francesco si dedicò a pieno titolo all'attività del commercio. Egli trascorreva la sua giovinezza tra le liete brigate degli aristocratici assisani e la cura degli affari paterni, riguardanti l'attività di commercio dei tessuti.
La guerra
Si ha memoria di una guerra che nel 1202 contrappose Assisi a Perugia. Tra le due città esisteva una rivalità irriducibile che si protrasse per secoli. L'odio aumentò a causa dell'alleanza di Perugia con i guelfi, mentre Assisi parteggiò per la fazione dei ghibellini. Non fu una scelta felice quella degli assisani in quanto nel 1202 subirono una sconfitta e una cospicua perdita di uomini a Collestrada, vicino a Perugia. Tra i giovani che parteciparono al conflitto, venne catturato e rinchiuso in carcere pure Francesco. L'esperienza della guerra e della prigionia lo sconvolse a tal punto da indurlo a un totale ripensamento della sua vita: da lì ebbe inizio un cammino di conversione, che col tempo lo portò «a vivere nella gioia di poter custodire Gesù Cristo nell'intimità del cuore». Francesco, gravemente malato, dopo un anno di prigionia ottenne la libertà dietro il pagamento di un riscatto, a cui provvide il padre. Tornato a casa, recuperò gradatamente la salute trascorrendo molto tempo nei possedimenti del padre. Secondo Tommaso da Celano furono questi luoghi appartati che contribuirono a risvegliare in lui un assoluto e totale amore per la natura, che vedeva come opera mirabile di Dio.
La conversione
Da un punto di vista storico le circostanze della conversione di San Francesco non sono state chiarite e si hanno notizie solo attraverso le agiografie e il testamento del Santo. Sembra che la sua volontà frustrata di farsi cavaliere e di partire per la crociata abbia avuto un ruolo importante, ma anche e soprattutto un crescente senso di compassione che gli ispiravano i deboli, gli ammalati e gli emarginati: questa compassione si sarebbe trasformata poi in una vera e propria "febbre d'amore" verso il prossimo. Nel 1203-1204 Francesco pianificò di partecipare alla quarta crociata e quindi provò a raggiungere a Lecce la corte di Gualtieri III di Brienne, per poi muovere con gli altri cavalieri alla volta di Gerusalemme. Partecipare come cavaliere a una crociata era a quel tempo considerato uno dei massimi onori per i cristiani d'Occidente. Tuttavia, giunto a Spoleto, si ammalò nuovamente; passò la notte nella chiesa di San Sabino e qui ebbe un profondo ravvedimento. Avrebbe raccontato in seguito di essere stato persuaso da due rivelazioni notturne: nella prima egli scorse un castello pieno d'armi e udì una voce promettergli che tutto quello sarebbe stato suo. Nella seconda sentì nuovamente la stessa voce chiedergli se gli fosse stato «più utile seguire il servo o il padrone»: alla risposta: «Il padrone», la voce rispose: «Allora perché hai abbandonato il padrone, per seguire il servo?» Francesco rinunciò al proprio progetto e tornò ad Assisi; da allora egli non fu più lo stesso uomo. Si ritirava molto spesso in luoghi solitari a pregare. Un giorno a Roma, dove venne mandato dal padre a vendere una partita di merce, non solo distribuì il denaro ricavato ai poveri, ma scambiò le sue vesti con un mendicante e si mise a chiedere l'elemosina davanti alla porta di San Pietro. Pure il suo atteggiamento nei confronti delle altre persone mutò radicalmente: un giorno incontrò un lebbroso e, oltre a dargli l'elemosina, lo abbracciò e lo baciò. Come racconterà lo stesso Francesco, prima di quel giorno non poteva sopportare nemmeno la vista di un lebbroso: dopo questo episodio, scrisse che «ciò che mi sembrava amaro, mi fu cambiato in dolcezza d'anima e di corpo» Ma è nel 1205 che avvenne l'episodio più significativo della sua conversione: mentre pregava nella chiesa di San Damiano, raccontò di aver sentito parlare il Crocifisso, che per tre volte gli disse: «Francesco, va' e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina». Dopo quell'episodio, le "stranezze" del giovane si fecero ancora più frequenti: fece incetta di stoffe nel negozio del padre e le vendette a Foligno assieme al suo cavallo; tornò a casa a piedi e offrì il denaro ricavato al sacerdote di San Damiano, affinché riparasse quella piccola chiesa in rovina; costui però, conoscendo il padre e temendo la sua ira, rifiutò la generosa offerta. Pietro Bernardone, forte della solidarietà della comunità d'Assisi, riteneva tradite non solo le sue aspettative di padre, ma giudicava il figlio, per la sua eccessiva generosità, in preda a uno squilibrio mentale.
