Dante, Paradiso, Canto XVI. Cacciaguida e le più illustri famiglie di Firenze

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

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Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XVI

Il Canto costituisce insieme al XV e al XVII il secondo momento del «trittico» dedicato all'incontro con l'avo Cacciaguida che dovrà svelargli l'alta missione di cui è investito dalla Provvidenza, collocato al centro della Cantica per la sua importanza è caratterizzato da una certa elevatezza dello stile, anche se questo episodio centrale è meno sostenuto degli altri due in quanto il discorso è più generale e verte sulla decadenza morale di Firenze, di cui vengono messe in luce le cause.
Dante all'inizio trae spunto dalle parole finali di Cacciaguida nel Canto XV, in cui l'avo gli aveva rivelato di essere stato fatto cavaliere dall'imperatore Corrado III prima di seguirlo nella II Crociata, quindi di essere nobile: il poeta si riempie di orgoglio per questa affermazione, cosa di cui fa subito ammenda riconoscendo che il vanto della propria nobiltà è a maggior ragione scusabile sulla Terra, il che è sottolineato dal lieve sorriso con cui Beatrice accompagna le parole e gli atteggiamenti di Dante. Il discorso relativo alla nobiltà ha certo un risvolto autobiografico, essendo l'orgogliosa affermazione della superiorità del poeta e la sua rivalsa in quanto esule sconfitto politicamente, tuttavia si lega anche al tema della decadenza morale di Firenze che Cacciaguida ha iniziato nel Canto precedente con la rievocazione della città del XII secolo, e che qui prosegue attraverso le domande che Dante, curioso di altri particolari, rivolge all'avo.
Questi infatti, dopo aver rivelato il proprio anno di nascita e il luogo di Firenze dove abitavano i suoi avi (il sestiere di Porta S. Pietro, il che dimostra l'antica nobiltà della famiglia e la sua discendeza dagli antichi Romani), e dopo aver ricordato l'esigua popolazione fiorentina dei suoi tempi, torna sul problema della decadenza della città individuandone la causa nell'inurbamento di genti dal contado, che avrebbero imbastardito l'antica purezza della popolazione e diffuso la corruzione e il degrado che poi portarono alla situazione dei tempi di Dante. È la stessa tesi già sostenuta in parte da Brunetto Latini in Inf., XV, 61-78 e soprattutto da Dante stesso in Inf. XVI, 73-75, quando aveva spiegato ai tre sodomiti fiorentini che la causa della corruzione morale della città erano la gente nova e i sùbiti guadagni che avevano generato orgoglio e dismisura: anticamente la popolazione fiorentina era etnicamente pura in quanto discendeva dai Romani che avevano fondato la città dopo la distruzione di Fiesole, sia pure mescolati ai superstiti della stessa Fiesole che non erano altrettanto nobili, poi nel corso del Duecento i nuovi venuti dal contado avevano provocato una vera confusione di genti, che è stata causa per Cacciaguida di tutti i futuri mali della città.
Infatti questi villani inurbati si dedicavano soprattutto al commercio e al cambio di valuta, dunque ad attività fondate sullo scambio di denaro e sul guadagno facile, il che (oltre ad essere di per sé criticabile secondo la visione cristiana) ha poi diffuso l'avidità e la corruzione, fonte prima delle discordie civili che insanguinarono Firenze nel primo Trecento e portarono all'esilio dello stesso poeta. È chiaro che Dante include il proprio avo e se stesso fra quei fiorentini nobili in quanto discendenti diretti degli antichi Romani che fondarono la città per volere di Cesare, prendendo le distanze tanto dalle bestie fiesolane originariamente accolte a Firenze, quanto dai contadini successivamente inurbati che hanno ampliato le dimensioni e la popolazione della città: per questi ultimi Cacciaguida ha parole di grande disprezzo, parlando del puzzo che i fiorentini «puri» devono sostenere per la loro vicinanza e affermando che i nuovi venuti sono dei villani pronti a barattare, a compiere cioè traffici e raggiri di ogni tipo, mentre poco oltre dirà che il nuovo cittadino di Firenze e cambia e merca, è dedito cioè a quelle attività finanziarie che sono condannate in quanto espressione della nuova civiltà comunale e mercantile, che sta facendo tramontare i valori della vecchia civiltà cortese e feudale che Dante non si è rassegnato a considerare morta.
La causa prima di tutto ciò è individuata da Cacciaguida nell'azione della Chiesa, che è stata matrigna per Cesare (cioè per l'imperatore) usurpandone l'autorità e pretendendo di esercitare il potere temporale al suo posto, come già sostenuto da Marco Lombardo in Purg., XVI e con allusione all'ostilità del papa e del partito guelfo ad Arrigo VII di Lussemburgo. Ciò avrà un riflesso nella profezia di Cacciaguida riguardo Cangrande Della Scala nel Canto seguente, ma già qui l'avo preannuncia il futuro declino politico della città di Firenze, che avrà presto lo stesso destino di Luni e Orbisaglia e che è testimoniato dalla decadenza delle principali famiglie fiorentine dei suoi tempi: rispondendo alla domanda di Dante sull'argomento, Cacciaguida ne trae spunto per compiere una grandiosa rassegna delle più cospicue casate della città, le quali tutte hanno prima o dopo conosciuto un pesante declino, alcune per propria colpa e altre per circostanze diverse, ma in ogni caso dimostrando che nulla è eterno e che Firenze stessa vedrà presto oscurata la propria fama (è quanto già annunciato nel Canto XV, attraverso il parallelismo con Roma). Alcuni di questi nomi hanno poco significato per il lettore moderno, tuttavia rappresentano validi esempi della transitorietà della gloria terrena, nonché della nobiltà di sangue che all'inizio Dante ha definito poca e che è destinata a scomparire se non accompagnata da un agire virtuoso: tra gli esempi fatti da Cacciaguida i più evidenti sono quello degli Uberti, la grande famiglia ghibellina che fu cancellata da Firenze dopo Benevento (significativo a riguardo l'incontro con Farinata, in Inf., X), e quello dei Buondelmonti, che a causa dell'oltraggio a una fanciulla degli Amidei avevano originato le divisioni politiche nella città (cfr. a proposito l'incontro con Mosca dei Lamberti, Inf., XXVIII). La figura di Buondelmonte dei Buondelmonti, che ruppe la promessa di matrimonio e fu ucciso nell'ambito di una vendetta familiare, diventa quasi emblematica della decadenza morale della città, in quanto l'uomo apparteneva a una famiglia inurbatasi a Firenze in tempi antichi: benché Dante sembri indicarlo come il primo di quella casata a venire in città, confondendo volutamente o meno la verità storica (i Buondelmonti si inurbarono già nel XII sec.), fa pronunciare comunque a Cacciaguida una dura invettiva contro la sua persona, con l'affermazione che meglio sarebbe stato per la pace interna di Firenze se invece di entrare in città egli fosse annegato nel torrente dell'Ema.
La sua uccisione fu l'inizio delle discordie intestine che poi avrebbero insanguinato Firenze, alimentate da superbia, invidia e avarizia come detto da Ciacco in Inf., VI, per cui è significativo che Buondelmonte fosse assassinato presso il frammento della statua che si attribuiva a Marte primo patrono della città, il quale avrebbe poi preteso un pesante tributo di sangue negli anni a venire: Cacciaguida conclude la rassegna con questo sinistro presagio, precisando che la Firenze in cui lui ha vissuto era molto diversa e godeva di una pace duratura, prevalendo sempre sui suoi nemici e mantenendo intatta la sua gloria, cosa che non si può certo dire della città dalla quale Dante è stato esiliato. Questa rievocazione nostalgica del passato prelude alla profezia dell'esilio e delle gesta di Cangrande che seguirà nel Canto XVII ed è forse la pagina più sentita ed esacerbata del poema sul declino politico-morale della città del poeta, il che spiega perché questo Canto è stato definito il più «fiorentino» del poema (in seguito la polemica politica tenderà ad essere di respiro più ampio e a coinvolgere soprattutto la Chiesa con la condanna dei suoi vizi, come sarà evidente nel Canto XXVII). L'autore della Commedia non perde occasione nel poema per scagliarsi contro la civiltà comunale fondata sul commercio e sulla circolazione del denaro, da lui vista come fonte di corruzione e di decadenza politico-morale soprattutto della sua città: la cosa non può non sembrare strana e addirittura inspiegabile agli occhi di noi moderni, specie pensando alle novelle di Boccaccio che, oltre a essere grande ammiratore di Dante, esalterà proprio la figura del mercante solo pochi decenni dopo la morte del grande poeta.
L'avversione di Dante per il mondo mercantile ha una ragione innanzitutto religiosa, rifacendosi al precetto evangelico per cui l'uomo deve ricavare il sostentamento dal lavoro della terra e non dallo sfruttamento del denaro che produce altro denaro, da cui nasce la condanna dell'usuraio che pecca di violenza contro Dio in quanto offende l'operosità umana, ma anche del mercante, colpevole di monetizzare il tempo che invece dev'essere il tempo di Dio scandito dalle ore canoniche, non sfruttato dall'uomo a fini di lucro. Dante aggiunge poi anche una considerazione storico-sociale, individuando nell'avidità di guadagno e nella cupidigia la principale fonte della corruzione e del disordine politico che affliggeva l'Italia del Trecento, quindi bollando la circolazione del denaro come il fattore destinato ad alimentare le ingiustizie: Folchetto di Marsiglia in Par., IX, 127-142 si scaglia contro il maladetto fiore (fiorino) diffuso in Europa dai banchieri di Firenze che finanziavano la monarchia francese, e dunque fomentavano la corruzione della Curia papale suscitando l'avidità di guadagno da parte dei pontefici corrotti come Bonifacio VIII o Giovanni XXII.
E il denaro è stato causa della rovina della stessa Firenze, da cui sono scomparsi onore e cortesia a causa della gente nova e i sùbiti guadagni, ovvero la propensione agli affari e alle baratterie da parte dei contadini inurbatisi in città che, secondo il discorso di Dante ai tre sodomiti fiorentini in Inf., XVI, 73-75, hanno accresciuto orgoglio e dismisura, diffondendo a Firenze la corruttela e il degrado morale. È la stessa analisi fatta dall'avo Cacciaguida in Par., XVI, 49 ss., quando afferma che proprio l'ingresso in città di elementi del contado, pronti a barattare e a darsi a ogni genere di scambio e mercatura, ha imbastardito l'antica purezza della popolazione che discendeva dai Romani che la fondarono per volontà di Cesare: l'accusa non è solo di tipo sociale, legata cioè al mestiere esercitato dai nuovi arrivati, ma addirittura di tipo etnico, per cui Dante si ritiene parte di un'antica e pura nobiltà cittadina che mal sopporta la vicinanza coi «villani» che m eglio avrebbero fatto a restare nel contado, invece di venire a Firenze per portare disordine morale e inquinare la «purezza» della stirpe. Ciò può far pensare a un Dante razzista, il che non è forse eccessivo se lo si giudica coi parametri della società moderna fondata sull'integrazione culturale e la convivenza, ma su tutto domina la nostaglia del poeta per l'antica società di tipo feudale e cortese, fondata su un sistema di valori antitetico rispetto a quello della civiltà comunale e che nel Trecento stava ormai sparendo, causando secondo Dante un declino morale che è all'origine di molti mali politici del suo tempo.
Dante non si rassegna a questa evoluzione in senso «capitalistico» della società e all'imporsi di nuovi valori quali la ricerca del profitto, la circolazione delle merci e la concorrenza: ai suoi occhi il mercante cerca di lucrare attraverso l'uso del denaro, è portatore di qualità negative come l'astuzia e l'occhio aguzzo, tenta di ottenere un guadagno spesso raggirando il prossimo, tutte caratteristiche che Boccaccio e il Trecento esalteranno in quanto appartenenti a una mentalità più simile alla nostra. Dante rimpiange come il suo contemporaneo Folgòre da San Gimignano la scomparsa della cortesia e della cavalleria, tema al centro di molte pagine del poema (cfr. soprattutto Purg., XIV) e di alcune Rime (cfr. la canzone sulla liberalità, XLIX) e al quale egli riconduce anzitutto il declino morale e politico non solo di Firenze, ma dell'Italia intera in cui inevitabilmente trionfa l'ingiustizia: è certo una posizione anacronistica e anti-storica, ma che non deriva solo dalla nostalgia per il passato, quanto piuttosto dall'amara considerazione che l'avidità di denaro porta gli uomini a compiere ogni sorta di misfatto e ciò è fonte di sofferenza per tutti quelli che, come lui, si battono per il bene e per la corretta applicazione delle leggi.
Se il denaro è fonte del male, allora Dante tuona con furore biblico contro tutti coloro che ne fanno un idolo, come i papi simoniaci, e al contrario esalta una figura come quella di san Francesco che si spoglia di tutto e cerca di attualizzare l'ideale di povertà evangelica, esempio per tutti coloro che vogliono seguire Dio con fede sincera: la matrice del pensiero dantesco in materia è soprattutto religiosa e ciò spiega la distanza che ci separa dal suo atteggiamento mentale, in quanto noi apparteniamo a una società fondata sui consumi e sull'edonismo, mentre egli crede ancora a una vita fondata sulla privazione e l'ascetismo, di cui non solo Francesco è esempio insigne da additare ai suoi lettori. La posizione di Dante era forse non in linea con la sua stessa epoca sempre più fondata sui commerci e il capitale, ma gli va dato atto che negli anni dell'esilio rimase coerente coi suoi principi, adattandosi a mendicare il pane altrui pur di non derogare dalla condotta che si era imposto e non rinunciando mai, nonostante i molti rischi corsi, a denunciare il male politico che per lui era alimentato principalmente dalla corruzione e dal denaro.

