Omero, Iliade, Libro XI. Gli Achei in difficoltà.
Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo. Seneca L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto. Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito. RIASSUNTO XI LIBRO La Discordia alza il grido di guerra. Agamennone fa armare e conduce alla battaglia le schiere. Pugna dubbiosa da prima. Agamennone prevale. Giove spedisce Iride a Ettore per ordinargli di starsi in disparte finchè non vegga Agamennone ritirarsi ferito alle navi. Morte d’Ifidamante e di Coone. Prodezze di Ettore, visto Agamennone ferito. Diomede e Ulisse gli si oppongono. Paride ferisce Diomede che è costretto a ritirarsi. Ulisse circondato dai troiani, li rispinge da sè. Uccide Soco, da cui era stato ferito. È protetto da Aiace e condotto da Menelao fuori della mischia. Macaone, ferito da Paride, viene ricondotto da Nestore nella sua tenda. Ettore sbaraglia il campo greco, mentre in altra parte Aiace fa strage di Troiani. Ritirata di Aiace. Achille, parendogli di vedere Macaone che parta ferito, manda Patroclo il quale s’accerti chi sia quell’eroe. Patroclo, abboccatosi con Nestore, è da lui pregato a tentare d’indurre Achille a combattere pei Greci, o ad acconsentire almeno ch’egli stesso venga rivestito delle armi dell’amico in loro soccorso. Patroclo, ritornando, scontrasi in Euripilo ferito da Paride, lo mena alla sua tenda e ne medica la piaga. TESTO LIBRO XI Aurora si alzava dal suo letto, a fianco del nobile Titone, 1 per portare la luce agli uomini e agli immortali Zeus allora mandò alle rapide navi degli Achei la tremenda Eris, con in mano un segnale di guerra. Si piantò accanto alla nave nera, dal vasto ventre, di Odisseo: 5 era proprio al centro, per farsi sentire da una parte e dall’altra, dalle tende di Aiace Telamonio sino a quelle di Achille (i due che avevano tratto in secco le navi bilanciate agli estremi del campo, fidando nel proprio valore e nella loro forza). In piedi lassù, la Dea lanciò un urlo potente, spaventoso, 10 acutissimo: mise nel petto degli Achei l’energia e la forza (nel cuore di ognuno) per combattere e lottare. A un tratto, per loro la battaglia era più dolce del ritorno sulle concave navi nella terra dei padri. L’Atride allora levò un grido e diede ordine agli Argivi 15 di cingere le armi: anche lui indossò il fulgido bronzo. Prima si mise intorno alle gambe gli schinieri eleganti: se li allacciava con fibbie d’argento. Quindi, vestì la corazza sul suo petto: gliela aveva data un giorno Cinira quale dono ospitale. 20 Aveva appreso la grande notizia, giunta fino a Cipro, che gli Achei stavano per salpare con la flotta alla volta di Troia: allora, per fare cosa gradita al sovrano, gliene fece dono; era placcata a strisce, dieci di smalto scuro, dodici d’oro e venti di stagno; 25 serpenti di smalto si inarcavano sino al collo: erano tre sul petto e tre sul dorso, come arcobaleni che il Cronide posa immobili tra le nubi, come segno augurale per i mortali; poi si appese la spada a tracolla: vi splendevano sopra borchie d’oro, intorno alla lama un fodero 30 d’argento, attaccato a pendagli d’oro. Prese lo scudo ampio, robusto, ben lavorato: era bellissimo; aveva dieci cerchi di bronzo, sopra c’erano venti placche di stagno, tutte bianche: al centro ce n’era una di smalto nero. 35 Sulla superficie era raffigurata la Gorgone dallo sguardo tremendo: e intorno Deimos e Fobos; vi era attaccata una cinghia d’argento e intorno snodava le sue spire un serpente di smalto con tre teste attorcigliate che uscivano da un unico collo. 40 Sul capo si mise un elmo a doppio cimiero con quattro borchie, con una criniera di cavallo: la cresta oscillava paurosamente sull’elmo. Afferrò due lance robuste dalla punta di bronzo, ben aguzze: il metallo mandava i bagliori lontano, fino al cielo. Hera e Atena tuonarono, 45 per rendere onore al re di Micene. Allora ogni eroe dava ordine al suo auriga di tenere in ordine i cavalli, non lontano dal fossato; i fanti, armati da capo a piedi, con le corazze in petto, accorrevano: prima dell’alba un grande clamore si levò. 50 Si schierarono lungo il fossato, molto avanti ai carri; i carri venivano a breve distanza. Il Cronide fece risuonare un boato tremendo e mandò giù dall’alto del cielo una pioggia intrisa di sangue, perché doveva sprofondare nell’Ade molte anime di guerrieri. 55 I Troiani dall’altro lato, sulla parte alta della pianura, stavano intorno al grande Ettore, al perfetto Polidamante, ad Enea, che i Troiani veneravano come un Dio, ai tre figli di Antenore: Polibo, il divino Agenore e il giovane Acamante simile agli immortali. 60 In prima fila Ettore reggeva lo scudo ben bilanciato; come, fuori dalle nubi, appare l’astro maligno (tutto splendente) e poi sprofonda nelle nuvole ombrose: così lui appariva a volte tra le prime file dei soldati, a volte tra le ultime, a dare ordini. Il bronzo 65 brillava come la folgore del padre Zeus Egioco. Come i mietitori, gli uni di fronte agli altri, avanzano seguendo il solco, nel campo di frumento o di orzo del ricco padrone (cadono fitti i mannelli); così i Troiani e gli Achei si avventavano addosso, 70 si massacravano, non pensavano alla fuga. L’esito della battaglia era incerto; come lupi i due eserciti infuriavano. Eris luttuosa godeva a quella vista: lei sola, tra tutti gli Dei, stava in mezzo ai combattenti. Gli altri invece non erano presenti, ma se ne stavano 75 in pace nelle loro stanze, dove ciascuno aveva il suo bel palazzo costruito tra le valli dell’Olimpo. E tutti accusavano il Cronide, il dio delle nuvole nere, di voler concedere ai Troiani la gloria. Ma il padre non se ne curava: in disparte, tutto solo, 80 era seduto lontano dagli altri, fiero della sua potenza; contemplava la città dei Troiani e le navi degli Achei: il bagliore del bronzo, quelli che uccidevano e che morivano. Fino a quando era mattino e cresceva il sacro giorno, da entrambe le parti i dardi partivano e gli uomini morivano; 85 giunta l’ ora in cui il boscaiolo si prepara il pasto fra le gole della montagna (si è stancato le braccia a tagliare alberi altissimi, è molto affaticato e lo prende il desiderio del cibo ristoratore) ecco che i Danai grazie al loro valore ruppero le linee nemiche, 90 urlando tra i ranghi per incitarsi; tra di loro Agamennone andò per primo all’assalto: uccise Bienore pastore di popoli e poi il suo compagno Oileo, l’auriga; questi era saltato giù dal carro e l’aveva affrontato: ma lui lo colpì mentre gli si avventava contro, in mezzo alla fronte, 95 con la lancia aguzza: l’elmo pesante di bronzo non resse l’urto; l’asta trapassò l’elmo e l’osso: dentro, il cervello si spappolava tutto; così l’uomo venne abbattuto nel suo slancio. Agamennone sovrano di popoli li lasciò lì entrambi, con il petto nudo biancheggiante, dopo aver preso le tuniche. 