Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.
Cherubini - Raffaello
RIASSUNTO DEL CANTO XVII
Il Canto chiude il «trittico» dedicato all'incontro con l'avo Cacciaguida e alla definizione della missione poetica di Dante, dopo il XV in cui l'antenato si era presentato rievocando l'antica Firenze del XII sec. e dopo il XVI in cui, dopo l'analisi delle cause della decadenza morale della città, c'era stata la rassegna delle principali famiglie fiorentine decadute. Firenze è ancora al centro del Canto XVII, poiché Dante chiede all'avo spiegazioni circa l'esilio che gli è stato più volte preannunciato nel corso del viaggio ultraterreno, il che indurrà poi il poeta a manifestare i suoi dubbi circa l'adempimento della missione: lo stile è retoricamente elevato, già in apertura con il paragone fra Dante e Fetonte che si rivolse alla madre Climene per avere rassicurazioni sul fatto che Apollo fosse suo padre, mentre qui il poeta vuole avere conferma circa le parole spesso malevole che ha udito contro di sé (anche Fetonte, secondo il mito classico, aveva subìto lo scherno di Epafo che non credeva fosse figlio di Apollo).
È molto evidente poi il parallelismo, come nel Canto XV, fra Dante e Enea che incontra il padre Anchise nel libro VI dell'Eneide, in quanto Cacciaguida profetizza a Dante l'esilio e lo investe dell'alta missione poetica che gli ha affidato la Provvidenza, proprio come Anchise preannunciava al figlio le guerre che lo attendevano nel Lazio e la missione provvidenziale della fondazione di Lavinio, da cui avrebbe avuto origine la stirpe romana. La stessa rassegna delle antiche famiglie di Firenze nel Canto XVI si rifaceva alla presentazione da parte di Anchise dei futuri eroi di Roma, mentre in questo episodio tutto è centrato su Dante destinato a lasciare la sua città in seguito alle vicende politiche del 1301-1302 e, come esule sconfitto politicamente, ad adempiere all'altissimo incarico di cui è investito: il discorso di Cacciaguida è chiaro e privo di ambiguità, diverso dunque dalle velate allusioni di personaggi come Farinata, Brunetto Latini e Oderisi da Gubbio che avevano predetto l'esilio in modo oscuro, ma diverso anche dai responsi oracolari degli dei pagani che si prestavano a doppie interpretazioni (il riferimento è anche alla Sibilla cumana, che Enea incontra nel suo antro e alla quale chiede espressamente una profezia, prima di compiere la discesa agli Inferi dietro la sua guida).
Dopo l'accenno al delicato problema della prescienza divina, che non determina in modo necessario gli eventi pregiudicando così il libero arbitrio, Cacciaguida annuncia a Dante che dovrà lasciare Firenze per la malvagità dei suoi concittadini, come Ippolito fu costretto a lasciare Atene per l'ossessione della matrigna Fedra (il parallelo Firenze-Atene era quasi un classico nella letteratura del Due-Trecento, già visto in Purg., VI, 139, sia pure in chiave ironica). Più che alle beghe cittadine tra le opposte fazioni di Guelfi Bianchi e Neri, l'avo riconduce la questione dell'esilio alla caparbia volontà di papa Bonifacio VIII di favorire la parte Nera in combutta con la monarchia francese e Carlo di Valois, per cui la vicenda personale di Dante si inserisce in un più ampio contesto politico che va oltre la prospettiva comunale di Firenze e riguarda il conflitto tra potere papale e autorità imperiale, fonte secondo Dante dei mali poltici dell'Italia.
Cacciaguida predice a Dante le amarezze e le sofferenze del suo girovagare di città in città, accusato di falsi crimini dai suoi ex-concittadini e in contrasto con gli altri fuorusciti destinati ad essere sconfitti nella battaglia della Lastra, costretto infine a mendicare il pane dai signori che gli offriranno protezione e rifugio: tra questi spiccano naturalmente gli Scaligeri di Verona, soprattutto quel Cangrande che sarà il principale protettore del poeta e al quale Dante dedicherà proprio il Paradiso, indirizzandogli anche la famosa e discussa Epistola XIII che sarà fondamentale per l'interpretazione del poema.
Cangrande si colloca al centro della profezia dell'esilio, in quanto Cacciaguida ne traccia un piccolo panegirico e lo presenta come personaggio destinato a grandi imprese, che mostrerà il suo valore militare e politico disdegnando le ricchezze e soprattutto tenterà di ristabilire l'autorità imperiale in Italia del Nord: non a caso egli è stato identificato sia col «veltro» di Inf., I, 101 ss., sia col «DXV» di Purg., XXXIII, 37 ss., e non è da escludere che proprio la sua azione sia da mettere in rapporto con la prossima punizione di Firenze che è preannunciata qui da Cacciaguida e altrove dallo stesso Dante, essendo legata probabilmente al rovesciamento del governo dei Neri da parte di un vicario imperiale destinato a ristabilire la legge e la giustizia, sia questi Cangrande o un altro personaggio. Naturalmente questo resterà un sogno mai realizzatosi, così come anacronistica e non in linea con i tempi era la posizione politica di Dante relativamente al ruolo dell'Impero in Italia, ma l'attesa fiduciosa di un personaggio in grado di porre fine ai soprusi e alle ingiustizie politiche attraversa vivissima l'intero poema ed è lo sprone che induce Dante a compiere la sua missione poetica fino in fondo, senza mostrare mai il minimo cedimento o timore.
Questa missione è poi solennemente dichiarata da Cacciaguida a Dante nella seconda parte del Canto, dopo che il poeta ha espresso i suoi dubbi che nascono proprio dalla profezia dell'esilio delineatasi finalmente con chiarezza: Dante sa che è chiamato dalla Provvidenza a rivelare tutto ciò che ha visto nel corso del viaggio, ma sa anche che i suoi versi riusciranno sgraditi a molti e quindi teme di precludersi possibili aiuti e protezioni se dirà tutta la verità, rischiando in caso contrario di scrivere un'opera di poco peso e, quindi, di non ottenere la fama imperitura.
La risposta di Cacciaguida è tale da non lasciare incertezze ed è una chiara esortazione a non essere timido amico della verità, poiché proprio questo è il compito di Dante: nei tre luoghi dell'Oltretomba gli sono stati mostrati exempla di anime dannate o salve secondo il criterio della notorietà, poiché solo attraverso personaggi conosciuti il lettore ne sarà colpito al punto di modificare la sua condotta, dunque sarebbe una grave mancanza da parte di Dante omettere qualche particolare della «visione» o tacere i nomi di quei personaggi da cui potrebbe attendersi ostilità o ritorsioni. Il valore del poema è allora soprattutto quello di un'alta denuncia contro i mali dell'Italia del tempo, che sono legati all'assenza di una autorità centrale in grado di garantire le leggi, alla corruzione diffusa capillarmente nella Chiesa, più in generale all'avidità di guadagno che è dovuta alla diffusione del denaro: Dante non dovrà tirarsi indietro rispetto a tale compito e dovrà quindi riferire fedelmente tutto ciò che gli è stato mostrato, ovvero la condizione delle anime post mortem che secondo la finzione del poema (e in base a quanto Dante stesso afferma nell'Epistola XIII) gli viene fatta conoscere da vivo in virtù di un altissimo privilegio e in considerazione dei suoi meriti poetici.
Il discorso di Cacciaguida è perciò stilisticamente solenne, ma non rinuncia talvolta ad espressioni crude e di immediata evidenza, come la frase lascia pur grattar dov'è la rogna che rende bene l'idea della missione affidata a Dante, quella cioè di dire la verità anche quando questa suonerà sgradevole alle orecchie dei potenti (in XXVII, 22-27 san Pietro userà parole ancor più dure contro Bonifacio VIII, colpevole di aver trasformato il Vaticano una cloaca / del sangue e de la puzza); del resto la voce del poeta sarà simile a un vento che colpirà maggiormente proprio le cime più alte, ovvero i personaggi più illustri del tempo che erano più di altri responsabili della decadenza morale e politica dell'Italia, per cui solo in tal modo Dante potrà legittimamente aspettarsi la fama eterna dal poema sacro al quale, come lui stesso dirà, hanno cooperato Cielo e Terra.
Il solenne ammonimento di Cacciaguida assume dunque lo stesso valore della missione di Enea nelle parole di Anchise alla fine del libro VI dell'Eneide, quando affidava al figlio il compito di gettare le basi della stirpe romana destinata a dominare il mondo e ad assicurare pace e giustizia sotto l'Impero di Augusto: come il pius Aeneas nemmeno Dante si sottrarrà al suo dovere e farà davvero manifesta tutta la sua visione, mostrando casi clamorosi e inattesi di personaggi dannati all'Inferno (si pensi a Guido da Montefeltro, a Branca Doria che addirittura include fra i traditori degli ospiti di Cocito quand'era ancora vivo) e altrettanti esempi di salvezze imprevedibili in Purgatorio (Catone, Manfredi) e in Paradiso (Traiano, Rifeo), il cui scopo ultimo è affermare l'infallibilità della giustizia divina, anche al di là delle capacità di comprensione umana. L'episodio di Cacciaguida si colloca dunque al centro esatto della Cantica e del poema in ragione dell'alto valore morale di questa investitura, che è poi la spiegazione essenziale del successo della Commedia destinato a durare assai più della breve vita del suo autore: la differenza tra quest'opera e le scialbe descrizioni dell'Oltretomba di scrittori precedenti non è solo nella novità della rappresentazione, ma soprattutto nel coraggio della denuncia contro i mali religiosi, politici, sociali del mondo del suo tempo, che acquista tanto maggiore rilievo quando si pensi alle oggettive difficoltà di Dante bandito in esilio dalla sua città, costretto a elemosinare l'aiuto dei potenti, esposto alle possibili vendette dei suoi nemici vecchi e nuovi, e nonostante tutto privo di dubbi nel portare a termine quella che considerava una missione irrinunciabile. Ciò rende il Canto XVII del Paradiso uno dei momenti più alti e sentiti della poesia di Dante in assoluto e acquista un valore che va molto al di là della vicenda personale e biografica del poeta, il quale forse sottolinea i propri meriti come rivalsa nei confronti dei suoi ingrati concittadini, ma dimostra una coscienza morale e un coraggio non comuni al suo tempo come nel mondo presente.
Sappiamo che in seguito all'esilio che gli impedì di rientrare a Firenze nel 1302 Dante fu costretto a lunghe peregrinazioni in giro per l'Italia del Nord, che lo portarono a contatto con una realtà politica ben più ampia di quella municipale che aveva vissuto sino a quel momento e ampliarono di molto la sua visione culturale: forse concepì la Commedia anche come un mezzo per affermare la sua grandezza a dispetto dell'esilio ingiustamente patito, quindi si può dire che grazie a quel destino Dante divenne il grande poeta oggi celebrato. Sicuramente egli visse il bando dalla sua città come una ferita mai rimarginata, sperando fino all'ultimo di potervi rientrare e, al tempo stesso, nutrendo un forte rancore per i suoi avversari politici che lo avevano esiliato: c'era anche l'accusa infamante (e pare del tutto infondata) di baratteria, cioè di corruzione in atti di governo, che portò alla condanna a morte del poeta e dei suoi figli nonché alla confisca di tutti i loro beni. Si può ben capire la triste condizione dello scrittore costretto a mettersi al servizio dei signori potenti, a provare come sa di sale / lo pane altrui e a umiliarsi, senza tuttavia mai derogare dalla sua altissima dirittura morale; prova ne sia il fatto che, nonostante la nostalgia della patria lontana e le oggettive difficoltà, Dante non rinunciò mai ad attaccare nelle sue opere le malefatte dei potenti del suo tempo, ai quali certamente la sua parola doveva sembrare brusca come profetizzato dall'avo Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso.