Il processo davanti al vescovo
Bernardone cercò, all'inizio, di allontanare Francesco per nasconderlo ai pettegolezzi della gente, ma poi, di fronte all'irriducibile "testardaggine" del figlio nel non mutare il suo comportamento, decise di denunciarlo ai consoli per farlo arrestare, non tanto per il danno oneroso subito, quanto piuttosto per la segreta speranza che, sotto la pressione della punizione e della condanna dalla città, il ragazzo cambiasse atteggiamento. Il giovane, però, si appellò a un'altra autorità: fece ricorso al vescovo. Il processo si svolse così nel mese di gennaio (o febbraio) del 1206, nel Palazzo Vescovile; «tutta Assisi» fu presente al giudizio. Francesco, non appena il padre ebbe finito di parlare, «non sopportò indugi o esitazioni, non aspettò né fece parole; ma immediatamente, depose tutti i vestiti e li restituì al padre [...] e si denudò totalmente davanti a tutti dicendo al padre: "Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d'ora in poi posso dire con tutta sicurezza: Padre nostro che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza".» Francesco dava così inizio a un nuovo percorso di vita e il vescovo Guido, che lo coprì pudicamente agli sguardi della folla, manifestava simbolicamente la protezione e l'accoglienza di Francesco nella Chiesa.
Il soggiorno a Gubbio
Da uomo nuovo Francesco cominciò il suo viaggio: nell'inverno 1206 partì per Gubbio, dove il giovane aveva da sempre diversi amici, tra cui Federico Spadalonga, il quale aveva condiviso con Francesco anche la prigionia nelle carceri di Perugia. Federico lo accolse benevolmente nella sua casa (laddove oggi sorge una chiesa dedicata a San Francesco), lo sfamò e, a quanto pare, fu qui che Francesco si vestì del saio, rifiutando vestiti ben più lussuosi offerti dall'amico. Ospite degli Spadalonga, Francesco «amante di ogni forma di umiltà, si trasferì dopo pochi mesi presso i lebbrosi restando con loro e servendo a loro tutti con somma cura.» Si trattava del lebbrosario di Gubbio, che era intitolato a san Lazzaro di Betania. Nel suo Testamento Francesco disse chiaramente che la vera svolta verso la piena conversione ebbe inizio per lui a Gubbio, quando si era accostato a queste persone bisognose. Francesco non vi ebbe mai una fissa dimora, ma era solito predicare nelle campagne tra il comune umbro e Assisi. Proprio nel contado eugubino, laddove sorgeva la chiesetta di Santa Maria della Vittoria, detta della Vittorina, e l'omonimo parco, San Francesco ammansì il famoso lupo di Gubbio. Sette anni dopo la conversione di Francesco (nel 1213), il beato Villano, Vescovo di Gubbio, già abate benedettino dell'abbazia di San Pietro, concesse ai frati di stabilire una loro sede nel comune. Arrivata l'estate e placatosi lo scandalo sollevato dalla rinuncia ai beni paterni, Francesco ritornò ad Assisi. Per un certo periodo se ne stette solo, impegnato a riparare alcune chiese in rovina, come quella di San Pietro (al tempo, fuori dalle mura), la Porziuncola a Santa Maria degli Angeli e San Damiano. I primi anni della conversione furono caratterizzati dalla preghiera, dal servizio ai lebbrosi, dal lavoro manuale e dall'elemosina. Francesco scelse di vivere nella povertà volontaria e, ispirandosi all'esempio di Cristo, lanciò un messaggio di segno opposto a quello della società duecentesca, dalle facili ricchezze. Francesco rinunciò alle attrattive mondane, vivendo gioiosamente come un "ignorante", un "pazzo", dimostrando come la sua obiezione ai valori egemoni della società secolare di allora potesse generare una