Dante, Paradiso, Canto XV. Il trisavolo Cacciaguida.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XV

Il Canto apre il «trittico» dedicato al personaggio di Cacciaguida e inaugura l'importante discorso relativo alla missione civile e poetica di Dante, non a caso collocato in posizione centrale nella Cantica: in particolare questo primo episodio è caratterizzato da un linguaggio solenne e stilisticamente prezioso, con una fitta serie di rimandi alla classicità e al testo biblico che innalzano notevolmente il tono del dialogo fra il poeta e il suo avo.
In apertura Dante descive il silenzio dei beati con la similitudine di una lira celeste che la mano di Dio allenta e tira, che smette di cantare spinta dall'amore che sempre si manifesta in una volontà benevola, il che induce Dante ad affermare che le anime beate non possono essere sorde alle preghiere dei vivi; poi l'apparizione di Cacciaguida è descritta come una stella cadente che d'improvviso attraversa il quieto cielo nottuno, precisando in seguito che la luce del beato si muove lungo il braccio destro della croce simile a una gemma che non lascia il suo nastro e a una fiamma visibile dietro una parete di alabastro (più avanti Dante chiamerà lo spirito vivo topazio, accentuando la preziosità dei paragoni).
Cacciaguida si rivolge quindi a Dante senza fare il proprio nome, cosa che avverrà solo verso la fine dell'episodio, dapprima paragonato all'ombra di Anchise che accoglie il figlio Enea nei Campi Elisi e poi mostrato mentre parla al suo discendente in latino, chiedendosi a chi oltre che a Dante la porta del Cielo è stata aperta due volte. Il doppio riferimento è ovviamente al viaggio di Enea nell'Ade, narrato da Virgilio nel libro VI dell'Eneide e in occasione del quale l'eroe ascoltò dall'anima del padre il preannuncio dell'alta missione che lo avrebbe portato alla fondazione della stirpe romana, ma anche a san Paolo che nella II Epistola ai Corinzi narrava di essere stato rapito al III Cielo, per cui la domanda retorica di Cacciaguida sottintende che oltre a Dante la porta del Paradiso è stata aperta due volte. Enea e san Paolo erano entrambi citati da Dante in Inf., II, 28 ss., quando il poeta aveva esposto a Virgilio i suoi dubbi circa il viaggio nell'Oltretomba, per cui è come se Dante qui volesse sottolineare il carattere provvidenziale del suo viaggio che è stato voluto da Dio per consentirgli di adempiere a un'importante missione (quella di raccontare nel poema tutto ciò che ha visto, come l'avo gli spiegherà nel Canto XVII); inoltre è evidente il parallelismo tra Anchise e Cacciaguida, che infatti saluta il suo discendente con l'espressione sanguis meus che è ripresa letterale di Aen., VI, 835 e che nel Canto XVII profetizzerà a Dante il futuro esilio, investendolo della sua missione come Anchise aveva fatto con il figlio.
L'incontro fra Dante e Cacciaguida ha quindi un'importanza che va al di là dell'ambito personale e familiare in cui potrebbe sembrare circoscritto e investe la sostanza stessa del poema, con la definizione della missione sacrale di cui il poeta si sente investito e la cui dichiarazione solenne affida all'anima di questo suo oscuro antentato, scelto in quanto martire morto combattendo per la fede e vissuto in una Firenze molto diversa da quella attuale da cui Dante sarà esiliato.
La rievocazione di questa Firenze ideale del XII secolo, più piccola di quella del XIV e la cui popolazione non viveva ancora nel lusso sfrenato dovuto alla diffusione della ricchezza, è al centro della successiva prosopepea del beato, il quale, richiesto da Dante di rivelare la propria identità, si limita inizialmente a dire di essere stato suo antenato e concittadino: l'idealizzazione della Firenze antica a paragone di quella moderna riprende l'accusa di Forese Donati alle sfacciate donne fiorentine e anticipa la rassegna delle principali famiglie fiorentine del Canto seguente, in cui sarà evidente il rimprovero di Cacciaguida alle genti nove e ai sùbiti guadagni che hanno diffuso la corruzione nella città e hanno causato le discordie interne, portando infine all'esilio del poeta profetizzato nel Canto XVII.