Il suo rapporto con Firenze fu sino alla fine di amore-odio, dal momento che in molti passi del poema Dante si scaglia con forza e sarcasmo contro i costumi politicamente e moralmente corrotti della sua città (cfr. soprattutto Inf., XXVI, 1-12, ma anche Purg., VI, 127-151), mentre in altri momenti sembra struggersi nel ricordo del luogo che lo ha visto nascere e in cui desidera tornare (cfr. Par., XXV, 1-12, dove Firenze diventa il bello ovile dove ha dormito agnello e fuori dal quale lo chiudono i lupi che fanno guerra alla città, i suoi avversari politici). A Firenze Dante avrebbe voluto rientrare soprattutto per prendere cappello, ovvero ottenere quell'incoronazione poetica cui legittimamente aspirava e che avrebbe potuto ricevere anche a Bologna nel 1320, se avesse accettato l'invito del professore di retorica Giovanni del Virgilio a recarsi in quella città; e a Firenze avrebbe potuto rientrare nel 1315, approfittando dell'amnistia che il governo dei Guelfi Neri concesse a tutti i fuorusciti, a condizioni però che Dante giudicò assolutamente inaccettabili. Si trattava di ammettere pubblicamente l'accusa di baratteria che gli veniva rivolta, pagare una multa e trascorrere una notte in carcere, cosa che gli avrebbe consentito di rientrare in possesso di parte dei suoi beni e porre fine alla sua vita girovaga, ma è fin troppo evidente che il poeta mai avrebbe sottostato a una simile imposizione: avrebbe significato venir meno alla sua coerenza morale, scendere a patti con coloro che lo avevano ingiustamente allontanato e soprattutto riconoscere una colpa che non aveva commesso, un prezzo davvero troppo alto da pagare per chi fino a quel momento si era distinto come cantor rectitudinis attraverso le pagine del poema che da anni circolava nelle città italiane. Il gran rifiuto di Dante acquista maggior rilievo se si pensa che, dopo la morte di Arrigo VII di Lussemburgo nel 1313, quella era davvero l'ultima opportunità per Dante di rimettere piede a Firenze: lui stesso ne era cosciente e la sua fermezza nel rinunciare a tale possibilità è la migliore testimonianza del suo rigore inflessibile, nonché della sua caparbietà nel tenere fede ai propri principi. Ne è una testimonianza l'Epistola XII a un amico fiorentino, forse un interlocutore reale che lo sollecitava a rientrare approfittando dell'amnistia e cui Dante risponde con cortesia riguardo all'intercessione e con sdegno nei confronti dei suoi oppositori politici: il passo è rimasto famoso e ha consegnato alle generazioni future l'immagine dell'altera e sdegnosa dignità del poeta, che nei documenti si definiva florentinus natione non moribus. Ecco le sue parole riguardo all'infamante condono di cui avrebbe potuto usufruire:
«È proprio questo il grazioso proscioglimento con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha sofferto l'esilio? Questo ha meritato l'innocenza a tutti manifesta? questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Sia lontana da un uomo, familiare con la filosofia, una così avvilente bassezza d'animo da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia, che dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi il suo denaro a quelli stessi che l'hanno oltraggiato, come se lo meritassero! Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un'altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, l'accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s'entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.» (trad. di A. Torri, Livorno 1842).
Il 15 ottobre 1315 venne confermata la condanna a morte per Dante e i suoi figli, e come è noto il poeta sarebbe morto nel 1321 a Ravenna, dove è tuttora sepolto. La contrastata vicenda tra il poeta e la sua città non ebbe fine con la sua scomparsa: diversi tentativi vennero fatti negli anni a venire dai Fiorentini per traslare i suoi resti nella chiesa monumentale di Santa Croce, nessuno dei quali andò tuttavia a buon fine (neppure quello ad opera di papa Leone X nel primo Cinquecento, quando furono i Ravennati a opporsi). E forse è giusto che le spoglie del grande poeta, che non poté rientrare in vita nella sua città a condizioni giudicate onorevoli, restino tumulate lontano dalla sua Firenze, dove all'indomani della sua morte i suoi ingrati ex-concittadini erano fin troppo solleciti a volersene riappropriare, per ragioni non certamente legate all'ammirazione per la sua dignità.
Note
- I vv. 1-3 alludono al mito di Fetonte, figlio di Apollo e Climene (Ovidio, Met., I, 748 ss.; II, 1 ss.) che era stato deriso da Epafo il quale non credeva che il dio del Sole fosse realmente suo padre e si era rivolto alla madre per avere rassicurazioni: in seguito Apollo, per confermare la versione di Climene, gli permise di guidare il carro del Sole, ma Fetonte deviò dal retto cammino e venne fulminato da Giove (per questo il giovane è esempio di come i padri debbano essere scarsi, non condiscendenti coi figli).
- Al v. 13 piota vuol dire «pianta del piede», quindi per estensione «radice». Il vb. t'insusi è neologismo dantesco.
- Al v. 31 ambage è latinismo per «tortuosità», «espressioni oscure» e allude ai responsi oracolari dei pagani (la gente folle) che spesso erano ambigui; preciso / latin (vv. 34-35) vuol dire «discorso chiaro» e non necessariamente che il beato parli latino come qualcuno ha supposto.
- Alcuni mss. al v. 42 leggono corrente, che però è lectio facilior.
- I vv. 46-48 alludono al mito di Ippolito, il figlio di Teseo, che respinse le profferte amorose della matrigna Fedra e fu da lei accusato di fronte al padre; questi credette alla moglie e cacciò ingiustamente il figlio da Atene (Ovidio, Met., XV, 493 ss.). Alcuni interpreti pensano che Dante paragoni Firenze a Fedra, indicandola cioè come città «matrigna».
- I vv. 49-51 alludono certamente a Bonifacio VIII, intento a compiere simonia nella Curia di Roma (là dove Cristo tutto dì si merca) e a complottare per favorire la presa del potere dei Neri a Firenze. Non è necessario pensare che Dante intenda attribuire al papa la volontà di esiliare lui personalmente, anche se un riferimento in tal senso non si può escludere.
- I vv. 53-54, non chiarissimi, intendono dire che presto Firenze verrà punita da Dio e ciò ristabilirà la verità, dimostrando cioè la falsità delle accuse rivolte a Dante (prob. ciò si riferisce all'accusa di baratteria).
- I vv. 61-66 si riferiscono agli altri fuorusciti fiorentini a cui Dante in un primo tempo si era unito, anche se non è chiaro a cosa egli alluda dicendo che questa compagnia... era diventata tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di lui. Probabile che fossero sorti contrasti circa il modo di rientrare a Firenze, per cui Dante si era staccato da loro e non aveva preso parte alla battaglia della Lastra in cui erano stati sconfitti, con le tempie rosse di sangue e vergogna.
- Il gran Lombardo citato al v. 71 è quasi certamente Bartolomeo Della Scala, figlio di Alberto I (morto nel 1301, prima dell'esilio di Dante) e fratello maggiore di Cangrande, nato nel 1291; egli resse Verona dal 1301 al 1304, quindi Dante sarebbe stato da lui nei primissimi anni dell'esilio. Del successore, Alboino, il poeta dà un giudizio severo in Conv., IV, 16 e quindi è poco probabile che si tratti di quest'ultimo.
- Al v. 72 il santo uccello è l'aquila imperiale, che lo stemma degli Scaligeri recava sul simbolo della scala; essi divennero vicari imperiali nel 1311, ma non è inverosimile che l'aquila fosse già presente prima.
- I vv. 76 ss. alludono senza nominarlo a Cangrande, nato nel 1291 e quindi di appena nove anni al momento del colloquio con Cacciaguida: il beato ne predice le grandi imprese, che si vedranno prima che Clemente V (il Guasco) inganni Arrigo VII di Lussemburgo (l'alto Arrigo), ovvero prima del 1312 quando il papa si rivoltò contro l'imperatore al quale aveva dapprima accordato il favore.
- I vv. 91-93 contengono una profezia delle imprese di Cangrande, che però Dante non dovrà riferire: identico espediente in IX 1-6 quando Carlo Martello predice il castigo nei confronti di chi aveva ingannato i suoi figli, cioè prob. il fratello Roberto.
- Al v. 97 i vicini sono i «concittadini» di Dante.
- Al v. 122 corusca è latinismo e vuol dire «splendente».
La caduta di Fetonte di Dominique Lefevre
TESTO DEL CANTO XVII
Qual venne a Climené, per accertarsi
di ciò ch’avea incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi; 3
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito. 6
Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa; 9
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca». 12
«O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in triangol due ottusi, 15
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti; 18
mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto, 21
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura; 24
per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa;
ché saetta previsa vien più lenta». 27
Così diss’io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa. 30
Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle, 33
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso: 36
«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno: 39
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende. 42
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia. 45
Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene. 48
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca. 51
La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa. 54
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta. 57
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. 60
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle; 63
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. 66
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso. 69
Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ‘n su la scala porta il santo uccello; 72
ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo. 75
Con lui vedrai colui che ‘mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue. 78
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte; 81
ma pria che ‘l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni. 84
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ‘ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute. 87
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici; 90
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente. 93
Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ‘nsidie
che dietro a pochi giri son nascose. 96
Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ‘l punir di lor perfidie». 99
Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita, 102
io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama: 105
«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona; 108
per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi. 111
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro, 114
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume; 117
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico». 120
La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro; 123
indi rispuose: «Coscienza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca. 126
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna. 129
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta. 132
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento. 135
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note, 138
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia». 142
Ippolito di Lawrence Alma Tadema
PASRAFRASI CANTO XVII
Come colui (Fetonte) che ancora oggi induce i padri a non essere condiscendenti, andò dalla madre Climene per avere rassicurazioni su quanto aveva udito contro di sé, così ero io, e così ero percepito sia da Beatrice sia dalla santa luce (Cacciaguida) che prima aveva cambiato posizione per me.
Perciò la mia donna mi disse: «Manifesta il tuo desiderio, così che esso sia espresso secondo i tuoi pensieri;
non perché noi abbiamo bisogno delle tue parole per conoscerlo, ma affinché tu ti abitui a manifestare i tuoi desideri, in modo che essi siano esauditi».
«O caro mio capostipite, che ti innalzi a tal punto che, come le menti terrene vedono che in un triangolo non possono esserci due angoli ottusi, così vedi le cose contingenti prima che avvengano, osservando il punto (la mente di Dio) in cui è un eterno presente;
mentre io ero guidato da Virgilio, salendo lungo il monte che purifica le anime (il Purgatorio) e scendendo nel mondo dei morti (nell'Inferno), mi furono dette parole gravi sulla mia vita futura (l'esilio), anche se io mi sento ben preparato a reggere i colpi della sventura;
dunque desidero sapere quale destino mi attende; infatti, una freccia prevista arriva più lentamente».
Così io dissi a quella stessa luce che prima mi aveva parlato; e il mio desiderio fu espresso, proprio come volle Beatrice.
Quel padre amorevole mi rispose non con parole tortuose, in cui i pagani si invischiavano ben prima che fosse crocifisso l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Cristo), ma con parole chiare e con un discorso limpido, avvolto e splendente nella luce del suo sorriso:
«Gli eventi contingenti, che non si estendono al di fuori del vostro mondo terreno, sono tutti dipinti nella mente di Dio:
essi però non sono per questo necessari, come non lo è il fatto che una barca scenda la corrente solo perché qualcuno la osserva.
Da lì (dalla mente divina) viene a me il tempo che si prepara per te, come la dolce armonia di un organo viene all'orecchio.
Ti sarà inevitabile lasciare Firenze, come Ippolito lasciò Atene a causa della spietata e perfida matrigna (Fedra).
Si vuole questo e si cerca di attuarlo, e verrà presto compiuto, da chi (Bonifacio VIII) pensa a ciò là (nella Curia papale) dove si mercifica Cristo (le cose sacre) ogni giorno.
La colpa verrà addossata alla parte sconfitta attraverso la fama, come di solito accade; ma la prossima punizione di Dio renderà evidente a tutti la verità, dispensata da Dio secondo giustizia.
Tu lascerai ogni cosa che ami di più; e questa è la pena che l'esilio fa provare per prima.
Tu proverai come è amaro il pane altrui, e come è duro salire e scendere le scale altrui (accettare l'aiuto dei potenti).
E ciò che ti sarà più fastidioso sarà la compagnia malvagia e folle con cui dovrai condividere l'esilio (gli altri fuorusciti);
infatti essa diventerà tutta ingrata, stupida e ingiusta contro di te; ma, poco dopo, saranno loro e non tu ad avere le tempie rosse (di sangue e vergogna).
Quello che accadrà loro dimostrerà la loro follia; cosicché sarà stato un bene, per te, essertene separato.
Il tuo primo rifugio e la tua prima dimora sarà la cortesia del gran Lombardo (Bartolomeo Della Scala) che sulla scala del suo stemma porta l'uccello sacro (l'aquila imperiale);
egli avrà così benevolo riguardo nei tuoi confronti, che tra voi due i favori precederanno le richieste, contrariamente a quanto accade.
Insieme a lui conoscerai quello (Cangrande) che, alla nascita, fu influenzato a tal punto da questo pianeta (Marte) che le sue imprese saranno straordinarie.
Le persone non se ne sono ancora accorte per la sua giovane età, perché questi Cieli hanno ruotato intorno a lui solo nove anni;
ma prima che il Guasco (papa Clemente V) inganni l'alto Arrigo VII di Lussemburgo, egli mostrerà scintille del suo valore nella noncuranza di denaro e affanni.
Le sue gesta saranno conosciute da tutti, al punto che i suoi nemici non potranno negarle.
Affidati a lui e ai suoi benefici; grazie a lui molta gente cambierà condizione, sia mendicanti sia ricchi;
e porterai scritto nella memoria queste cose sul suo conto, che non dovrai riferire»; e disse cose che saranno incredibili anche a chi le vedrà di persona.
Poi aggiunse: «Figlio, queste sono le spiegazioni di ciò che ti fu detto; ecco le insidie che ti attendono nel giro di pochi anni.
Non voglio però che tu serbi rancore ai tuoi concittadini, poiché la tua vita è destinata a durare assai oltre la punizione che attende la loro perfidia» .
Dopo che, tacendo, l'anima santa mostrò di aver completato la trama in quella tela di cui le porsi l'ordito (dopo aver risposto alla mia domanda), io cominciai, come colui che ha un dubbio e desidera un consiglio da una persona che vede, vuole e ama secondo giustizia:
«Io vedo bene, padre mio, che il tempo avanza velocemente verso di me per darmi un colpo tale, che è tanto più grave quanto più uno si abbandoni ad esso;
dunque è necessario che io mi armi di buona prudenza, così che, se sarò allontanato dal luogo a me più caro (Firenze), io non perda gli altri a causa dei miei versi.