Note
- Al v. 7 raccorce  è prob. seconda persona del vb. «raccorciare», usato in forma intransitiva («accorciarsi»).
- l vv. 10-11 alludono alla convinzione, assai diffusa nel XIV sec., che il «voi» come forma di cortesia fosse dato per la prima volta a Cesare dopo che questi aveva assunto il potere a Roma; in realtà il «voi» onorifico si diffuse solo nel III sec. d.C. I popolo del Lazio sono invece soliti usare il «tu» anche con persone di riguardo, il che spiega il v. 11.
- I vv. 14-15 si riferiscono alla dama di Malehaut, che nel romanzo francese di Lancillotto e Ginevra assiste, non vista, al primo colloquio d'amore fra i due e manifesta la sua presenza tossendo; il primo fallo della regina è il compromettente incontro e non il bacio che avviene in diversa circostanza (scritto vuol dire «narrato»).
- Al v. 22 primizia significa «capostipite».
- Al v. 25 l'ovil di San Giovanni  è Firenze (cfr. Par., XXV, 5: il bell'ovile ov'io dormi' agnello).
- Il v. 33 ha fatto pensare ad alcuni interpreti che Cacciaguida parli in latino, come già in XV, 28-30; la cosa non si può escludere, ma è più probabile che Dante gli attribuisca una parlata fiorentina più antica e dunque diversa da quella dei suoi tempi, in accordo con quanto lui stesso afferma in DVE, I, 9 circa il mutamento della lingua volgare nel corso del tempo.
- La complessa perifrasi ai vv. 34-39 vuol dire che dal giorno dell'Annunciazione a Maria fino a quello della nascita di Cacciaguida il pianeta Marte è tornato 580 volte in congiunzione con la costellazione del Leone, come prob. era al momento dell'incarnazione di Cristo e della nascita dell'avo: poiché Dante pensa che la rivoluzione siderea di Marte avvenga in 687 giorni, come ricava dall'astronomo arabo Alfragano, si ottiene la cifra di 398.460 giorni che, divisa per i 365 giorni dell'anno, dà approssimativamente il numero 1091 che dunque è l'anno di nascita di Cacciaguida. La pianta è la zampa del Leone, forse la stella Regolo che formava la parte anteriore della costellazione.
- I vv. 40-42 indicano il luogo di nascita di Cacciaguida nel sestiere di S. Pietro, dove chi corre il palio annuale trova questa zona per prima: corrispondeva la via degli Speziali, vicino a Mercato Vecchio, quindi entro la vecchia cinta muraria (ciò prova l'antica nobilità dell'avo). Il palio si correva il giorno di S. Giovanni e prob. non era ancora in uso nel XII sec., per questo l'avo dice il vostro... gioco.
- Il v. 45 vuole dire semplicemente che è più opportuno (onesto) tacere degli antenati di Cacciaguida, e non che è meglio nascondere qualche fatto poco onorevole, come alcuni hanno ipotizzato.
- L'espressione da poter arme (v. 47) vuol dire «da potere portare armi»; tra Marte e 'l Batista  invece indica la zona tra Ponte Vecchio, dov'era il frammento della statua attribuita a Marte, e il battistero di S. Giovanni, cioè gli estremi a nord e sud della vecchia città.
- Campi, Certaldo e Fegghine (v. 50) erano paesi del contado fiorentino, corrispondenti agli attuali Campi Bisenzio, Certaldo e Figline Valdarno. Galluzzo e Trespiano (vv. 53-54) sono borgate a poca distanza dalla città, che un tempo segnavano il confine.
- Il villan d'Aguglion (v. 56) è certo Baldo d'Aguglione, giurista e uomo politico del XIII sec. che nel 1299 fu coinvolto nello scandalo di Niccolò Acciaiuoli (cfr. Purg., XII, 104-105). Quel da Signa è invece Bonifazio di Ser Rinaldo Morubaldini, giurista di parte Bianca passato poi ai Neri e che contribuì all'esilio di Dante.
- Simifonti (v. 62) indica un castello della Valdelsa collocato nel contado di Firenze: Dante intende dire che se la Chiesa non avesse usurpato l'autorità imperiale, questi villani sarebbero rimasti lì dove andava l'avolo alla cerca, cioè dove i loro avi chiedevano l'elemosina o andavano a vendere la merce.
- Il castello di Montemurlo (v. 64) apparteneva nell'XI sec. ai conti Guidi, che lo cedettero a Firenze nel 1254 inurbandosi. I Cerchi (v. 65) erano la famiglia di mercanti che fu a capo dei Guelfi Bianchi nel Duecento e che provenivano da Acone in Val di Sieve (cfr. Inf., VI, 65, la parte selvaggia). I Buondelmonti, cui appartenne il Buondelmonte citato al v. 140, avevano un castello in Val di Greve che fu distrutto da Firenze, per cui essi si trasferirono in città.
- Luni e Orbisaglia (l'antica Urbesalvia, v. 73) erano città disabitate e in rovina nel XIV sec., mentre Chiusi e Senigallia sembravano destinate alla stessa fine a causa del clima malarico.
- La porta citata al v. 94 è S. Pietro, dove un tempo abitavano i Ravignani, mentre nel Trecento abitavano i Cerchi (la fellonia, più che «tradimento», indica prob. la condotta politicamente debole in occasione dei fatti del 1301-1302). Il conte Guido (v. 97) è Guido Guerra VI, uno dei tre sodomiti fiorentini di Inf., XVI, mentre l'alto Bellincione (V. 99) è Bellincione Berti.
- Il v. 103 allude allo stemma della famiglia dei Pigli, una striscia verticale di vaio (la pelliccia dello scoiattolo) in campo rosso.
- Quei ch'arrossan per lo staio (v. 105) sono i Chiaramontesi, coinvolti nello scandalo citato in Purg., XII, 105.
- Quei che son disfatti / per lor superbia (vv. 109-110) sono gli Uberti, la celebre famiglia ghibellina cui appartenne Farinata e che venne bandita da Firenze dopo il 1266. Le palle dell'oro sono lo stemma dei Lamberti, che fecero la stessa fine.
- L'oltracotata schiatta  citata al v. 115 è quella degli Adimari, di cui faceva parte anche Filippo Argenti (Inf., VIII, 32 ss.) e che aveva umili origini; Bellincione Berti aveva maritato una delle sue figlie a un Adimari e l'altra a Ubertino Donati, a cui spiacque di essere imparentato con loro (vv. 119-120).
- I Della Pera citati al v. 126 davano il nome alla porta per cui si entrava nell'antica cerchia muraria: è incerto se si trattasse dei Peruzzi divenuti poi famosi banchieri coi Bardi, per cui lo stupore manifestato da Cacciaguida può riferirsi al fatto che ai suoi tempi una porta avesse nome da loro, oppure all'esigua estensione della cinta muraria.
- Il gran barone citato al v. 128 è Ugo il Grande marchese di Toscana, il cui stemma aveva sette strisce rosse in campo bianco: vicario imperiale di Ottone III e cavaliere, morì il 21 dic. 1001 (giorno di san Tommaso) e fondò sette badie, fra cui quella famosa ricordata come «Badia» e in cui ogni anno si celebravano solenni esequie in suo ricordo. I vv. 131-132 indicano Giano della Bella, che portava la sua insegna pur parteggiando per il popolo.
- Al v. 136 la casa di che nacque il vostro fleto è quella degli Amidei, che vendicarono l'offesa di Buondelmonte dei Buondelmonti a una fanciulla della loro consorteria uccidendolo nel 1216, accanto al frammento della statua che si credeva di Marte presso Ponte Vecchio (il giovane aveva rifiutato di sposarla, seguendo un consiglio di Gualdrada Donati: cfr. Inf., XXVIII, 106-108). L'assassinio aveva dato inizio alla divisione fra Guelfi e Ghibellini a Firenze, nonché alle lotte cittadine. Il v. 144 semba indicare che Buondelmonte fosse il primo della sua famiglia a inurbarsi a Firenze, ma ciò era avvenuto nel 1135 dopo la distruzione del castello di Montebuoni (v. 66); l'Ema è un torrente che sfocia nella Greve tra Firenze e il castello dei Buondelmonti.
- La pietra scema (v. 145) è il frammento della statua che si credeva di Marte (Inf., XIII, 146-147), presso la quale Buondelmonte fu ucciso nel 1216 la mattina di Pasqua.
- I vv. 152-153 alludono all'usanza di trascinare lo stemma della città vinta in battaglia, con l'asta rovesciata, cosa che secondo Cacciaguida non accadde mai al giglio di Firenze. Il v. 154 si riferisce prob. al fatto che lo stemma, originariamente un giglio bianco in campo rosso, divenne un giglio rosso in campo bianco dopo la vittoria dei Guelfi nel 1251, ma forse indica il sangue che arrossò lo stemma in seguito alle discordie cittadine.