100 Poi si mosse per uccidere Iso e Antifo: erano due figli di Priamo, uno legittimo e l’altro bastardo, e stavano entrambi sullo stesso carro; il bastardo reggeva le briglie, il glorioso Antifo combatteva al suo fianco. Un giorno Achille li aveva legati tra le gole dell’Ida con giunchi pieghevoli, 105 cogliendoli di sorpresa a pascolare le pecore: poi li lasciò liberi dietro riscatto. Il figlio di Atreo, il potente Agamennone, ne colpì uno in pieno petto con la lancia, sopra la mammella; ferì Antifo con un fendente vicino all’orecchio, lo buttò giù dal carro. Si affrettò poi a spogliarli delle belle armature, 110 nel riconoscerli: li aveva già veduti presso le rapide navi, quella volta che, dal monte Ida, li portò Achille dal piede veloce. Come un leone stritola con facilità i cuccioli di un’agile cerva, nella stretta dei denti robusti, non appena entra nella tana e toglie loro la gracile vita: 115 ed essa non può aiutarli, anche se è lì vicino, perché un tremito terribile la invade; balza via veloce attraverso le fitte boscaglie e la selva, tutta sudata, affannata, sotto la furia della belva invincibile; così nessuno poteva evitare la loro rovina, 120 tra i Troiani: tutti fuggivano sotto l’urto degli Argivi. Quindi toccò a Pisandro e all’intrepido Ippoloco, figli del bellicoso Antimaco (costui, più di ogni altro, avendo preso oro da Alessandro – splendidi doni — si opponeva alla restituzione di Elena al biondo Menelao); 125 il sovrano Agamennone piombò addosso ai suoi figli: stavano sullo stesso carro e cercavano insieme di tenere i cavalli veloci poichè erano sfuggite loro di mano le lucide briglie; le bestie si inalberavano. Come un leone balzò loro addosso il figlio di Atreo; loro lo supplicavano dal carro: 130 “Prendici vivi, figlio di Atreo! Accetta un giusto riscatto! Ci sono tanti tesori nella casa di Antimaco, oro e bronzo e ferro ben lavorato. Nostro padre ti darà un immenso riscatto per liberarci, se sa che siamo ancora in vita presso le navi degli Achei”. 135 Così piangendo i due si rivolgevano al re con dolci parole. Ma ebbero una risposta dura: “Voi siete dunque i figli del bellicoso Antimaco, che un giorno, nell’assemblea dei Troiani, diceva che Menelao (quando venne in ambasciata con il grande Odisseo) 140 doveva essere ucciso e che non doveva tornare dagli Achei! Adesso pagherete l’infame oltraggio di vostro padre!”. Così disse e spinse Pisandro giù dal carro, a terra, con un colpo di lancia nel petto: lui stramazzò al suolo. Ippoloco allora saltò giù ma Agamennone lo uccise: 145 gli tagliava le mani con la spada; gli mozzava il collo, facendoglielo rotolare come un rullo, in mezzo alla folla. Lo lasciò lì e, dove le schiere si battevano più fitte, lui accorreva; e con lui gli altri Achei dai solidi schinieri: i fanti facevano strage dei fanti, costretti alla fuga, 150 i cavalieri uccidevano i cavalieri; sotto di loro, s’innalzava la polvere del piano, sollevavata dai piedi risuonanti dei cavalli: con le armi di bronzo facevano strage. Agamennone sovrano si buttava all’inseguimento, trucidava, esortava gli Argivi. Come quando un fuoco distruttore si abbatte su una selva vergine, 155 il vento vorticoso lo espande dappertutto, le piante cadono di schianto, investite dalla furia dell’incendio; Così sotto l’assalto dell’Atride Agamennone cadevano le teste dei Troiani in fuga, molti cavalli superbi trascinavano i carri vuoti per il campo di battaglia, 160 privi dei loro aurighi. Essi giacevano sul terreno, più cari ormai ai rapaci che alle mogli. Ma Zeus proteggeva Ettore dalla frecce e dalla polvere, dal massacro degli uomini, dal sangue e dal trambusto; l’Atride inseguiva implacabile, incitava i Danai. 165 I Troiani nel piano andarono oltre il monumento sepolcrale di Ilo, l’antico Dardanide, e ancora oltre il caprifico, puntando verso la città. Con alte grida incalzava l’Atride, si lordava di sangue le mani invincibili. Ma quando giunsero alla quercia delle porte Scee, 170 allora si fermarono e aspettarono gli altri. Altri fuggivano spaventati nella piana: sembravano giovenche che un leone, uscito nel cuore della notte, fa scappare tutte insieme: a una sola però tocca una morte terribile: le spezza il collo, con la stretta dei denti robusti, 175 per prima cosa, poi ne divora il sangue e le viscere; così dava addosso l’Atride Agamennone sovrano, uccidendo sempre chi rimaneva indietro; gli altri scappavano. Molti caddero giù dai carri, riversi o supini, sotto i colpi dell’Atride: imperversava con la lancia. 180 Ma quando stava per raggiungere la città, sotto le alte mura, allora il padre degli uomini e degli Dei si mise a sedere in vetta all’Ida ricca di sorgenti, sceso dal cielo: teneva la folgore in mano. Subito inviava Iris dalle ali d’oro con un messaggio: 185 “Vai, rapida Iris, e riferisci a Ettore il mio volere! Fino a quando vede Agamennone signore di popoli infuriare tra le prime file e trucidare schiere di guerrieri, lui si tiri indietro e dia ordine agli altri guerrieri di combattere con i nemici nella battaglia cruenta. 190 Ma quando sarà ferito da una lancia o da una freccia e salirà sul suo cocchio, allora io gli darò la forza di fare strage, finché arriverà alle solide navi, quando il sole tramonterà e sopraggiungerà la notte sacra”. Così parlava e prontamente obbedì la rapida Iris dai piedi di vento, 195 si avviò giù dalle cime dell’Ida verso la sacra Ilio. Qui trovò il figlio del saggio Priamo, il divino Ettore, in piedi sul suo solido carro, con i cavalli davanti. Iris dai celeri piedi gli si mise vicino e parlò: “Ettore, figlio di Priamo, pari a Zeus in saggezza: 200 il padre Zeus mi ha mandato qui a dirti queste parole: fino a quando vedi Agamennone signore di popoli infuriare tra le prime file e trucidare schiere di guerrieri, tirati indietro e dai ordine agli altri guerrieri di combattere con i nemici nella battaglia cruenta. 