Dante, Paradiso Canto XVIII. I combattenti per la cristianità.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XVIII

Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali corrisponde alla conclusione dell'episodio di Cacciaguida con la presentazione degli spiriti combattenti, mentre la seconda descrive l'ascesa al Cielo di Giove e la complessa figurazione dell'aquila, preludio al discorso sulla giustizia che occuperà i Canti XIX-XX. In apertura Dante è intento a meditare sulla profezia del suo esilio che gli è stata rivolta dall'avo, che ha temperato in parte l'asprezza di quanto annunciato con la dichiarazione dell'alta missione affidatagli, e ciò è già un preannuncio del successivo discorso sulla giustizia, in quanto il poeta si sente vittima futura di un sopruso politico e se ne rammarica, anche se Beatrice gli ricorda che lei è vicino a Dio al quale rivolgerà le sue preghiere in favore di Dante (dunque la giustizia divina è destinata a prevalere sulle ingiustizie terrene, assegnando nell'Aldilà premi e punizioni a seconda delle azioni compiute in vita).
A fare da cerniera tra questo inizio stilisticamente elevato, con la descrizione della straordinaria bellezza degli occhi di Beatrice che Dante non è in grado di descrivere, e la successiva ascesa al VI Cielo, c'è l'ultimo colloquio con Cacciaguida destinato alla presentazione dei principali spiriti combattenti che occupano la croce, che vengono indicati dal beato e che corrono rapidi lungo i bracci laterali per mostrarsi a Dante. Si tratta di personaggi che hanno combattuto per la conquista della Terrasanta (Giosuè, Giuda Maccabeo), o per la sua difesa durante le Crociate (Cacciaguida stesso, Goffredo di Buglione), oppure si sono battuti contro i Saraceni in Spagna (Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d'Orange, Rinoardo) o in Italia meridionale (come Roberto Guiscardo, che Dante credeva opposto ai musulmani in Calabria e Sicilia): Cacciaguida sottolinea i grandi meriti che questi uomini hanno acquisito in vita, tanto da essere degni di comparire in opere poetiche, in quanto hanno impugnato la spada e combattuto per difendere la fede cristiana contro i cosiddetti infedeli, cosa che non è più praticata al tempo di Dante in quanto i papi sono impegnati in maneggi politici piuttosto che a bandire una nuova Crociata; ciò è già stato affermato più volte da Dante nel poema (cfr. ad es. Inf., XXVII, 85 ss.) e anticipa l'invettiva finale contro i papi corrotti che guastano la vigna di Pietro e Paolo, per nulla interessati ad amministrare la giustizia e autori di violenti soprusi come l'esilio patito da Dante e il cui responsabile è Bonifacio VIII, non a caso già attaccato da Guido da Montefeltro nel citato passo infernale. Questi spiriti hanno subìto l'influsso di Marte e hanno perciò combattuto per difendere la fede, ma hanno comunque agito in base alla giustizia, seppure in modo diverso rispetto ai sovrani e ai governanti che Dante colloca nel Cielo di Giove e che hanno correttamente operato nell'esercitare le loro funzioni (c'è dunque un sottile collegamento tra la prima e la seconda parte del Canto, così come c'è analogia tra i due simboli che i beati raffigurano nei due Cieli, ovvero la croce degli spiriti combattenti e l'aquila imperiale degli spiriti giusti).