Giù nel mondo infinitamente amaro (Inferno), e lungo il monte dalla cui bella cima gli occhi della mia donna mi sollevarono (Purgatorio), e in seguito in Paradiso, di Cielo in Cielo, ho appreso cose che, se le riferirò, avranno per molti un sapore sgradevole;
e se io sarò timido amico della verità (se ometterò dei particolari), temo di non avere la possibilità di vivere tra coloro che definiranno antico questo tempo (tra i posteri)».
La luce in cui brillava il mio tesoro (Cacciaguida) che io trovai lì, dapprima si fece splendente, come uno specchio d'oro colpito dal sole;
poi rispose: «Una coscienza sporca per la colpa propria o di altri sentirà certo le tue parole come sgradevoli.
Tuttavia, rimossa ogni menzogna, rendi manifesto tutto ciò che hai visto, e lascia pure che chi ha la rogna si gratti (che chi ha colpa ne paghi le conseguenze).
Infatti la tua voce, se sarà spiacevole al primo assaggio, poi quando sarà assimilata lascerà un nutrimento vitale.
Questo tuo grido sarà come un vento che colpisce di più le cime più alte, e ciò non è motivo di poco onore.
Perciò in questi Cieli, in Purgatorio e nella dolorosa valle dell'Inferno ti sono mostrate solo le anime che sono molto famose, poiché l'animo di colui che ascolta non dà retta e non presta fede a un esempio che abbia la sua radice nascosta e sconosciuta (a esempi non noti), né a un altro argomento che non sia di tutta evidenza».
Ritratto di CANGRANDE
IPPOLITO
E' una tragedia di Euripide, rappresentata per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 428 a.C., dove vinse il primo premio. Il suo titolo completo è Ippolito coronato, per distinguerla da una precedente tragedia euripidea (oggi perduta), l'Ippolito velato, di cui il Coronato è un rifacimento.
Ippolito, figlio di Teseo, re di Atene, e della regina delle Amazzoni, è un giovane che si dedica esclusivamente alla caccia e al culto di Artemide, trascurando completamente tutto ciò che riguarda la vita comunitaria e la sessualità, andando anzi orgoglioso della propria verginità. Per tale motivo Afrodite decide di punirlo suscitando in Fedra (seconda moglie di Teseo e quindi matrigna di Ippolito) una insana passione per il giovane.
Questo sentimento fa apparire Fedra sconvolta e malata agli occhi degli altri. Dietro le insistenze della Nutrice perché riveli la causa del suo malessere, Fedra è costretta a rivelare il suo segreto. La Nutrice, tentando in buona fede di aiutare Fedra, lo rivela a Ippolito, imponendogli il giuramento di non farne parola con nessuno. La reazione del giovane è rabbiosa e offensiva, al punto che Fedra, sentendosi umiliata, decide di darsi la morte. Prima di impiccarsi lascia, per salvare il suo onore, un biglietto in cui accusa Ippolito di averla violentata.
Quando Teseo, tornato da fuori città, scopre il cadavere della moglie e il biglietto, invocando Poseidone lancia un anatema mortale nei confronti di Ippolito. Il giovane dice al re di non avere alcuna responsabilità, ma non può raccontare l'intera storia perché vincolato dal giuramento fatto alla Nutrice. Teseo non gli crede e lo bandisce da Atene. Mentre Ippolito sta lasciando la città su un carro con i suoi compagni, la maledizione puntualmente si compie: un toro mostruoso uscito dal mare fa imbizzarrire i cavalli, che fanno schiantare il carro contro le rocce.
Ippolito viene riportato agonizzante a Trezene, dove appare Artemide ex machina. La dea espone a Teseo la verità sui fatti, dimostrando quindi l'innocenza di Ippolito. Il re si rivolge allora al figlio, ottenendone in punto di morte il perdono.
Tanto Ippolito quanto Fedra (personaggi che, pur determinando l'uno le vicende dell'altro, non si incontrano mai) pongono in essere atteggiamenti che mettono in discussione il valore fondante della famiglia, e sono dunque entrambi destinati a una sorte infausta.
I due vengono traditi da coloro che hanno di più caro e fidato: Fedra dalla nutrice e Ippolito da Teseo e Artemide, a sottolineare l'inconsistenza delle pur poche certezze umane sulla vita. In particolare, il tradimento di Teseo è una colpa di incomunicabilità, che Euripide volle mettere in evidenza con la caratterizzazione inedita del classico eroe ateniese come portatore di un comportamento dagli altissimi rischi sociali. Il tradimento di Artemide sta invece nell'indifferenza con cui la dea accoglie la morte del suo devoto Ippolito: essa lascia la scena, perché la visione di un decesso non si addice a una divinità e con ciò rimarcando la sostanziale distanza degli dei dal mondo degli uomini.
Il testo contiene anche un messaggio antisocratico, in antitesi rispetto all'intellettualismo etico propugnato da Socrate secondo cui chi conosce il bene non può che farlo. Alla rivelazione di Fedra riguardo alla propria passione illecita, la Nutrice osserva: «Anche le persone sagge e virtuose, non per loro volere, ma amano il male» (358-59). Euripide organizza attorno all'eros un nucleo di esperienze e di forze psichiche per cui valgono norme diverse da quelle razionali.
Nella misoginia di Ippolito e nella sua invettiva contro il genere femminile si legge una critica a un atteggiamento diffuso nella Grecia del V secolo a.C. che screditava le donne. Spesso è stato attribuito un giudizio del genere allo stesso Euripide, ma nei suoi drammi egli attribuisce sempre discorsi misogini a personaggi negativi (Ippolito o il Giasone della Medea), mentre nelle trame dei suoi drammi attua invece una difesa appassionata delle donne e una critica alla loro situazione sociale.
La bellezza poetica del personaggio di Fedra è una tra le più sconvolgenti dell'intera letteratura greca, per profondità e introspezione. Il sentimento amoroso di Fedra diviene il simbolo della negazione dello spirito, il primo dei due poli fondamentali entro i quali si muove la natura dell'essere umano. Il principio antagonista trova invece completa rappresentazione drammatica nel personaggio di Ippolito, che rifiuta la corporeità. Anche in questo caso Euripide descrive una umanità mutila e irreale: Euripide non identifica Fedra con il male e Ippolito con il bene, perché entrambe le forme di allontanamento dalla completezza umana sono per Euripide ugualmente colpevoli. Il male, dunque, risiede nella mutilazione spirituale, nel volontario rifiuto di uno dei due poli necessari all'equilibrio della natura. Esiste piuttosto, nell'Ippolito, un terzo personaggio, cui è affidato il compito di impersonare il bene: è Teseo, nel quale Euripide ha condensato tutti i valori positivi della natura umana, che toccano il loro vertice nella generosa accettazione dell'errore.
L'amore di Fedra per Ippolito è un amore folle, a cui ella può sottrarsi solo con la morte. Fedra afferma disperatamente:
«Da quando amore mi ferì, io cercai
come sopportarlo nel modo più nobile,
[…] tacere e nascondere questo morbo.»
(vv. 392-393.395)
Quando Fedra parla con la nutrice dell'amore, questo per lei è solo dolore:
«A me, allora, è toccato solo il dolore.»
(v. 349)
Quando parla alle donne di Trezene, il proposito di suicidarsi è ormai chiaro nella sua mente:
E' questo, amiche mie, che mi uccide:
il pensiero di essere scoperta a disonorare mio marito, i miei figli
(vv. 419-420)
Fedra per riscattarsi accusa di stupro Ippolito, che non ha compassione per il tormento della matrigna, ma anzi la ferisce profondamente.
CANGRANDE (detto anche CANE) DELLA SCALA
Cangrande, figlio del Signore di Verona Alberto I della Scala e di Verde di Salizzole, nacque a Verona il 9 marzo 1291: si trattava del terzogenito maschio, venuto al mondo dopo Bartolomeo e Alboino della Scala.
Nel poema dello storico vicentino Ferreto dei Ferreti si descrive Cangrande come un giovane prodigioso che, non divertendosi a giocare con gli amici, preferiva utilizzare le armi e sognare imprese cavalleresche. Alberto curò personalmente l'educazione militare (e non) del figlio, che infatti provava grande affetto per il padre da cui ereditò le doti di condottiero e cavaliere: proprio da lui venne insignito del titolo di cavaliere mentre era ancora bambino, insieme al fratello Bartolomeo e ai parenti Nicolò, Federico e Pietro, durante la festa di San Martino nel novembre del 1294, festeggiando in questo modo la vittoria contro Azzo VIII d'Este e Francesco d'Este.
Il padre morì nel 1301, quando Cangrande era poco più che un bambino, per cui venne affidato alla custodia del fratello Bartolomeo, che divenne il nuovo Signore di Verona. Fu sotto il suo principato che per la prima volta Dante Alighieri venne ospitato nella città scaligera, dopo che fu esiliato da Firenze. Bartolomeo, dopo aver consolidato il potere della famiglia, morì prematuramente il 7 marzo 1304: gli succedette il fratello Alboino, più incline alla mediazione e alla pace che alla guerra.
Cangrande, spesso al suo fianco, mostrava, diversamente dal fratello, un temperamento cavalleresco e ambizioso e proprio per questo motivo ottenne di poter condividere il peso del potere, anche se in rapporto di subordinazione rispetto al fratello, vista la sua giovane età (era appena quattordicenne). L'effettiva coreggenza sarebbe iniziata solo nel 1308, quando a Cangrande venne affidato il comando supremo delle forze armate.
Nell'aprile del 1305 Azzo VIII d'Este, Signore di Ferrara, Modena e Reggio nell'Emilia, si sposò con la figlia di Carlo II di Napoli divenendo così un importante esponente della fazione guelfa dell'alta Italia, contrastato però da una lega formatasi il 21 maggio e composta dalle signorie di Verona, Brescia e Mantova. L'8 novembre si aggiunse alla lega Parma, mentre Modena e Reggio Emilia si aggiunsero l'11 febbraio 1306: non solo, anche Francesco d'Este, che dopo il matrimonio del fratello Azzo VIII non poteva più ereditare il potere, si aggiunse all'alleanza. Nel luglio dello stesso anno Alboino conquistò Reggiolo e invase il territorio ferrarese, Azzo fu così costretto ad abbandonare Ferrara dove, però, i suoi seguaci riuscirono a fermare gli assalti nemici.
Visto che non si riuscirono ad ottenere risultati di rilievo l'esercito mantovano-veronese si ritirò dai territori ferraresi per andare in aiuto di Matteo I Visconti che stava cercando di riappropriarsi del potere a Milano dopo essere stato cacciato dai guelfi Torriani. In agosto l'esercito venne affidato a Cangrande che lo portò non lontano da Bergamo, dove il Visconti, radunati 800 cavalieri e 1.500 fanti, si unì alle truppe alleate. Guido della Torre preparò un forte esercito e riuscì a mettere in fuga Matteo Visconti, a quel punto Cangrande non vedeva motivi per continuare l'azione di forza e decise di ritirarsi.
Il 14 marzo Verona (alla cui lega si era nel frattempo unita anche Ravenna) riprese la guerra contro Azzo, mentre il mese successivo venne siglata la pace con Milano. A Ferrara si unì Cremona, che dopo la sua entrata in guerra vide il proprio territorio saccheggiato dai cavalieri veronesi. Dopo gli attacchi al territorio cremonese i cavalieri rincasarono a Ostiglia, dove furono raggiunti da Azzo insieme alla truppe ausiliarie di Napoli e Bologna. Cangrande e Alboino raggrupparono un esercito di 10.000 fanti e 1.400 cavalieri per difendere la città, ma nonostante questo Ostiglia venne conquistata e la flotta mantovano-veronese sul fiume Po catturata. Azzo però morì e lasciò il potere al nipote Folco, ma, ritenendo ingiusto questo passaggio, Francesco d'Este chiese a papa Clemente V di fare da arbitro per la contesa.
Verona e Mantova non avevano quindi più motivi per continuare la guerra vista la nascita di lotte intestine a Ferrara, che aveva così perso il ruolo di importante centro guelfo dell'alta Italia: Scaligeri e Bonacolsi chiesero e ottennero il mantenimento dello stato precedente all'inizio della guerra. Durante la guerra morì la madre Verde di Salizzole per cui unico parente stretto di Cangrande ancora in vita rimase il fratello Alboino.
Nel marzo 1308 a Parma era iniziata una lotta interna tra guelfi e ghibellini, così Mantova e Verona, alleatesi con Enrico di Carinzia e Tirolo, Ottone III di Carinzia e i Castelbarco (questi ultimi storici amici di famiglia degli scaligeri), decisero di intervenire con l'intento di ostacolare i guelfi parmensi, riuscendo a sconfiggere l'esercito nemico. Il 19 giugno l'esercito parmense subì un'altra sconfitta, questa volta a opera di Giberto III da Correggio; si avvicinava dunque la possibilità di portare la città sotto il controllo ghibellino. E infatti alla fine della guerra tornarono ghibelline sia Parma che Brescia, anche questa in parte protagonista della guerra. Il giovane Cangrande partecipò anche a questa guerra combattendo con l'esercito veronese, anche se il comando supremo delle forze armate spettò al più anziano ed esperto fratello.