perfetta letizia. In questo senso il suo esempio aveva un che di sovversivo rispetto alla mentalità del tempo. Il 24 febbraio 1208, giorno di san Mattia, dopo aver ascoltato il passo del Vangelo secondo Matteo nella chiesetta Porziuncola, nella campagna di Assisi, Francesco sentì fermamente di dover portare la Parola di Dio per le strade del mondo. Incominciò così la sua predicazione, dapprima nei dintorni di Assisi. Ben presto altre persone si aggregarono a lui e, con le prime adesioni, si formò il primo nucleo della comunità di frati. Il primo di essi fu Bernardo di Quintavalle, suo amico d'infanzia. Tra gli altri si ricordano Senso III di Giotto Sensi, Pietro Cattani, Filippo Longo di Atri, frate Egidio, frate Leone, frate Masseo, frate Elia da Cortona, frate Ginepro. Insieme con i suoi compagni, Francesco cominciò a portare le sue predicazioni fuori dall'Umbria.
L'approvazione del Papa
Nel 1209, quando Francesco ebbe raccolto intorno a sé dodici compagni, si recò a Roma per ottenere l'autorizzazione della regola di vita, per sé e per i suoi frati, da parte di papa Innocenzo III. Dopo alcune esitazioni iniziali, il Pontefice concesse a Francesco la propria approvazione orale per il suo «Ordo fratrum minorum»: a differenza degli altri ordini pauperistici, Francesco non contestava l'autorità della Chiesa, ma la considerava come "madre" e le offriva sincera obbedienza. Francesco era la personalità necessaria, che poteva finalmente incanalare le inquietudini e il bisogno di partecipazione dei ceti più umili all'interno della Chiesa, senza porsi come antagonista a essa, quindi senza scivolare nella deriva dell'eresia. Del testo presentato al Papa non è rimasta traccia. Gli studiosi pensano, tuttavia, che esso consistesse principalmente in brani tratti dal Vangelo che, col passare degli anni, insieme con alcune aggiunte, confluirono nella «Regola non bollata», che Francesco scrisse alla Porziuncola nel 1221. Di ritorno da Roma, i frati si installarono in un "tugurio" presso Rivotorto, sulla strada verso Foligno, luogo scelto perché vicino a un ospedale di lebbrosi. Tale posto, tuttavia, era umido e malsano, e i frati dovettero abbandonarlo l'anno successivo, stabilendosi presso la piccola badia di Santa Maria degli Angeli, sulla pianura del Tescio, in località Porziuncola. Abbandonata in mezzo a un bosco di cerri, la badia venne concessa a Francesco e ai suoi frati dall'Abate della chiesa di San Benedetto del Subasio.
Vocazione di Chiara e fondazione dell'Ordine femminile
Questa nuova «forma di vita» attirò anche le donne: la prima fu Chiara Scifi, figlia del nobile assisiate Favarone di Offreduccio degli Scifi. Fuggita dalla casa paterna la notte della Domenica delle Palme del 28 marzo del 1211 (o del 18 marzo del 1212), giunse il 29 marzo 1211 (o il 19 marzo 1212) a Santa Maria degli Angeli, dove chiese a Francesco di poter entrare a far parte del suo ordine, e dove all'alba ricevette l'abito religioso dal santo. Francesco la sistemò per un po' di tempo prima presso il monastero benedettino di Bastia Umbra, poi in quello di Assisi. In seguito, quando altre ragazze (fra cui anche la sorella di Chiara, Agnese) seguirono il suo esempio, presero dimora nella chiesa di San Damiano e diedero inizio a quello che in futuro sarebbero state le clarisse, tra le quali si distinsero sante come Caterina da Bologna, Camilla Battista da Varano, Eustochia Calafato. Negli stessi anni diede vita al convento di Montecasale, dove insediò una piccola comunità di seguaci e dove ripetutamente avrebbe fatto poi sosta nei suoi viaggi.