TESTO DEL CANTO XVI

O poca nostra nobiltà di sangue, 
se gloriar di te la gente fai 
qua giù dove l’affetto nostro langue,                               3

mirabil cosa non mi sarà mai: 
ché là dove appetito non si torce, 
dico nel cielo, io me ne gloriai.                                         6

Ben se’ tu manto che tosto raccorce: 
sì che, se non s’appon di dì in die, 
lo tempo va dintorno con le force.                                    9

Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie, 
in che la sua famiglia men persevra, 
ricominciaron le parole mie;                                            12

onde Beatrice, ch’era un poco scevra, 
ridendo, parve quella che tossio 
al primo fallo scritto di Ginevra.                                       15

Io cominciai: «Voi siete il padre mio; 
voi mi date a parlar tutta baldezza; 
voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.                                  18

Per tanti rivi s’empie d’allegrezza 
la mente mia, che di sé fa letizia 
perché può sostener che non si spezza.                      21

Ditemi dunque, cara mia primizia, 
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni 
che si segnaro in vostra puerizia;                                   24

ditemi de l’ovil di San Giovanni 
quanto era allora, e chi eran le genti 
tra esso degne di più alti scanni».                                 27

Come s’avviva a lo spirar d’i venti 
carbone in fiamma, così vid’io quella 
luce risplendere a’ miei blandimenti;                            30

e come a li occhi miei si fé più bella, 
così con voce più dolce e soave, 
ma non con questa moderna favella,                            33

dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave’ 
al parto in che mia madre, ch’è or santa, 
s’alleviò di me ond’era grave,                                         36

al suo Leon cinquecento cinquanta 
e trenta fiate venne questo foco 
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.                                39

Li antichi miei e io nacqui nel loco 
dove si truova pria l’ultimo sesto 
da quei che corre il vostro annual gioco.                      42

Basti d’i miei maggiori udirne questo: 
chi ei si fosser e onde venner quivi, 
più è tacer che ragionare onesto.                                  45

Tutti color ch’a quel tempo eran ivi 
da poter arme tra Marte e ‘l Batista, 
eran il quinto di quei ch’or son vivi.                                48

Ma la cittadinanza, ch’è or mista 
di Campi, di Certaldo e di Fegghine, 
pura vediesi ne l’ultimo artista.                                       51

Oh quanto fora meglio esser vicine 
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo 
e a Trespiano aver vostro confine,                                 54

che averle dentro e sostener lo puzzo 
del villan d’Aguglion, di quel da Signa, 
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!                      57

Se la gente ch’al mondo più traligna 
non fosse stata a Cesare noverca, 
ma come madre a suo figlio benigna,                          60

tal fatto è fiorentino e cambia e merca, 
che si sarebbe vòlto a Simifonti, 
là dove andava l’avolo a la cerca;                                   63

sariesi Montemurlo ancor de’ Conti; 
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone, 
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.                           66

Sempre la confusion de le persone 
principio fu del mal de la cittade, 
come del vostro il cibo che s’appone;                           69

e cieco toro più avaccio cade 
che cieco agnello; e molte volte taglia 
più e meglio una che le cinque spade.                         72

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia 
come sono ite, e come se ne vanno 
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,                             75

udir come le schiatte si disfanno 
non ti parrà nova cosa né forte,                
poscia che le cittadi termine hanno.                              78

Le vostre cose tutte hanno lor morte, 
sì come voi; ma celasi in alcuna 
che dura molto, e le vite son corte.                                 81

E come ‘l volger del ciel de la luna 
cuopre e discuopre i liti sanza posa, 
così fa di Fiorenza la Fortuna:                                         84

per che non dee parer mirabil cosa 
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini 
onde è la fama nel tempo nascosa.                              87

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, 
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, 
già nel calare, illustri cittadini;                                         90

e vidi così grandi come antichi, 
con quel de la Sannella, quel de l’Arca, 
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.                                  93

Sovra la porta ch’al presente è carca 
di nova fellonia di tanto peso 
che tosto fia iattura de la barca,                                      96

erano i Ravignani, ond’è disceso 
il conte Guido e qualunque del nome 
de l’alto Bellincione ha poscia preso.                           99

Quel de la Pressa sapeva già come 
regger si vuole, e avea Galigaio 
dorata in casa sua già l’elsa e ‘l pome.                       102

Grand’era già la colonna del Vaio, 
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci 
e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.                        105

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci 
era già grande, e già eran tratti 
a le curule Sizii e Arrigucci.                                             108

Oh quali io vidi quei che son disfatti 
per lor superbia! e le palle de l’oro 
fiorian Fiorenza in tutt’i suoi gran fatti.                           111

Così facieno i padri di coloro 
che, sempre che la vostra chiesa vaca, 
si fanno grassi stando a consistoro.                            114

L’oltracotata schiatta che s’indraca 
dietro a chi fugge, e a chi mostra ‘l dente 
o ver la borsa, com’agnel si placa,                               117

già venìa sù, ma di picciola gente; 
sì che non piacque ad Ubertin Donato 
che poi il suocero il fé lor parente.                                120

Già era ‘l Caponsacco nel mercato 
disceso giù da Fiesole, e già era 
buon cittadino Giuda e Infangato.                                 123

Io dirò cosa incredibile e vera: 
nel picciol cerchio s’entrava per porta 
che si nomava da quei de la Pera.                               126

Ciascun che de la bella insegna porta 
del gran barone il cui nome e ‘l cui pregio 
la festa di Tommaso riconforta,                                     129

da esso ebbe milizia e privilegio; 
avvegna che con popol si rauni 
oggi colui che la fascia col fregio.                                 132

Già eran Gualterotti e Importuni; 
e ancor saria Borgo più quieto, 
se di novi vicin fosser digiuni.                                        135

La casa di che nacque il vostro fleto, 
per lo giusto disdegno che v’ha morti, 
e puose fine al vostro viver lieto,                                    138

era onorata, essa e suoi consorti: 
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti 
le nozze sue per li altrui conforti!                                    141

Molti sarebber lieti, che son tristi, 
se Dio t’avesse conceduto ad Ema 
la prima volta ch’a città venisti.                                       144

Ma conveniesi a quella pietra scema 
che guarda ‘l ponte, che Fiorenza fesse 
vittima ne la sua pace postrema.                                  147

Con queste genti, e con altre con esse, 
vid’io Fiorenza in sì fatto riposo, 
che non avea cagione onde piangesse:                      151

con queste genti vid’io glorioso 
e giusto il popol suo, tanto che ‘l giglio 
non era ad asta mai posto a ritroso, 

né per division fatto vermiglio».                                     154

PASRAFRASI CANTO XVI

O nobiltà di sangue, che sei poca cosa, se induci la gente a vantarsi sulla Terra dove il nostro affetto è più debole, non me ne potrò mai stupire: infatti là dove il nostro appetito non si volge ai beni terreni, intendo dire in Paradiso, io me ne vantai.

Certo tu sei un mantello che si accorcia in fretta: cosicché, se non se ne aggiunge un po' ogni giorno, il tempo lo sforbicia continuamente.

Le mie parole ripresero dando a Cacciaguida del 'voi', che fu offerto per la prima volta a Roma e il cui popolo ora non segue quest'uso;

allora Beatrice, che stava un po' in disparte, ridendo, sembrò colei che tossì al primo compromettente incontro di Ginevra con Lancillotto, di cui è scritto nei romanzi francesi.

Io presi a dire: «Voi siete il mio capostipite; voi mi incoraggiate a parlare con sicurezza; voi mi sollevate a tal punto che io sono superiore a me stesso.

La mia mente si riempie di gioia per così tanti motivi diversi che si rallegra, poiché è in grado di sostenerla.

Dunque ditemi, caro mio antenato, chi furono i vostri avi e quali furono gli anni che si annoverarono nella vostra fanciullezza;

ditemi quanti erano allora gli abitanti dell'ovile di S. Giovanni (di Firenze) e quali erano le famiglie più ragguardevoli all'epoca».

Come il carbone tra le fiamme diventa più incandescente, se soffia il vento, così io vidi quella luce che risplendeva allettata dalle mie parole;

e non appena ai miei occhi diventò più bella, con voce pure più dolce e gradevole, benché non parlasse questo linguaggio moderno, mi disse: «Dal giorno in cui l'arcangelo Gabriele disse 'Ave' a Maria, fino a quello in cui mia madre, che ora è santa, mi partorì, questo pianeta (Marte) si è ricongiunto alla costellazione del Leone 580 volte, riscaldandosi sotto la sua zampa.

Io e i miei antenati nascemmo nel luogo (il sestiere di S. Pietro) dove oggi chi corre il palio annuale incontra per primo l'ultimo sestiere.

Dei miei avi basti udire questo, poiché è più opportuno tacere che non narrare chi essi fossero e da dove venissero.

Tutti coloro che a quel tempo erano atti a portare armi, tra Ponte Vecchio e il Battistero di San Giovanni, erano un quinto di quelli attualmente presenti in città.

Ma la popolazione, che oggi è mescolata con gli abitanti di Campi Bisenzio, Certaldo, Figline Valdarno, era allora pura fino all'ultimo degli artigiani.

Oh, quanto sarebbe preferibile che quelle genti che dico fossero ancora vicine (e non parte della cittadinanza), e che Firenze avesse ancora il suo confine presso Galluzzo e Trespiano, invece di ospitare queste persone e sostenere il puzzo del villano d'Aguglione (Baldo) e di quello da Signa (Bonifazio) che ha già l'occhio pronto a compiere baratterie!

Se la gente che al mondo più devia dalle regole (la Chiesa) non fosse stata matrigna verso l'imperatore, ma fosse stata un'amorevole madre verso il figlio, certi nuovi fiorentini intenti a cambiare valute e a mercanteggiare sarebbero rimasti a Semifonte, dove i loro avi andavano a chiedere l'elemosina (o a trafficare);

Montemurlo sarebbe ancora dei conti Guidi; i Cerchi sarebbero ancora nel piviere di Acone, e forse i Buondelmonti sarebbero rimasti in Val di Greve.

La mescolanza delle genti ha sempre causato il male delle città, come l'aggiunta di cibo ad altro non digerito è fonte di malanni;

e un toro cieco cade più presto di un cieco agnello; e spesso una sola spada taglia più e meglio di cinque spade assieme.

Se consideri come sono cadute in rovina Luni e Orbisaglia, e come se ne vanno dietro ad esse Chiusi e Senigallia, non ti sembrerà cosa inaudita o difficile da credere il sentire come le casate vanno in decadenza, dal momento che anche le città hanno fine.

Le cose terrene sono tutte mortali, proprio come voi; me ciò è meno visibile in alcune cose che durano molto, mentre la vita umana è assai più breve.

E come la Luna con le sue fasi copre e scopre senza sosta i lidi (con le maree), così la Fortuna fa con le sorti di Firenze:

dunque non deve sembrare cosa strana ciò che adesso dirò delle grandi famiglie fiorentine, la cui fama è stata cancellata dal tempo.