 carlo magno
Albrecht Durer Ritratto di Carlo Magno

Come al solito Dante non si accorge dell'essere salito al Cielo successivo, se non da alcuni indizi visivi (il mutato colore della stella, che da rosso è diventato argenteo, il moto circolare del Cielo che è più ampio, l'accresciuta bellezza degli occhi di Beatrice) e in seguito gli appaiono subito gli spiriti giusti che scintillano dorati sul colore tenue del pianeta Giove, sfavillando intorno a Dante e dando vita a una complessa figurazione che introduce il discorso sulla giustizia che occuperà i Canti successivi.
Rispetto alle rappresentazioni simboliche del Cielo del Sole e di Marte, lo spettacolo cui assiste qui il poeta assume un aspetto ancor più grandioso e scenografico, in quanto le luci delle anime si dispongono a formare trentacinque lettere in rapida successione che formano la scritta in latino «amate la giustizia, o voi che giudicate la Terra»: è il primo versetto del Libro della Sapienza ed è un accorato appello a tutti coloro che, sulla Terra, hanno responsabilità nell'amministrare la legge o la politica, quindi ai principi laici e agli uomini di Chiesa il cui cattivo esempio è fonte per Dante di quasi tutti i mali denunciati nella Commedia.
La scena è talmente complessa che per descriverla al meglio Dante deve fare ricorso a tutto il suo ingegno poetico, invocando l'aiuto delle Muse perché lo assistano in quest'ardua impresa: infatti le luci indugiano a formare la lettera 'M' che conclude la scritta e che unanimemente è interpretata come l'iniziale della parola «Monarchia», mentre altre luci si aggiungono nel colmo (la parte alta) della lettera e la trasformano in un giglio araldico; successivamente altre luci modificheranno la figura fino a tramutarla in un'aquila, ovvero il simbolo politico dell'Impero romano e di quello germanico che ne era il legittimo successore, destinato secondo Dante ad assicurare il buon governo al mondo cristiano e la giustizia attraverso l'applicazione delle leggi.
La rappresentazione è un modo per affermare nuovamente la necessità di un'autorità centrale e suprema, che per Dante coincideva con l'imperatore tedesco e la cui assenza in Italia era fonte di soprusi e ingiustizie, nonché di quel disordine politico in cui il suo stesso esilio era maturato. Si è molto discusso inoltre sul valore simbolico da assegnare al giglio araldico, la figura intermedia tra la 'M' e l'aquila, poiché potrebbe rappresentare l'insegna della monarchia francese e indicare quindi la casa di Carlo Magno che fu il creatore del Sacro Romano Impero, ma anche la casa dei Capetingi che governava la Francia nel Trecento e si opponeva con Filippo il Bello all'autorità imperiale: forse è più probabile la prima interpretazione, ma anche la seconda non è da scartare, in quanto Filippo è citato dall'aquila nella rassegna dei principi malvagi alla fine del Canto XIX, ed è noto come Dante criticasse il re francese per la sua politica guelfa e anti-imperiale. Dante potrebbe voler indicare che l'attuale Impero tedesco è nato da quella monarchia francese che ora, con Filppo il Bello, cerca di opporglisi, mentre dovrebbe accettare di buon grado di sottomettersi alla sua autorità in considerazione del valore provvidenziale che l'Impero ha secondo il poeta (anche in Par., VI, 109-111 Giustiniano attaccava Carlo II d'Angiò per la sua politica anti-imperiale e lo ammoniva sul fatto che Dio non avrebbe mutato l'armi, cioè il simbolo dell'aquila, con i suoi gigli).