I catari
Ben viva era all'epoca la vicenda dei catari, dichiarati eretici dalla Chiesa cattolica, i quali predicavano un dualismo Bene/Male portato alle estreme conseguenze. Essi avevano avuto numerosi focolai nella vicina Toscana e si erano ridotti alla clandestinità dopo la sanguinosa crociata albigese del 1209. Francesco avrebbe potuto essere scambiato per un cataro per la sua povertà e la predicazione ai ceti subalterni. Ma Francesco e i suoi seguaci si distinguevano in molteplici aspetti: innanzitutto essi non mettevano in dubbio la gerarchia della Chiesa. Francesco stesso infatti insisteva sulla necessità che si amassero e si rispettassero i sacerdoti. Portato una volta davanti a un prete che viveva notoriamente in peccato, forse affinché cadesse in contraddizione (se egli non lo avesse denunziato si sarebbe potuto dire che era suo complice, se egli lo avesse fatto si sarebbe detto che Francesco non rispettava la gerarchia), Francesco si limitò a baciare le mani di quel sacerdote, "che toccano il corpo di Gesù Cristo". Infine la differenza tra l'avversione al "mondo della Materia" (il Creato) dei catari e l'amore per tutte le manifestazioni di vita di Francesco non poteva essere più stridente. Lo stesso Cantico delle creature può essere letto come un perfetto trattato di teologia anti-catara, nonostante sia difficile da dimostrare quanto Francesco, sospettoso della sapienza dei libri, possa aver conosciuto la dottrina catara.
Attività missionaria
Il suo amore per la natura e gli animali (come la leggendaria predica agli uccelli in località Piandarca sulla strada che da Cannara si dirige a Bevagna) erano superati solo dall'amore verso gli esseri umani: la pace interiore per Francesco non era una semplice serenità, che implicava capacità di amore e di perdono, ma una naturale gioia di vivere: «La sua carità si estendeva, con cuore di fratello, non solo agli uomini provati dal bisogno, ma anche agli animali senza favella, ai rettili, agli uccelli, a tutte le creature sensibili e insensibili. Aveva però una tenerezza particolare per gli agnelli, perché nella Scrittura Gesù Cristo è paragonato, spesso e a ragione, per la sua umiltà al mansueto agnello. Per lo stesso motivo, il suo amore e la sua simpatia si volgevano in modo particolare a tutte quelle cose che potevano meglio raffigurare o riflettere l'immagine di Dio» Col tempo la fama di Francesco crebbe enormemente e crebbe notevolmente anche la schiera dei frati francescani. Nel 1217 Francesco presiedette il primo dei capitoli generali dell'Ordine, che si tenne alla Porziuncola: questi sorsero con l'esigenza di impostare la vita comunitaria, di organizzare l'attività di preghiera, di rinsaldare l'unità interna ed esterna, di decidere nuove missioni, e si tenevano ogni due anni. Con il primo fu organizzata la grande espansione dell'ordine in Italia e furono inviate missioni in Germania, Francia e Spagna. Nel 1219, si recò ad Ancona per imbarcarsi per l'Egitto e la Palestina, dove da due anni era in corso la quinta crociata. Durante questo viaggio, in occasione dell'assedio crociato alla città egiziana di Damietta, insieme con frate Illuminato ottenne dal legato pontificio (il benedettino portoghese Pelagio Galvani, cardinale vescovo di Albano), il permesso di passare nel campo saraceno e incontrare, disarmati, a loro rischio e responsabilità, lo stesso sultano ayyubide al-Malik al-Kamil, nipote di Saladino. Lo scopo dell'incontro era quello di potergli predicare il Vangelo, al fine di convertire il sultano e i suoi soldati, e quindi mettere fine alle ostilità. Ricevuto con grande cortesia dal Sultano, ebbe con lui un lungo colloquio, al termine