Nel 1308 Alboino decise di condividere il potere con un Cangrande ormai diciottenne, che fu quindi proclamato Capitano del popolo veronese e divenne coreggente e Signore di Verona. Nuovo obiettivo dei due Signori divenne indebolire la guelfa Milano, ancora asservita ai Della Torre. La prima opportunità arrivò dall'insurrezione antimilanese scoppiata a Piacenza nel 1309, durante la quale i piacentini riuscirono a scacciare i milanesi.
Il 13 giugno 1309 Piacenza formò una lega con Parma, Verona, Brescia, Mantova e Modena allargando così il conflitto. Gli Scaligeri inviarono i 500 migliori soldati veronesi a Piacenza dove sconfissero l'esercito nemico, mentre Parma inviò l'esercito, supportato da truppe veronesi, contro la guelfa Fidenza, ma il cattivo tempo obbligò a interrompere l'assedio e a iniziare le trattative per la pace, che sarebbe stata poi firmata entro la fine dell'anno.
Nell'estate del 1310 Enrico VII di Lussemburgo preparava la sua discesa in Italia, alimentando le speranze dei ghibellini, che auspicavano una restaurazione del suo potere imperiale. Enrico VII arrivò in Italia con l'intento di conciliare la parte guelfa con quella ghibellina sotto il vessillo di un impero unito. Appena mise piede nel territorio italico si presentarono numerosi ambasciatori (compresi legati di Verona) per rendergli omaggio e accompagnarlo a Milano, dove doveva essere incoronato.
Il 15 novembre vennero mandati a lui un giurista e alcuni nobili veronesi, per prestare il giuramento di fedeltà a nome del Comune e della Signoria: il messaggio venne accolto festosamente e l'imperatore promise che sarebbe andato a Verona. Poco dopo egli ordinò ai Comuni italiani di mandare delle rappresentanze a Milano per il 5 gennaio 1311, giorno in cui sarebbe stato incoronato. Finita la cerimonia dell'incoronazione l'imperatore cominciò a render note le sue intenzioni: egli voleva una riforma del regno d'Italia, in modo che l'autorità imperiale nelle città fosse rappresentata da vicari esterni, per poter facilitare la convivenza delle fazioni opposte.
A Verona venne nominato vicario imperiale Vanni Zeno da Pisa, intendendo così di rendere attuabile il ritorno in città dei Sambonifacio. Ritorno però inaccettabile da parte degli Scaligeri, che infatti, in segno di protesta, rinunciarono addirittura alla signoria. Erano sicuri che il popolo veronese non avrebbe accettato di perdere i propri signori, come infatti accadde. Alla fine l'imperatore, pentito dell'errore commesso, si trovò a poter fare affidamento per raggiungere i suoi obiettivi, solo sul sostegno dei ghibellini. Dovette presto ricredersi, e, il 7 marzo 1311, decise di riconoscere come vicarii imperiali di Verona Cangrande e Alboino. A questo punto i due possedevano un doppio riconoscimento della loro autorità: assommarono l'investitura del Comune a quella dell'Imperatore. Il lato negativo del vicariato era però quello finanziario, infatti costava molto denaro e l'obbligo di un contingente di soldati che scortasse il sovrano o comunque servisse in Lombardia. Il Comune di Verona promise ad Enrico VII 3.435 fiorini d'oro, mentre altri 3.000 fiorini furono spediti al vicario di Lombardia Amedeo di Savoia.
Il maggiore problema nella nuova organizzazione si ebbe con Padova, a cui l'imperatore riconobbe l'autorità su Vicenza in cambio di un tributo una tantum e di uno annuale, oltre all'obbligo di eleggere un vicario padovano di fede ghibellina. Ma Padova non gradiva le pretese dell'imperatore; iniziarono così con la città guelfa lunghe trattative. Nell'aprile del 1311 Vicenza si ribellò a Padova, ed Enrico VII prese la questione come pretesto per costringere il Comune padovano ad accettare le sue richieste. In seguito a un attacco subìto, il comandante delle truppe imperiali raggiunse Verona con 300 cavalieri: i due fratelli scaligeri parteciparono all'impresa con le truppe ausiliarie di Verona a Mantova, e il 15 aprile invasero facilmente Vicenza, mentre la rocca in mano ai padovani veniva conquistata da Cangrande con truppe leggere.
Il 14 maggio gli Scaligeri giunsero all'accampamento di Brescia, dove la fazione guelfa si era impadronita del controllo della città in spregio ad Enrico VII. Durante l'assedio, perirono per un'epidemia numerosi soldati: tra questi si ammalò anche Alboino, che fu riportato a Verona. Cangrande, reclutata nuova fanteria e cavalleria, tornò a Brescia. Per questo merito, gli venne affidato il comando supremo dell'esercito. E tuttavia la città assediata si arrese solamente il 16 settembre 1311. Dopo aver passato del tempo con il fratello ammalato, Cangrande partì insieme a una scorta per raggiungere Enrico VII a Genova. Raggiunto però dalla notizia delle gravi condizioni in cui versava il fratello, dovette tornare a Verona, anche per via della possibile minaccia che rappresentava Padova. La notte tra il 28 ed il 29 novembre 1311 Alboino morì e Cangrande divenne l'unico Signore di Verona, all'età di ventidue anni. La salma di Alboino venne posta accanto a quella dal padre Alberto I.
Quando Cangrande assunse il potere, Verona era ancora un Comune modesto, se messo in confronto con il potente Comune di Padova, tanto che lo scaligero non era nemmeno in grado di pagare il tributo ad Amedeo d'Aosta. Nonostante ciò egli adempì sempre ai suoi doveri nei confronti dell'Impero: lo dimostrò ancora una volta quando i guelfi bresciani tentarono di far insorgere la città, e Cangrande intervenne per sventare il complotto. Cangrande si rivelava, dunque, fondamentale per la causa ghibellina.
Cangrande, l'11 aprile 1311, si era recato a Vicenza, dove assunse il vicariato della città, grazie a un atto di opportunismo politico, approfittando delle controversie della città con i suoi ex-padroni di Padova. Enrico VII aveva bisogno di un sostegno economico per raggiungere Roma, per cui, dietro il pagamento di una forte somma di denaro, diede la carica allo scaligero che riuscì in breve tempo a guadagnarsi la stima del popolo. I vicentini sicuri dunque dall'aiuto scaligero e imperiale iniziarono a provocare i padovani, arrivando addirittura a deviare il corso del Bacchiglione, danneggiando così l'economia della città guelfa.
Alla fine Padova acconsentì alla nomina di un vicario imperiale e al pagamento di 20.000 fiorini annui in cambio di numerose concessioni e al pagamento da parte di Vicenza dei danni da loro subiti per la deviazione del fiume: il consiglio vicentino però si rifiutò di pagare la somma, dando così il via a numerose liti su varie questioni: in particolare sulla restituzione a Padova di alcuni fondi rurali. I padovani mandarono degli ambasciatori all'imperatore perché risolvesse la questione: Enrico cercò di riappacificare le due città, imponendo comunque a Vicenza di riaprire il corso originario del Bacchiglione.
Il 28 gennaio 1312 giunse a Padova la notizia ufficiale che Cangrande era stato nominato vicario di Vicenza, così il consiglio cittadino decise di riunirsi, soprattutto per via delle insistenti voci che parlavano di Padova come obiettivo di Cangrande: durante la seduta del 15 febbraio il consiglio decise di dichiarare guerra a Verona, mentre in strada la folla distruggeva tutto ciò che era insignito dell'aquila imperiale, e presto cominciarono le prime ruberie in territorio vicentino. La sfida all'imperatore, che aveva sostenuto l'elezione di Cangrande a vicario imperiale di Vicenza, diede a lui il pretesto per muovere guerra a Padova.
Nella primavera del 1312 l'esercito padovano iniziò ad attuare brevi incursioni in territorio vicentino e veronese, e fu così che Cangrande per diciotto mesi venne messo in difficoltà, anche perché Padova era un comune ricco e potente, con forze militari maggiori di quelle che aveva a disposizione in quel momento Cangrande. Nonostante ciò egli riuscì a portare il grosso dell'esercito veronese in territorio padovano, dando inizio ad una serie di devastazioni. Le prime incursioni veronesi videro una sconfitta presso Camisano Vicentino, e successivamente la conquista del castello di Montegalda, importante baluardo per Padova. Questo venne quindi dotato di una guarnigione, mentre poco dopo Cangrande tornò a Verona, anche se i padovani presto iniziarono la controffensiva da Montagnana, da dove raggiunsero e devastarono Minerbe, Pressana e Legnago, mentre Cologna Veneta venne incendiata.
A marzo le truppe padovane si trovavano tra Vicenza e Verona, minacciando così entrambe le città: i padovani decisero di dirigersi su Vicenza, sapendo che all'interno della città si stava sviluppando il complotto dei cittadini guelfi. Alcune sentinelle veronesi videro l'avanzata nemica e si precipitarono ad avvertire il comandante della città, Federico della Scala. Intanto le prime scaramucce tra truppe padovane e vicentine si ebbero a Torri di Quartesolo, dove i secondi vennero sconfitti, subendo notevoli perdite. Cangrande fu informato della disfatta delle truppe vicentine, raggiunse quindi la città, ordinando di chiudere le porte e di arrestare tutti i sospetti traditori: questi in parte riuscirono a fuggire, e in parte furono catturati, e quindi o esiliati o condannati a morte.
I padovani, persa la possibilità di conquistare Vicenza, decisero di attaccare Marostica, che cedette grazie all'arrivo di rinforzi da Bassano del Grappa, e successivamente attaccarono numerosi borghi e villaggi vicentini. Per vendicarsi Cangrande giunse con le truppe a pochi chilometri da Padova e ne distrusse i sobborghi, mentre Montagnana veniva conquistata e incendiata. Ma Padova inviò immediatamente aiuti all'importante città, per cui Cangrande fu costretto a ritirarsi verso Vicenza. Intanto i padovani conquistarono e distrussero a loro volta Noventa Vicentina. Divenendo la situazione critica, Cangrande fu costretto a rivolgersi al luogotenente di Lombardia Werner von Homburg, il quale arrivò con truppe nuove e razziò alcuni villaggi, anche se presto dovette tornare in Lombardia, dove erano scoppiate alcune insurrezioni.
Feltre, Treviso, Belluno e Francesco d'Este si allearono con Padova, formando così un esercito di 17.000 uomini: le truppe, il 1º giugno 1312, partirono per Torri di Quartesolo, dove si accamparono. La fanteria leggera fu mandata in spedizione a razziare i campi e i villaggi vicino a Vicenza. In città, Cangrande guidava 800 cavalieri e 4.000 fanti, per cui i padovani, che non si sentivano pronti per attaccare direttamente la città, decisero di proseguire lungo il Bacchiglione, dato che ormai Padova soffriva per la mancanza d'acqua. Fu però impossibile riportare nel suo corso naturale il fiume: il luogo era interamente protetto da fortificazioni e torri. Fu lì che Cangrande riuscì a prendere di sorpresa alcune truppe nemiche. Di esse, durante la battaglia, ne morirono quattrocento. I rinforzi padovani riuscirono però a scacciare i veronesi. Nonostante la vittoria i padovani non riuscirono tuttavia a riportare il Bacchiglione nel suo letto originario, e intanto Cangrande cercava di spingerli verso Castagnaro. I padovani si portarono successivamente nuovamente verso il territorio vicentino, dove depredarono alcuni villaggi, portando poi il bottino in salvo a Bassano del Grappa, dopo aver subito una sconfitta in una breve scontro con Cangrande e i suoi 200 uomini di scorta. Intanto la guarnigione di Cologna Veneta venne nuovamente sopraffatta, e i padovani riuscirono ad appropriarsi di alcuni vessilli scaligeri.
Fino a questo punto la guerra si era svolta con razzie e piccole scaramucce, nonostante la superiorità economica di Padova e l'importante aiuto militare degli alleati, anche perché Cangrande aveva sempre evitato lo scontro campale, date le superiori forze nemiche. Dopo che nel giugno 1312 anche a Modena avevano preso il sopravvento i guelfi, Padova decise di portare una grande spedizione contro Vicenza, e poté marciare relativamente tranquilla fino alla città, mentre Cangrande si trovava a Verona. A Vicenza i padovani cominciarono a saccheggiare i sobborghi cittadini, e finalmente riuscirono, in questa occasione, a reincanalare il Bacchiglione. Ma poi dato che Vicenza non si arrendeva, l'esercito venne spostato per conquistare Poiana, un importante castello sulla strada che da Padova porta a Vicenza, a ci riuscì dopo un breve assedio. Impossessatosi del castello, a fine luglio l'esercito patavino ritornò a Padova.
Seguirono ancora razzie padovane, mentre Cangrande, sulla difensiva, cercava di limitarle, riuscendo nonostante questo a mantenere il controllo di Vicenza, anche grazie alla disorganizzazione delle truppe nemiche. Intanto Padova perdeva l'importante alleanza di Treviso, che pretendeva di assumere il comando dell'esercito. A questo punto Werner von Homburg poté nuovamente avanzare in aiuto di Cangrande, il quale intanto, era riuscito a impadronirsi del castello di Lozzo, grazie ad un'intesa segreta con il comandante della fortezza. Riuniti, Werner e Cangrande, assalirono il 7 gennaio 1313 Camisano Vicentino e ne distrussero il castello. Il 2 febbraio 1313 i padovani si spinsero sino nel territorio veronese, dove continuarono i saccheggi e le devastazioni. I padovani tentarono più volte l'assedio del castello di Lozzo, data la sua importanza strategica, fin quando Cangrande decise di distruggerlo, dato che la sua difesa era divenuta troppo costosa. Intanto si riaccese la guerra con Padova, e ricominciarono le devastazioni, sia nel padovano che nel vicentino: in una di queste occasioni venne teso un agguato a Cangrande, ma egli riuscì a salvarsi. Cangrande tornò quindi sulla difensiva, e, per sua fortuna, la guerra tornava a raffreddarsi, soprattutto durante l'estate.