205 Ma quando sarà ferito da una lancia o da una freccia e salirà sul suo cocchio, allora lui ti darà la forza, di fare strage, finché arriverai alle solide navi, quando il sole tramonterà e sopraggiungerà la notte sacra”. Così disse Iris dai piedi veloci; e se ne andò via. 210 Ettore allora saltò giù dal carro a terra, armi in pugno: brandendo due lance aguzze correva in mezzo al campo, incitava a combattere: voleva risvegliare la dura lotta. Quelli si rigirarono e fecero fronte agli Achei: gli Argivi, dall’altro lato, serrarono le file. 215 Si riaccese lo scontro, i due eserciti si fronteggiavano. Agamennone andò per primo all’assalto, ben deciso a battersi davanti a tutti. Ditemi ora, o Muse che avete le case sull’Olimpo, chi fu il primo a muovere incontro ad Agamennone, fra i Troiani e i loro famosi alleati. 220 Era Ifidamante, figlio di Antenore, valoroso e di grande statura, che era cresciuto nella fertile Tracia, madre di greggi. L’aveva allevato nel suo palazzo, da piccolo, il nonno Cisse, padre di Teanò dalle belle guance; quando poi raggiunse il pieno della splendida giovinezza, 225 lo trattenne presso di sè e gli diede in moglie sua figlia. Ma lui, appena sposato, lasciò il talamo, dopo la venuta degli Achei: dodici navi ricurve lo seguivano; Lasciò poi a Percote le sue navi ben bilanciate e giunse via terra sino ad Ilio: 230 ed era proprio lui che affrontò l’Atride Agamennone. Avanzarono uno verso l’altro, erano ormai vicini: l’Atride fallì il colpo, la lancia deviò di lato. Ifidamante invece lo colpì al di sotto della corazza, alla cintura, poi spinse con il braccio, sicuro della sua forza. 235 Non riuscì a forare la cinta variegata, la punta molto prima si piegò come piombo nell’urtare l’argento. Allora il potente Agamennone afferrò l’arma con la mano
e la tirò verso di sé, furioso come un leone: gliela strappò di mano. Poi con la spada lo colpì al collo e gli sciolse le membra. 240 L’altro cadde giù steso, addormentandosi in un sonno di bronzo (l’infelice!). Era lì per difendere i suoi concittadini, lontano dalla sposa, giovinetta ancora. Non poté goderne, anche se aveva fatto i doni nuziali: prima aveva dato per lei cento buoi, poi aveva promesso altri mille capi, tra pecore e capre, che possedeva in numero immenso. 245 Quel giorno l’Atride Agamennone lo spogliò, e si portò via le belle armi, tra la folla degli Achei.
Quando lo vide Coone, glorioso tra gli uomini, il più anziano dei figli di Antenore, un violento dolore gli offuscò la vista: era morto suo fratello! 250 Si appostò di lato con la sua lancia, di nascosto dal divino Agamennone, e lo ferì in mezzo al braccio, al di sotto del gomito. La punta dell’asta lucente lo passò da parte a parte. Rabbrividì allora Agamennone, signore di popoli, ma neppure così si ritirò dalla lotta e dalla battaglia: 255 anzi assaltò Coone con la sua lancia di legno indurito dai venti. Lui stava trascinando per un piede Ifidamante, fratello anche per parte di padre, e chiamava in aiuto i più prodi. Mentre lo tirava attraverso la calca, sotto lo scudo ombelicato, l’altro lo ferì con l’asta dalla punta di bronzo e gli ruppe le membra; 260 poi si accostò e gli mozzò la testa sopra il corpo di Ifidamante. Così allora i due figli di Antenore, per mano dell’Atride sovrano, compivano il loro destino e sceserò così nella casa di Ade. Il sovrano si avventava sulle schiere degli altri combattenti con la lancia, con la spada e con grossi macigni, 265 finchè il sangue gli sgorgava caldo dalla ferita. Ma poi la piaga si asciugò e il sangue finì di colare: allora strazianti dolori fiaccarono la forza dell’Atride. Come quando una donna, tra le doglie, è presa da una freccia aguzza, lancinante, che mandano le Ilitie, le Dee del parto 270 (sono figlie di Hera e portano amari travagli), così acuti erano i dolori che fiaccavano la forza dell’Atride. Saltò allora sul carro e diede ordine all’auriga di correre verso le navi ricurve: sentiva un grande dolore. Intanto gridava forte, facendosi udire dai Danai: 275 “Amici, condottieri e capi degli Argivi, difendete ora voi ora le navi che solcano il mare dal tremendo assalto. Il sapiente Zeus non mi ha concesso di combattere i Troiani l’intera giornata”. Così disse. L’auriga frustò i cavalli 280 verso le navi ricurve: ed essi di buona lena presero il volo; avevano la schiuma sino al petto, sotto si insozzavano di polvere portando lontano dalla battaglia il re dolorante. Ettore, quando vide che Agamennone andava via, spronava Troiani e Lici, gridando a voce spiegata: 285 “Troiani e Lici e voi Dardani combattenti: siate uomini, amici, e pensate all’aspra lotta! Se ne è andato il guerriero più valoroso; Zeus Cronide mi ha promesso un grande trionfo. Spingete i cavalli contro i Danai, se volete acquistare onore e gloria”. 290 Così diceva ed acuiva l’energia e il coraggio di ciascuno. Come quando un cacciatore aizza i suoi cani contro un cinghiale selvaggio o un leone: così contro gli Achei aizzava i Troiani animosi Ettore figlio di Priamo, simile ad Ares sterminatore. 295 Egli stesso avanzava tra le prime file, baldanzoso e superbo, e piombò nella mischia: sembrava una tempesta di vento, che abbatte dall’alto e sconvolge il mare violaceo. Chi uccise per primo, a chi tolse le armi da ultimo Ettore il Priamide, quando Zeus gli concesse gloria? 300 Il primo fu Aseo, poi Autonoo e Opite; e Dolope figlio di Clito, Ofelzio e Agelao; quindi Esimno e Oro e l’intrepido Ipponoo. Questi i capi dei Danai che lui uccise: poi si lanciava sulla massa; come quando Zefiro disperde le nubi addensate 305 dall’impetuoso Noto, investendole con raffiche profonde; le onde gonfie si agitano, sull’onda la schiuma si espande sotto il fischiare del vento errante: fitte così cadevano le teste dei guerrieri per mano di Ettore. Allora avvenne uno sterminio, un disastro irreparabile; 310 gli Achei si sarebbero buttati in fuga sulle navi, se Odisseo non avesse gridato al Tidide Diomede: “Tidide, cosa succede? Non sappiamo più batterci? Vieni qui, mio caro: stammi vicino; sarebbe un’infamia, se Ettore riuscisse a prendere le navi”. 