del quale Francesco dovette tornare nel campo crociato. Intorno a questo evento storico sono fiorite diverse leggende riguardanti il santo e la sua straordinaria capacità di convincere e convertire, anche se al-Malik al-Kamil rimase musulmano, pur apprezzando Francesco ed elargendogli dei doni in segno di stima. L'interpretazione del rapporto tra Francesco, l'Islam e le crociate non è facile ed è ancora oggetto di discussione, in quanto c'è contrapposizione tra chi vede la sua azione come un sostegno alle crociate o, al contrario, come una loro sconfessione. La narrazione dell'incontro ci è pervenuta, oltre che tramite le opere di biografi francescani, anche attraverso altre testimonianze non tardive, sia cristiane sia arabe. La versione fornitaci da San Bonaventura cita maltrattamenti subiti ad opera dei soldati saraceni e la difesa, da parte di Francesco, dell'operato dei crociati e la giustificazione della guerra agli islamici infedeli. Nel racconto di Tommaso da Celano, Francesco suscitò profonda ammirazione nel sultano, che lo trattò con rispetto e gli offrì numerose ricchezze. Secondo la narrazione agiografica, Francesco subì anche la prova del fuoco, raffigurata in numerosi cicli dipinti.
Il nuovo ordine.
La pacifica rivoluzione che il nuovo Ordine stava compiendo cominciò a essere palese a tutti. Incominciarono però anche i primi problemi: Francesco temeva che, ingrandendosi senza controllo, la fraternità dei Minori deviasse dai propositi iniziali. Per dare l'esempio e per potersi dedicare completamente alla sua missione, nel 1220 Francesco rinunciò al governo dell'Ordine in favore dell'amico e seguace Pietro Cattani, che però morì l'anno seguente. Al successivo Capitolo Generale (detto «delle Stuoie», giugno 1221) venne scelto come vicario frate Elia. Nel 1223, con la bolla Solet annuere, papa Onorio III approvò definitivamente la «Regola seconda» (che rispetto alla prima è più corta e contiene meno citazioni evangeliche), che fu redatta con l'aiuto del cardinale Ugolino d'Ostia (il futuro papa Gregorio IX). La doppia stesura della regola a distanza ravvicinata testimonia un ripensamento a fronte di difficoltà nel progetto; Francesco, pur non condannando in sé né la ricchezza, né la sapienza, né il potere, si rendeva conto che i frati che liberamente avevano deciso di seguirlo e di seguire la sua regola di vita stavano diventando colti e accettavano doni e ricchezze (anche se formalmente questi erano incamerati dalla Santa Sede). Non è difficile immaginare che qualcuno, magari usando la scusa di poter meglio servire il prossimo, avesse richiesto più volte una limatura della regola del 1221 e alla fine Francesco cedette, pretendendo però questa volta una fedeltà assoluta, accettandola "senza commento", cioè senza interpretazioni.
Durante la notte di Natale del 1223, a Greccio (sulla strada che da Stroncone prosegue verso il reatino), Francesco rievocò la nascita di Gesù, facendo una rappresentazione vivente di quell'evento. Secondo le agiografie, durante la Messa, il putto raffigurante il Bambinello avrebbe preso vita più volte tra le braccia di Francesco. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe. Oltre alla vita attiva Francesco, forse ammalato, sentiva continuamente l'esigenza di ritirarsi in posti solitari per ritemprarsi e pregare (come, ad esempio, l'Eremo delle Carceri di Assisi, sulle pendici del monte Subasio; l'Isola Maggiore sul lago Trasimeno; l'Eremo delle Celle a Cortona). Tali posti offrivano al frate il silenzio e la pace che gli consentivano una più intima preghiera. Tra il 1224 e il 1226, ormai malato gravemente agli occhi, compose il Cantico delle creature.
