Donne ch'avete intelletto d'amore
Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo. Seneca INTRODUZIONE Esaurita la funzione comunicativa della poesia, connotata dal parlare direttamente a madonna, non resterebbe a Dante che la morte per amore o l'approdo al silenzio, che è la soluzione adottata sotto la formula di non dire più di questa benedetta. Senonchè l'invenzione della nuova materia, che estenderà la propria efficacia fino alla morte di Beatricer, consente di aprire una nuova e lunga fase nel libro. Viene alla ribalta un pubblico femminile di meravigliosa gentilezza, capace di capire Dante e di corrispondere con lui. Si tratta di donne attive, intelligenti, locutrici argute e senza timore: un pubblico nuovo, una scoperta mitica d'indubbia rilevanza sociologica, che sarà un acquisto duraturo in tutta la storia. E' proprio una di loro, donna di molto leggiadro parlare, a prendere l'iniziativa: chiama Dante e lo invita a chiarire la sua posizione. Non è banale petulanza, bensì l'intuizione femminile più sottile, il riconoscimento quasi profetico di un amore novissimo. Le donne più sollecite parlano tra loro quasi a consulto e poi rivolgono al poeta, forse per bocca di quella stessa che aveva parlato per prima, la capitale domanda: "A che fine ami tu questa donna poi che non puoi sostenere la sua presenza?". Negato il saluto, escluso l'appagamento fisico, messo al bando ogni compenso, non resta che l'invenzione di un amore del tutto gratuito, l'idea di una beatitudine riposta in quello che non mi puote venire meno e cioè, come preciserà più oltre, nelle parole che lodano la donna mia. Dunque un amore consunmato nell'esercizio esclusivo della poesia di lode, l'unica sottratta al contingente e all'infinita casistica amorosa. Le donne gli rinfacciano il tradimento dei suoi postulati, sia gli omaggi alle due donne schermo, sia i sonetti narratori del suo stato, ma lui esce dall'imbarazzo formulando il proposito di prendere per materia del suo parlare solo ciò che possa essere di loda di questa gentilissima. Valore assoluto della poesia non è più la donna, ma la poesia stessa che alla sua donna s'ispira. Ma la lingua non si scioglie e l'ispiraziopne tarda: la nuova poesia non è figlia della volontà, che pure la prepara, e neppure del ragionar di se stesso e dei propri dolori. L'inizio del nuovo stile è un dono travolgente e improvviso, forte come il fiato divino della grazia: la mia lingua parlò quasi come per sè stessa mossa e disse: "Donne ch'avete intelletto d'amore". > In sostaza, in Donne ch’avete intelletto d’amore si afferma che il fine dell’amore non è più il piacere che deriva dalla presenza della donna e dalla speranza di essere ricambiato da lei, ma il piacere legato alla semplice testimonianza della bellezza dell’amata. Il destinatario della produzione dantesca muterà: non più Beatrice, ma le donne che hanno esperienza dell’amore e la capacità di conoscerlo. Nella premessa alla canzone, Dante infatti spiega: «e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine» («e pensai che non era conveniente che parlassi di lei se non a un pubblico di donne, rivolgendomi ad esse con la seconda persona plurale, e non a ogni donna in quanto femmina, ma solo alle donne gentili»). Donne ch’avete intelletto d’amore inaugura quindi la poetica della lode e una nuova stagione poetica, che coincide con la produzione stilnovistica più matura. Dante sottolinearà la sua importanza anche nel XXIV canto del Purgatorio, dove Bongiunta da Lucca qualifica il poeta come «colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’» («colui che ha cominciato le nuove rime con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore»). Nella canzone Dante riflette sulle ragioni che spingono il poeta a lodare la donna amata: esse riguardano la sua bellezza e perfezione morale, ma anche gli effetti che ella provoca sugli altri. Donne ch’avete intelletto d’amore è una canzone in cinque stanze, delle quali l’ultima ha funzione di congedo, formate da 14 versi endecasillabi. Lo schema delle rime è ABBC; ABBC; CDD; CEE. TESTO Donne ch’avete intelletto d’amore, i’ vo’ con voi de la mia donna dire, non perch’io creda sua laude finire, ma ragionar per isfogar la mente. Io dico che pensando il suo valore, 5 Amor sì dolce mi si fa sentire, che s’io allora non perdessi ardire, farei parlando innamorar la gente. E io non vo’ parlar sì altamente, ch’io divenisse per temenza vile; 10 ma tratterò del suo stato gentile a respetto di lei leggeramente, donne e donzelle amorose, con vui, ché non è cosa da parlarne altrui.