Non a caso gli abitanti di questa Firenze ideale vivevano una vita semplice e modesta, con gli uomini più in vista che indossavano abiti non eleganti e le donne che non sfoggiavano monili e vestiti sfarzosi, non si imbellettavano i visi, erano certe di morire in patria perché la città non conosceva ancora gli esili politici; la rievocazione di Cacciaguida è sentita e ricca di pathos, specie all'inizio con la quadruplice anafora Non... dei vv. 100-109, in cui l'avo sottolinea i costumi corrotti della Firenze attuale paragonandoli polemicamente a quelli morigerati dei suoi antichi concittadini. Particolarmente significativa, poi, la descrizione delle donne intente a badare alla propria casa, ad allevare i figli e a filare la lana (l'immagine è tratta dalla lett. classica e si rifà a quella della donna dell'antica Roma), mentre raccontano alla famiglia (che comprende anche la servitù, come in epoca romana) dell'antica e leggendaria fondazione di Firenze a opera dei Romani e di Cesare: il paragone tra Firenze e Roma è tanto più significativo, in quanto Dante riteneva che gli abitanti della sua città di sangue «puro» discendessero proprio dai Romani, mentre quelli venuti da Fiesole e in seguito inurbatisi dal contado avevano contaminato questa originaria purezza portando in città l'avidità di guadagno che tutto aveva corrotto (è la tesi sostenuta da Cacciaguida nel Canto XVI, ma anche da Brunetto Latini in Inf., XV, 61-78).
Non a caso i due esempi più famigerati di Fiorentini degeneri del Due-Trecento, Cianghella e Lapo Salterello, sono paragonati a Cincinnato e Cornelia, ovvero due illustri esempi di quelle alte virtù virili e femminili che caratterizzavano i cittadini dell'antica Roma, mentre il paragone implicito tra le due città è evidente anche nell'accostamento tra Monte Mario (Montemalo) e l'Uccellatoio, col dire che Firenze ha superato Roma nel lusso degli edifici ma sarà più rapida nella decadenza. Dante crea un parallelo tra l'evoluzione politico-morale delle due città, in quanto entrambe hanno avuto un passato glorioso caratterizzato dalla vita austera e dalla grandezza politica (Firenze aveva toccato il suo massimo splendore nella prima metà del Duecento), ma poi sono cadute nella corruzione morale e nell'ambizione, finendo per declinare rapidamente: Roma in passato aveva visto il crollo del suo Impero, poi ristabilito da Carlo Magno, Firenze vedrà assai presto la fine del proprio dominio politico ad opera di un imperatore in grado di riportare la sua autorità in Italia, o almeno così si augura e profetizza Dante.
La rievocazione di Firenze dà modo a Cacciaguida di presentarsi e fare infine il proprio nome, raccontando brevemente la sua vita in cui spicca soprattutto la partecipazione alla II Crociata al seguito dell'imperatore Corrado III, che l'aveva fatto cavaliere in seguito al suo bene ovrar : l'avo si presenta dunque come martire caduto combattendo in Terrasanta contro gli infedeli, che tuttora usurpano i luoghi santi per colpa d'i pastor, per la trascuratezza dei papi (è la consueta polemica di Dante contro il guelfismo e a favore dell'autorità imperiale), ma afferma anche orgogliosamente la propria nobiltà, l'appartenenza a quell'aristocrazia cittadina formata, secondo Dante, dalla semenza santa dei Romani che avevano fondato Firenze e della quale lui stesso sentiva di fare parte. La dichiarazione di Cacciaguida dà modo all'esule Dante, sconfitto sul piano politico e bandito dalla propria ingrata città, di affermare con orgoglio la sua nobiltà, cosa di cui farà in parte ammenda all'inizio del Canto successivo: i versi seguenti preciseranno meglio le origini di Cacciaguida e riprenderanno la rievocazione dell'antica Firenze ideale, con la rassegna delle famiglie più cospicue e la rampogna contro l'imbastardimento della popolazione per l'immigrazione dal contado, causa prima (come si è detto) della corruzione e della decadenza politica della città che Dante sta scontando con l'esilio.
L'antica nobiltà di Cacciaguida è anche garanzia della veridicità delle profezie che pronuncerà nel Canto XVII, e che riguarderanno non soltanto la vicenda biografica di Dante ma anche le imprese militari e politiche di Cangrande della Scala, forse da identificare col «veltro» destinato a cacciare la lupa, quindi l'avarizia, dall'italia: il complessivo episodio di Cacciaguida si inserisce pertanto in un quadro assai più ampio della vicenda personale del poeta e va ben al di là del comprensibile rancore che egli nutriva per i suoi ingrati concittadini, il che spiega la scelta di questo personaggio come protagonista dei Canti centrali del Paradiso, nonché l'elevatezza dello stile che li caratterizza e, almeno in parte, l'orgogliosa affermazione da parte di Dante della propria superiorità morale sui suoi antichi nemici politici.