315 A lui rispose di rimando il forte Diomede: “Sono pronto a resistere e a tenere duro. Ma per poco avremo da star allegri. Lo vedi, Zeus adunatore di nembi vuole dare la vittoria ai Troiani e non a noi”. Così disse e gettò Timbreo a terra, giù dal carro, 320 con un colpo di lancia alla mammella sinistra; Odisseo uccideva il suo scudiero Molione, simile a un Dio. Dopo averli messi fuori combattimento, li lasciarono lì; avanzarono insieme nella turba nemica; come quando due cinghiali si lanciano orgogliosi contro i cani da caccia: 325 così, nel tornare all’attacco, facevano strage di Troiani. Gli Achei, in rotta davanti al grande Ettore, riprendevano fiato, con gioia. I due presero un carro e due guerrieri, i più prodi del loro paese: erano i figli di Merope, nato a Percote, che più di ogni altro conosceva l’arte dell’indovino; non voleva che i suoi ragazzi 330 andassero alla guerra omicida; ma questi nonvgli diedero retta; li trascinava il destino della nera morte. Il Tidide Diomede, famoso per i suoi tiri di lancia, li privò del respiro e della vita, e li spogliò delle armi; Odisseo uccise Ippodamo e Ipeiroco. 335 Allora il Cronide ristabilì l’equilibrio nello scontro: stava a guardare dall’Ida, mentre si trucidavano a vicenda. Ecco, il figlio di Tideo con l’asta colpì sull’anca Agastrofo, l’eroe figliolo di Peone: non aveva lì vicino i suoi cavalli, per fuggire via; era stato davvero un folle. 340 Glieli teneva in disparte il suo scudiero, mentre lui a piedi si slanciava con impeto tra i primi. E così perse la vita. Li vide chiaramente Ettore tra le file e balzò avanti gridando: insieme a lui venivano le schiere dei Troiani. A vederlo, Diomede possente nel grido di guerra rabbrividì; 345 subito disse a Odisseo che gli stava accanto: “Una rovina ci precipita addosso: è il gagliardo Ettore. Resistiamo e teniamogli testa, saldamente!”. Così disse e, palleggiando l’asta dalla lunga ombra, la scagliò e lo colpì senza sbagliare, mirando alla testa, 350 in cima all’elmo. Ma il bronzo fu respinto dal bronzo, non raggiunse il bel volto. L’elmo a tre strati fermò il colpo: aveva un pennacchio e una visiera; glielo aveva dato Febo Apollo. Ettore allora corse lontano, si mescolò nella turba; si fermò, cadde in ginocchio, si appoggiò a terra 355 con la robusta mano. La notte oscura gli calò sugli occhi. Mentre il Tidide correva dietro al volo della sua asta, distante dalle prime file, dove si era conficcata al suolo, Ettore riprese a respirare: balzò sul cocchio e si spinse tra la folla. Sfuggiva così al nero destino di morte. 360 Lo inseguiva, con la lancia in pugno, il forte Diomede: “Sei scampato alla morte ancora una volta, cane! Ma la sventura era vicina! Anche ora ti ha salvato Febo Apollo. Lo devi pregare spesso, quando affronti le lance! Ma prima o poi ti ucciderò, se ti incontro, 365 se è vero che anche io ho un Dio che mi protegge. Ora mi getterò addosso agli altri, chiunque mi capiti”. Così disse e spogliò delle armi il valoroso figlio di Peone. Intanto Alessandro, lo sposo di Elena, tendeva l’arco contro il Tidide signore di popoli: 370 era appoggiato a una colonna, accanto al monumento sepolcrale di Ilo Dardanide, l’antico patriarca del popolo. L’uno stava togliendo dal petto del forte Agastrofo la corazza ben lavorata (dalle spalle toglieva lo scudo e il pesante elmo). L’altro incoccò l’arco 375 e scagliò il dardo: non andò a vuoto, ma colpì la pianta del piede destro: passò da parte a parte e si conficcò in terra. Quello, ridendo allegramente, saltò fuori dal suo nascondiglio, e vantandosi diceva: “Sei ferito! La freccia non è partita a vuoto. Magari 380 ti avessi raggiunto al basso ventre e tolto la vita! Così anche i Troiani avrebbero ripreso fiato dopo tanti guai, invece di tremare come capre belanti di fronte al leone”. A lui rispose, senza turbarsi, il forte Diomede: “Sei solo un arciere vigliacco, effemminato e con i capelli ricci. 385 Se mi sfidassi a duello, faccia a faccia, non ti servirebbero né l’arco né la provvista di frecce. Ti vanti tanto per un graffio al piede! Non importa! È come il colpo di una donnicciola o di un ragazzino: è spuntato il dardo di un guerriero vile e buono a nulla. 390 Ben diversa, anche se ti sfiora appena, è la punta dell’arma che scaglio io: e subito uccide un uomo; così sua moglie ha le guance graffiate, i suoi figli rimangono orfani; la terra è rossa di sangue e marcisce: attorno vi sono più rapaci che donne!”. 395 Così disse. Odisseo, glorioso per la lancia, gli venne vicino e gli si piantò davanti. L’eroe si sedette a terra e si tirò fuori dal piede il dardo acuto: un dolore straziante gli attraversava la carne. Saltò allora sul carro e diede ordine all’auriga di correre verso le navi ricurve: si sentiva affranto. 400 Rimase solo Odisseo, glorioso per la lancia: nessuno degli Argivi gli restava accanto, tutti erano presi dal panico; Turbato, parlò al suo stesso cuore magnanimo: “Misero me, che mi succede? È un grosso guaio, se scappo per paura della folla. Ma sarà ancor peggio, se mi faccio 405 prendere da solo: gli altri Danai li ha messi in rotta il Cronide”. Perché mi lascio andare a questi pensieri? Lo so bene che sono i vigliacchi a fuggire dalla guerra. Chi è prode in battaglia, ha il dovere di resistere con forza, sia che ferisca sia che rimanga ferito”. 410 Mentre meditava queste cose nell’animo e nel cuore, le schiere dei Troiani armati di scudi piombarono su di lui e lo chiusero in mezzo: ma si mettevano nei guai! Come quando cani e giovani robusti si muovono in fretta, accerchiano un cinghiale: questo sbuca dal folto della boscaglia, 415 arrotando le bianche zanne tra le mascelle ricurve; gli saltano addosso e nel mezzo si leva uno stridore di zanne, ma loro sono pronti ad affrontarlo, anche se terribile. Così allora avanzavano, per circondare Odisseo caro a Zeus, i Troiani; quello colpì per primo, colpì in cima alla spalla 420 l’irreprensibile Deiopite, balzando con la lancia appuntita; subito dopo uccise Toone e Ennomo; quindi colpì Chersidamante che balzava giù dal carro: lo trafisse alla vita, con l’asta, sotto lo scudo ombelicato: l’uomo crollò nella polvere mentre ghermiva la terra con le dita; 425 lo lasciò lì e ferì con la lancia Carope figlio di Ippaso e fratello germano del ricco Soco. Soco, simile a un Dio, partì di scatto alla riscossa, andò a piantarsi vicino all’altro e disse: “Odisseo glorioso, maestro di inganni e di imprese! 