Angelo clama in divino intelletto 15 e dice: «Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l’atto che procede d’un’anima che ‘nfin qua su risplende». Lo cielo, che non have altro difetto che d’aver lei, al suo segnor la chiede, 20 e ciascun santo ne grida merzede. Sola Pietà nostra parte difende, che parla Dio, che di madonna intende: «Diletti miei, or sofferite in pace che vostra spene sia quanto me piace 25 là ‘v’è alcun che perder lei s’attende, e che dirà ne lo inferno: O mal nati, io vidi la speranza de’ beati».
Madonna è disiata in sommo cielo: or voi di sua virtù farvi savere. 30 Dico, qual vuol gentil donna parere vada con lei, che quando va per via, gitta nei cor villani Amore un gelo, per che onne lor pensero agghiaccia e pere; e qual soffrisse di starla a vedere 35 diverria nobil cosa, o si morria. E quando trova alcun che degno sia di veder lei, quei prova sua vertute, ché li avvien, ciò che li dona, in salute, e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia. 40 Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato che non pò mal finir chi l’ha parlato. Dice di lei Amor: «Cosa mortale come esser pò sì adorna e sì pura?». Poi la reguarda, e fra se stesso giura 45 che Dio ne ‘ntenda di far cosa nova. Color di perle ha quasi, in forma quale convene a donna aver, non for misura: ella è quanto de ben pò far natura; per essemplo di lei bieltà si prova. 50 De li occhi suoi, come ch’ella li mova, escono spirti d’amore infiammati, che feron li occhi a qual che allor la guati, e passan sì che ‘l cor ciascun retrova: voi le vedete Amor pinto nel viso, 55 là ‘ve non pote alcun mirarla fiso.
Canzone, io so che tu girai parlando a donne assai, quand’io t’avrò avanzata. Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata per figliuola d’Amor giovane e piana, 60 che là ‘ve giugni tu diche pregando: «Insegnatemi gir, ch’io son mandata a quella di cui laude so’ adornata». E se non vuoli andar sì come vana, non restare ove sia gente villana: 65 ingegnati, se puoi, d’esser palese solo con donne o con omo cortese, che ti merranno là per via tostana. Tu troverai Amor con esso lei; raccomandami a lui come tu dei. 70
Parafrasi O donne che sapete che cos’è l’amore, io voglio parlare a voi della mia donna, non perché creda di esaurire le lodi dovute a lei, ma [perché voglio] parlare per sfogare i miei sentimenti intimi. Io intendo dire che considerando il suo valore, Amore si fa sentire in me così dolcemente, che se io a quel punto non perdessi il coraggio, con le mie parole farei innamorare tutte. E non voglio parlare in modo adeguato all’altezza del soggetto, così da diventare insicuro per la paura; ma tratterò della sua nobiltà in modo superficiale rispetto al suo valore, con voi, donne e fanciulle esperte d’amore, poiché non è argomento di cui si possa parlare con altri. Un angelo si lamenta con l’intelligenza di Dio e dice: «O re, nel mondo si vede un miracolo incarnato che si manifesta in un’anima [Beatrice] e che risplende fin quassù». Il cielo, che non ha altro difetto se non che manca di lei, la chiede al suo Signore, e ogni santo chiede la grazia di averla. Solo la Pietà prende le nostre parti, in quanto Dio, riferendosi alla mia donna parla così: «O miei eletti, ora sopportate serenamente che ciò che desiderate [Beatrice] resti per quanto voglio, là [sulla terra] dove c’è qualcuno che aspetta di perderla, e che dirà nell’inferno: O dannati, io vidi colei che i beati desideravano avere con sé». La mia donna è desiderata nell’alto dei cieli: ora voglio farvi sapere della sua virtù. Affermo che qualunque donna voglia sembrare nobile, deve andare con lei, che quando cammina per strada, getta nei cuori non nobili un impedimento, per cui ogni loro pensiero diventa di ghiaccio e muore; chi sopportasse di starla a guardare diventerebbe nobile, oppure morirebbe. E quando lei trova qualcuno che sia degno di sostenere la sua vista, quello sperimenta la sua virtù, poiché tutto ciò ella che gli dona si