anchise
Enea incontra il padre Anchise ai Campi Elisi


Note
- Al v. 1 si liqua  è lat. da liqueo, «manifestarsi», che Dante rende della prima coniugazione.
- I vv. 19-24 indicano che la luce di Cacciaguida si muove lungo il braccio destro della croce e scende in basso, senza staccarsi da essa come una gemma  che resta attaccata al suo nastro. La lista radial è propriamente il raggio che divide il cerchio, quindi è ciascuno degli assi della croce che, essendo perpendicolari, è come se dividessero un cerchio in quattro quadranti uguali.
- Il v. 24 allude a una particolare proprietà dell'alabastro che lascia trasparire la luce: può darsi che Dante avesse visto delle finestre di alcune chiese fatte in quel materiale, che lasciavano filtrare la luce del sole.
- I vv. 25-27 si riferiscono ovviamente ad Aen., VI, 684 ss., quando Enea scende agli Inferi e incontra l'ombra del padre Anchise nei Campi Elisi; la maggior musa è prob. Virgilio, ma potrebbe essere anche l'alta poesia dell'Eneide.
- Le parole in latino ai vv. 28-30 significano: «O mio discendente, o abbondanza grazia divina, a chi come a te fu aperta per due volte la porta del cielo?». Sanguis meus è calco virgiliano (Aen., VI, 835), mentre le altre espressioni come superinfusa, gratia Dei, celi ianua sono di derivazione biblica. La domanda è retorica e sottintende che il primo a compiere un viaggio in Paradiso da vivo fu san Paolo (cfr. Inf., II, 28 ss.)
- Il magno volume (v. 50) è il libro della mente di Dio, dove ogni cosa è immutabile e dove Cacciaguida ha letto dell'arrivo di Dante.
- Al v. 55 mei  è lat. da meare, «procedere».
- Al v. 74 la prima equalità  è Dio: Dante vuol dire che per i beati l'intelletto è pari al loro sentimento e lo possono esprimere a parole, mentre per lui, mortale, questo è più difficile.
- I vv. 91-94 alludono al figlio di Cacciaguida, Alighiero I bisnonno del poeta, che da più di un secolo è nella I Cornice del Purgatorio: il suo nome, che poi divenne il cognome di Dante, deriva da quello degli Aldighieri, la famiglia della moglie di Cacciaguida (vv. 137-138).
- I vv. 97-99 alludono all'antica cinta muraria di Firenze, che risaliva al IX-X sec. ed era assai più ristretta di quella dei tempi di Dante, realizzata nel 1173 quindi dopo la morte di Cacciaguida. Il v. 98 si riferisce alla chiesa di Badia, che si trovava presso le antiche mura e suonava ancora le ore canoniche.
- Alcuni mss. leggono al v. 101 donne contigiate, ma è prob. che Dante si riferisca al capo di abbigliamento. Contigiato deriva dall'ant. fr. cointise, «ornamento».
- Al v. 106 le case sono dette vòte perché troppo grandi a causa del lusso e quindi sproporzionate; alcuni intendono un'allusione agli esili del tempo di Dante, ma sembrerebbe fuori contesto in questo passo (l'avo biasima i costumi lussuosi della Firenze del Trecento).
- I vv. 109-111 indicano che il monte Uccellatoio, che sorge alle porte di Firenze, non aveva ancora superato Monte Mario a Roma, cioè il fasto degli edifici di Firenze non aveva ancora oltrepassato quello della città di Roma; forse Dante allude più in generale all'ascesa e poi al declino politico-morale della sua città. Uccellatoio  è quadrisillabo per trittongo.
- Bellincione Berti (v. 112) era il padre della buona Gualdrada  e fu un fiorentino illustre della nobile famiglia dei Ravignani, di cui sappiamo ben poco (visse nel XII sec.). I Nerli e i Vecchietti (Vecchio, v. 115) erano altre famiglie cospicue di parte guelfa, anch'esse contemporanee dell'avo.
- I vv. 118-120 vogliono dire che le antiche donne di Firenze non seguivano i mariti in esilio e non erano abbandonate dagli stessi per andare a commerciare in Francia.
- L'immagine ai vv. 124-126 riprende quella del v. 117 e descrive le donne della Firenze antica intente a filare la lana, come le brave matrone dell'antica Roma; la famiglia è l'insieme dei servi e ad essi la donna fiorentina narrava le antiche storie delle origini della città, da Roma, e attraverso questa, da Troia.
- Cianghella (v. 129) era la figlia di Arrigo della Tosa, che dopo la morte del marito Lito degli Alidosi, imolese, tornò a Firenze e condusse vita dissoluta sino alla morte, avvenuta forse nel 1330; Lapo Salterello era un giurista e poeta contemporaneo di Dante, accusato di brogli e baratteria e che passò alla parte Nera dopo i fatti del 1301-1302 (fu, a quanto pare, uomo di corrotti costumi). A questi due esempi negativi Dante contrappone quelli positivi di Quinzio Cincinnato, il celebre dittatore romano che vinse gli Equi, già ricordato da Giustiniano , e di Cornelia, la figlia di Scipione l'Africano e madre dei Gracchi, esempio di virtù e onestà per le donne di Roma, inclusa tra gli «spiriti magni» del Limbo.
- Il Batisteo  citato al v. 134 è San Giovanni; la forma Batisteo fu usata fino al Cinqucento.
- Secondo alcuni la moglie di Cacciaguida (v. 137) veniva da Ferrara e apparteneva alla famiglia degli Aldighieri.
- Lo 'mperador Currado (v. 139) è certamente Corrado III di Hohenstaufen, che regnò tra 1138-1152 e prese parte alla II Crociata; secondo alcuni commentatori non sarebbe sceso mai in Italia, quindi Dante potrebbe riferirsi a Corrado II il Salico (1024-1039), che però è troppo anteriore a Cacciaguida. Del resto l'avo di Dante poteva essersi unito a lui anche in diversa circostanza e l'espressione dietro li andai non implica che si sia accodato al suo seguito.