430 Oggi trionferai sui due figli di Ippaso, uccidendo noi valorosi e togliendoci le armi, oppure perderai la vita sotto i colpi della mia lancia”. Così diceva e lo colpì sullo scudo ben bilanciato; la lancia gagliarda atraversò il lucido scudo 435 e si conficcò nella corazza ben cesellata: gli tagliò via di netto la pelle del fianco; Pallade Atena non lasciò entrare l’arma nelle viscere dell’eroe. Odisseo sentì che il colpo non era giunto in una parte vitale; si ritrasse indietro e rivolse a Soco queste parole: 440 “Sventurato! Ora sì che per te è la fine. Mi hai fatto smettere di battagliare contro i Troiani: ma posso dirti che la morte e il nero destino ti toccheranno proprio oggi, atterrato dalla mia lancia. Darai a me il vanto e l’anima ad Ade”. 445 Così disse. L’altro si era già voltato indietro e fuggiva; era girato e Odisseo divino gli piantò la lancia nella schiena, proprio in mezzo alle spalle, e gliela cacciò dentro nel petto: crollò a terra con un tonfo; Odisseo divino levò un grido di trionfo: “Soco, figlio del battagliero Ippaso, 450 ti ha sorpreso il destino di morte, non sei riuscito a evitarlo. Sventurato! A te né il padre né la nobile madre chiuderanno gli occhi da morto; ma ti strazieranno invece gli uccelli rapaci, sbattendo le folte ali. A me invece, se muoio, gli Achei renderanno gli onori”. 455 Così disse; e la robusta lancia del bellicoso Soco tirò via dalla carne e dallo scudo ombelicato: una volta tirata ne uscì fuori il sangue; era uno strazio. I coraggiosi Troiani, quando videro il sangue di Odisseo, si incitarono a vicenda nella calca e avanzarono contro di lui. 460 Egli indietreggiava e gridava aiuto ai suoi. Tre volte allora gridò con quanto fiato aveva in corpo, per tre volte udì il suo appello il bellicoso Menelao. E subito diceva ad Aiace che gli stava a fiasnco: “Aiace Telamonio, discendente di Zeus, signore di popoli: 465 è giunta al mio orecchio la voce del tenace Odisseo. Sembra che sia tagliato fuori e che gli stiano addosso i Troiani dopo averlo isolato, in una violenta mischia. Facciamoci largo nella calca: è meglio dargli una mano. Ho paura che possa soccombere, solo in mezzo ai Troiani, 470 anche se è un prode. Sarebbe una perdita enorme per i Danai”. Così disse e andò avanti; l’altro lo seguiva, l’eroe simile a un Dio. Trovarono ben presto Odisseo caro a Zeus. Lo attorniavano i Troiani e lo premevano. Sembravano sciacalli sanguinari, sui monti, attorno a un cervo dalle enormi corna: un uomo lo ha ferito, 475 tirandogli una freccia con l’arco; lui è scappato di corsa, va fuggendo finché il sangue è caldo e si muovono le sue ginocchia. Ma quando il rapido dardo lo sfinisce, gli sciacalli voraci se lo sbranano sui monti, dentro una selva ombrosa. Ma per sorte arriva lì un leone 480 feroce: si disperdono gli sciacalli e lui si mangia la preda. Così allora, intorno a Odisseo battagliero e scaltro, accorrevano numerosi e gagliardi i Troiani. L’eroe attaccava con la sua lancia e teneva lontano il giorno fatale. Aiace gli venne accanto portando lo scudo come una torre 485 e si mise al suo fianco: i Troiani scappavano, alla rinfusa. Allora il bellicoso Menelao lo condusse fuori dalla mischia, tenendolo per il braccio, finché il suo scudiero non accostò il carro. Aiace intanto si avventava contro i Troiani: uccise Doriclo, figlio bastardo di Priamo, poi ferì Pandoco; 490 ferì anche Lisandro, Piraso e Pilarte. Come quando un fiume in piena scende giù a valle, impetuoso dai monti, rigonfio della pioggia di Zeus: porta via molte querce secche e molti pini, butta in mare una grande quantità di fango; 495 così lo splendido Aiace entrò in campo, attaccando e massacrando cavalli e guerrieri; Ettore ancora non sapeva niente: combatteva sul lato sinistro della mischia, lungo le rive del fiume Scamandro, dove più fitte cadevano le teste degli eroi; un grido immenso si levava 500 intorno al grande Nestore e al prode Idomeneo. Ettore era laggiù e faceva prodezze con la sua lancia e la sua abilità con il carro; sterminava schiere di giovani. Gli Achei divini non avrebbero certo perso terreno, se Alessandro, il marito di Elena, 505 non avesse bloccato Macaone sovrano, che si batteva tra i primi, colpendolo alla spalla destra con una freccia a tre punte. Gli Achei allora, anche se furenti, ebbero paura per lui (temevano che lo catturassero e che la guerra volegesse al peggio). Subito Idomeneo disse a Nestore: 510 “Nestore, figlio di Neleo, grande gloria degli Achei, presto! Monta sul tuo carro, fai salire vicino a te Macaone; guida di corsa i cavalli sino alle navi! Un guaritore, lo sai bene, conta più degli altri, quando c’è da estrarre dardi o spalmare farmaci curativi”. 515 Così disse. Subito acconsentì Nestore Gerenio, condottiero di carri. Montò subito sul suo cocchio, accanto a lui saliva Macaone, figlio di Asclepio il perfetto guaritore; frustò i cavalli e quelli di buona lena volarono sino alle navi ricurve: non vedevano l’ora di arrivare. 520 Cebrione vide lo scompiglio tra i Troiani: stava sul carro al fianco di Ettore e disse queste parole: “Ettore, noi due stiamo qui a batterci con i Danai all’estremità del campo; ma gli altri Troiani sono messi in rotta e sono nel panico: uomini e cavalli. 525 Aiace Telamonio li sbaraglia, lo riconosco bene. Ha sulle spalle il grande scudo. Via, dirigiamo anche noi i cavalli da quella parte! È lì che con rabbia fanti e cavalieri sostengono una lotta spietata, vanno massacrandosi a vicenda. Un grido immenso si leva”. 