Io vidi gli Ughi e i Catellini, i Filippi, i Greci, gli Ormanni e gli Alberighi che erano illustri cittadini, già allora quando declinavano;

e vidi famiglie anticamente potenti, i Sannella, i dell'Arca, i Soldanieri, gli Ardinghi e i Bostichi.

Presso la porta di San Pietro che oggi è carica della nuova fellonia (dei Cerchi), tanto pesante che presto sarà la sciagura di tutta la barca (di Firenze), abitavano i Ravignani, da cui è disceso il conte Guido Guerra e chiunque ha poi preso il nome da Bellincione Berti.

La famiglia della Pressa sapeva già come si deve governare, e i Galigai avevano già in casa l'elsa e l'impugnatura della spada dorata (erano cavalieri).

Lo stemma dei Pigli (con la striscia di vaio) era già insigne, così come i Sacchetti, i Giuochi, i Fifanti, i Barucci, i Galli e quelli che arrossiscono per la frode dello staio (i Chiaramontesi).

Il ceppo da cui nacquero i Calfucci (i Donati) era già grande, ed erano già condotti alle cariche politiche i Sizi e gli Arrigucci.

Oh, come erano potenti allora quelli (gli Uberti) che poi furono distrutti dalla loro superbia! e lo stemma delle palle d'oro (Lamberti) rendeva illustre Firenze in tutte le illustri imprese.

Così facevano gli avi di coloro che ora approfittano per arricchirsi del fatto che la sede vescovile è vacante (Visdomini e Tosinghi).

La tracotante famiglia (Adimari) che incrudelisce dietro a chi fugge, mentre si placa come un agnello davanti a chi mostra i denti o la borsa, era già potente ma aveva umili origini; infatti a Ubertino Donati non piacque che il suocero (Bellincione Berti) lo avesse imparentato con loro.

I Caponsacchi erano già scesi da Fiesole e abitavano a Mercato Vecchio, ed erano già diventati cittadini i Giudi e gli Infangati.

Io dirò una cosa incredibile anche se vera: nella antica cerchia muraria si entrava attraverso la porta che prendeva il nome dai Della Pera (Peruzzi?).

Tutti quelli che si fregiavano della bella insegna di Ugo di Toscana, il cui nome e il cui onore è celebrato il giorno di San Tommaso, ebbero da lui la carica e il privilegio di cavaliere, anche se oggi uno che la adorna col fregio d'oro (Giano della Bella) parteggia per il popolo.

Erano già presenti i Gualterotti e gli Importuni; e Borgo Santi Apostoli sarebbe più tranquillo, se non avesse acquistato nuovi vicini.

La casata (degli Amidei) da cui nacquero le vostre disgrazie, per il giusto disdegno che vi ha mandati in rovina e pose fine al vostro vivere lieto, era onorata insieme alla sua consorteria: o Buondelmonte, quanto male facesti a sfuggire le nozze con una giovane di quella famiglia, seguendo i consigli altrui!

Se Dio ti avesse annegato nell'Ema, la prima volta che ti inurbasti a Firenze, molti che oggi sono tristi sarebbero lieti.

Invece fu destino che Firenze facesse di te una vittima, nel suo ultimo periodo di pace, presso quel frammento di statua accanto a Ponte Vecchio.

Io vidi Firenze con queste e altre famiglie in una tale pace, che non c'erano ragioni di pianto o di lutto:

con queste famiglie vidi il popolo fiorentino così glorioso e giusto che il giglio non era mai trascinato nella polvere con l'asta rovesciata, né per divisioni interne era ancora diventato rosso».

guidi
Guidi. Castello di Poppi.