TESTO DEL CANTO XV

Benigna volontade in che si liqua 
sempre l’amor che drittamente spira, 
come cupidità fa ne la iniqua,                                           3

silenzio puose a quella dolce lira, 
e fece quietar le sante corde 
che la destra del cielo allenta e tira.                                6

Come saranno a’ giusti preghi sorde 
quelle sustanze che, per darmi voglia 
ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?                         9

Bene è che sanza termine si doglia 
chi, per amor di cosa che non duri,
etternalmente quello amor si spoglia.                          12

Quale per li seren tranquilli e puri 
discorre ad ora ad or sùbito foco, 
movendo li occhi che stavan sicuri,                               15

e pare stella che tramuti loco, 
se non che da la parte ond’e’ s’accende 
nulla sen perde, ed esso dura poco:                             18

tale dal corno che ‘n destro si stende 
a piè di quella croce corse un astro 
de la costellazion che lì resplende;                                21

né si partì la gemma dal suo nastro, 
ma per la lista radial trascorse, 
che parve foco dietro ad alabastro.                                24

Sì pia l’ombra d’Anchise si porse, 
se fede merta nostra maggior musa, 
quando in Eliso del figlio s’accorse.                              27

«O sanguis meus, o superinfusa 
gratia Dei, sicut tibi cui 
bis unquam celi ianua reclusa?».                                  30

Così quel lume: ond’io m’attesi a lui; 
poscia rivolsi a la mia donna il viso, 
e quinci e quindi stupefatto fui;                                        33

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso 
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo 
de la mia gloria e del mio paradiso.                              36