530 Così disse e sferzò i cavalli con la frusta schioccante. Nel sentire il colpo, essi condussero il carro veloce in mezzo ai Troiani e agli Achei, calpestando cadaveri e scudi insieme. L’asse di sotto era tutto imbrattato di sangue e così le fiancate intorno al carro, 535 schizzavano spruzzi dagli zoccoli degli animali e dai cerchi delle ruote. Ettore bramava di gettarsi nella mischia dei combattenti, di sfondarla di slancio; mise scompiglio tra i Danai, tremendo, non temeva le lance. Poi si aggirava tra le file degli altri guerrieri, 540 a battersi con l’asta, con la spada e con grossi macigni. Evitava di scontrarsi con Aiace Telamonio. […] Ma Zeus, altissimo padre, suscitò paura in Aiace; rimase lì attonito, si mise sulle spalle lo scudo dai sette strati 545 e prese a fuggire; guardava i suoi, sembrava una belva. Si voltava di tanto in tanto indietro, muoveva appena le ginocchia. Come un leone focoso che dal recinto dei buoi viene scacciato via dai cani e dalla gente dei campi; non gli lasciano predare le grasse bestie, 550 perché vegliano tutta la notte; lui brama la carne, si lancia all’assalto, ma inutilmente: tanti sono i giavellotti che gli volano contro, tirati da braccia ardite; tante le torce accese di cui ha il terrore, anche se è furioso; sul far del giorno se ne va lontano con la tristezza in cuore. 555 Così un avvilito Aiace veniva via dai Troiani, di malavoglia; temeva per le navi degli Achei. Come quando un asino presso un campo disobbedisce ai ragazzi, caparbio; molti bastoni gli vengono rotti sulla schiena, ma lui va dentro il campo a divorare la folta messe: i fanciulli 560 lo picchiano con i legni, ma la loro furia è vana: riescono a scacciarlo a fatica, dopo che si è saziato di grano. Così allora il grande Aiace, il figlio di Telamone, dagli animosi Troiani e dagli alleati numerosi veniva inseguito e colpito con le aste sullo scudo. 565 Ogni tanto Aiace ritrovava la furia guerresca, si rigirava all’improvviso e tratteneva le schiere dei Troiani domatori di cavalli: ora invece tornava a fuggire. Ma a tutti impediva di avanzare verso le navi, da solo imperversava tra Troiani e Achei: 570 teneva loro testa. Dalle lance tirate da braccia ardite, alcune andavano a segno e si conficcavano nello scudo, altre finivano a mezza strada senza sfiorargli la bianca pelle; altre si piantavano al suolo, avide di assaggiare carne. Ma appena lo vide lo splendido figlio di Evemone, 575 Euripilo, mentre era bersagliato da una tempesta di colpi, andò a mettersi al suo fianco e scagliò la lucida lancia: colpì Apisaone figlio Fausiade, signore di popoli, al fegato (sotto il diaframma); subito gli sciolse le ginocchia, balzò avanti e gli tolse di dosso l’armatura. 580 Ma lo vide Alessandro, simile a un Dio, mentre spogliava Apisaone delle armi; subito tese l’arco contro Euripilo e lo colpì con la freccia alla coscia destra: il dardo si spezzava e straziava la gamba. L’altro si tirò fra la turba dei suoi compagni, per evitare la morte, 585 e gridò forte per farsi sentire dai Danai: “Amici, condottieri e capi degli Argivi, tornate indietro e fate fronte! Allontanate il giorno fatale da Aiace! È bersagliato di colpi. Non penso davvero che possa scampare dalla battaglia crudele. Affrontate 590 i nemici, raggruppatevi intorno ad Aiace Telamonio”. Così diceva Euripilo ferito. E gli altri venivano a piantarsi accanto a lui, appoggiando gli scudi sulle spalle, con le lance protese; Aiace andò loro incontro: si rigirò per tener fronte al nemico, una volta raggiunti i suoi. 595 Così battagliavano: era come il divampare di un incendio. Intanto le cavalle di Neleo, sudate, portavano Nestore fuori dal campo; portavano in salvo Macaone pastore di popoli. Vedendolo, lo riconobbe il divino Achille dal piede veloce: se ne stava dritto sulla poppa della sua nave dal grande ventre, 600 osservando l’accanita lotta e l’assalto crudele. Subito si rivolse al suo compagno Patroclo, chiamandolo dall’alto della nave. Questi lo sentì dalla sua tenda e venne fuori: era simile ad Ares. Fu per lui il principio della rovina. Per primo gli rivolse la parola il forte figlio di Menezio: 605 “Perché mi chiami, Achille? Cosa vuoi da me?”. Gli rispondeva Achille dal pie' veloce: “Divino figlio di Menezio, amico caro, penso che ora gli Achei saranno intorno alle mie ginocchia, a supplicare. Le urgenti difficoltà li sovrastano. 610 Ma ora, Patroclo, caro a Zeus, vai a domandare a Nestore chi è quello che porta ferito, fuori dalla battaglia. A vederlo da dietro, è identico in tutto a Macaone: sì, al figlio di Asclepio. Ma non l’ho visto in faccia. Le cavalle mi sono passate davanti troppo in fretta”. 615 Così disse. E Patroclo obbediva al suo compagno, si avviò di corsa lungo le tende e le navi degli Achei. Intanto quelli giungevano all’alloggio del Nelide e scesero dal carro, sul suolo fecondo. Eurimedonte, lo scudiero del vecchio, staccava i cavalli 62o dal carro. E loro si asciugavano il sudore dalle tuniche, stando controvento, presso la riva del mare. Subito dopo entravano nella tenda e sedevano sui loro scranni. Gli preparava da bere Ecamede dalle belle chiome, che il vecchio si prese a Tenedo, quando Achille la distrusse: 625 era la figlia del magnanimo Arsinoo; per lui la sceglievano gli Achei, perché nel consiglio primeggiava su tutti. Lei dapprima pose davanti a essi una tavola elegante, ben levigata, con i piedi di smalto; poi ci mise sopra un canestro in bronzo con dentro delle cipolle, compagne del bere, 630 anche poi del miele biondo e farina di orzo sacro. Vi metteva una coppa bellissima, che il vecchio aveva portato da casa: era tutta adorna di borchie d’oro: i manici della coppa erano quattro e intorno a ciascuno stavano beccando due colombe d’oro; sotto vi erano due sostegni. 635 Chiunque altro faceva fatica a spostarla dalla tavola, quando era piena: Nestore il vecchio la sollevava senza sforzo; dentro, la donna simile a una Dea faceva un impasto con vino di Pramno, vi grattò sopra del formaggio caprino con una grattugia di rame e vi spargeva bianca farina. 640 Preparato il beveraggio, li invitava a dissetarsi. Essi sorseggiarono e si tolsero la sete ardente: poi si scambiarono qualche parola tra di loro. Ecco che comparve sulla porta Patroclo, l’eroe simile a un Dio. A vederlo, il vecchio si levò dal suo splendido seggio. 