I GUIDI
I conti Guidi furono una delle maggiori casate dell'Italia centrale nel corso del Medioevo. Conosciuti come Conti palatini di Toscana, dominarono su gran parte della Toscana, Romagna ed Emilia. Grazie alla loro importanza, ambirono a formare una dinastia regnante stabile in Toscana (favoriti in questo anche dalla protezione di Matilde di Toscana). I castelli principali furono quelli di Poppi, Romena, Porciano nel Casentino in Toscana, di Bagno e Montegranelli nella valle del Savio, di Dovadola e Modigliana nella valle del Montone in Romagna. «Dessa famiglia possedé una gran parte del Casentino, del Valdarno, di Ampinana, Dicomano, d'Empoli, di Monte Apertoli, di Cerreto Guidi e della Romagna, col titolo di Conti Palatini della Toscana, con Signoria di diverse città, come Vicarj di Santa Sede. Le storie tutte sono piene di fatti illustri di questa famiglia [...] Ebbe tali e tanti uomini sommi che vorrebbesi un volume a trattarne per intero di ciascuno.» Secondo la tradizione, ritenuta vera sia da Giovanni Villani che da Scipione Ammirato, la famiglia dei conti Guidi sarebbe arrivata in Italia dalla Germania con Teudelgrimo I, cavaliere al seguito dell'imperatore Ottone I, se non addirittura nipote. Scrive infatti Villani: "si dice che anticamente furono d'Alamagna grandi baroni i quali passarono con Otto primo imperadore il quale diede loro il contado di Modigliana in Romagna e di là rimasono". In realtà, sebbene sia vero che il capostipite delle casata sia stato Tegrimo o Teudegrimo I, non è possibile che sia arrivato in Italia nel 951 con Ottone I e tantomeno che sia stato l'imperatore a farlo conte di Modigliana. Infatti, da vari documenti, risulta che Tegrimo fosse conte palatino di Toscana e risiedesse a Pistoia, dove tuttora è sepolto uno dei suoi figli, già nel 924 cioè quasi 30 anni prima della calata di Ottone I in Italia. E proprio nel 924 Tegrimo si recò in visita al castello di Modigliana di cui era signora la ravennate contessa Ingeldrada, figlia del duca Martino, che poi sposò divenendo così, per matrimonio e non per concessione imperiale, anche conte di Modigliana. Certo è che la coppia ebbe due figli: Ranieri e Guido. Ranieri e Guido, in un atto rogato in Pistoia il 2 ottobre 942, donarono alcuni beni che possedevano nel contado pistoiese per suffragare le anime dei loro genitori defunti. Nulla si sa di chi Ranieri, detto il "Diacono", sposasse e se e quali eredi ebbe ma, al contrario, uno strumento del 940 fa menzione della contessa Gervisa, moglie dell'altro fratello Conte Guido I. È noto tuttavia che il Diacono fu citato a comparire il 7 aprile del 967 in Classe, Ravenna, davanti all'Imperatore Ottone I ed al papa Giovanni XIII per avere arrestato e maltrattato l'arcivescovo di Ravenna Pietro e per averne saccheggiato l'episcopio; ma il Diacono Ranieri, anziché comparire a difendersi, si lasciò condannare in contumacia. Interessante dunque è notare che la sentenza del 967 di Ottone I contro Ranieri, figlio del Conte Teudegrimo di Modigliana, coincide appunto con l'anno in cui la tradizione vuole che i Conti Guidi siano scesi in Italia con Ottone I e da lui abbiano ricevuto in feudo Modigliana. Se del Diacono Ranieri non si conoscono discendenti diretti, rimane comunque traccia di quelli del fratello minore Guido. In una carta dell'8 giugno 992 scritta nel castello di Modigliana appare che la contessa Willa o Guilla figlia del marchese (non si sa dia quale circoscrizione) Ubaldo, figlio a sua volta del marchese di Spoleto e marchese di Camerino Bonifacio II della dinastia degli Hucpoldingi, essendo rimasta vedova del conte Teudegrimo II figlio del conte Guido I, insieme con suo figlio Guido II, offrirono in suffragio delle anime del consorte, per lei, e del padre, per lui, alla Badia di San Fedele a Strumi nel territorio di Poppi, fondata dal conte Teudegrimo II, le ville di Larniano, di Loscove e di Quorle nel Casentino. Per altro, con una nuova scrittura del 13 novembre 1017 fatta in Porciano, lo stesso Conte Guido II donò alla Badia di Strumi altri beni in suffragio dell'anima sua e della contessa Emilia sua consorte. La qual contessa Emilia si rammenta defunta nel 1029, allorché con strumento del marzo di detto anno lo stesso Conte Guido II, per rimedio delle anime dei suoi genitori e di sua moglie Emilia, conferì alla Badia di Strumi tutte le decime delle sue corti di Porciano, di Vado, di Cetica, e di Larniano nel Casentino, a condizione che l'abate di quel monastero dovesse distribuire ogni giorno una refezione a dodici pellegrini. Figli del conte Guido II furono i conti Teudegrimo III e Guido III che nell'aprile del 1034, stando in Pistoia, donarono alla cattedrale per suffragare l'anima del defunto loro genitore il conte Guido II dieci poderi posti nei distretti di Montale, di Tizzana e sul Vincio dell'Ombrone pistoiese. Né meno importante è la notizia che fornisce un altro strumento del 23 maggio 1043 scritto nel Castello di Vincio sull'Ombrone, ovvero che la moglie di Guido III faceva di nome Adeletta ed era figlia di un Ildebrando. In quell'anno suo marito si era ammalato e, essendo in fin di vita nel suo castello di Vincio, destinò molti beni alla cattedrale di Pistoia. Un atto notarile dell'anno 1100 indica come uno dei figli di Teudegrimo III un conte Alberto a sua volta padre di Guido IV. In una delle carte del Monastero di Rosano, che porta l'indicazione del 10 settembre Indizione VIII, ma che potrebbe riferirsi al 1055 o al 1070, quando era badessa di donna Berta, sono nominati il conte Guido IV ed suo figlio Guido V. Il conte Guido V sposò una Ermellina figlia del primo matrimonio del conte Alberto di Mangona detto anche "marchese" per le seconde nozze contratte con la marchesa Sofia vedova di Arrigo I dei Bourbon del Monte Santa Maria. Guido ed Ermellina ebbero tre figli cioè Teudegrimo, Guido o Guido Guerra I, e Ruggieri morto però fanciullo come indicato da una pergamena del luglio 1097, scritta nel Castello del Monte di Croce, con la quale il conte Guido V, rifacendosi all'editto del re Liutprando, dette la libertà a un servo per suffragare l'anima del figlio defunto. Tra il 1086 ed il 1099 era mancata in vita anche la contessa Ermellina perché con un atto del novembre del 1094, e di nuovo in uno del 21 gennaio 1096, il marito suffragava per l'anima della defunta contessa Ermellina con offrire dei beni alla Badia di Strumi. Guido V e il figlio Guido, detto "Guerra", frequentavano regolarmente la corte di Matilde di Canossa. Guido V, nell'aprile del 1085 e il 16 dicembre del 1098, si trovava in Pistoia con la Grancontessa e nel luglio del 1099 insieme al figlio Guido Guerra che il 12 ottobre dello stesso anno, ma a Brescello lo si trova indicato come marchese. Secondo alcune interpretazioni il titolo di marchese nasceva dal fatto che la grancontessa Matilde lo avesse adottato o gli avesse fatto da madrina al battesimo. Ma una lettura diversa spiegherebbe il titolo di marchese per Guido Guerra II in virtù del fatto che, apparentemente, era l'unico erede, Teudegrimo era morto proprio nel 1099, della marchesa Sofia sua nonna. Interessante un documento del novembre del 1100 redatto a Pistoia che fa menzione di un viaggio al Santo Sepolcro di Guido V nel marzo dello stesso anno. Il conte Guido V morì nel 1103 lasciando Guido Guerra II suo unico erede. Vuole la leggenda, riportata anche da Boccaccio, che i Conti Guidi regnassero su Ravenna ma fossero così crudeli tiranni che, a seguito di una sollevazione popolare, vennero tutti sterminati dai rivoltosi eccetto un figlioletto, Guido, che si trovava a balia nel castello di Modigliana. Sempre la favola vuole che questo Guido fosse poi conosciuto come Guido Besangue, o Beisangue o Bevisangue perché avesse l'abitudine di leccare la sua spada ogni volta che la usava per uccidere qualcuno. Uno dei suoi nipoti, scrive Boccaccio, "Guido Guerra ebbe nome; il soprannome di questo Guido si crede venisse da un desiderio innato d'arme, il quale si dice che era in lui d'essere sempre in opere di guerra". Ma qui finisce la leggenda evidentemente costruita su episodi temporalmente diversi, e romanzati, della storia dei Guidi. Da una pergamena del 31 gennaio 1104 relativa a un'altra donazione all'abbazia di Vallombrosa si evince che il conte Guido Guerra I era sposato alla contessa Imilia, figlia di Rainaldo detto Sinbaldo. Tre mesi dopo Guido Guerra I era tornato in Lombardia, dove il 24 aprile risultò fra i testimoni di un atto della "Grancontessa" Matilde di Canossa in favore della Badia di Polirone. Il nome di Imilia invece ricompare nel febbraio del 1116 nella pieve di San Detole dove, con il marito, ratificò una donazione in favore della Badia di San Benedetto in Alpe. E la contessa Imilia si trovava insieme al suo consorte nel dicembre del 1119 nel loro palazzo di Pistoia quando assegnarono terreni e abitazioni a quelli del piviere di Empoli che si fossero recati a fabbricare case per abitarle in Empoli nuova. Imilia, dopo aver dato al conte un figlio che prese il nome di Guido Guerra II, attorno al 1131 era rimasta vedova come dichiara una pergamena del mese di gennaio di quell'anno ed era sempre viva il 3 maggio del 1133 quando il conte Guido Guerra II, su suo consiglio, vendé per lire cento all'abate di San Pietro a Roti in Val d'Ambra il diritto di utilizzare le acque dell'Ambra per un nuovo molino. Il nome di Imilia si ripresenta anche nel luglio 1146 quando, con il figlio, rinunciò ai diritti sul Castello di Moggiona in favore dell'Ordine dei Camaldolensi. Sempre Giovanni Villani al capitolo XXXVII della Cronica scrive: il "conte Guido vecchio prese per moglie la figliuola di messere Bellincione Berti de' Rovignani, ch'era il maggiore e 'l più onorato cavaliere di Firenze e le sue case succedettono poi per retaggio a' conti, le quali furono a porta san Piero in su la porta vecchia. Quella donna ebbe nome Gualdrada e per bellezza e bello parlare di lei la tolse veggendola in santa Reparata coll'altre donne e donzelle di Firenze. Quando lo 'mperadore Otto quarto venne in Firenze e veggendo le belle donne della città che in santa Reparata per lui erano ramiate, questa pulcella più piacque allo 'mperadore; e 'l padre di lei, dicendo allo 'mperadore ch'egli avea podere di fargliele basciare, la donzella rispose che già uomo vivente la bascerebbe se non fosse suo marito; per la quale parola lo 'mperadore molto la commendò e il detto conte Guido preso d'amore di lei, per la sua avvenentezza e per consiglio del detto Otto imperadore, la si fece a moglie non guardando perch'ella fosse di più basso lignaggio di lui né guardando a dote onde tutti i conti Guidi sono nati del detto conte e della detta donna in questo modo;". Vero è che Guido Guerra III si sposò con Gualdrada de' Ravignani ma l'episodio leggendario raccontato da Giovanni Villani e poi divenuta una favole pseudo-letteraria non è mai realmente avvenuto come dimostrano due donazioni del 1180 e del 1190, firmate dal conte e dalla contessa, che spostano il loro matrimonio ad almeno 29 anni prima della venuta di Ottone a Firenze. Non è leggenda invece che proprio il conte Guido Guerra III, marito di donna Gualdrada, fu colui che ricucì gli strappi tra la sua famiglia e i fiorentini. Un riavvicinamento provvidenziale in un periodo in cui i nemici spuntavano da tutte le parti. E infatti "negli anni di Cristo 1203, essendo consolo in Firenze Brunellino Brunelli de' Razzanti e suoi compagni, i Fiorentini disfeciono il castello di Montelupo perché non volea ubbidire al comune. E in questo anno medesimo i Pistolesi tolsono il castello di Montemurlo a' conti Guidi; ma poco appresso il Settembre v'andarono ad oste i Fiorentini in servigio de' conti Guidi e riebberlo e renderlo a' conti Guidi. E poi nel 1207 i Fiorentini feciono fare pace tra Pistolesi e conti Guidi ma poi, non possendo bene difendere i conti da Pistolesi Montemurlo, perocch'era loro troppo vicino e aveanvi fatto appetto il castello del Montale, sì 'l vendero i conti Guidi al comune di Firenze libbre cinquemila di fiorini piccioli, che sarebbono oggi cinquemila fiorini d'oro; e ciò fu gli anni di Cristo 1209 ma i conti da Porciano mai non vollono dare parola per la loro parte alla vendita". Il conte Guido Guerra II è lo stesso Conte Guido menzionato dallo storico Ottone di Frisinga quando nell'anno 1144 scriveva che i senesi si erano alleati con un Conte Guido che il cronachista qualifica come il più potente signore della Toscana. Non a sproposito visto che fu lui che nel giugno del 1147 sconfisse con i suoi soldati e quelli dei suoi alleati un'armata inviata dai fiorentini per conquistare il suo Castello di Monte di Croce. Che l'alleato dei senesi fosse lui è inoltre dimostrato da una sua cospicua donazione alla Signoria di Siena di varie parcelle signoriali avvenuta nel 1167, che venne poi confermata il 27 aprile 1167 nel Castello di San Quirico dall'arcivescovo di Colonia Rainaldo, come arcicancelliere d'Italia in nome dell'Imperatore Federico I. Suo figlio fu il conte Guido Guerra III, residente in Pistoia. Alla morte del padre, nel 1186, l'abate di Marturi (Abbazia di San Michele Arcangelo a Marturi presso Poggibonsi) presentò querela alla curia imperiale residente in San Miniato contro di lui in quanto quei beni donati dal padre al Comune di Siena erano stati ritolti da Guido Guerra II proprio al Monastero di Marturi. Il conte, nello stesso anno, fu condannato a restituire tutti i beni sottratti al monastero e a pagare le spese giudiziarie. A parte questo episodio Guido Guerra III fu, per l'epoca, il più potente signore della Toscana e l'apice della parabola signoriale dei conti Guidi. Nel 1185 era alla corte dell'imperatore Federico I Barbarossa nel suo passaggio per Firenze e lo persuase a togliere alla città la giurisdizione del suo contado ovvero a liberare i suoi possedimenti dai tributi dovuti a Firenze. Successivamente l'imperatore Enrico VI, in un diploma dato in Napoli il 25 maggio 1191, si appellava a Guido Guerra III come "suo diletto Principe Guido" che qualificava come Palatino e Conte di tutta la Toscana. Il diploma, inoltre, conferiva a lui e ai suoi successori giurisdizione e possesso su circa 200 tra ville e castelli della Romagna e della Toscana col diritto di bando, di placito, di teloneo, distretto, ripatico, mercati, mulini, corsi d'acqua, paludi, pesche, cacce, miniere, cave conferendogli anche diritti sui monti e le valli che, propriamente, spettavano solo all'impero. Enrico VI inoltre nominò Guido Guerra III capo della famiglia e ribadendo, col titolo di Mutilianum cum rocca et castello et cum tota curte ejusdem ossia Signore di Modigliana con rocca e castello e tutto ciò che ne dipende, che il ramo dei Guidi di Modigliana fosse il ramo principale della famiglia. Proprio con questo titolo promulgò lo Statuto della Val d'Ambra dimostrandosi abile e illuminato legislatore. L'11 novembre 1195 Guido Guerra III, comparve fra i magnati al congresso di Borgo San Genesio per aderire alla lega guelfa dei comuni e dinasti della Toscana seguaci di quel partito contro la fazione dei ghibellini. Ma il nome di Guido Guerra III è legato soprattutto per il suo leggendario matrimonio con la bella Gualdrada figlia di Bellincione Berti de' Ravignani di Firenze avvenuto attorno al 1180, dal quale nacquero cinque figli: Guido Guerra IV a cui passò la Contea di Modigliana, Marcovaldo conte di Dovadola, Aghinolfo conte di Romena; Teudegrimo conte di Porciano; ed un quinto figlio di nome Ruggieri che però morì prima degli altri quattro fratelli. Tutti i 5 figli del conte Guido Guerra III di Modigliana sono rammentati nel diploma concesso dall'Imperatore Federico II il 29 novembre del 1220. Ruggieri viveva ancora nel 1225 quando con i fratelli e la madre Gualdrada si trovava a Firenze nel palazzo di famiglia siglò l'acquisto di vari castelli e corti nell'area di Bagno di Romagna. Ma nel 1229 il conte Ruggieri era mancato senza successione, per cui gli altri 4 fratelli si divisero la sua eredità e divennero capi di altrettanti rami della stessa famiglia. Il primogenito Guido Guerra IV ebbe dalla sua consorte contessa Giovanna, sorella del marchese Oberto de' Pallavicini di Lombardia, due figli al maggiore dei quali, il conte Guido Novello, fu assegnata la contea di Modigliana, mentre al secondogenito, il conte Simone I, toccò la contea di Battifolle, ossia di Poppi, come anche confermato da un diploma imperiale dell'aprile del 1247. L'altro fratello del Conte Guido Guerra IV, il conte Marcovaldo di Dovadola sposò la contessa Beatrice di Capraia ed ebbe due figli maschi, cioè il conte Guido Guerra V ed il conte Ruggieri II, noti alla storia fiorentina per avere, in contrapposizione al conte Guido Novello di Modigliana e al conte Simone di Battifolle loro cugini, continuato a militare per la parte Guelfa. Infatti i quattro cugini si ritrovarono faccia a faccia sul campo di battaglia a Montaperti. In particolare Novello di Modigliana nel 1252, alla testa di truppe ghibellini, assalì il castello di Figline e nel 1253, stando presso Bagno di Romagna, fece quietanza di Poppi col fratello Simone e con i nipoti, quindi dal 1261 al 1266 governò la Toscana come vicario di re Manfredi capoparte ghibellino e nell'anno precedente comandò l'esercito senese contro i fiorentini a Colle Val d'Elsa. Contemporaneamente lo zio Guido Guerra combatté la battaglia di Benevento con i guelfi di Carlo I d'Angiò a capo di uno squadrone di cavalleria pesante contribuendo alla sconfitta finale dei ghibellini in Toscana. Per