trasforma in beatitudine, e lo rende umile a tal punto che dimentica ogni offesa. Dio le ha fornito anche una grazia superiore, poiché chi le ha parlato non può morire dannato. Amore dice di lei: «Come può un essere mortale essere così bello e puro?». Poi la guarda attentamente, e conclude fra sé e sé che Dio intende fare di lei qualcosa di straordinario. Ha un colorito quasi simile alle perle, nella giusta misura che si conviene a una donna: essa rappresenta quanto di bello può produrre la natura; si misura la bellezza usando lei come metro di paragone. Dai suoi occhi, non appena lei li muova, escono spiriti infiammati d’amore, che feriscono gli occhi a chiunque la guardi in quel momento, e penetrano in modo che ciascuno raggiunge il cuore: voi le vedete Amore raffigurato nello sguardo, là dove nessuno può guardarla fissamente. Canzone, io so che tu parlerai con molte donne, quando ti avrò resa pubblica. Ora, dato che ti ho costruita come espressione giovane e diretta di Amore, ti ammonisco di chiedere cortesemente: «Indicatemi la strada, poiché io sono indirizzata a colei delle cui lodi sono adornata». E se non vuoi muoverti inutilmente, non restare dove ci sia gente non nobile: ingegnati, se puoi, di mostrarti solo a donne o a chiunque altro sia nobile, i quali ti condurranno là [da Beatrice] per la via più breve. Tu troverai Amore insieme a lei; raccomandami a lui meglio che puoi. Analisi Nella prima stanza, ai vv. 9-14, il poeta spiega che l’oggetto da lodare supera le sue capacità e possibilità espressive perciò egli rinuncia, volontariamente, a una rasppresentazione adeguata e si accontenta di espressioni che risultano limitate e limitanti rispetto al vero valore della donna. Nella seconda stanza, Dante rappresenta una sorta di processo che si tiene nell’Empireo, la sede di Dio: le intelligenze celesti e i beati si lamentano della mancanza di Beatrice nel Paradiso e chiedono a Dio di sottrarla alla vita terrena per godere della sua compagnia. Dio, giudice supremo, consente alla donna di rimanere ancora del tempo sulla terra, affinché gli uomini possano beneficiare della sua presenza virtuosa. La terza stanza descrive le virtù di Beatrice, che ha quattro particolari poteri: appena appare alla loro presenza, è capace di distruggere i pensieri villani; chiunque entri in contatto con lei si trasforma in «nobil cosa»; concede la dimenticanza delle offese a chi sperimenti il suo valore; concede la salvezza eterna a chiunque le abbia parlato. Nella quarta stanza vengono elencate le qualità fisiche della donna: la carnagione color perla, simbolo di purezza, e gli «spirti d’amore inflammati» che dai suoi occhi colpiscono il cuore di chi incontra il suo sguardo. Amore stesso si riflette nelle sue pupille, tanto che nessuno può guardarla fissamente. Nella quinta stanza si ha un dialogo tra il poeta e la canzone, a cui viene suggerita una battuta da rivolgere a chi può aiutarla a raggiungere Beatrice. Figura ricorrente è la personificazione (l’Amore, la Pietà e la Canzone); Pietà potrebbe essere anche interpretato come una metonimia (in questo caso, un attributo che indica Dio). Al v. 18 Beatrice è indicata con una raffinata perifrasi (d’un’anima che ‘nfin qua su risplende); un’altra perifrasi è presente al v. 26: là ‘v’è alcun che perder lei s’attende (si intende la Terra); anche al v. 63, Beatrice è indicata con una perifrasi (a quella di cui laude so’ adornata). Ai vv. 27-28 è presente un’antitesi (O mal nati, / io vidi la speranza de’ beati). Nel v. 30 sono da notare le allitterazioni delle lettere v e r: or voi di sua virtù farvi savere. Ai vv. 43-44 Dante ricorre alla figura della domanda retorica (Cosa mortale / come esser pò sì adorna e sì pura?). Al v. 47 è presente una metafora (Color di perle ha quasi). Al v. 57 si può notare una costruzione perifrastica con il gerundio (girai parlando sta per parlerai). Al v. 67 è presente una sineddoche (omo cortese; singolare che sta per uomini cortesi). La Vita Nova,