Indi, a udire e a veder giocondo, 
giunse lo spirto al suo principio cose, 
ch’io non lo ‘ntesi, sì parlò profondo;                             39

né per elezion mi si nascose, 
ma per necessità, ché ‘l suo concetto 
al segno d’i mortal si soprapuose.                                42

E quando l’arco de l’ardente affetto 
fu sì sfogato, che ‘l parlar discese 
inver’ lo segno del nostro intelletto,                               45

la prima cosa che per me s’intese, 
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno, 
che nel mio seme se’ tanto cortese!».                          48

E seguì: «Grato e lontano digiuno, 
tratto leggendo del magno volume 
du’ non si muta mai bianco né bruno,                           51

solvuto hai, figlio, dentro a questo lume 
in ch’io ti parlo, mercè di colei 
ch’a l’alto volo ti vestì le piume.                                       54

Tu credi che a me tuo pensier mei 
da quel ch’è primo, così come raia 
da l’un, se si conosce, il cinque e ‘l sei;                        57

e però ch’io mi sia e perch’io paia 
più gaudioso a te, non mi domandi, 
che alcun altro in questa turba gaia.                              60

Tu credi ‘l vero; ché i minori e ‘ grandi 
di questa vita miran ne lo speglio 
in che, prima che pensi, il pensier pandi;                     63

ma perché ‘l sacro amore in che io veglio 
con perpetua vista e che m’asseta 
di dolce disiar, s’adempia meglio,                                 66

la voce tua sicura, balda e lieta 
suoni la volontà, suoni ‘l disio, 
a che la mia risposta è già decreta!».                            69

Io mi volsi a Beatrice, e quella udio 
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno 
che fece crescer l’ali al voler mio.                                  72

Poi cominciai così: «L’affetto e ‘l senno, 
come la prima equalità v’apparse, 
d’un peso per ciascun di voi si fenno,                           75

però che ‘l sol che v’allumò e arse, 
col caldo e con la luce è sì iguali, 
che tutte simiglianze sono scarse.                                78

Ma voglia e argomento ne’ mortali, 
per la cagion ch’a voi è manifesta, 
diversamente son pennuti in ali;                                     81

ond’io, che son mortal, mi sento in questa 
disagguaglianza, e però non ringrazio 
se non col core a la paterna festa.                                 84

Ben supplico io a te, vivo topazio 
che questa gioia preziosa ingemmi, 
perché mi facci del tuo nome sazio».                            87

«O fronda mia in che io compiacemmi 
pur aspettando, io fui la tua radice»: 
cotal principio, rispondendo, femmi.                             90

Poscia mi disse: «Quel da cui si dice 
tua cognazione e che cent’anni e piùe 
girato ha ‘l monte in la prima cornice,                           93

mio figlio fu e tuo bisavol fue: 
ben si convien che la lunga fatica 
tu li raccorci con l’opere tue.                                            96

Fiorenza dentro da la cerchia antica, 
ond’ella toglie ancora e terza e nona, 
si stava in pace, sobria e pudica.                                   99

Non avea catenella, non corona, 
non gonne contigiate, non cintura 
che fosse a veder più che la persona.                         102

Non faceva, nascendo, ancor paura 
la figlia al padre, che ‘l tempo e la dote 
non fuggien quinci e quindi la misura.                         105

Non avea case di famiglia vòte; 
non v’era giunto ancor Sardanapalo 
a mostrar ciò che ‘n camera si puote.                          108

Non era vinto ancora Montemalo 
dal vostro Uccellatoio, che, com’è vinto 
nel montar sù, così sarà nel calo.                                 111

Bellincion Berti vid’io andar cinto 
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio 
la donna sua sanza ‘l viso dipinto;                                114

e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio 
esser contenti a la pelle scoperta, 
e le sue donne al fuso e al pennecchio.                      117

Oh fortunate! ciascuna era certa 
de la sua sepultura, e ancor nulla 
era per Francia nel letto diserta.                                    120

L’una vegghiava a studio de la culla, 
e, consolando, usava l’idioma 
che prima i padri e le madri trastulla;                           123

l’altra, traendo a la rocca la chioma, 
favoleggiava con la sua famiglia 
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.                                  126

Saria tenuta allor tal maraviglia 
una Cianghella, un Lapo Salterello, 
qual or saria Cincinnato e Corniglia.                            129