645 Lo prese per mano, lo fece entrare lo invitò a sedersi. Ma Patroclo si rifiutò e disse queste parole: “Vecchio, stirpe di divina, non posso sedermi; non insistere. Temibile e vendicativo è colui che mi ha mandato a chiedere chi è il guerriero, che porti ferito. Ma ecco, anche da me 650 lo riconosco: è Macaone pastore di popoli, lo vedo. Ora torno da Achille a riferirgli la notizia. Lo sai bene anche tu, o vecchio, che uomo terribile è quello; é capace di biasimare anche chi è senza colpa”. A lui rispondeva allora Nestore il Gerenio, condottiero di carri: 655 “Come mai Achille compiange così i figli degli Achei che sono rimasti feriti? Oh, non ha neanche l’idea del grande dolore che c’è in campo; i più valorosi giacciono qui, tra le navi, colpiti da archi o lance: è stato colpito il Tidide, il forte Diomede; 660 ha una piaga Odisseo, famoso per la lancia, e Agamennone; anche Euripilo è stato colpito alla coscia, da una freccia; e quest’altro l’ho portato fuori dalla battaglia poco fa, colpito dal dardo di un arco. Achille, però, con tutto il suo valore, non si cura dei Danai, non si preoccupa. 665 Aspetta forse che vicino al mare, a dispetto degli Argivi, le navi veloci vengano arse dal fuoco nemico? Che noi stessi veniamo massacrati? La mia forza non è più quella che avevo una volta nelle agili membra. Se fossi ancora giovane e avessi intatto il mio vigore, 670 come quando tra noi e gli Elei ci fu la guerra per una razzia di bestiame! Allora io ammazzai Itimoneo, il prode figlio di Ipiroco, che abitava nell’Elide; feci una rappresaglia: lui difendeva le sue vacche e fu colpito tra i primi da un giavellotto, per mano mia; 675 cadde e il suo esercito di campagnoli si diede alla fuga. Riportammo via dalla pianura un grande bottino: c’erano cinquanta mandrie di buoi, altrettante greggi di pecore; altrettanti branchi di porci, altrettante greggi di capre; poi centocinquanta cavalle bionde, 680 tutte femmine, e molte con il loro puledro. Noi portammo tutto a Pilo, nel territorio di Neleo, di notte, dentro la città. Neleo era felice in cuor suo del successo che avevo avuto, andando così giovane in guerra. Allo spuntare del giorno gli araldi gridarono forte il bando: 685 si presentasse chi aveva subito un danno nell’Elide divina! I condottieri dei Pili si presentarono e procedevano alla spartizione: a molti gli Epei dovevano un’ammenda. Eravamo in pochi, noi altri a Pilo; subivamo di continuo. Già era venuto il forte Eracle a farci violenza, 690 negli anni precedenti; tutti i più prodi erano stati uccisi. Dodici figli aveva l’irreprensibile Neleo; di loro solo io rimasi, tutti gli altri perirono. Per questo gli Epei dalle tuniche di bronzo divennero arroganti: facevano i prepotenti, tramavano scelleratezze. 695 Il vecchio Neleo si prese una mandra di buoi e un grande gregge di pecore, scegliendo per sé trecento capi con i loro pastori. Gli era dovuto un grosso compenso nell’Elide divina: il valore di ben quattro cavalli da corsa con tutto il carro; erano già andati per le gare: dovevano correre 700 per un tripode. Ma li tenne per sé il sovrano Augia e rimandò indietro il cocchiere, avvilito. Il vecchio, indispettito per quel comportamento, si prese infinite ricchezze; il resto lo diede al popolo e lo fece dividere (che nessuno andasse via senza la sua parte). 705 Compivamo ogni cosa a dovere, per la città facevamo sacrifici agli Dei. Ecco che al terzo giorno quelli arrivarono tutti insieme, una folla di fanti e di guerrieri sui carri, con impeto e furia; con loro si muovevano anche i due Molioni, ancora giovani e non esperti dell’aspra lotta. 710 Dovete sapere che c’è una città, Trioessa, su un colle scosceso, laggiù sull’Alfeo, ai confini del territorio di Pilo sabbiosa: la assediarono, con la furia di distruggerla; attraversarono l’intera pianura. Venne da noi messaggera Atena, slanciandosi giù dall’Olimpo, di notte, a dire di armarci: radunava l’esercito di Pilo; non erano fiacchi, ma impazienti di scendere in campo. Neleo però non voleva che io affrontassi in armi il nemico e mi nascose i cavalli: diceva che non sapevo ancora nulla, delle fatiche di guerra. Ma anche così riuscii a distinguermi tra i combattenti dai carri, 720 da semplice fante; c’era Atena a guidare lo scontro. Vedete: c’è un fiume, il Minieo, che si getta nel mare nei pressi di Arene. Lì aspettammo l’Aurora divina con i cocchi, noi di Pilo: e intanto affluivano le schiere dei fanti. Da qui, armati da capo a piedi, con azione fulminea 725 arrivammo a mezzogiorno alla sacra corrente dell’Alfeo. Qui sacrificavamo a Zeus potentissimo splendide vittime; un toro all’Alfeo, un toro anche a Poseidone e infine una giovenca di mandria ad Atena glaucopide. Poi prendemmo il pasto della sera sul campo, per gruppi. 730 e ci mettemmo a dormire, ognuno con la sua armatura, lungo il corso del fiume. Già i coraggiosi Epei accerchiavano la città, decisi a conquistarla; ma prima per loro ci fu il grande cimento di Ares. Appena il sole si levò in tutto il suo splendore sopra la terra, 735 ci scontravamo in battaglia invocando Zeus e Atena. Così tra i Pili e gli Epei cominciò la lotta; per primo uccisi un nemico e gli presi i cavalli: era il bellicoso Mulio, provetto lanciere, genero di Augia (aveva come sposa la figlia maggiore, la bionda Agamede, 740 la quale conosceva tutti i farmaci che nutre la vasta terra). Mi veniva addosso; io lo colpii con la lancia dalla punta di bronzo e lui crollò nella polvere. Poi saltavo sul suo carro e mi schieravo in prima fila. Così gli Epei fuggirono alla rinfusa, nel vedere a terra colui 745 che era a capo dei cavalieri, un prode sul campo. Io mi lanciai addosso a loro come una nera tempesta, mi impadronii di cinquanta carri; accanto, due guerrieri mordevano la polvere, abbattuti dalla mia lancia. Avrei trucidato gli Attoridi, i due fratelli Molioni, 750 se il padre loro, l’Ennosigeo dall’ampio potere, non li avesse portati in salvo dalla mischia, avvolgendoli in una densa nebbia. Zeus concesse ai Pili una grande vittoria! Li inseguivamo attraverso la spaziosa pianura, facendone strage e predando le loro belle armi, 755 finché ci spingemmo con i carri sino a Buprasio ricca di grano e alla Rocca Olenia, presso il luogo chiamato Colle d’Alisio. Di lì Atena fece tornare indietro l’esercito: lì uccisi l’ultimo guerriero e lo lasciai a terra. Allora gli Achei da Buprasio guidavano i rapidi cavalli verso Pilo 760 e inneggiavano a Zeus fra gli Dei, a Nestore fra gli uomini. Così ero io tra i guerrieri, se mai lo fui! Achille invece si godrà da solo i vantaggi del suo valore. E sono convinto che rimpiangerà a lungo la rovina dell’esercito. Mio caro, così ti esortava Menezio, 765 il giorno in cui da Ftia ti mandava da Agamennone. Noi due eravamo lì dentro, io e Odisseo, e sentivamo nella sala tutti i suoi consigli. Eravamo venuti nella bella e accogliente reggia di Peleo, nel nostro giro per la fertile terra achea, raccogliendo l’esercito. 