Le stigmate e la morte
Secondo le agiografie, il 14 settembre 1224, due anni prima della morte, mentre si trovava a pregare sul monte della Verna (luogo su cui in futuro sorgerà l'omonimo santuario) e dopo 40 giorni di digiuno, Francesco avrebbe visto un Serafino crocifisso. Al termine della visione gli sarebbero comparse le stigmate: «sulle mani e sui piedi presenta delle ferite e delle escrescenze carnose, che ricordano dei chiodi e dai quali sanguina spesso». Tali agiografie raccontano inoltre che sul fianco destro aveva una ferita, come quella di un colpo di lancia. Fino alla sua morte, comunque, Francesco cercò sempre di tenere nascoste queste sue ferite. Nell'iconografia tradizionale successiva alla sua morte, Francesco è stato sempre raffigurato con i segni delle stigmate: per questa caratteristica è stato definito anche «alter Christus». La condivisione fisica delle pene di Cristo offriva un nuovo volto al cristianesimo, partecipe non più solo del Suo trionfo, simboleggiato dal Cristo in gloria. Negli anni seguenti Francesco fu sempre più oggetto di varie malattie (soffriva infatti di disturbi al fegato oltre che alla vista). Varie volte gli furono tentati degli interventi medici per lenirgli le sofferenze, ma inutilmente. Nel giugno 1226, mentre si trovava alle Celle di Cortona, dopo una notte molto tormentata dettò il "Testamento", che volle fosse sempre legato alla "Regola", in cui esortava l'ordine a non allontanarsi dallo spirito originario. Nel 1226 si trovava alle sorgenti del Topino, presso Nocera Umbra; egli però chiese e ottenne di poter tornare a morire nel suo "luogo santo" preferito: la Porziuncola. Qui la morte lo colse la sera del 3 ottobre. Il suo corpo, dopo aver attraversato Assisi ed essere stato portato perfino in San Damiano, per essere mostrato un'ultima volta a Chiara e alle sue consorelle, venne sepolto nella chiesa di San Giorgio. Da qui la sua salma venne trasferita nell'attuale basilica nel 1230 (quattro anni dopo la sua morte, due anni dopo la canonizzazione).
Il francescanesimo si inserisce in quel vasto movimento pauperistico del XIII secolo, in uno spirito di riforma volto contro la corruzione dei costumi degli ecclesiastici del tempo, troppo coinvolti negli interessi materiali e politici, nella sanguinosa Lotta per le investiture. A questo si deve aggiungere la fioritura del comune medioevale: la nascita delle ricche città-stato, se da un lato arricchì una parte del popolo, determinò la formazione di quei ricchi ceti mercantili, il cosiddetto popolo grasso, che acquistava potere a scapito della vecchia nobiltà feudale, facendo della vita metropolitana il centro della civiltà, pur lasciandovi dentro larghissime fette del ceto contadino più indigente, dall'altro causò una forte disuguaglianza sociale e anche crisi dell'assetto sociale medievale che dovette coinvolgere Francesco in prima persona mentre esercitava la professione di mercante.
"Povertà", "obbedienza" e "castità" sono aspetti fondamentali della vita di Francesco e dei suoi discepoli. Dopo un primo periodo passato in solitudine, Francesco iniziò a vivere la propria vocazione insieme a dei compagni che volevano imitare il suo esempio. L'umiltà e l'ascetismo al quale si accompagnò l'opera del santo gli valse il nome di Imitator Christi ("Imitatore di Cristo"): da qui inizia l'esperienza della "fraternità", nella quale ciascun membro è dunque un imitator Francisci ("Imitatore di Francesco"), e dunque un imitator Christi. Secondo la regola dettata da Francesco, la vita comunitaria deve cercare di conformarsi a questi principi:
- Fraternità: i frati non devono vivere soli, ma devono prendersi cura dei propri fratelli (e in generale di tutti) con amore e dedizione. La stessa cura si estende incondizionatamente non solo alle creature umane, ma a tutto il creato in quanto opera di Dio e dunque sacro, vivendo in questo modo la fraternità universale.