A così riposato, a così bello 
viver di cittadini, a così fida 
cittadinanza, a così dolce ostello,                                  132

Maria mi diè, chiamata in alte grida; 
e ne l’antico vostro Batisteo 
insieme fui cristiano e Cacciaguida.                            135

Moronto fu mio frate ed Eliseo; 
mia donna venne a me di val di Pado, 
e quindi il sopranome tuo si feo.                                   138

Poi seguitai lo ‘mperador Currado; 
ed el mi cinse de la sua milizia, 
tanto per bene ovrar li venni in grado.                           141

Dietro li andai incontro a la nequizia 
di quella legge il cui popolo usurpa, 
per colpa d’i pastor, vostra giustizia.                             144

Quivi fu’ io da quella gente turpa 
disviluppato dal mondo fallace, 
lo cui amor molt’anime deturpa; 

e venni dal martiro a questa pace».                              148

cacciaguida
Dante e l'avo Cacciaguida di Giovanni di Paolo.

PASRAFRASI CANTO XV

La volontà di fare il bene, in cui si manifesta sempre l'amore ben diretto, così come la cupidigia si manifesta nella volontà malvagia, fece stare in silenzio quella dolce lira e fece acquietare le sante corde che la mano di Dio allenta e tira (i beati interruppero il canto).

Com'è possibile che quelle anime siano sorde alle giuste preghiere, visto che per indurmi a pregarle furono tutte concordi nel tacere?

È giusto che soffra in eterno colui che, per amore di beni effimeri, si priva in eterno dell'amore di Dio.

Come nei cieli tersi e puri all'improvviso passa una stella cadente, attirando lo sguardo che prima era tranquillo, e sembra una stella che si sposti, salvo che nel punto in cui essa si accende non sparisce nessun astro e il fenomeno è di breve durata:

così, dal braccio destro della croce fino alla parte inferiore, si mosse una delle luci che costellavano quella figura;

e la gemma non si separò dal suo nastro, ma percorse il braccio della croce simile a un fuoco dietro una parete di alabastro.

Così devota l'anima di Anchise si mostrò quando vide il figlio Enea nei Campi Elisi, se dobbiamo credere alla nostra maggiore Musa (Virgilio, autore dell'Eneide).

«O mio discendente, o abbondante grazia divina, a chi come a te fu aperta due volte la porta del Cielo?»

Così disse quella luce: allora mi rivolsi al beato; poi rivolsi lo sguardo alla mia donna (Beatrice), e fui stupefatto dell'una e dell'altra visione;

infatti dentro agli occhi di Beatrice ardeva un sorriso tale, che pensai di toccare coi miei occhi il fondo della mia gioia e della mia beatitudine.

Poi, piacevole a vedersi e a udirsi, lo spirito aggiunse a quanto aveva detto altre cose, tanto profonde che non riuscii a capirle;

e non ne celò il senso per sua scelta, ma lo fece necessariamente in quanto il concetto espresso andava ben oltre al limite dell'intelletto umano.

E quando l'arco del suo ardore di carità si fu sfogato fino a scendere al limite della nostra ragione, la prima cosa che compresi fu quando disse: «Benedetto sia tu, o Dio uno e trino, che sei tanto cortese verso il mio discendente!»

Poi continuò: «Tu, o figlio, hai finalmente esaudito in questa luce in cui io ti parlo il gradito e lontano desiderio che avevo tratto leggendo dal gran volume (la mente divina) dove ogni cosa è immutabile, grazie a colei (Beatrice) che ti ha dato le ali per questo alto volo (ti ha condotto fin qui).

Tu credi che il tuo pensiero venga a me da quello divino, così come dall'uno, se lo si conosce, derivano il cinque e il sei;

e dunque non mi chiedi chi sono e perché sembro più felice per la tua presenza, rispetto a chiunque altro in questa beata schiera.

Tu pensi il vero; infatti le anime più e meno beate del Paradiso osservano nello specchio (la mente divina) nella quale, prima ancora che tu pensi, si riflette il tuo pensiero;

tuttavia, affinché l'ardore di carità che io provo sempre grazie alla continua contemplazione di Dio e che mi accende di dolce desiderio si adempia perfettamente, la tua voce sicura, senza incertezze e lieta esprima la tua volontà, faccia risuonare il desiderio al quale la mia risposta è stata già decretata!»