770 E lì trovammo dentro il palazzo l’eroe Menezio e te; e accanto a voi Achille. Il vecchio Peleo, condottiero di carri, bruciava grasse cosce di bue per Zeus fulminatore, nel recinto del cortile: teneva in mano una coppa d’oro e libava vino rosso sopra le vittime che ardevano. 775 Voi due eravate affaccendati intorno alle carni del bue. Ecco che noi comparimmo sulla porta. Per la sorpresa, Achille balzò in piedi, ci prendeva per mano e ci portava dentro; ci invitava a sedere, con cortesia ci rese gli onori, come bisogna fare con gli ospiti. E dopo che ci fummo ristorati con cibo e bevande, 780 Presi per primo la parola e vi esortai a seguirci. Voi due eravate ben disposti: entrambi i padri vi diedero consigli: il vecchio Peleo esortava suo figlio Achille a primeggiare sempre e a essere superiore agli altri. A te invece diede questi consigli Menezio, figlio di Attore: 785 – Figliolo mio, per nobiltà di sangue Achille ti supera; ma tu sei più grande. Lui è anche molto più forte. Tu però con buone maniere potrai consigliarlo e guidarlo: ti darà retta, se è per il meglio -. Questo ti raccomandava il vecchio, ma non lo rammenti. 790 Sei ancora in tempo: parla con Achille! Forse ti ascolta. E chi sa che tu non riesca a smuoverlo, se ti aiuta un Dio, con i tuoi consigli. Vale tanto, sai, la parola di un amico. Ma se in segreto cerca di evitare qualche profezia e gliene ha rivelata una, da parte di Zeus, l’augusta madre, 795 almeno lasci andare te in campo e ti segua l’esercito dei Mirmidoni: sarebbe la salvezza dei Danai. E ti dia anche le sue belle armi da portare in battaglia. Può darsi che i Troiani ti scambino per lui e smettano così di combattere; così riprenderanno fiato i bellicosi figli degli Achei: 800 ci vuole poco a riprendere fiato in guerra. E vi sarebbe facile, freschi come siete, ricacciare in città, lontano dalle navi e dalle tende, dei guerrieri stanchi per la lotta”. Così parlava e gli scosse l’animo in petto. Patroclo si avviò di corsa verso le navi, dall’Eacide Achille; 805 correndo giunse davanti alle navi del divino Odisseo, nel luogo dove si tenevano le assemblee, si rendeva giustizia ed erano eretti gli altari degli Dei; ecco che gli venne incontro Euripilo, il figlio divino di Evemone, ferito alla coscia da una freccia: 810 zoppicava, di ritorno dalla battaglia; il sudore grondava copioso dalle spalle e dalla testa, colava il sangue nero dalla ferita dolorosa; la mente, però, era salda. A vederlo, ne ebbe pietà il prode figlio di Menezio e piangendo gli rivolgeva parole alate: 815 “Sventurati capi e condottieri dei Danai! Lontani qua dai vostri cari e dalla patria, era destino che a Troia doveste sfamare i cani veloci con la vostra bianca carne! Ma su, dimmi, Euripilo, eroe allievo di Zeus, ce la fanno ancora gli Achei a tenere testa al poderoso Ettore 820 o sono destinati a perire sotto i colpi della sua lancia?”. Così gli rispondeva Euripilo, ferito: “Patroclo, allievo di Zeus, per gli Achei non ci sarà più scampo: arriveranno alle navi nere. Vedi, tutti quelli che erano i più valorosi 825 giacciono nell’accampamento, colpiti da frecce o da lance per mano dei Troiani. E la loro forza cresce di continuo. Ma ora portami in salvo sulla nave! Tirami fuori dalla coscia il dardo, lava con acqua tiepida il sangue nero, spargi sopra la ferita dei farmaci lenitivi, 830 che siano efficaci. Tu li hai imparati da Achille, si sa: a lui li insegnò Chirone, il più giusto dei Centauri. Abbiamo dei medici, Podalirio e Macaone: ma uno giace nella tenda con una ferita grave e ha bisogno anche lui di un bravo guaritore. 835 L’altro è nella pianura e affronta la furia dei Troiani”. A lui allora diceva il forte figlio di Menezio: “Come può essere? Che fare, Euripilo? Devo riferire all’animoso Achille il consiglio che mi ha dato Nestore Gerenio, custode vigile degli Achei. 840 Ma non ti voglio lasciare così, in preda allo strazio”. Così disse e lo prese intorno alla vita, lo portava alla sua tenda. A vederlo, lo scudiero distese delle pelli di bue. Patroclo lo fece sdraiare e poi con il suo coltello estrasse dalla coscia l’aguzzo dardo affilato. Poi lavò con acqua tiepida 845 il sangue nero, vi applicò una radice amara, triturandola con le mani. Era un lenitivo che gli fece passare il dolore. E così la piaga si asciugò, il sangue smise di uscire.
Traduzione di Daniele Bello AGAMENNONE
Scoperte archeologiche concernenti il regno di Agamennone - 3 ottobre 2021 Una scoperta che potrebbe contribuire a disegnare i confini del regno di Agamennone a Micene nel Peloponneso della tarda età del bronzo, che risulterebbero parzialmente coincidenti proprio con quelli suggeriti da Omero nell'Iliade. Si tratta del rinvenimento di tre spade, di fogge caratteristiche delle produzioni micenee palaziali, databili nell'ambito del XIV secolo a.C., ovvero nel periodo di pieno fulgore dei palazzi micenei di Micene, Tirinto e Pilo. I manufatti sono stati messi in luce dagli archeologi dell'Università di Udine, coordinati da Elisabetta Borgna, nello scorso mese di agosto, durante la decima campagna annuale di scavo della necropoli della Trapezà di Eghion in Acaia, nel Peloponneso occidentale, dove il gruppo udinese collabora dal 2010 a un più ampio progetto del Ministero greco della cultura. Rinvenute durante l'indagine di una delle tombe apparentemente più semplici e modeste, le spade molto probabilmente erano appartenute ad altrettanti guerrieri residenti in una comunità situata sulle propaggini montane dell'Acaia orientale, da cui si controllavano il centro di Eghion, la pianura costiera e il mar di Corinto. Eugenio Caruso - 23 - 09 - 2021 |
www.impresaoggi.com |