La Vita nova è la prima opera di attribuzione certa di Dante Alighieri, scritta tra il 1292 ed il 1295; è un testo fondamentale per capire Dante, ma spesso risulta un po' enigmatico a chi non faccia il dantista per professione. Si tratta di un prosimetro nel quale sono inserite 31 liriche (25 sonetti, 1 ballata, 5 canzoni) in una cornice narrativa di 42 capitoli. Non si conoscono con precisione gli anni di composizione della Vita nova, nonostante sia stata presumibilmente allestita tra il 1292 e il 1293. Lo stesso Dante, però, ci testimonia che il testo più antico risale al 1283, quando egli aveva diciotto anni, e che il più tardo risale al giugno del 1291, anniversario della morte di Beatrice. Altri sonetti sono probabilmente assegnabili al 1293 (in ogni caso le poesie non possono essere datate oltre il 1295): si può dunque ipotizzare con relativa certezza che le diverse componenti dell'opera sono frutto del lavoro di circa un decennio, culminato nella stesura vera e propria dell'opera. Il testo che ne risulta è quindi una sorta di assemblaggio delle diverse poesie scritte in varie fasi della vita di Dante - alcune delle quali però sono state composte di certo contemporaneamente al testo in prosa - e che vengono così riunite in una sola opera (appunto la Vita Nova) a partire dal 1290, anno di morte di Beatrice.
«In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d'asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sentenzia.»
La Vita nova, nell'edizione critica curata da Michele Barbi per la Società Dantesca Italiana nel 1907 e rivista nel 1932, si basa su circa quaranta manoscritti. Oltre a quelli principali, nel XX secolo, sono stati ritrovati altre parti del testo, come il Frammento Trespiano (Ca); nell'insieme, l'opera risulta composta da 42 capitoli e 31 liriche. La recente edizione critica dell'opera curata da Stefano Carrai - che attinge in particolare al manoscritto Chigiano L.VIII. 305, il più antico di tutti, risalente alla metà del Trecento - propone invece una suddivisione diversa, in 31 capitoli, corrispondenti esattamente al numero delle liriche (cfr. Dante Alighieri, Vita Nova, revisione del testo e commento di Stefano Carrai; 9ª ediz. BUR Classici, Rizzoli, Milano, 2019). La composizione, sotto il profilo dei contenuti, si apre con un brevissimo proemio. In esso Dante sviluppa il concetto di memoria (il libro della memoria) in quanto magazzino di ricordi che permette di ricostruire la realtà non in ogni suo dettaglio, ma con una visione di insieme, ricordando cioè l'avvenimento generale. A metà della Vita Nova troviamo questo sonetto che a mio avviso è uno dei più piacevoli e famosi della letteratura italiana. TESTO «Tanto gentile e tanto onesta pare PARTAFRASI «Tanto nobile d'animo e tanto piena di decoro è Tanto gentile e tanto onesta pare è un sonetto contenuto nel XVIII capitolo, uno dei più chiari esempi dello stile della loda e della scuola stilnovista.
Il sonetto è densissimo di artifatti e pensieri propri dello stilnovismo, condensati in soli 14 versi. Infatti, l'intero componimento è latore, in primo luogo, dell'elogio di Beatrice (non a caso il sonetto, posto nel cuore della Vita Nuova, costituisce il culmine dello stilo della loda, assieme al sonetto Vede perfettamente onne salute), grazie poi alla quale «sono onorate e laudate molte altre donne. Costei, grazie al saluto, dispensa la grazia salvifica, operando la redenzione e donando beatitudine agli uomini. Non vi è alcuna fisicità nel sonetto, nessuna descrizione di Beatrice, vista e percepita da Dante sotto una luce puramente angelica: si allude, al massimo, a labbia, latinismo che Gianfranco Contini preferisce tradurre con "fisionomia" anziché con "volto", in quanto la considera una «traduzione meno imprecisa». Beatrice rappresenta quasi una emanazione di Dio, attraverso uno spirito soave che induce chiunque a sospirare al passaggio di lei. Eugenio Caruso - 15 - 09 - 2021 |
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