questo Dante, che sostanzialmente parteggiava per l'Impero, lo mise nel canto XVI dell'Inferno: «Nepote fu della buona Gualdrada Guidoguerra ebbe nome ed in sua vita Fece col senno assai e con la spada» (Dante Alighieri, Divina Commedia) L'inizio delle ostilità con Firenze e la battaglia di Montedicroce Dividi Si propone di dividere questa pagina in due, creandone un'altra intitolata battaglia di Montedicroce. Segui i consigli sulla dimensione delle voci. Vedi anche la discussione. Montedicroce, Montecroce o Monte di Croce, che si trovava su un'altura nei pressi del borgo di Fornello oggi nel comune di Pontassieve, fu tra i primi castelli distrutti dal Comune di Firenze allorché la città, cresciuta di popolo e di potere, cercò di distendere il suo contado, e di allargare la sua signoria; cosicché qualunque castello o fortezza non le ubbidisse, gli faceva guerra. Infatti i Fiorentini di primo slancio, nel 1107 corsero a guerreggiare e presero per forza il Castello di Monte Orlandi; secondariamente, nel 1113, il Castello di Monte Cascioli, che erano entrambi dei conti Cadolingi; in terzo luogo, nel 1135, il castello di Monte Buoni, che era dei Buondelmonti; e finalmente andarono a Monte di Croce che apparteneva ai conti Guidi. Racconta Giovanni Villani al capitolo XXXVII della sua Cronica: "Negli anni di Cristo 1146, avendo i Fiorentini guerra co' conti Guidi imperciocché colle loro castella erano troppo presso alla città, e Montedicroce si tenea per loro e facea guerra per la qual cosa, per arte de' Fiorentini v'andarono ad oste co' loro soldati, e per troppa sicurtade, non faccendo buona guardia, furono sconfitti dal conte Guido vecchio e da loro amistà Aretini e altri del mese di Giugno. Ma poi gli anni di Cristo 1154, i Fiorentini tornaro a oste a Montedicroce e per tradimento l'ebbono a disfecionlo infino alle fondamenta; e poi le ragioni che v'aveano i conti Guidi venderono al vescovado di Firenze non possendole gioire né averne frutto e d'allora innanzi non furono i conti Guidi amici del comune di Firenze e simile gli Aretini che gli aveano favorati". Già i conti Giovanni e Francesco, per atto pubblico del 12 agosto 1350, chiesero di essere ricevuti in accomandigia dalla Signoria di Firenze con il loro castello di Modigliana, e con tutto il restante del loro dominio. Fu però quando scoppiò la guerra tra Gregorio XI e i Fiorentini che Modigliana, dopo il sacco di Faenza, si ribellò ai Guidi e si diede alla repubblica fiorentina per atto del popolo firmato il 2 agosto 1377. La Signoria di Firenze, con provvisioni del 21 e 26 dello stesso mese, accettò la direzione di Modigliana e del suo distretto previa la consueta solennità dell'annuncio al suono della campana del palazzo dei Signori, nel tempo in cui era capitano del popolo Roberto di Ricciardo di Saliceto, potestà di Firenze Piero de'Marchesi del Monte, e gonfaloniere di giustizia della Signoria il cittadino Angiolo di Bernardo Ardinghelli. Fra i capitoli della convenzione era scritto che la Signoria di Firenze, per meglio assicurare la libertà agli abitanti di Modigliana, ogni sei mesi avrebbe estratto dalle borse dei cittadini guelfi fiorentini i nomi di coloro che dovevano essere destinati a ricoprire l'incarico di castellani di primo grado nei fortilizi del suo contado, tra cui un castellano per recarsi a Modigliana, ricevervi la consegna della rocca con tutte le armi e forniture da guerra, e fedelmente custodirla con 16 soldati a piedi in tempo di pace e 25 in tempo di guerra. Per le quali cose gli abitanti di Modigliana avrebbe pagato al castellano il debito stipendio. Perduti o venduti, talvolta svenduti, a Firenze tutti gli altri castelli di famiglia, a questo punto, grandi feudatari, rimanevano soltanto i Guidi di Poppi che però resistettero solo fino al 1440. Scrive infatti il Repetti "il fatto è che nell'aprile del 1440, alla venuta in Toscana di Niccolò Piccinino generale di un esercito del Duca di Milano, il Conte Francesco si unì al nemico più acerrimo della Repubblica, allettandolo e facendogli strada per la via del Mugello, con aprirgli il passaggio nel Casentino dal suo castello di S. Leolino. Dondeché ben presto dall'oste milanese furono presi Bibbiena, Romena e altri castelli più per vendicare il conte di Poppi per gli affronti particolari che per aver vantaggio in quella guerra. L'infelice riescita della quale fu dimostrata dalla giornata del 29 giugno dello stesso anno con la battaglia d'Anghiari, di dove i Fiorentini, appena riportata vittoria, rivolsero una parte dell'esercito verso Poppi per castigare quel conte della sua follia. E affinché l'effetto fosse più sollecito, furono messi due campi, l'uno fra il colle di Fronzola e quello di Poppi, l'altro nel piano di Certomondo a piè del castello. Dopo pochi giorni il Conte Francesco, trovandosi chiuso da ogni parte, fu costretto accordarsi alla resa, che fu quale se gli conveniva; imperocché egli non poté impetrare altro se non che di andarsene fuori di tutto il suo stato con i figli e con le robe che seco recare poteva: sicché egli se ne dové partire come i disperati fanno, con il carico di 44 some di muli, maledicendo la sua bestialità. Allora Neri di Gino Capponi, uno de'due commissarj dell'esercito della repubblica, prese di tutto il Casentino la signoria, e il Conte Francesco II di Poppi con la sua prole a Bologna come un esule si riparò. I conti Guidi del ramo di Porciano, avevano la loro residenza nel castello di Porciano, oggi nel comune di Stia, che era anche capitale della loro contea, nel luogo denominato tuttora il Palagio tant'è che la città di Stia fino alla fine del Settecento si chiamava Palagio Fiorentino. La presenza dei Guidi a Stia è per la prima volta menzionata in un atto di donazione rogato nell'aprile del 1054 nella camera del pievano di S. Maria situata in Stia nel casentino. Dal documento appare infatti che il donatore fu un conte Guido figlio del fu Conte Alberto di legge e origine Ripuaria. Due secoli dopo, dal conte Teudegrimo, figlio del Conte Guido Guerra III, e dalla contessa Albiera sua moglie nacquero, tra i figli conosciuti, un altro conte Guido sposatosi poi con la contessa Adelasia. Mentre l'imperatore Arrigo VII era impegnato nella presa di Cremona, Dante il 16 aprile 1311 gli indirizza una lettera vergata "in finibus Thusciae, sub fontem Sarni" cioè "ai confini della Toscana, sotto la fonte d'Arno" vale a dire nel castello di Porciano. Ne erano signori, a quel tempo, i conti Tancredi e Bandino i quali essendo ghibellini prestarono nel 1312 assistenza agli ambasciatori di Arrigo VII nel loro passaggio dal Mugello nel Casentino, e presso lo stesso Arrigo, quando arrivò in Toscana, si recò Tancredi a presentargli la sua devozione. Che i conti di Porciano fossero anche i signori di Palagio, o di Stia vecchia, lo conferma pure lo storico fiorentino Scipione Ammirato allorché all'anno 1358 rammenta un conte Francesco da Porciano al servizio dei Fiorentini e comandante di un corpo di cavalleria, che all'anno 1363, l'Ammirato designa col titolo di conte Francesco da Palagio. Sempre secondo Ammirato, questo conte Francesco era lo stesso conte Guido Francesco dei conti Guidi, morto nel 1369, che volle che la Signoria di Firenze prendesse a tutela i suoi figli e i loro castelli tra cui Porciano e relativi possedimenti. Sempre sotto tutela fiorentina, nel 1392 il conte Antonio Guidi partecipò, con 40 uomini in divisa bianca, in un torneo a Firenze per celebrare la pace fatta in Genova fra la Repubblica Fiorentina e Gian Galeazzo Visconti di Milano. Ma nel 1400 Antonio si ribellò ai Fiorentini pensando di potersi liberare della loro ingombrante presenza e abbracciò il partito del signore di Milano cogliendo l'occasione di una sua nuova guerra contro la Repubblica. Ma gli andò male e, sconfitto nel 1402, fu costretto ad abbandonare quelle terre che possedeva per antica successione e che passarono a Firenze. Dal castello di Romena, oggi nel territorio di Pratovecchio, prese il nome, a partire dal Conte Aghinolfo di Guido Guerra III, uno dei rami dei conti Guidi di Modigliana, che si dissero Guidi di Romena ma anche da Monte Granelli e di Raginopoli. I figli di Aghinolfo I, Guido, Alessandro e un loro terzo fratello, divennero celebri per essere rammentati da Dante nel canto XXX dell'Inferno come falsari del fiorino d'oro che per loro coniò Maestro Adamo da Brescia. L'ombra di lui, cacciata nella bolgia fra i sitibondi, esclama:
«Ma s'io vedessi qui l'anima trista
Di Guido, o di Alessandro, o di lor frate,
Per Fonte Branda non darei la vista»
(Dante Alighieri, Divina Commedia)
Questo mastro Adamo probabilmente corrispondeva a quello spenditore di fiorini falsi dei conti di Romena, di cui fece menzione all'anno 1281 Paolino di Piero nella sua Cronica dicendo: "che in detto anno si trovarono in Firenze fiorini d'oro falsi in quantità per un fuoco che si appese in Borgo S. Lorenzo in casa degli Anchioni. E dicesi che li faceva fare uno de'conti di Romena, e funne preso un loro spenditore, il quale per cose che confessò fu arso". Dal conte Guido d'Aghinolfo I nacque Aghinolfo II conte di Romena, di cui si conosce il testamento fatto nel 1338 dove si nominano sei o sette figli suoi, fra i quali un Conte Alberto, un Conte Guido Uberto di Romena e Monte Granelli, un Bandino (Ildebrandino) vescovo di Arezzo. Ad uno di quei figli del conte Aghinolfo II, nacque il conte Piero di Romena rammentato con il cugino Conte Bandino in due contratti del 14 e del 21 ottobre 1357, allorché vendettero al Comune di Firenze il castello, distretto e giurisdizione di Romena comprese tre altre proprietà per il prezzo di 9600 fiorini di conio fiorentino. Stavolta non quelli di mastro Adamo. La cessione fu ratificata dai Signori e Collegi della Repubblica Fiorentina, mediante provvisione del 23 ottobre 1357. Per effetto della vendita, la Signoria di Firenze deliberò l'esenzione per 5 anni da ogni dazio, gabella e prestanza gli abitanti di Romena e del suo distretto, con l'obbligo per altro di comprare dal Comune di Firenze il sale necessario al loro consumo, e dichiarò che l'estimo del Castello e territorio di Romena ascendeva alla somma di 150 fiorini d'oro l'anno da pagarsi dopo il quinquennio di esenzione fiscale. I due conti, dal canto loro, furono ricevuti in accomandigia perpetua e stipendiati dalla Signoria con l'obbligo del palio. La stessa vendita del Castello di Romena fu anche confermata con successivo contratto del 24 aprile 1381 dal conte Niccolò figlio del Conte Bandino. Uno degli ultimi conti di Romena fu quel conte Roberto del Conte Giovanni di Monte Granelli, il quale il 10 giugno del 1410 stando in Monte Granelli nominò un suo rappresentante, per recarsi a Firenze a presentare il palio consueto la mattina della festa di S. Giovanni. I conti di Dovadola, nella storia fiorentina, si distinsero fra tutti gli altri rami sia per il partito Guelfo che professarono costantemente, sia per le luminose cariche di capitani e di podestà presso le repubbliche di Firenze e di Siena che ricoprirono con onore, sia per il valore militare che taluni di loro dimostrarono. Il 25 marzo 1254 il conte Guido Guerra V, figlio di Marcovaldo, firmò il documento che trattava la vendita al Comune di Firenze del castello di Montemurlo. Al contratto, fra gli altri testimoni, compaiono la contessa Beatrice, sua madre, e il celebre Brunetto Latini. La vendita di Montemurlo fu ratificata il 17 aprile successivo anche dal fratello Conte Ruggieri nella chiesa della pieve di S. Maria di Bagno di Romagna. Nel 1255, di maggio, i due fratelli alienarono per lire 9700 la quarta parte dei castelli, territori e giurisdizioni che avevano in Empoli, Cerreto Guidi, Cerbaia, Vinci e Collegonzi. Nel 1263 seguì in Dovadola un atto di divisione e permuta fra i due fratelli da una parte e il conte Guido del fu Aghinolfo di Romena, loro cugino dall'altra, circa i respettivi diritti, feudi e vassalli di Romagna. Mancato ai vivi il conte Ruggieri, nel 1271 furono stipulati alcuni patti fra il Comune di Tredonzio, il conte Guido di Romena, il conte di Romena e il conte Guido Salvatico figlio del fu conte Ruggieri di Dovadola. Il quale conte Salvatico, nell'anno 1273, restituì al Comune di Firenze i castelli, tra cui Montevarchi, che il conte Ruggieri, dopo la Battaglia di Montaperti, aveva usurpato; Guido Salvatico era quello stesso conte Salvatico che, nel 1278, fece fine e quietanza di un certo debito che la Repubblica fiorentina aveva contratto con i fratelli conti Ruggieri e Guido Guerra VI, padre e zio. Ma il credito del conte Salvatico salì nel 1282, mentre era podestà di Siena, quando venne eletto capitano della Taglia Guelfa in Toscana e nel 1286 quando fu appuntato comandante dell'esercito fiorentino contro i Pisani, e ancora quando venne nuovamente richiamato nel 1288 a ricoprire la carica di podestà nella stessa città di Siena. Nel 1289, mediante un atto rogato nel piano di S. Ruffillo presso Dovadola, si fece permuta di beni fra Guido Novello e Guido Salvatico: all'ultimo dei quali toccò il castello e distretto di Dovadola con tutti i diritti baronali, che poi, nel 1301, cedette al conte Ruggieri suo figlio. E non fu minore la reputazione che presso il partito Guelfo si acquistò il Conte Ruggieri, figlio del Conte Guido Salvatico, poiché nel 1304 la Repubblica fiorentina lo nominò all'importante ufficio di podestà, e nel 1322 fu eletto capitano del popolo dalla Repubblica senese. Nel 1315, Ruggieri di Guido Salvatico fu investito dal re Roberto di Sicilia di tutte le ragioni e diritti che il conte Manfredi d'Ampinana, figlio del fu conte Guido Novello di Modigliana, pretendeva sopra il castello e distretto di Tredonzio, per essersi Manfredi posto dalla parte Ghibellina, e a tale effetto dichiarato ribelle della chiesa e della Repubblica fiorentina. Diversamente dai suoi avi si comportò il conte Marcovaldo di Dovadola, figlio del Conte Ruggieri dato che nel 1340 macchinò con i Bardi e i Frescobaldi di sovvertire l'ordine dello Stato; scoperto, entrò in clandestinità e Firenze pose su di lui una grossa taglia. Ma, al dire di Scipione Ammirato, in considerazione dei servigi prestati dal Conte Ruggieri e dai suoi predecessori, sempre stati devoti al popolo fiorentino, gli riuscì di ottenere l'assoluzione dal bando della testa e da ogni altra pena, come pure di riacquistare alcuni castelli che erano stati messi ai libri della camera del Comune come cosa della Repubblica. A patto però dell'obbligo dell'offerta annuale per la festa di S. Giovanni, di un palio di seta in segno d'ossequio, ma non di soggezione, verso il Comune di Firenze. Alla morte del conte Marcovaldo II gli succedette, nella signoria di Dovadola, il fratello Conte Francesco il quale, avendo mosso questione per diritti di dominio contro i figli del conte Bandino di Monte Granelli, e sembrando a lui essere questi ultimi favoriti dalla Signoria di Firenze, si giovò degli amici che aveva nel castello di Portico per distaccare quegli uomini dalla dipendenza della Repubblica fiorentina. E, quasi che ciò non gli bastasse, andava facendo grandi scorrerie in Romagna. Così il Comune di Firenze ordinò, che s'inviassero contro di lui 300 armati capitanati da messer Benghi di Buondelmonte. Benghi però, avendo troppo indugiato per via, rese inutile quella spedizione; allora i dieci della Balia di guerra, alla fine del 1376, spedirono contro il signore di Dovadola 600 fanti comandati dallo storiografo fiorentino Marchionne di Coppo Stefani, che poi scrisse: "e per non lodare me mi tacerò della materia, salvo che ne dirò, che in sei mesi fu il conte Francesco di Dovadola sì stretto nel suo castello, che di cosa che egli avesse al di fuori, di niuna non gli fu possibile metter dentro, se non quello che vi si era; e la brigata vivette di quello di fuori continuo del loro [...] In sei mesi che io non perdei oltre ai 15 uomini, e de'suoi avemmo 123 prigioni, e tollemmo Beccova [sic] per forza, ed egli ridusse tutte le sue fortezze e sé dentro de'muri; e giammai non si poté mettere oste per le grandi nevi che furono in quest'anno, e sempre sono in quel paese grandissime. Tornai compiuti i sei mesi a Firenze, a dì 10 giugno 1377, e andovvi Buono di taddeo Strada, altro cittadino fiorentino, il quale vi stette infino a settembre; tanto che la pace della Chiesa fu fatta". Al conte Francesco subentrò per successione nel dominio di Dovadola e di altri luoghi di Romagna suo figlio conte Malatesta, il quale dapprima aderì alla causa e al partito degli Ordelaffi di Forlì, a cui era raccomandato; poi, nel 1392, si pose sotto la protezione della Repubblica fiorentina che lo accolse nella lega Guelfa stabilita in quell'anno in Bologna; e finalmente nel 1405 lo stesso conte di libera volontà cedette alla Signoria di Firenze ogni suo diritto sul castello di Dovadola. Gregorio XII ne rimase contrariato e dunque il governo fiorentino commise ai suoi ambasciatori di dire al pontefice: che il castello di Dovadola era stato donato e non comprato dal conte Malatesta suo legittimo signore. Morto questo conte nel 1407, i suoi quattro figli, Giovanni, Carlo, Francesco e Guelfo, pregarono la signoria di Firenze di accettarli in accomandigia con i loro castelli di Monte Vecchio, Tredozio, Particeto, La qual cosa fu loro concessa con l'obbligo di dare il tributo annuo del palio, e con dover dichiarare che la porzione del castello e pertinenze di Tredozio, già spettante al conte Niccolò del conte Bandino di Monte Granelli, rimanesse in potere della Repubblica fiorentina.