Io mi rivolsi a Beatrice e lei capì prima che parlassi, e mi sorrise con un cenno che fece crescere le ali al mio desiderio.

Poi cominciai a dire: «Il sentimento e l'intelletto, non appena Dio vi apparse, si fecero per voi dello stesso peso, poiché il sole (Dio) che vi illuminò e scaldò è uguale nel suo sapere e nel suo amore, al punto che ogni altra uguaglianza è imperfetta.

Ma sentimento e intelletto nei mortali hanno mezzi ben diversi, per la ragione che vi è nota (l'imperfezione degli uomini);

perciò io, che sono mortale, mi sento in questa insufficienza, dunque ringrazio solo col cuore per la festosa accoglienza.

Ora ti supplico, splendente topazio che sei incastonato in questo prezioso gioiello (la croce), di rivelarmi il tuo nome».

Egli iniziò così a rispondermi: «O mio discendente, in cui mi sono compiaciuto anche solo aspettando, io fui il capostipite della tua famiglia».

Poi proseguì: «Colui dal quale deriva il tuo cognome (Alighiero I) e che gira da più di cent'anni nella I Cornice del Purgatorio, fu mio figlio e il tuo bisnonno: è opportuno che tu abbrevi la sua lunga fatica con le tue preghiere.

(Ai miei tempi) Firenze era ancora racchiusa nell'antica cinta muraria, da dove sente ancora le ore canoniche (dalla chiesa di Badia) e se ne stava in pace, sobria e morigerata.

Le donne ancora non esibivano catenelle, corone, gonne ricamate, cinture che fossero più appariscenti delle persone.

La figlia, nascendo, non faceva ancora paura al padre, poiché l'età delle nozze e l'entità della dote non erano ancora sproporzionate (oggi le ragazze si sposano presto e con dote eccessiva).

Non c'erano palazzi disabitati e vuoti; Sardanapalo non aveva ancora mostrato cosa si può fare in camera da letto (non c'erano costumi sessuali sfrenati).

Monte Mario a Roma non era ancora superato dal vostro monte Uccellatoio, il quale sarà superato sia nel crescere sia nella rapida decadenza (Firenze declinerà in fretta come l'antica Roma).

Io vidi Bellincione Berti indossare una cintura di cuoio e d'osso, e sua moglie allontanarsi dallo specchio senza il viso imbellettato;

e vidi i membri della famiglia Nerli e dei Vecchietti accontentarsi di vesti in pelle, e le loro donne lavorare al telaio.

Oh donne fortunate! ciascuna era certa di morire in patria, e nessuna di loro era abbandonata dal marito che andava a commerciare in Francia.

L'una vegliava con amore il figlio nella culla e, consolandolo, usava il linguaggio infantile che diverte soprattutto i padri e le madri;

l'altra, lavorando al telaio, raccontava alla servitù le antiche leggende dei Troiani, di Fiesole, di Roma.

Allora una Cianghella, un Lapo salterello avrebbe suscitato meraviglia, proprio come ora farebbero Cincinnato e Cornelia.

In una convivenza così pacifica e bella, in una comunità così unita di cittadini, in una così bella dimora mi fece nascere mia madre, invocando Maria nelle grida del parto; e nel vostro antico Battistero di S. Giovanni fui battezzato col nome di Cacciaguida.

Miei fratelli furono Moronto ed Eliseo; mia moglie venne dalla Valpadana, e da lei ebbe origine il tuo cognome, Alighieri.

Poi seguii l'imperatore Corrado III; ed egli mi fece cavaliere, a tal punto gli piacqui con il mio retto operare.

Lo seguii in Terrasanta, contro la malvagità di quella religione (l'Islam) il cui popolo usurpa quei luoghi, a causa della trascuratezza dei pontefici.

Lì quella gente maledetta mi strappò dal mondo fallace (mi uccise), il cui amore svia molte anime; e venni da quel martirio direttamente a questa pace».

battistero
Firenze. Battistero di San Giovanni.