Le lotte intestine di Padova e il ritorno di Enrico VII di Lussemburgo dal suo viaggio a Roma, fecero tornare l'alta Italia in uno stato di guerra, e Cangrande dovette inviare una spedizione a Modena per difenderla dalle città guelfe che la minacciavano, mentre Padova inviava aiuti a Firenze alla fazione guelfa. Enrico VII decise quindi di decretare ufficialmente Padova traditrice dell'Impero, togliendole ogni privilegio e diritto, e condannandola a una forte multa. I padovani decisero di proseguire con la difesa della città, dato che al momento l'imperatore non aveva mezzi sufficienti per poterla conquistare, anche se si alleò con Cangrande, Castelbarco, con il re di Boemia, il conte di Gorizia e il vescovo di Trento. In breve tempo l'imperatore riuscì a reclutare un esercito di 823 cavalieri pesanti e 6.000 cavalleggeri.
I padovani seppero che si stava creando l'alleanza tra Verona e Friuli, decisero quindi di mandare una spedizione presso Ceneda, impedendo in tal modo l'attraversamento tra Friuli e Verona tramite Treviso, mentre le guarnigioni di Conegliano, Bassano del Grappa e Cittadella furono rinforzate. Intanto Treviso cercava di mantenere una posizione neutrale, per non incorrere in una guerra contro Verona e il conte di Gorizia (dato che si trovava strette tra le due forze) o contro Padova (con la quale era molto legata per via della posizione geografica molto ravvicinata). I padovani, per separare ulteriormente Friuli e Verona, il 21 giugno 1313 mandarono rinforzi a Este e Montagnana, da dove partirono alla volta di Arcole, dove, dopo una breve battaglia, riuscirono a conquistare il castello.
Mentre Cangrande si trovava a Vicenza le truppe patavine si avvicinavano a Verona, dove Federico della Scala diede ordine di chiudere le porte e di erigere barricate. Il podestà di Padova diede dunque l'ordine di rientrare, dato che l'esercito non era attrezzato per un lungo assedio: in compenso durante la ritirata abbatterono diversi castelli e razziarono il territorio. Nell'agosto 1313 Treviso decise infine di allearsi a Padova, dato che non gli era più possibile rimanere neutrale, in seguito a brevi scontri con il conte di Gorizia che si era seccato del continuo tergiversare dei trevigiani.
La situazione cambia però con la morte di Enrico VII di Lussemburgo (che sul letto di morte raccomandò la difesa dell'Impero a Cangrande) il 24 agosto 1313, che liberò in questo modo da una parte Cangrande dal suo obbligo di fornire risorse militari e finanziarie all'imperatore. D'altra parte però, con la sua morte, il guelfismo recuperava forza, mentre nell'alta Italia la fazione ghibellina poteva contare solo su quattro grandi città: Verona, Milano, Mantova e Pisa. Di queste Verona era la più compatta politicamente e sostenuta dal popolo, e si assunse perciò la responsabilità di assumere la guida della fazione ghibellina.
Ripresero intanto le scorrerie padovane, mentre i vicentini deviavano ancora il corso del Bacchiglione. Il 1º novembre 1313 vennero cacciati da Padova tutti i sospetti ghibellini e traditori: la città diveniva così il maggiore centro guelfo, mentre gli statuti venivano cambiati, e così anche il governo della città. Tuttavia, questo cambiamento, comportò una momentanea disorganizzazione all'interno della città, che favorì in tal modo lo scaligero, anche se non sfruttò il momento per un'azione militare.
Le due parti, stremate dalla guerra e dalle pestilenze, erano alla ricerca di un accordo, ma non vi fu nulla di concreto, mentre il periodo invernale passava senza azioni di rilievo. Nel periodo invernale Cangrande congedò gran parte dell'esercito, ma, nel marzo 1314, poteva contare nuovamente su un esercito di 3.000 cavalieri e 13.000 fanti. Il primo atto di Cangrande fu l'importante conquista di Abano Terme, che venne incendiata, mentre i padovani continuarono con la tattica delle razzie dei territori nemici. Intanto a Padova, dove continuava la caccia dei ghibellini, vennero arrestati alcuni membri della famiglia Carrarese, che però godevano della stima del popolo. E infatti ebbe luogo un'insurrezione che, a fatica, il consiglio cittadino riuscì a fermare.
Fu allora che venne eletto podestà Ponzino de' Ponzini, il quale messo a capo dell'esercito, durante una battaglia presso il Brenta, riuscì ad ottenere un'importante vittoria contro i soldati vicentini, tanto che in pochi riuscirono a fuggire e a raggiungere Vicenza. La vittoria portò i padovani a sperare nuovamente nella vittoria, e a riprendere le sortite contro Vicenza, di cui, il 15 luglio 1314, raggiunsero il sobborgo di San Pietro, anche se Cangrande riuscì a batterli e a obbligarli alla ritirata. Il Comune di Padova, per risolvere il problema dell'approvvigionamento d'acqua, decise di costruire un nuovo canale che prendeva l'acqua dal Brenta: in questo modo la deviazione del Bacchiglione diveniva un problema minore.
Importante azione di Cangrande fu l'attacco dei sobborghi di Padova, che gli diede la possibilità di firmare un breve armistizio: durante questa breve tregua mandò le truppe ausiliarie in aiuto di Pisa e Milano, ma dopo le inutili trattative di agosto Cangrande dovette riprepararsi alla guerra. I padovani occuparono con 2.000 uomini San Pietro (sobborgo di Vicenza), in modo da intralciare l'aiuto di Cangrande ai ghibellini milanesi, e ai Visconti in particolare.
Nogarola, podestà di Vicenza e amico di famiglia di Cangrande, fece chiudere e difendere le porte di Vicenza, in questo caso seriamente minacciata. Le truppe padovane, che erano partite con numerose provviste da Padova, si stavano preparando all'assedio, ma Cangrande, che in quel momento si trovava a Verona, venuto a conoscenza di quello che stava accadendo, partì precipitosamente con poca scorta a cavallo, per raggiungere velocemente Vicenza.
Arrivò a Vicenza la mattina del 17 settembre, percorrendo la distanza in sole quattro ore, impresa che sbalordì i presenti: incoraggiato subito il popolo, fece raggruppare e riorganizzare i soldati, rincuorati dall'eroico arrivo di Cangrande. Pregata la Vergine Maria, a cui Cangrande era devoto, con soli cento cavalieri uscì dalla porta principale della città: dopo essere stato inizialmente respinto riuscì a reclutare alcuni soldati vicentini che erano stati messi in fuga dai sobborghi della città. Cangrande comandò allora l'attacco a San Pietro, facendo immediatamente fuggire il comandante delle truppe padovane. Lo storico Albertino Mussato, che era con le forze padovane, racconta come questo improvviso assalto si sviluppò in un accerchiamento dell'esercito padovano. Cangrande, in piedi sulle staffe, esortò i suoi seguaci a uccidere il vile nemico. Dopo la cruenta sconfitta le truppe padovane si diedero alla fuga, mentre lo stesso Mussato venne fatto prigioniero. Vista la ritirata nemica Cangrande si precipitò sul campo di battaglia, dove il nemico si difese fiaccamente.
Alla fine della battaglia furono catturati e condotti a Verona 773 prigionieri, mentre nell'accampamento padovano furono requisiti viveri, argenterie, armi, attrezzi, tappeti e oggetti preziosi, che, caricati su 700 carri, furono condotti prima a Vicenza, e quindi a Verona: il danno per i padovani era incalcolabile, e la vittoria dello scaligero era netta. Il 17 settembre, giorno della battaglia di San Pietro, divenne festa solenne, che sarebbe stata festeggiata a lungo, dato che sanciva definitivamente la conquista di Vicenza: con questa vittoria la fazioni ghibellina riprendeva speranza.
A Padova intanto arrivavano feriti e fuggiaschi della dura battaglia, mentre tra la popolazione cominciava a diffondersi il panico, anche se l'arrivo di Ponzino tranquillizzò in parte il popolo. Si deliberò subito il rinforzo delle difese, mentre arrivavano supporti dalle altre città guelfe, in particolare da Bologna. Cangrande non poté però attaccare la città per via del mal tempo, che aveva causato numerosi allagamenti. La vittoria di Cangrande era completa, e grazie a questa migliorò ancora la sua reputazione: riuscì a guadagnare anche la riluttante ammirazione di uomini come Mussato, il quale si opponeva ardentemente a Cangrande per il suo stile autocratico.
Fu allora che Bonacolsi e Castelbarco suggerirono a Cangrande di stipulare la pace. Venezia spedì ambasciatori a Verona e Padova offrendosi di condurre le trattative, dato che era nei suoi interessi avere la sicurezza sulle tratte commerciali: le due parti accettarono. Nei patti Vicenza diveniva ufficialmente parte della signoria scaligera, mentre venivano assicurate le libertà di Padova, e Venezia si faceva garante della pace. Il trattato venne approvato a Verona, Vicenza e Padova e la pace venne proclamata ufficialmente il 6 ottobre. Tornava quindi la pace dopo tre anni di lotte, razzie e battaglie. Cangrande era riuscito in definitiva a battere un avversario superiore per forza militare e prosperità economica, andando così ad inserirsi nei rapporti tra potenze dell'alta Italia.
La battaglia di San Pietro mostrò le qualità per cui divenne popolare Cangrande: il quasi sconsiderato coraggio in battaglia e la sua magnanimità verso i nemici sconfitti, alcuni dei quali divennero suoi amici. Tra i prigionieri vi furono anche nobili influenti come Jacopo da Carrara e suo nipote Marsilio da Carrara. È tra l'altro di questo periodo il massiccio stanziamento, previo consenso degli scaligeri, di popolazioni tedesche nei Lessini (altopiano, allora quasi spopolato, a nord di Verona), che furono chiamati in seguito Cimbri, anche se una loro presenza era già attestata dall'ottenuta investitura del 1287 dal vescovo Bartolomeo della Scala.
Durante il periodo in cui l'autorità imperiale era vacante i baluardi della fazione ghibellina furono Pisa, Milano e Verona. Pisa era però messa in difficoltà dalle vicine città guelfe, per cui Cangrande decise di andare in suo soccorso: nell'agosto 1315 grazie all'apertura di un secondo fronte i fiorentini subirono una disfatta a Montecatini e persero circa 2.000 soldati. La sconfitta di Firenze fu un duro colpo per i guelfi di tutta Italia. L'11 settembre venne firmata l'alleanza tra Verona, Mantova, Modena, Lucca e Pisa. Importante fu anche l'aiuto ai Visconti in Lombardia.
Nell'ottobre 1315 Passerino Bonacolsi e Cangrande della Scala, da sempre alleati, iniziarono un tentativo di assoggettare Cremona, Parma e Reggio: il primo passo era la conquista del cremonese, la quale non presentò rilevanti problemi, dato che i castelli erano poco numerosi, mentre la città era immiserita. Dagli assedi di città e fortezze, in particolare da Sabbioneta, Piadena, Casalmaggiore e dai sobborghi di Cremona Cangrande recuperò un ricco bottino, che portarono a Verona a inizio luglio del 1316. A questo punto la situazione di Cangrande si faceva però difficile: Cremona, Parma e Reggio si riunirono sotto un'unica Signoria, mentre a Brescia prendevano il sopravvento i guelfi, e in tal modo si interrompevano le vie di comunicazione tre le alleate ghibelline Verona e Milano. Per di più Verona era continuamente minacciata da Padova e Treviso. In particolare, nonostante la pace continuava dal settembre 1314, le tensioni con Padova erano sempre molto forti, per questo essi si allearono nuovamente con i trevigiani. Intanto, nel giugno 1316, Guecellone VII da Camino si era proclamato signore di Feltre e Belluno.
All'inizio dell'inverno la guerra era ormai latente, tanto che Padova si impegnò a reclutare 8.000 fanti e 800 cavalieri, mentre Treviso 4.000 fanti e 400 cavalieri, anche se non era di fatto scoppiata. Nel gennaio 1317 Verona prestò il giuramento di fedeltà a Federico I d'Asburgo detto il Bello, il quale diede la nomina a Cangrande di vicario imperiale unico di Verona e Vicenza, e il 16 marzo 1316 Cangrande lo riconobbe ufficialmente come imperatore dei romani, incorrendo così nell'ira di Papa Giovanni XXII che non riconobbe né lui né il suo rivale Luigi IV di Baviera. Durante l'inverno il vicario continuò l'opera riformatrice delle finanze e dell'esercito.
