L'Accademia di Svezia ha assegnato il Nobel per la letteratura allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah. L’assemblea svedese ha deciso l’assegnazione “per il suo approfondimento appassionato e senza compromessi sugli effetti del colonialismo e sul destino dei rifugiati al confine fra le culture e i continenti“.
Nato nel 1948 a Zanzibar, nello stato africano della Tanzania, Gurnah è arrivato nel 1968 nel Regno Unito con lo status di rifugiato (nel 1964 c’erano stati nel suo paese violenti sommovimenti politici in chiave anti-araba) e ha sempre scritto in lingua inglese. Ha insegnato alla Bayero University Kano in Nigeria negli anni Ottanta e poi all’Università del Kent, focalizzando il suo lavoro accademico sulle scritture postcoloniali e sui temi del postcolonialismo africano, caraibico e indiano: fra i soggetti dei suoi studi e delle sue opere critiche autori come Salman Rushdie, V.S. Naipul e Jamaica Kincaid. Fra i suoi romanzi più famosi si annoverano Paradise (1994), arrivato fra i finalisti del Man Booker Prize, By the Sea (2001) e Desertion (2005). Tutti questi volumi sono stati tradotti in italiano (col titolo di Paradiso, Sulla riva del mare e Il disertore) dalla casa editrice Garzanti, ma sono attualmente fuori catalogo.
Secondo le motivazioni espresse dall’Accademia di Svezia, nei suoi dieci romanzi e numerosi racconti, Gurnah ha esplorato lo sradicamento dei rifugiati, un tema che attraversa tutta la sua opera a partire da quando, rifugiato lui stesso all’età di 21 anni in Inghilterra, ha deciso di non utilizzare come strumento letterario lo Swahili, sua lingua d’origine, ma l’inglese. Nonostante abbia iniziato a scrivere nel 1987 con la pubblicazione di Memory of the Departure (su un giovane che cerca fortuna allontanandosi dalla costa e trasferendosi a Nairobi, senza però fortuna), è nel 1994 che si porta all’attenzione del mondo editoriale con il suo quarto romanzo, Paradise (Paradiso), storia vivida e violenta di un giovane ragazzo tanzaniano, Yusuf, che agli inizi del Novecento è venduto a un mercante arabo e, a seguito della sua carovana, finisce per esplorare i contrasti vivissimi di culture diverse e amori contrastanti in un Congo inaspettato e lussureggiante, alla vigilia della prima guerra mondiale e della leva forzata che l’esercito tedesco impose alla popolazione locale.
Elemento fondante di Paradise e delle altre sue opere è la decostruzione della visione che gli occidentali hanno del Congo e dell’Africa in generale e il rifiuto della semplificazione in Gurnah si esplica proprio in una lotta ai preconcetti e nel mostrare quanto diversificata sia la cultura dell’Est Africa. Allo stesso modo in Desertion (Il disertore) la storia d’amore raccontata sfugge ai cliché della cosiddetta colonial romance, in cui i sentimenti in qualche modo offuscano e superano i divari e i privilegi coloniali, ma si fa ancora una volta pretesto per evidenziare clash culturali e separazioni incolmabili. Gli stessi temi, accompagnati da memorie, identità e nomi che cambiano in continuazione e si sfumano sfuggendo a categorizzazioni univoche, si trovano nella sua ultima opera, il romanzo Afterlives pubblicato nel 2020 (ma iniziato quando lo scrittore aveva 21 anni), in cui le vicende di diversi giovani s’intrecciano ancora una volta sullo sfondo della colonizzazione europea dei primi del Novecento: quasi tutti i personaggi del libro sono rapiti, venduti, costretti a combattere battaglie altrui, ma non rinunciano mai alla ricerca di un destino proprio.
La maggior parte dei personaggi di Gurnah sono protagonisti sradicati, chiamati a costruire un’immagine di sé che sia veritiera e mai riflessa dall’occhio della distorsione coloniale: sono figure che viaggiano fra i continenti ma anche fra le culture e le definizioni del sé, nella prospettiva però di non trovare mai una pacificazione definitiva. Così in romanzi come Admiring Silence (1996) e By the Sea (Sulla riva del mare, 2001), entrambi raccontati in prima persona, i narratori devono scegliere fra un silenzio che li mascheri e protegga dai pregiudizi razzisti e l’invenzione di un’immagine altra da sé, che finisce spesso e volentieri per trasformarsi in un ulteriore inganno. È su questo paradosso dell’io, irrinunciabile quanto irrisolvibile, che quest’autore ha fondato la sua narrativa ibrida e mai conclusa, che anche nello stile letterario fonde tecniche, registri e lingue (il suo inglese reca spesso inserti di Swahili, arabo, tedesco).
È interessante notare come Abdulrazak Gurnah sia il quinto scrittore africano (e solo il secondo africano nero) a essere insignito del premio Nobel per la letteratura (95 dei 117 premiati nella storia, del resto, provenivano da Europa e America del nord): prima di lui c’erano stati il nigeriano Wole Soyinka nel 1986, l’egiziano Naguib Mahfouz nel 1998, e poi Nadine Gordimer e J.M. Coetzee, entrambi sudafricani, rispettivamente nel 1991 e 2003.
Voglio ricordare che di Nobel per la letteratura nel corso degli anni, sei sono stati assegnati a italiani:
Giosuè Carducci (1906) “Non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all'energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”.
Grazia Deledda (1926) “Per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi”
Luigi Pirandello (1934) “Per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell'arte drammatica e teatrale”
Salvatore Quasimodo (1959) “Per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi”.
Eugenio Montale (1975) “Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”.
Dario Fo (1997) “Seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”
IMPRESA OGGI 12-10-2021