Il grandioso spettacolo dell'aquila induce Dante a celebrare l'alto valore della giustizia il cui influsso nasce dal VI Cielo e dovrebbe illuminare i governanti terreni, cosa che invece non avviene a causa della diffusione dell'avarizia e della sete di potere, tanto fra i principi laici quanto fra gli alti prelati: il finale del Canto è occupato dalla tremenda invettiva che Dante rivolge ai papi corrotti e simoniaci, che hanno trasformato di nuovo il Tempio in un mercato attraverso la compravendita delle cose sacre e si oppongono all'autorità imperiale grazie all'alleanza con la monarchia francese, specie dopo che Clemente V ha trasferito la sede papale ad Avignone su pressioni di Filippo il Bello.
Dante attacca in particolare Giovanni XXII, il papa che a quell'epoca era sul soglio di Pietro e che era colpevole ai suoi occhi di usare l'arma della scomunica per colpire i suoi nemici politici, nonché accumulare immense ricchezze grazie all'alienazione dei benefici ecclestiastici: il pontefice aveva scomunicato nel 1317 Cangrande Della Scala, vicario imperiale intento ad assediare Brescia, il che ha fatto ipotizzare che il Canto fosse scritto da Dante intorno a quell'anno e addirittura alla corte di Verona, fatto di cui non ci sono conferme ma che non si può escludere. Il papa è accusato di scrivere solo per cancellare, il che è forse allusione all'annullamento dei benefici ecclestiastici per far sì che la Curia ne intascasse i proventi, dando prova quindi di spaventosa avidità e per giunta negli anni in cui divampava lo scontro tra Francescani spirituali e conventuali (è noto che Giovanni XXII parteggiava per questi ultimi, favorevoli a un ammorbidimento della Regola).
L'invettiva è particolamente aspra e con sottile sarcasmo, poiché Dante esorta il papa a pensare ai fondatori della Chiesa di Roma (san Pietro e Paolo) che morirono per difenderla, mentre Giovanni XXII pensa solo a san Giovanni Battista la cui effigie era incisa sul fiorino, per sottolineare la cupidigia mostrata dal pontefice (cfr. Par., IX, 127-142 e il discorso di Folchetto di Marsiglia): le parole attribuite al papa suonano terribilmente sacrileghe, in quanto il Battista è indicato come colui che per salti fu tratto al martiro, con allusione alla danza di Salomè che indusse Erode a far decapitare san Giovanni, mentre Pietro e Paolo sono indicati rispettivamente come il pescator (con evidente disprezzo per l'umile mestiere esercitato da Pietro) e Polo, che è la forma popolare di Paolo e che ha un valore irriverente e blasfemo. L'invettiva di Dante anticipa quella, altrettanto dura nei toni e nel contenuto, che proprio san Pietro rivolgerà a Bonifacio VIII nel Canto XXVII, mentre il tema della corruzione ecclesiastica che offende la giustizia sarà toccato anche da Pier Damiani (Canto XXI) e san Benedetto (Canto XXII).