Con il nuovo anno si allentò la tensione con Padova e Treviso, così nella primavera del 1317 Cangrande, alleato a Matteo Visconti, preparò una spedizione contro i guelfi di Brescia, ignorando le minacce di scomunica da parte del Papa e ribadendo con i fatti la sua fede ghibellina: subito conquistò importanti castelli di concerto con il temuto capitano di ventura toscano Uguccione della Faggiola, come Ghedi, Montichiari e Lonato, e a maggio cominciò l'assedio di Brescia: fu allora che venne informato che le truppe padovane, guidate dal guelfo Vinciguerra Sambonifacio, la cui famiglia era stata esiliato da Verona da Mastino della Scala, erano poco distanti da Vicenza. Cangrande decise immediatamente di lasciare la prosecuzione della guerra ai ghibellini bresciani, mentre lui si diresse verso Vicenza.
Cangrande si stava preparando ad assediare Lonato, mentre, nel frattempo, guelfi vicentini tramavano per riportare la città sotto il controllo di Padova: essi, insieme a Vinciguerra da Sambonifacio, si erano preparati per consegnare la città la mattina del 22 maggio 1317, mentre l'esercito padovano attendeva non troppo lontano dalla città, pronto ad intervenire. Il podestà di Vicenza Nogarola venne però avvertito del complotto, a fece avvertire immediatamente Cane. Intanto le truppe padovane (4.000 cavalieri e 1.500 fanti) cominciarono l'avanzata verso Vicenza, mentre Cangrande aveva raggiunto Verona e si diresse segretamente verso Vicenza con tre fedeli. La mattina del 22 Cane era già in città, insieme all'alleato Uguccione della Faggiola, quando iniziò l'assedio, con 200 padovani che entrarono in città grazie all'uso di scale: quando furono entrati Cangrande aizzò la popolazione contro di loro, e i nemici furono uccisi o catturati.
Sambonifacio non sapeva cosa stava succedendo in città, e aspettava che i cospiratori o i soldati aprissero le porte. Pregata la Vergine Maria Cangrande fece aprire la porte, e davanti a lui si apriva prima la fanteria, e quindi un esercito di 4.000 cavalieri: egli uscì con 40 cavalieri, riuscendo a passare la fanteria padovana, che li aveva scambiato per vicentini alleati, partì dunque all'attacco di Sambonifacio attraversando le linee nemiche, mentre Uguccione con una forza maggiore attaccò da dietro, riuscendo così a prendere alla sprovvista le truppe padovane. Cangrande e i suoi 40 cavalieri fecero strage dei padovani, e lo stesso fece la seconda schiera partita dopo di lui dalla porta vicentina. Vennero catturati 500 padovani, tra cui lo stesso conte da Sambonifacio, con cui Cangrande mostrò ancora una volta la sua magnanimità, dato che lui fu gravemente ferito nel conflitto, e venne fatto curare nel suo palazzo, e gli offrì un magnifico funerale per la sua morte, avvenuta un paio di settimane più tardi, nonostante lui e la sua famiglia fossero gli storici nemici degli scaligeri.
Antonio da Nogarola venne mandato dal doge di Venezia per richiedere un pagamento da parte di Padova, poiché aveva rotto la pace stipulata di cui Venezia si era fatta garante. Uguccione della Faggiuola, che rimase fedele allo scaligero sino alla morte, venne nominato podestà di Vicenza, per il servigio reso durante la battaglia. Verona stava trasformandosi nel maggiore centro ghibellino, e la fama di Cangrande attirava numerosi seguaci dell'Impero: veniva addirittura nominato podestà di Modena Federico della Scala, mentre Parma cercò il suo favore, dando l'incarico di capitano della città a un veronese. Intanto riprese la campagna bresciana, durante la quale Brescia venne attaccata, mentre i legati dello stesso papa erano a Verona per trattare la pace con la città guelfa: durante i colloqui Cane venne ammonito di deporre il titolo di vicario imperiale, se non avesse voluto subire una condanna da parte del papato.
Cane però rifiutò lo stesso, poiché il titolo gli era stato conferito a vita. Intanto riprendeva guerre contro altre città guelfe, anche se preferì successivamente riprendere la guerra contro Padova, dato che i padovani si erano rifiutati di pagare il tributo. In quel periodo era in corso una dieta delle città ghibelline, durante la quale si decise di fornire i Visconti e gli Scaligeri di un esercito. Intanto il conte di Gorizia riuscì a raggiungere Verona con 200 soldati, mentre Treviso voleva mantenere la pace per via delle lotte interne ed esterne in cui era impegnata. Intanto Uguccione aveva preparato l'assalto di Monselice, castello fondamentale per Padova sulle pendici orientali dei Colli Euganei.
Il 20 dicembre Cangrande partì da Verona con l'esercito reclutato insieme a Uguccione della Faggiuola e il conte Enrico di Gorizia: nella notte raggiunsero la città dove era stata aperta una porta da alcuni congiurati, riuscendo così a conquistarla senza neanche lottare. Il 22 raggiunse Este, di cui pretese la resa: come risposta dalla città partì una fitta pioggia di frecce che ferì lo stesso Cangrande e suo nipote. L'esercito passò allora all'attacco riuscendo a vincere la resistenza, così Cane poté passare il Natale nella città conquistata. Il 27 dicembre riprese la marcia veronese, e, lo stesso giorno, cadde anche Montagnana. Nei giorni successivi caddero in mano veronese numerosi castelli e villaggi, mentre Padova era in piena guerra civile. Essa richiese ed ebbe una tregua momentanea, così Padova riuscì ad avere aiuti da alcune città guelfe.
Alla fine del gennaio 1318 riprese l'avanzata per la conquista di Padova, arrivando ad un corso d'acqua difeso da fortificazioni: qui Cangrande attaccò le file nemiche con 6 o 7 cavalieri di scorta, così che le truppe veronesi appena giunte sul posto seguirono il suo esempio e riuscirono a mettere in fuga i padovani. Ormai Cangrande era alle porte di Padova. Il 28 gennaio Cangrande fece distruggere circa 500 case e palazzi dei sobborghi di Padova, e nel frattempo arrivavano 360 cavalieri inviati dai Visconti, oltre a truppe del duca di Carinzia e dei Castelbarco: ormai l'esercito di Cangrande era costituito da ben 3.000 cavalieri e 15.000 fanti.
Il 9 febbraio le truppe erano pronte e schierate per l'assedio, pronti a ricevere gli ambasciatori padovani per l'ultima trattativa, dopo che numerose altre erano state inutili. Padova accettò infine di perdere Monselice, Montagnana, Este e Castelbaldo in cambio della pace. Inoltre si impegnavano a reintegrare tutti coloro che erano stati cacciati da Padova (cioè ghibellini) e di risarcirli e di consentirgli di partecipare alla vita pubblica. La pace venne annunciata il 12 febbraio, e a Pasqua gli esuli poterono rientrare in città: iniziarono di nuovo così lotte cruente all'interno della città tra le varie famiglie.
Finita la guerra nella marca trevigiana Cangrande riprese la lotta contro i guelfi a occidente, in particolare contro Brescia e Cremona. Cremona capitolò nell'aprile 1318 e finì in mano alla fazione ghibellina, grazie all'importante aiuto dei Visconti e degli Scaligeri, e ad agosto, grazie a Cangrande, la signoria della città venne affidata a Passerino Bonacolsi, il quale poco prima aveva perso Modena per una sollevazione guidata dai Mirandola. Cangrande tentò la riconquista della città, ma con Modena si schierò anche Bologna, così decise di lasciare per il momento perdere. Intanto arrivò a Cane la scomunica del Papa, a seguito del suo persistente rifiuto di rinunciare al vicariato imperiale. Decise di dedicarsi alla riforme interne rivedendo gli statuti comunali, riordinando l'amministrazione e sopprimendo abusi ancora esistenti: i nuovi statuti veronesi erano composti da cinque libri. Il commercio, l'artigianato e le professioni vennero regolate da quattro libri, gli statuta domus mercatorum.
Le corporazioni delle arti e mestieri a Verona erano rappresentate dalla Domus Mercatorum (casa dei mercanti). Essa occupava un ruolo primario nella vita cittadina durante il Comune, mentre durante la signoria scaligera le sue competenze furono concentrate al commercio e alla manifattura, anche se conservava grande influenza. Podestà della casa venne nominato anche Cangrande, con il quale incarico riceveva un onorario annuo di 1.000 piccoli denari veronesi. Egli doveva fare da giudice nella controversie e cause tra commercianti secondo gli statuti vigenti, inoltre aveva diritto ad eleggere un suo supplente che riceveva un compenso di 10 piccoli denari veronesi. Grazie ai privilegi che comportava la carica lui poté rivedere gli statuti della domus mercatorum, che furono approvati il 18 luglio 1319.
Verona era allora un emporio di merci per via della sua collocazione strategica a metà corso dell'Adige, e grazie ai rapporti di amicizia con Venezia, anche se si erano in parte degradati con l'espansione veronese per via dei timori veneziani. Continuava comunque a sussistere la reciproca difesa degli interessi commerciali, e i veronesi, come avevano sempre fatto, non negarono la presenza di un console, eletto dal doge, che aveva il compito di controllare le merci veneziane. Anzi la Serenissima Repubblica aveva conferito importanti cariche ai veronesi ed ampliava i suoi interessi economici nella città: dunque vi fu uno sviluppo economico oltre che territoriale. Anche la scienza e l'arte ricevettero un forte impulso, e, grazie alle importanti figure che Cangrande riusciva a raccogliere di fianco a sé, anche gli studi di giurisprudenza, storia e medicina ebbero notevoli rappresentanti.
Cane riuscì ad avere assicurazioni da Giacomo da Carrara che Padova sarebbe rimasta neutrale nella sua guerra contro Treviso, dove, inoltre, egli stava preparando una congiura. Come si vede anche in questo caso ebbe una notevole influenza sulla città patavina a causa della sua amicizia con la famiglia dei Carraresi, che era diventata la famiglia dominante in città. Egli aveva inoltre informalmente cementato la sua alleanza con i Carraresi alla fine del 1318, fidanzando il suo dodicenne nipote Mastino II con Taddea, figlia di Jacopo Da Carrara. E il 2 ottobre 1318 Uguccione della Faggiola, con 1.000 fanti e 500 cavalieri, mosse verso Vicenza. Per via del mal tempo però tardarono ad arrivare a Treviso. Uguccione dovette quindi ritirarsi nella vicina Cassano.
Da qui poi conquistò alcune fortezze, mentre Treviso mandava legati in cerca d'aiuto in altre città. Il 6 ottobre Cangrande raggiunse l'amico, mentre Guecellone VII da Camino, in lotta con i trevigiani, gli consegnò le importanti fortezze di Soligo, Vidor, Ceneda, Oderzo e Ponte di Piave: Treviso si trovava quindi isolata, e dovette chiedere la mediazione del doge veneziano. I messi veneziani incontrarono lo scaligero presso Spinea per aprire le trattative di pace. Cangrande esigeva la capitolazione di Treviso ma la richiesta venne respinta, anche perché la città era ben difesa e non voleva perdere la propria indipendenza.
Cangrande, Uguccione, Enrico di Gorizia e Guecello da Camino attaccarono e devastarono alcuni sobborghi di Treviso. Nonostante ciò la città resisteva e così cominciarono le devastazioni della pianura trevigiana, esclusa Conegliano, che era l'unica città a resistere. Durante un nuovo attacco a Treviso lo stesso Cangrande venne ferito ad una spalla da una freccia. La città era però in serio pericolo, perciò decise ad affidarsi all'imperatore Federico il Bello, che però accettò di dare loro protezione solo nel caso avessero accettato un vicario imperiale, cosa che fecero. L'imperatore mandò messi a Cane, che però non accettò di ritirarsi, e tornò a Vicenza solo il 2 dicembre 1318, dopo aver razziato il territorio trevigiano. Cane non era preoccupato dell'imperatore, dato che era già impegnato militarmente con Ludovico il Bavaro, mentre i mesi invernali passavano, su quel fronte, relativamente tranquilli.
Cangrande si impegnò contro i guelfi genovesi, dove avevano preso il potere dopo anni di lotte con i ghibellini, insieme a molte città ghibelline del nord Italia. Dopo che Roberto di Napoli cercò di portare dalla sua parte lo scaligero con grandi concessioni, e questo rifiutò, Matteo Visconti convocò a Soncino per il 16 dicembre 1318 una grande dieta ghibellina, nella quale Cangrande venne nominato Capitano Generale, tanto che nei documenti porta il titolo di Capitaneus et rector societatis et unionis dominorum et fidelium in Lombardia. Questa carica comportava numerosi diritti e doveri. L'assedio di Genova con l'esercito della Lega Ghibellina riprese nell'estate del 1319. Intanto lo scontro tra fazione guelfa e ghibellina diventava sempre più aspro, e i guelfi bresciani portarono alcuni successi.
La guerra con Treviso era finita nell'inverno 1318 senza un vero trattato di pace, e con l'inizio del nuovo anno i trevigiani accettarono la nomina di un vicario imperiale in cambio della protezione dell'imperatore Federico: il nuovo vicario chiese allo scaligero la restituzione dei castelli conquistati, ma egli non accettò, anche se decise di firmare una tregua momentanea, che sottoscrisse anche Guecellone VII da Camino. Nel frattempo i trevigiani richiesero all'imperatore delle truppe ausiliarie, anche perché la città era ormai in buona parte con Cangrande.