CACCIAGUIDA .
Trisavolo di Dante, di cui si hanno scarse notizie a parte quelle fornite dal poeta stesso. Doveva essere nato alla fine dell'XI sec. a Firenze, da una famiglia di antica nobiltà. Ebbe due figli, Preitenitto e Alighiero, e seguì l'imperatore Corrado III nella Seconda Crociata, durante la quale morì (forse nel 1147) combattendo contro i Musulmani in Terrasanta. Dante lo colloca fra gli spiriti combattenti che si manifestano nel V Cielo del Paradiso, sotto l'influsso di Marte; il personaggio è introdotto nei Canti XV, XVI, XVII e XVIII del Paradiso, in posizione centrale nella Cantica data l'importanza delle parole che rivolgerà al poeta. Nel Canto XV Cacciaguida appare come una delle luci che formano la figura della croce, dalla quale si muove venendo incontro a Dante e rivolgendosi a lui come suo antenato. Il beato non rivela subito il proprio nome, ma dopo alcune parole incomprensibili a Dante egli invita il poeta a domandare liberamente. Dante gli chiede di manifestarsi e Cacciaguida afferma che suo figlio, Alighiero I (bisnonno del poeta) si trova da più di cent'anni nella I Cornice del Purgatorio e prega Dante di pregare per lui. Prosegue poi delineando un quadro idilliaco dell'antica Firenze, città dai costumi austeri e pudichi dove la vita era sobria e operosa, nella quale Cacciaguida nacque e fu battezzato. Dopo aver detto il proprio nome, il beato dichiara che ebbe come fratelli Moronto ed Eliseo e di aver sposato una donna della Valpadana; racconta poi di essere partito per la Crociata, in cui morì per mano di quella gente turpa, giungendo da quel martirio direttamente al Paradiso. Nel Canto XVI Dante chiede all'avo notizie dei suoi antenati, dell'epoca della sua nascita, della popolazione di Firenze e delle più importanti famiglie di quei tempi. Cacciaguida risponde di essere nato nel 1091, nel Sesto di Porta San Pietro (punto centrale della città); a quel tempo la popolazione fiorentina atta alle armi era un quinto di quella coeva a Dante e non c'era commistione tra le famiglie cittadine e quelle del contado, origine di gran parte dei mali della città. Il beato conclude con una carrellata delle principali famiglie fiorentine, accennando al declino e alla fine di alcune di esse. Nel Canto XVII, centrale nella Cantica, Dante chiede infine a Cacciaguida notizie sulla sua vita futura, in particolare dell'esilio che più volte gli è stato predetto in modo oscuro all'Inferno e nel Purgatorio. L'avo risponde spiegando dettagliatamente a Dante le circostanze in cui dovrà lasciare Firenze e il fatto che sarà costretto a cercare il sostegno e la protezione di vari signori. Ben farà Dante a separarsi dagli altri esuli, sconfitti nella battaglia della Lastra, mentre lui troverà rifugio a Verona, presso i Della Scala e in particolare presso Cangrande, che mostrerà presto mirabili virtù. A questo punto Dante è colto da un altro dubbio: se sarà costretto all'esilio e dovrà dipendere dall'aiuto di personaggi potenti, dovrà manifestare tutto ciò che ha visto nel suo viaggio col rischio di attirarsi inimicizie? Del resto, se sarà testimone reticente, teme di non ottenere la fama imperitura. Cacciaguida risponde in modo chiaro, dicendo a Dante che dovrà rivelare ogni cosa, anche se ciò all'inizio dispiacerà a più persone. Il suo ammonimento sarà come un vento che dovrà colpire le cime più alte e ciò sarà un grande titolo di onore; del resto, solo attraverso esempi noti a tutti potrà fissare nella mente dei lettori l'insegnamento affidato al suo poema. Nel Canto XVIII, dopo che Dante ha meditato sulle parole del beato, Cacciaguida gli indica altri spiriti che sono insieme con lui nella croce e che si muoveranno ruotando. L'avo nomina Giosuè, Maccabeo, Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d'Orange, Renoardo, Goffredo di Buglione e Roberto Guiscardo. Infine anche Cacciaguida si muove e si unisce, cantando, agli altri spiriti.

AUDIO

Eugenio Caruso - 20 - 09 - 2021

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