Note
- I vv. 16-18 vogliono dire che l'eterna bellezza di Dio si riflette in quella di Beatrice, così da placare tutti i desideri di Dante (il secondo aspetto è il «riflesso»).
- Il v. 19 può voler dire che Beatrice col suo sorriso vince Dante forzandolo a guardare verso la croce, oppure abbagliando la sua vista.
- Al v. 24 tolta significa «presa».
- L'albero citato ai vv. 29-30 da Cacciaguida è il Paradiso, che riceve vita dalla cima (da Dio) e non dalle radici, produce sempre frutti e non perde mai le foglie. Tale immagine era frequente nei mistici medievali e anche nel testo biblico.
- Al v. 33 musa  vuol dire «poesia» (cfr. XV, 26).
- Al v. 36 il lampo è detto foco veloce della nube, perché si riteneva che fosse generato in essa.
- Il v. 42 vuol dire che la letizia del beato era come la frusta (ferza) e che fa girare la trottola (paleo), in quanto la luce dello spirito ruota su se stessa (il paleo era una trottola conica che si faceva girare con una specie di frusta).
- Il v. 57 indica che Beatrice aveva gli occhi tanto lucenti da superare il suo solito aspetto (solere  è infinito sostantivato).
- Al v. 63 quel miracol  indica il sorriso di Beatrice, più addorno in quanto più bello.
- l v. 70 giovial facella  vuol dire «stella di Giove», poiché l'agg. «gioviale» deriva dal lat. med. iovialis, e non invece «allegra», «lieta».
- Nostra favella (v. 72) indica le lettere dell'alfabeto.
- Al v. 82 diva Pegasea indica genericamente la Musa, poiché il cavallo alato Pegaso secondo il mito classico fece scaturire dall'Elicona la fonte Ippocrene che era simbolo dell'ispirazione poetica.
- La frase 'DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM' (vv. 91-93) è il primo versetto del Libro della Sapienza ed è un appello a coloro che hanno responsabilità di governo affinché siano giusti ed equi. In Conv., IV, 16 Dante traduce un altro passo dello stesso Libro (VI, 23), dicendo: «Amate lo lume di sapienza, voi che siete dinanzi a li populi» (Diligite lumen sapientiae, omnes qui praeestis populis).
- Al v. 93 sezzai  è forma arcaica per «ultimi» (cfr. Inf., VII, 130: al da sezzo).
- I vv. 100-102 descrivono le faville che sprizzano dal fuoco del camino, alludendo alla superstizione per cui i vecchi erano soliti trarre auspici per il futuro osservandole. Agurarsi  è forma popolare per «augurarsi», «trarre auspici».
- La trasformazione descritta ai vv. 97-108 indica che le luci dapprima si ammucchiano nella parte alta della 'M', una maiuscola gotica, rendendola simile a un giglio araldico e poi altre si aggiungono fino a tramutarla in un'aquila come lo stemma imperiale (vedi fig.).
- I vv. 109-111, non del tutto chiari, vogliono dire che Dio (l'autore di questa rappresentazione) non ha maestri né modelli, e quella virtù creativa che è forma dei vari esseri generanti da un nido all'altro, si riconosce (si rammenta) da Lui.
- I vv. 121-123 alludono al passo evangelico in cui Gesù cacciò i mercanti dal Tempio (Matth., XXI, 12-13; Luc., XIX, 45-46, ecc.), episodio paragonato alla compravendita di cose sacre perpetrato dai papi nella Curia.
- La milizia del ciel (v. 124) indica i beati.
- I vv. 127-129 alludono all'arma della scomunica, usata dai papi per colpire i loro nemici politici anziché far loro guerra con le spade; è probabile che Dante si riferisca alla scomunica lanciata da Giovanni XXII contro Cangrande nel 1317. Il pan  che Dio non nega a nessuno è l'Eucarestia, sottratto invece ai fedeli dai papi corrotti.
- I vv. 130-132 sono un'apostrofe a papa Giovanni XXII, accusato di abrogare i benefici ecclesiastichi per consentire alla Curia di incamerarne i proventi e arricchirsi; meno probabile un'allusione all'uso di scrivere scomuniche per poi cancellarle in cambio di denaro, perché di questo non c'è prova per questo pontefice. La vigna è ovviamente la Chiesa, come in XII, 86.
- I vv. 134-135 alludono a san Giovanni Battista, che secondo il Vangelo (Luc., I, 80) si ritirò a vivere nel deserto e fu fatto decapitare da Erode su richiesta di Salomè, che aveva danzato per lui in un banchetto (per salti  vuol dire «con una danza» ed ha valore chiaramente irrisorio). Il santo, patrono di Firenze, era effigiato sul verso del fiorino.
- Il v. 136 indica san Pietro con l'appellativo pescator, alludendo al suo umile mestiere, mentre Polo è la forma volgare di Paolo. Giovanni XXII si riferisce dunque ai due santi in modo sprezzante e derisorio.