Anche lo stesso Cangrande era in contatto con l'imperatore, molto probabilmente per farsi confermare la carica di Capitano Generale della fazione ghibellina: le trattative non ebbero successo, dato che l'imperatore pretendeva la restituzione dei castelli trevigiani. Fu a causa di questa questione che Cane decise di dare il suo supporto all'altro pretendente imperatore, Ludovico il Bavaro, con il quale era accomunato dal difficile rapporto con il papa Giovanni XXII, che appoggiava Federico e l'indipendenza trevigiana. E, a conferma di ciò, il 6 aprile 1318 il papa aveva scomunicato Cangrande (oltre ai Visconti) poiché non aveva rinunciato al vicariato imperiale.
Nella primavera dell'anno seguente fu comminata allo scaligero ed ai suoi alleati (il conte di Gorizia e Guecello da Camino) una nuova punizione da parte del papa, che sarebbe diventata definitiva se essi non avessero restituito i territori trevigiani: beffandosi di ciò Cangrande, finito l'armistizio, a marzo riprese la guerra con Treviso. L'esercito veronese arrivò fino ai sobborghi della città, dove vinse una battaglia. Fu in quei momenti che i trevigiani vennero a sapere che l'imperatore non poteva mandare loro truppe, in quanto era già impegnato contro Ludovico il Bavaro, e che aveva nominato vicario della città il tanto odiato Enrico di Gorizia: a questo punto Treviso era pronta a firmare la pace a qualsiasi condizione.
Spettò ancora a Venezia condurre le trattative di pace: fu concesso il ritorno a Treviso degli esuli, Asolo e Montebelluna furono occupate dalle forze veronesi, che ricevevano tra l'altro un'indennità annua per la loro gestione. Poco prima della firma del contratto si venne a sapere in città che Conegliano era circondata dalle truppe di Guecello da Camino, e la prospettiva di perdere quella importante città, li obbligò ad accettare il vicariato del conte di Gorizia. Egli, che fino ad un momento prima era alleato di Cane, gli chiese la cessazione delle ostilità in nome di Federico: il principe accettò, ma lasciò le sue truppe in territorio trevigiano.
Cangrande, finita la guerra con Treviso, cominciò a prepararsi per un nuovo scontro con Padova: per prima cosa fece promettere al conte di Gorizia di rimanere neutrale in caso di guerra tra Padova e Verona (l'accordo venne raggiunto nell'ottobre 1319). Già a luglio però Cane inviò una lettera a Giacomo I da Carrara, in cui gli chiede di richiamare i padovani ghibellini esiliati, ed egli rispose che non avrebbe negato il rientro dei cittadini, intuendo che il principe veronese cercava un casus belli per iniziare una nuova guerra. Nonostante la risposta Cane preparò l'esercito formando due grandi reparti, di cui uno affidato al Nogarola, che aveva l'ordine di marciare su Cittadella e Bassano per conquistare le importanti fortezze e distrarre una parte consistente delle forze padovane. L'altro reparto era invece comandato dallo stesso Cangrande e da Uguccione: essi arrivarono, ad inizio agosto, nei sobborghi di Padova.
La città patavina non era però ancora pronta alla guerra, dato che il Carrara pensava di poter giungere a una pace definitiva, mentre, nel frattempo, lo scaligero fortificava un accampamento fuori città e devastava i dintorni di Padova, in modo da tagliare i rifornimenti della città. Parte della popolazione del contado si rifugiò a Padova, causando così carestia e malattie, e Cangrande deviò il Brenta, togliendo così alla città anche l'acqua. Gli Estensi si allearono con Cangrande e conquistarono alcuni borghi soggetti a Padova, mentre i padovani cercarono di avere l'appoggio del conte di Gorizia, che diede notizia dei suoi contatti con Padova allo scaligero, che gli promise, così, alcuni paesi in cambio di un suo contingente di truppe. Padova era ormai nel panico, tanto che fece bruciare alcuni villaggi in modo da rallentare l'avanzata delle truppe del conte di Gorizia, mentre, intanto, gli ambasciatori patavini tentavano di venire alla pace con Cangrande: egli voleva in cambio le dimissioni di Giacomo da Carrara, il richiamo in città degli esuli e il congedo dei soldati; con queste condizioni Padova sarebbe caduta senza combattere nelle mani nemiche.
Date le dure condizioni, i padovani preferirono accettare la proposta di Enrico di Gorizia, che prometteva ai padovani la riconquista di Rovigo, Montagnana, Monselice ed altri castelli in cambio della signoria di Padova in nome di Federico d'Austria. Fingendo la prosecuzione dei rapporti amichevoli con Cangrande, il conte inviò al suo accampamento l'esercito, per cercare di catturare lo stesso Cangrande. Lo scaligero scoprì però l'intrigo, e punì severamente i colpevoli. In autunno Cittadella e Bassano caddero finalmente in mano scaligera, aumentavano però le preoccupazioni di Treviso e Padova, che continuavano le trattative con i veronesi. Il 4 novembre Enrico assunse il governo di Padova, come era stato deciso, così il giorno successivo Cane spostò più a nord l'accampamento, in modo da chiudere il collegamento tra Treviso e Padova: il conte aveva però già reclutato un forte esercito composto da Ungari, Tedeschi e Slavi, che vennero fermati però dal periodo invernale, e Padova si trovava così sul punto di crollare per via delle discordie interne e della guerra.
Federico d'Austria inviò un legato per trattare la pace con Cangrande, il quale ottenne che, momentaneamente, il vicariato di Padova sarebbe stato dato allo stesso ambasciatore, mentre le altre questioni sarebbero state trattate nella dieta di Bolzano, mentre fino ad allora Monselice, Montagnana, Castelbado e Bassanello sarebbero rimasti in mano scaligera: fu quindi firmato l'armistizio. Tutte le principali fortezze padovane, esclusa Bassano, erano ormai in mano di Cangrande, e la stessa Padova era allo stremo. L'amico di Cangrande Uguccione della Faggiola si era, però, ammalato durante l'assedio ed era morto a Vicenza il 1º novembre 1319: venne quindi portato a Verona, dove dopo un solenne funerale venne seppellito.
L'imperatore non poté partecipare alla dieta di Bolzano e chiese una proroga della tregua, richiesta insoddisfacente per Cane, che riprese dunque i preparativi di guerra. Egli rinnovò l'alleanza con Guecello da Camino, che nel frattempo era diventato signore di Feltre e Belluno. Il 13 marzo Cangrande era già riuscito ad entrare ad Asolo mentre Guecello, con l'aiuto di Cecchino della Scala, conquistò Montebelluna (il giorno successivo): i trevigiani erano ormai senza difese, e come contromisura cautelativa decisero di esiliare tutti coloro che si erano macchiati nel tempo di tradimento. Chiesero nuovamente truppe a Federico d'Austria, ma a fine marzo giunse la notizia che Cane aveva lasciato il territorio trevigiano per assediare Padova, anche se a nord Guecello spesso sconfinava nel loro territorio e si dava alla razzia. Federico, date le inquietanti notizie che giungevano da Padova e Treviso, si convinse a dichiarare guerra a Cangrande. Prima, però, volle convocare a Bolzano il Signore veronese per parlare insieme a lui: Cane partì a maggio scortato da 600 cavalieri e 1.000 fanti e si accampò temporaneamente a Trento, dove si incontrò con il fratello dell'imperatore.
Essi informarono l'imperatore dell'incontro avuto con lo scaligero (non si sa cosa sia stato detto nella riunione), ed egli decise di punirlo. A fine maggio 1320 Enrico di Gorizia arrivò a Treviso con 500 cavalieri per prepararsi alla guerra con Verona. Ai primi di giugno i soldati veronesi tentarono l'assalto di Padova, ma, quando erano ormai quasi riusciti ad entrare in città, un soldato si accorse della loro presenza: subito le campane furono fatte battere a martello, l'esercito riuscì velocemente a raggrupparsi ed a respingere l'assalto veronese. Fallito l'assalto Cane decise di ridurre alla fame la città tagliando i rifornimenti per la città.
In un momento di assenza di Cangrande i padovani tentarono un assalto esterno contro le truppe veronesi, ma persero la battaglia e dovettero ritirarsi nuovamente in città; in un secondo attacco i padovani riuscirono però a catturare ben quattordici gonfaloni scaligeri. Vista la cocente sconfitta Guecello da Camino firmò la pace con i padovani, abbandonando così l'alleato veronese. Cangrande dovette abbandonare velocemente Vicenza per raggiungere il luogo della sconfitta, dove fece velocemente riparare le fortificazioni. La città era affamata ma il conte di Gorizia riuscì a raggiungerla con truppe fresche, e poté così attaccare nuovamente i nemici: Cangrande stava già attaccando, così il conte riuscì a sorprendere l'accampamento, quasi sguarnito. Da qui attaccò poi Cangrande, che, messosi davanti ad alcune truppe, attaccò in nemico, ma venne ferito alla gamba da una freccia, mentre la maggior parte dell'esercito era in ritiro verso Vicenza. Dovette quindi darsi alla fuga pure lui.
I padovani riuscirono a riconquistare Bassano e gli altri castelli scaligeri in territorio padovano. Lo scontro si concentrò a Monselice, dove si erano ritirate le truppe veronesi: l'assedio non ebbe esito positivo grazie alla resistenza della guarnigione veronese. Il 27 agosto Cangrande era tornato a Monselice, da dove chiese aiuto agli alleati ghibellini e fece condannare a morte i responsabili del reparto militare che ha disertato durante la battaglia di Padova. Nell'estate 1320 Cane e i suoi seguaci erano stati nuovamente scomunicati per aver conservato il titolo di vicario imperiale, proprio nel momento in cui Padova e Treviso si preparavano ad attaccarlo: successivamente il papa Giovanni XXII autorizzò a sciogliere dalla scomunica chi avesse rifiutato di obbedirgli, il papa sperava in questo modo di piegare Cangrande al suo volere. In questa situazione così difficile Cane dovette negoziare segretamente la pace con Padova.
In breve riuscirono ad accordarsi: dovevano essere scambiati i prigionieri e le fortezze di Monselice, Este, Montagnana e Castelbaldo sarebbero state dello scaligero fino a quando Federico d'Austria non avesse emesso la sua decisione, mentre Cittadella tornava a Padova e Bassano a Vicenza (e quindi a Cangrande), ed Asolo e Montebelluna a Enrico di Gorizia. Il trattato di pace venne firmato alla fine dell'ottobre 1320. Con quella vittoria Treviso e Padova ebbero molti vantaggi ma per contro la loro forza militare era drasticamente diminuita, dato che il territorio vicentino e veronese non era stato nemmeno sfiorato dalla guerra, mentre quello padovano e trevigiano erano devastati. Con questa pace finiva la peggiore esperienza bellica di Cangrande. I padovani quindi, diffidenti del loro salvatore Enrico II di Gorizia e ansiosi di sbarazzarsi del suo esercito di mercenari, accettò i termini della resa, non particolarmente sfavorevoli a Cangrande.
La pace lasciava in mano di Cangrande quattro fondamentali fortezze padovane oltre a Bassano, fondamentale poi come base per le operazioni belliche. Il 27 gennaio 1321 Guecello da Camino venne assassinato dall'omonimo nipote e iniziarono così lotte intestine per la conquista del potere a Feltre. Uno di coloro che complottavano per impadronirsi del potere si mise d'accordo con Cangrande: allo scaligero sarebbe andata la signoria della città se egli avesse avuto il titolo di vescovo della città. L'11 febbraio Cane inviò le truppe vicentine nella città, che fu conquistata facilmente, mentre il nuovo Guecello fuggiva a Belluno, dove però la situazione non era per lui migliore, anche per via dei tentativi di Cane di far sollevare la popolazione, stanca del crudele regime. Il comandante di Feltre venne mandato con le truppe vicentine e veronesi a Belluno, dove era ormai pronta la congiura contro il Da Camino: il 23 ottobre Belluno venne conquistata senza spargimenti di sangue, se non quello dei guardiani di una porta uccisi dai congiurati. L'ampliamento del territorio con Feltre, Belluno e Serravalle era un fatto estremamente positivo per Cangrande, poiché aveva una nuova base per le operazioni contro il territorio trevigiano.
Il 24 aprile 1323 moriva anche Enrico di Gorizia, che tanti problemi aveva dato allo scaligero, che poteva così sperare nella conquista di Castelfranco Veneto: il 20 marzo 1324 mosse contro la fortezza, dopo aver ordito un complotto per impadronirsene, il quale venne però sventato: iniziarono così scorrerie dei soldati lungo il Piave. Queste scaramucce erano una tattica di Cane per sgretolare lentamente il territorio nemico. Treviso era ormai circondata, e solo una lingua di terra permetteva un collegamento con il Friuli. Sia a Padova che a Treviso vi erano forti tensioni interne, e solo nell'estate 1324 riuscirono ad allearsi, dopo una carestia, insieme ai tedeschi, sperando così di contrastare Cangrande.
Nell'autunno 1322 Cangrande rinnovò la sua alleanza con Passerino Bonacolsi nel tentativo di riportare i ghibellini esuli a Reggio Emilia. Promise la sua fedeltà a Luigi IV di Baviera dopo la sua vittoria su Federico I d'Asburgo nella battaglia di Mühldorf nel settembre 1322, e, nel giugno 1323, diedero vita ad un'alleanza con lui, Bonacolsi e gli Estensi di Ferrara in aiuto dei Visconti di Milano. Consapevole del fatto che Padova aveva cercato di recuperare alcuni dei suoi ex possedimenti con la forza, trascorse la primavera del 1324 a rafforzare le difese, incominciando dalle mura di Verona.