- Umiltà: porsi al di sotto di tutto e di tutti, al servizio dell'ultimo per essere davvero al servizio di Dio, liberarsi dai desideri terreni che allontanano l'uomo dal bene e dalla giustizia.
- Povertà: rinuncia a possedere qualsiasi bene condividendo tutto ciò che ci è dato con tutti i fratelli, partendo dai più bisognosi.
Alla preghiera e alla meditazione, la Regola francescana aggiunge lo "spirito missionario", in conformità ai precetti evangelici, assumendo una condotta completamente diversa rispetto alla norma seguita fino ad allora. È chiaro come a San Francesco interessassero soprattutto i ceti sociali più deboli, tendesse con amore fraterno verso quel "prossimo" spesso respinto e disprezzato dalla società, cioè verso il povero, il malato, il perdente, l'ultimo. Francesco vuole essere il «minore tra i minori» (umile tra gli umili). Si sostiene che egli applicò ai compagni l'appellativo minores, dato in spregio ai popolani dai ricchi, perché lui stesso voleva incarnare la figura di "uomo del popolo". Assisi e Santa Maria degli Angeli furono e sono tuttora il cuore pulsante da cui parte e a cui ritorna l'attività missionaria di questo nuovo Ordine dei minori, come da allora in poi furono chiamati tutti coloro che seguirono (e che seguono) il santo fondatore assisano. In questo modo, lo spirito di condivisione è esempio concreto della comunione dell'anima con Dio, Gesù il Cristo, testimonianza di fede e di amore cristiano. A imitazione dei poveri e dei mendicanti, è l'aspetto itinerante dei francescani, secondo il principio di portare il proprio sostegno materiale e spirituale al prossimo andandogli incontro là dove egli si trova: applicando questa regola in prima persona, Francesco visse e scontò un incessante vagare, portandosi fino ai confini dell'Europa, sostentandosi del frutto del lavoro che gli veniva offerto per strada e dove questo non fosse possibile, attraverso l'elemosina. All'interno dell'ordine francescano, tra il XIII e il XIV secolo si sviluppò la scuola filosofica e teologica fondata dal francescano Alessandro di Hales quando nel 1232 ricoprì la cattedra di teologia presso l'università di Parigi. La filosofia francescana, opponendosi all'aristotelismo e al tomismo, s'ispirava al pensiero di Sant'Agostino da cui riprendeva la dottrina dell'illuminazione e la teoria dell'ilemorfismo universale. In opposizione al tomismo, la scuola francescana dichiarava il primato della volontà sull'intelletto non solo per quanto riguardava il comportamento umano, ma anche per l'azione divina che esigeva il dovere dell'obbedienza, e il primato della fede sia nel campo della morale sia in quello della conoscenza. I più importanti filosofi del francescanesimo furono Giovanni de la Rochelle, San Bonaventura, Duns Scoto, Giovanni Peckham. I maestri francescani dell'università di Oxford, Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone e Guglielmo di Occam confermarono l'indipendenza della fede dalla ragione e svilupparono quindi il francescanesimo soprattutto nell'ambito scientifico. Francesco d'Assisi e la sua vita sono stati continuamente oggetto di interesse, ispirazione, imitazione, studio, confronto. Questo ha fatto sì che la narrazione biografica della sua vita sia stata connotata — fin dalle prime espressioni all'indomani della sua morte — da una grande varietà di significati e intenzioni, che inevitabilmente hanno indirizzato e influenzato la redazione della sua Vita.

g. reni

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Eugenio Caruso - 24- 08 - 2021

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