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Firenze. Palazzo Buondelmonti

I BUONDELMONTI
I Buondelmonti furono una nobile famiglia fiorentina, divenuta celebre per la storica lite con la famiglia Amidei, da cui dovevano derivare le lunghe lotte tra guelfi e ghibellini in Firenze. Le origini della famiglia si hanno con Sichelmo (X secolo), i cui discendenti arrivarono ad avere il dominio su buona parte delle valli del Greve e del Pesa. La famiglia si inurbò a Firenze intorno al 1137 con Uguccione e Rosso, in seguito alla distruzione del loro castello di Montebuoni, da cui derivò una discendenza che diede alla città prestigiosi condottieri e politici. Un esponente dei Buondelmonti, Buondelmonte, fu protagonista degli scontri con gli Amidei del 1216, che secondo i cronisti fiorentini furono all'origine della frattura civile tra guelfi e ghibellini in città. Buondelmonte doveva infatti sposarsi con un'Amidei, però non si presentò alle nozze deciso ormai a sposare una Donati: l'offesa venne lavata col sangue in un agguato presso il Ponte Vecchio, dove morì Buondelmonte. A poco servì nel 1239 un matrimonio riparatore di una figlia di Rinieri Buondelmonti con Neri Piccolino degli Uberti, ghibellino. Da allora la famiglia si schierò decisamente, per forza di cose, col partito guelfo, collocazione politica che fu alla base delle fortune dopo la definitiva sconfitta della parte ghibellina. Le prime case della famiglia erano in Borgo Santi Apostoli, nelle cui vicinanze resta ancora oggi la torre dei Buondelmonti. In quel periodo si legarono agli Acciaiuoli, le cui case erano vicine. Nei secoli successivi, sebbene alcuni rami si estinguessero, i Buondelmonti furono sempre tra le famiglie più in vista di Firenze, ottenendo cariche e riconoscimenti sia da parte della Repubblica Fiorentina che dai Medici. Nel Quattrocento Jacopo fu uno dei rari casi in famiglia di mercante di successo, attivo a Costantinopoli, mentre normalmente la famiglia traeva le proprie ricchezze dalle rendite fondiarie. Il famoso condottiero Pippo Spano era nato Filippo Buondelmonti degli Scolari, e divenne comandante degli eserciti di Sigismondo d'Ungheria, dove ottenne il titolo di conte "ispàn". Fu raffigurato in un celebre affresco di Andrea del Castagno. A Zanobi Buondelmonti, Niccolò Machiavelli dedicò i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio; entrambi, che frequentavano l'Accademia neoplatonica degli Orti Oricellari, finirono poi coinvolti nella congiura antimedicea con il cardinale Giulio: il Buondelmonti si salvò solo fuggendo in Francia. La pace coi Medici fu promossa da altri esponenti della famiglia, come Leonardo che fu un ricchissimo mercante e favorito da Clemente VII, ottenendo il permesso di realizzare per la famiglia un grande palazzo signorile agli inizi del Cinquecento, il Palazzo Buondelmonti che ancora oggi si trova in piazza Santa Trinita. Benedetto Buondelmonti, nel 1531, fu tra i dodici scelti dai Medici appena rientrati in città per far parte del Consiglio dei Dodici, che doveva stendere una nuova costituzione abolendo l'antico istituto della Signoria e del gonfalonierato e istituendo un Senato puramente onorifico e consultivo. La famiglia si estinse in linea maschile nel 1774 con Francesco Caccolino, che perse due figli maschi e la cui figlia Luisa Giuseppa, morta nel 1845, andò in sposa al marchese Ubaldo Feroni. Eredi di Luisa Giuseppa furono le tre cugine Marianna, Emilia ed Eleonora Rinuccini.