Tuttavia l'indisciplinato esercito di mercenari di Enrico di Carinzia e Tirolo, acquisito da Padova, non costituiva una grave minaccia e Cangrande sarebbe stato presto in grado di comperarlo. Con Enrico Cangrande andò nuovamente all'attacco di Padova, nei primi mesi del 1325, ma Luigi IV di Baviera, l'imperatore eletto, gli ordinò di fare una tregua e di restituire alcuni territori a Padova. Intanto a febbraio morì Chichino, figlio del fratello Bartolomeo della Scala, che gli lasciò un cospicuo patrimonio (salvo delle terre al figlio Giovanni), dato che i rapporti tra Cangrande e Chichino erano molto stretti: Cangrande lo tenne in casa alcuni anni e lo volle a fianco a lui alla firma di importanti alleanze e trattative. Probabilmente Cangrande pensava a lui come suo successore.
In giugno e luglio 1325 Cangrande combatté a Modena per la causa ghibellina, ma dovette affrettarsi a tornare a Vicenza dove, un grande incendio, aveva distrutto una parte significativa della città. Lì si ammalò e dovette ritirarsi a Verona, dove una voce avversaria dichiarò che era sul punto di morire. A questo suo cugino Federico della Scala, salvatore di Verona nell'attacco padovano del giugno 1314 e podestà di Vicenza, cercò di impadronirsi del potere, ma i mercenari di Cangrande lo fermarono. Quando Cangrande recuperò la salute e le energie bandì Federico e tutta la sua famiglia dalla città, i suoi beni furono requisiti, e il suo castello a Marano venne raso al suolo.
Cangrande recuperò abbastanza bene e prese parte alla campagna che si è conclusa in una grande vittoria sui guelfi bolognesi a Monteveglio insieme a Passerino Bonacolsi, nel novembre 1325. Tuttavia sembrò aver allontanato il suo vecchio alleato, forse offeso da Passerino, favorì gli Estensi di Ferrara, con la cui famiglia vi fu un matrimonio. Nonostante la vittoria di Monteveglio e il trionfo di Castruccio Castracani sui guelfi fiorentini ad Altopascio la fazione guelfa era ancora forte, e il papa e Roberto di Napoli inviarono a Verona, nel luglio 1326, un'ambasciatura, nel tentativo di spezzare la fedeltà di Cangrande al Sacro Romano Impero di Luigi IV di Baviera: tuttavia, quando Luigi scese in Italia nel gennaio 1327, Cangrande fu uno dei primi a inviargli degli omaggi.
Egli tentò ma non riuscì ad ottenere il vicariato di Padova dall'imperatore, ma venne confermato come vicario imperiale di Verona e Vicenza, e divenne vicario imperiale di Feltre, Monselice, Bassano del Grappa e Conegliano. Il 31 maggio Luigi venne incoronato imperatore a Milano: Cangrande partecipò con ostentata abbondanza, con un corteo di più di mille cavalieri. Il suo obiettivo era quello di impressionare l'imperatore con la sua superiorità rispetto agli altri principi lombardi, ma il risultato più forte fu quello di suscitare gelosia e sospetto tra i Visconti. Tornato a Verona nel giugno 1327 si coinvolse nella revisione degli statuti cittadini.
Il 16 agosto 1328 Cangrande sostenne un colpo di Stato a Mantova, in cui il suo vecchio alleato Rinaldo Bonacolsi venne ucciso e la sua famiglia fu soppiantata dai Gonzaga. Cangrande in questa occasione fu brutalmente pragmatico, ma non si sa se sostenne la fazione vincente (la forza dei Bonacolsi era in declino tanto che persero Modena nel giugno 1327) o se l'allontanamento dal suo vecchio alleato aveva cause più profonde. Le segrete mire dello Scaligero, dopo la nomina nel 1329 di Luigi I Gonzaga a vicario imperiale di Mantova dall'imperatore Ludovico il Bavaro, erano quelle di acquisire il dominio della città virgiliana.
Nel settembre 1328 Cangrande prese finalmente possesso di Padova, dopo 16 anni di intermittente ma brutale conflitto. La città era pronta per essere presa, abbandonata dal suo vicario imperiale Enrico di Carinzia e Tirolo e in uno stato di anarchia interna, con Marsilio Da Carrara che lottava per il controllo contro i nobili, ma anche con membri della propria famiglia.
Intanto le forze veronesi sotto il nipote di Cangrande Mastino II della Scala alleate con i padovani esuli (tra di loro il più noto era Niccolò da Carrara, lontano cugino di Marsilio), si accamparono non lontano da Este, divenendo così una minaccia per la città. Di fronte a queste difficoltà Marsilio infine decise di rinunciare alla città: preferiva fare un accordo con Cangrande per mantenere alcuni poteri, piuttosto che rischiare di perdere con la guerra o cercando accordarsi con i padovani esiliati. Cangrande scese a patti e Marsilio fu fatto capitano generale della città, mentre Cangrande cavalcò trionfalmente dentro Padova il 10 settembre 1328, e venne ricevuto con entusiasmo dalla popolazione, che sperava nell'arrivo di un periodo di stabilità.
Per cementare il nuovo ordine costituito la figlia di Jacobo da Carrara, Taddea fu fatta promessa sposa Mastino II della Scala: il matrimonio si svolse in un grande Curia di Verona nel novembre 1328. Questo fu il più significativo trionfo di Cangrande, era visto come un enorme contributo per la causa ghibellina, che era stata indebolita dalla morte di Castruccio Castracani anni prima. Anche le città sotto il controllo guelfi, come Firenze, scrisse per congratularsi con Cangrande e, nel marzo 1329, fu fatto cittadino di Venezia, un onore concesso raramente.
Nella primavera del 1329 Cangrande riuscì ad ottenere il titolo di vicario imperiale di Mantova dall'imperatore, intendendo così muovere contro il potere dei Gonzaga nella città. Quei piani furono per il momento fermati da un cambiamento di governo a Treviso, che creò numerosi esuli disposti ad aiutarlo a conquistare la città, in cambio del loro ripristino in città. Crearono quindi dei tumulti nella città, così il 2 luglio 1329 Cangrande lasciò Verona per l'ultima volta e, nel giro di pochi giorni, con un grande esercito mise l'assedio a Treviso. L'assenza di rifornimenti e l'assenza di aiuto esterno portò il capo della città Guecello Tempesta ad arrendersi, contando sulla nota generosità di Cangrande verso chi si sottometteva.
La conquista di Treviso avvenne quindi senza particolari spargimenti di sangue, anche perché lo scaligero aveva predisposto un esercito imponente: Cane diede il comando generale dell'esercito a Marsilio da Carrara (acerrimo nemico di Guecellone Tempesta), anche se mantenne parzialmente autonomi il contingente vicentino, comandato dal fidato Nogarola, e i contingenti veronesi, padovani e bellunesi-feltrini. Da parte trevigiana prevalse l'orientamento all'assoggettamento, anche se vi fu qualche scaramuccia, come testimoniano i prigionieri presi dai veronesi.
Guecellone Tempesta dovette trattare la resa il 17 luglio 1329: una clausola del trattato salvaguardava, tra l'altro, i diritti di Guecellone sul castello di Noale, mentre il territorio trevisano passava sotto la giurisdizione di Cangrande. La mattina del 18 luglio Cangrande poté entrare a Treviso su un cavallo bianco e con un bastone in pugno: era il coronamento della sua lunga lotta per soggiogare la Marca Trevigiana. Egli sostò quindi al vescovado, dove rimase per tre giorni mentre era malato. In uno dei pochi provvedimenti che emanò durante la malattia viene esplicitato il rispetto dell'ideologia guelfa di Treviso: questa scelta può essere interpretata come un atto di estrema saggezza per riconciliare la città veronese con quella trevigiana, oppure come frutto di una trattativa durante la sua agonia.
La morte avvenne nella mattina del 22 luglio nelle stanze del vescovado. Il giorno successivo Verona era già stata avvertita della morte del suo Signore, e la procedura del conferimento dei poteri ebbe inizio: Alberto II e Mastino II seguirono le tre tappe, che consistevano nelle delibere del collegio degli anziani e gastaldioni, del consiglio del Comune, e nella rettifica dell'arengo.
La salma di Cangrande, trasportata da un carro con quattro cavalli, raggiunse Verona nella tarda serata del 23 luglio, ma, dato che le porte erano chiuse, il cadavere fu ospitato per la notte nella chiesa dell'ospedale di Sant'Apollinare alla Peccana, fuori Verona. Presso Sant'Apollinare il corpo di Cangrande apparve già con i primi segnali di putrefazione, mentre il ventre si presentava gonfio: il corpo venne quindi risanato con balsami ed essenze, mentre i sarti confezionarono una bara coperta di seta. Il corpo venne vestito con porzioni di vestito, così da restituire l'immagine di un Signore, con la tunica aperta e con un manto, quindi coprirono il corpo con un lenzuolo funebre rigato. Le vesti che indossava il principe ricordavano i colori araldici del Comune e degli Scaligeri, oro ed azzurro, e rosso e bianco. In pratica l'abito non era indossato, ma ricopriva il corpo. Inoltre sono state inserite altre stoffe non coese al corpo: un copricapo in seta, calzari in panno rosso, un cuscino a righe d'argento, e tre teli quadrangolari (la presenza di numerosi tessuti di origine orientale nel sarcofago può essere spiegato dal loro utilizzo in momenti diversi: dopo il funerale il corpo fu portato nella posizione definitiva dopo diverso tempo).
La mattina del 24 luglio la salma entrò a Verona da porta Vescovo e fu avviato alla sepoltura: il cimiero e la spada sguainata erano esibiti su di un cavallo, la corazza e la barbuta su di un altro, mentre altri dieci cavalli portavano scudi rovesciati e lo stemma della scala: i dodici cavalli erano montati da cavalieri in vesti brune. La funzione religiosa si tenne presso la chiesa di Santa Maria Antica.
Secondo le fonti antiche Cangrande fu inizialmente sepolto presso il complesso delle arche scaligere, dove, come prima tomba, venne utilizzata temporaneamente una di quelle dei predecessori. L'arca commissionata inizialmente per Cane divenne il sarcofago di Alberto I della Scala, come indica la presenza su di esso dell'aquila imperiale. La tomba definitiva venne realizzata in qualche mese da due diverse maestranze: essa venne posizionata sopra l'entrata laterale della chiesa.
«Cangrande non appartiene a quella schiera di principi a cui fu concesso di governare in tranquillità: così quando ottenne dei risultati apprezzabili per via diplomatica, ciò fu possibile solo grazie ad una posizione di forza guadagnata con pesanti sacrifici. Il periodo storico che rappresenta il tramonto del Medioevo richiedeva soprattutto talento militare, cosicché in un'unica persona dovevano coesistere l'abile stratega e l'accorto statista. Malgrado lo scompiglio nei partiti e la confusione che regnava nei piccoli stati italiani, Cangrande fu capace di realizzare importanti obiettivi politici attraverso i quali si prefiggeva di attuare un'ordinata riforma statale; in questo senso va considerata la conquista della Marca Trevigiana e ciò spiega il motivo per cui tutte le sue forze furono immancabilmente volte all'attuazione di tale fine.»
(Tratto da Cangrande I della Scala di Hans Spangenberg, trad. di Maurizio Brunelli e Alessandro Volpi)
Cause della morte
Sulle cause della morte è prevalso sino ad oggi la tesi di una morte per cause naturali: le fonti antiche addebitano il malessere all'assunzione, dopo la fatica di una lunga cavalcata sotto il sole estivo, di acqua fredda presso la fontana dei Santi Quaranta. Come sintomo è stata utilizzata l'espressione fluxus ventris, ed in alcuni casi si parla anche di uno stato febbrile. Ciò troverebbe riscontro in un'affezione diarroica, forse dissenteria. Per i contemporanei fu quindi una malattia intestinale la causa della morte di Cangrande, almeno secondo la maggior parte delle fonti. Alcune fonti menzionano l'eventualità di un avvelenamento, ciò non stupisce dato che il Signore è morto relativamente giovane e in un momento in cui era in buona salute, tanto che Niccolò de' Rossi, poeta guelfo e certamente non amico di Cangrande, scrive:
«Egli sarà re d'Italia, entro un anno.»
Questa ultima tesi fu abbastanza trascurata a suo tempo, ma gli esami fatti sul corpo di Cangrande, dopo la riesumazione del 2004, avvalorano questa tesi, successivamente scartata: sono stati infatti rilevati quantità tossiche dei principi attivi della digitale (o digitalis purpurea o digitalis lanata): questa pianta veniva utilizzata come medicina.
Il sequenziamento del DNA di Cangrande effettuato nel 2021 esclude però definitivamente l'avvelenamento e attribuisce la causa della morte ad una malattia genetica rara, la glicogenosi di tipo II. Nei casi ad esordio tardivo il quadro clinico presenta scarsa resistenza alla fatica fisica, con difficoltà respiratoria, debolezza muscolare e crampi, fratture ossee spontanee e cardiopatia. La morte è spesso quasi improvvisa per difetto di forza, a rapida insorgenza, del diaframma e degli altri muscoli respiratori.
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Eugenio Caruso - 01 - 10 - 2021