I CERCHI
Giunti a Firenze nella prima metà del XIII secolo, provenienti dal contado, in particolare dal castello di Acone presso Pontassieve, si guadagnarono presto una solida ricchezza attraverso il commercio e le attività finanziarie, arrivando a diventare una delle più ricche famiglie dell'epoca. Nel 1245 moriva Umiliana de' Cerchi, una donna che aveva vissuto dedicandosi alla preghiera e ad aiutare la povera gente, venerata subito come una santa vivente e beatificata in seguito. Famiglia guelfa, si impose dopo la battaglia di Benevento che fece sì che i ghibellini venissero definitivamente cacciati dalla città. Comprò alcune case nella cerchia antica di Firenze, già appartenute ai Conti Guidi e confinanti con quelle degli orgogliosi nobili dei Donati, con i quali nacquero alcune contese e problemi di vicinato. Queste vicende furono alla base di una rivalità sempre crescente, con numerosi episodi via via più gravi, che nel giro di pochi anni portò la città sull'orlo di una nuova guerra civile, con la nascita di due nuove fazioni opposte: quella dei guelfi neri, capitanati da Corso Donati e quella dei guelfi bianchi, capitanata appunto da Vieri de' Cerchi. La vicenda viene ricordata da Dino Compagni in questi termini: «Intervenne che una famiglia che si chiamavano i Cerchi (uomini di basso stato, ma buoni mercatanti e gran ricchi, e vestivano bene, e teneano molti famigli e cavalli, e aveano bella apparenza), alcuni di loro comperarono il palagio de' conti, che era presso alle case de' Pazzi e de' Donati, i quali erano più antichi di sangue, ma non sì ricchi: onde, veggendo i Cerchi salire in altezza (avendo murato e cresciuto il palazzo, e tenendo gran vita), cominciorono avere i Donati grande odio contra loro» (Dino Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, Libro I, XX) I Bianchi erano più moderati, mentre i Neri sostenevano l'oligarchia nobiliare cittadina e davano un assoluto appoggio al papa (all'epoca il controverso Bonifacio VIII). Sebbene più numerosi i Bianchi, ne facevano parte per esempio Dante Alighieri e Dino Compagni, essi non seppero mai per vigliaccheria o per riluttanza a prendere le armi contro l'altra fazione, e non sfruttarono i momenti di temporanea superiorità rispetto all'altra fazione a volte indebolita. Con l'arrivo di Carlo di Valois, inviato dal papa, la situazione si complicò per i bianchi. Con il pretesto di una congiura contro il re ospite in città (congiura documentata da un atto notarile stipulato tra i Gherardini, i Cerchi e la Repubblica di Siena, ma probabilmente frutto di una falsificazione ad hoc dagli stessi Neri) egli prendeva il controllo e cacciava tutti i Bianchi esiliandoli. Dante cita in vari punti, in maniera spesso indiretta i Cerchi, e li accusa della sua rovina per la loro stolta guida del partito dei guelfi bianchi. A Ciacco nel VI canto dell'Inferno li fa chiamare come la parte selvaggia, intesa come rustica, del contado, mentre Cacciaguida dice con un certo rimpianto, che se non fossero esistiti i conflitti tra papa e imperatore, magari molte famiglie oggi fatte fiorentine sarebbero rimaste nel contado. Una parte dei Cerchi, quella meno faziosa, su concessione papale poté tornare a Firenze già un anno dopo l'esilio, nel 1303, anche se la loro fortuna familiare era ormai in pieno declino e non seppe tornare ai fasti di un tempo. Un'altra parte, invece, raggiunse la Lunigiana e fondò il paese di Mangia, comune di Sesta Godano, provincia della Spezia. Il Palazzo dei Cerchi era costituito a partire dall'accorpamento di numerose case-torri addossate e si trova ancora tra Via del Corso e Via de' Cerchi a Firenze. La chiesa di Santa Margherita de' Cerchi si trova nelle vicinanze.

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Affresco con lo stemma degli Amidei

GLI AMIDEI
Gli Amidei sono una delle più antiche e nobili famiglie fiorentine, che la tradizione indicava di origine romana e dimoranti in città fino dalla sua fondazione. È famiglia di primo cerchio, citata sia dal Villani sia da Ricordano Malispini. E inoltre famiglia consolare: Bongianni è ricordato come console nel 1182 nella Cronica dello pseudo Brunetto Latini e prima viene ricordato da Pietro Santini: Amideo console nel 1174; espresse nella pace una personalità come Amadio che fu uno dei "Sette Santi" fondatori dell'Ordine dei servi di Maria e si distinse, famiglia ghibellina, negli scontri tra guelfi e ghibellini. Nel 1260 dopo Montaperti compaiono nel Consiglio del comune con 4 consiglieri: Dominus Giovanni, Lamberto di dominus Berizzino, Corsino, Bernardo di Odarrigo; con 6 nel 1261: Lamberto di Dominus Berizzino, Giovanni del fu Odarrigo, dominus Bernardo, dominus Corsino, dominus Albizzo, dominus Giovanni di Odarrigo. Con la definitiva sconfitta ghibellina del 1266 si apre per gli Amidei la via dell'esilio: «De Populo Sancti Stephani ad pontem ...........omnes de domo Amideorum exceptis filiis Oderighi Rinaldi e Chele filio domini Ianuzzi». Il colpo di grazia alle famiglie ghibelline viene data dalla pace del cardinale Latino che pur fondandosi sulla riconciliazione delle fazioni decreta il confino per 55 grandi ghibellini: tra questi tre degli Amidei. Nonostante ciò due degli Amidei compariranno ancora nel Consiglio del 1285 per il Sesto di San Piero a Scheraggio. Ma oramai la grande famiglia è destinata a scomparire dalla storia fiorentina. Ciononostante la loro fama storica, è associata principalmente alla lite con la famiglia Buondelmonti, che secondo la leggenda doveva portare alla divisione della città tra guelfi e ghibellini. A questo proposito sono stati citati nella Divina Commedia. Parlano anche degli Amidei i cronisti fiorentini Giovanni Villani e Dino Compagni, e in seguito anche Niccolò Machiavelli. Avendo Buondelmonte dei Buondelmonti preso parte a una rissa, si decise, dopo una riunione delle famiglie coinvolte, che per riparare ai danni mantenendo intatto l'onore egli avrebbe sposato la figlia di Lambertuccio Amidei. Buondelmonte però, tentato da Gualdrada dei Donati di sposare una del loro medesimo casato, e assicurato che essi avrebbero pagato una "multa" per aver annullato il matrimonio, decise di mandare a monte le nozze con gli Amidei e di sposare una dei Donati. A questo punto gli Amidei s'infuriarono e meditarono una vendetta, e il consigliere degli Amidei, Mosca dei Lamberti pronunciò la celebre frase "Cosa fatta capo ha", sostenendo che Buondelmonte doveva essere ucciso. A Pasqua del 1215 fu infatti ucciso davanti a una statua di Marte e così la città si divise tra gli oppositori e i sostenitori di questo evento. Mosca dei Lamberti è citato nella Divina Commedia, nell'Inferno, XXVIII Canto, accusato di essere stato seminatore di discordie e di lotte, terminando il periodo felice di Firenze.
"La casa di che nacque il vostro fleto
Per lo giusto disdegno che v'ha morti
E puose fine al vostro viver lieto
Era onorata essa e i suoi consorti
O Buondelmonte quanto mal fuggisti
Le nozze sue per li altrui conforti."
Paradiso, Canto XVI
Questi versi sono stati riportati in un'iscrizione sul marmo sulla torre degli Amidei sotto allo stemma degli Amidei. Con questi versi Dante, scrivendo "La casa", si riferisce alla famiglia degli Amidei e sostiene che è da questa famiglia che nacque il pianto di Firenze, ossia la divisione tra guelfi e ghibellini e poi tra guelfi bianchi e neri, che ha portato morti e dolori e ha causato anche l'esilio di Dante stesso. Forse per questo sostiene che lo sdegno provato dagli Amidei sia giustificato e fa cadere la colpa della lite su Buondelmonte. Forse è anche per questo motivo che Dante sostiene che si schierarono con il partito ghibellino il quale fu dapprima a capo di Firenze, ma dopo una vittoria guelfa, perse il controllo della città. Successivamente però, dopo la battaglia di Montaperti (1260), si riaprirono loro le porte di Firenze ma già nel 1266, dopo la rivincita guelfa di Benevento, furono di nuovo esiliati per sempre da Firenze. La famiglia prese il distintivo "di Capo di Ponte", derivato dai loro possessi in Por Santa Maria e Borgo Santi Apostoli e quindi ai lati del Ponte Vecchio, per distinguersi da un altro omonimo casato meno blasonato. Nel centro di Firenze hanno anche una torre: la "Torre degli Amidei" che fu in parte danneggiata durante una guerra, ma in seguito restaurata. Gli Amidei, a Firenze, svolgevano attività creditizie; a testimoniare questo, vi sono più testamenti che incaricavano gli eredi a riscattare alcuni prestiti. A Greve in Chianti, gli Amidei tra il XII ed il XIV secolo possedevano un castello, il castello di Mugnana, prima che fosse venduto ai Bardi e poi agli Strozzi, e avevano alcuni possedimenti nella val d'Ema. Probabilmente nel loro feudo imperiale producevano vini, soprattutto il chianti e forse olio. Nel 1700 circa, si sono dedicati all'editoria ed alla vendita di libri. Il 20 aprile 1749 Maddalena Amidei si unì in matrimonio a Carlo Barbiellini, accordandosi affinché venisse mantenuto il nome Amidei. Tuttora continuano a vivere le nuove generazioni soprattutto in centro Italia. La colpa dell'inizio della lotta tra guelfi e ghibellini a Firenze è sempre ricaduta su Buondelmonte, accusato di non aver mantenuto la parola data e di aver ferito l'onore della famiglia degli Amidei con il mancato matrimonio. Questa teoria è stata supportata da Giovanni Villani prima, da Dante in seguito ed anche da altri. Tuttavia un'altra ipotesi considera gli Amidei maggiormente responsabili, in quanto Buondelmonte viene considerato un giovanotto con le idee confuse, finito male per le convenzioni di quel tempo. Comunque sia nel 1200, cioè quando è avvenuta l'uccisione di Buondelmonte, l'onore era messo in primo piano, considerato importante quasi quanto la vita e perciò si può comprendere il motivo di una così grave punizione. Lo stemma degli Amidei consisteva in uno scudo d'oro fasciato da tre barre rosse che cominciava con la barra rossa e continuava alternandosi con l'oro dello scudo. Con il passare degli anni ci fu anche un'altra versione dello stemma leggermente modificato cioè uno scudo d'oro che aveva però in alto l'oro, poi una barra rossa e finiva con l'oro. Dopo, nel 1749 ci fu, a seguito del matrimonio con i Barbiellini, uno stemma dei Barbiellini Amidei in cui c'era in una metà lo stemma degli Amidei, nell'altra quello dei Barbiellini. In seguito, nel 1800 gli fu fatta un'ultima modifica dopo il matrimonio con una di casa Lelmi.

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Eugenio Caruso - 24 - 09 - 2021

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