TESTO DEL CANTO XVIII

Già si godeva solo del suo verbo 
quello specchio beato, e io gustava 
lo mio, temprando col dolce l’acerbo;                             3

e quella donna ch’a Dio mi menava 
disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono 
presso a colui ch’ogne torto disgrava».                          6

Io mi rivolsi a l’amoroso suono 
del mio conforto; e qual io allor vidi 
ne li occhi santi amor, qui l’abbandono:                         9

non perch’io pur del mio parlar diffidi, 
ma per la mente che non può redire 
sovra sé tanto, s’altri non la guidi.                                  12

Tanto poss’io di quel punto ridire, 
che, rimirando lei, lo mio affetto 
libero fu da ogne altro disire,                                           15

fin che ‘l piacere etterno, che diretto 
raggiava in Beatrice, dal bel viso 
mi contentava col secondo aspetto.                               18

Vincendo me col lume d’un sorriso, 
ella mi disse: «Volgiti e ascolta; 
ché non pur ne’ miei occhi è paradiso».                       21

Come si vede qui alcuna volta 
l’affetto ne la vista, s’elli è tanto, 
che da lui sia tutta l’anima tolta,                                     24

così nel fiammeggiar del folgór santo, 
a ch’io mi volsi, conobbi la voglia 
in lui di ragionarmi ancora alquanto.                             27

El cominciò: «In questa quinta soglia 
de l’albero che vive de la cima 
e frutta sempre e mai non perde foglia,                        30

spiriti son beati, che giù, prima 
che venissero al ciel, fuor di gran voce, 
sì ch’ogne musa ne sarebbe opima.                            33

Però mira ne’ corni de la croce: 
quello ch’io nomerò, lì farà l’atto 
che fa in nube il suo foco veloce».                                 36

Io vidi per la croce un lume tratto 
dal nomar Iosuè, com’el si feo; 
né mi fu noto il dir prima che ‘l fatto.                              39

E al nome de l’alto Macabeo 
vidi moversi un altro roteando, 
e letizia era ferza del paleo.                                             42

Così per Carlo Magno e per Orlando 
due ne seguì lo mio attento sguardo, 
com’occhio segue suo falcon volando.                         45

Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo 
e ‘l duca Gottifredi la mia vista 
per quella croce, e Ruberto Guiscardo.                        48

Indi, tra l’altre luci mota e mista, 
mostrommi l’alma che m’avea parlato 
qual era tra i cantor del cielo artista.                              51

Io mi rivolsi dal mio destro lato 
per vedere in Beatrice il mio dovere, 
o per parlare o per atto, segnato;                                   54

e vidi le sue luci tanto mere, 
tanto gioconde, che la sua sembianza 
vinceva li altri e l’ultimo solere.                                       57

E come, per sentir più dilettanza 
bene operando, l’uom di giorno in giorno 
s’accorge che la sua virtute avanza,                              60

sì m’accors’io che ‘l mio girare intorno 
col cielo insieme avea cresciuto l’arco, 
veggendo quel miracol più addorno.                             63

E qual è ‘l trasmutare in picciol varco 
di tempo in bianca donna, quando ‘l volto 
suo si discarchi di vergogna il carco,                            66

tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto, 
per lo candor de la temprata stella 
sesta, che dentro a sé m’avea ricolto.                           69

Io vidi in quella giovial facella 
lo sfavillar de l’amor che lì era, 
segnare a li occhi miei nostra favella.                           72

E come augelli surti di rivera, 
quasi congratulando a lor pasture, 
fanno di sé or tonda or altra schiera,                             75

sì dentro ai lumi sante creature 
volitando cantavano, e faciensi 
or D, or I, or L in sue figure.                                             78

Prima, cantando, a sua nota moviensi; 
poi, diventando l’un di questi segni, 
un poco s’arrestavano e taciensi.                                   81

O diva Pegasëa che li ‘ngegni 
fai gloriosi e rendili longevi, 
ed essi teco le cittadi e ‘ regni,                                        84

illustrami di te, sì ch’io rilevi 
le lor figure com’io l’ho concette: 
paia tua possa in questi versi brevi!                              87

Mostrarsi dunque in cinque volte sette 
vocali e consonanti; e io notai 
le parti sì, come mi parver dette.                                     90

‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai 
fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto; 
‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.                           93

Poscia ne l’emme del vocabol quinto 
rimasero ordinate; sì che Giove 
pareva argento lì d’oro distinto.                                       96

E vidi scendere altre luci dove 
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi 
cantando, credo, il ben ch’a sé le move.                       99

Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi 
surgono innumerabili faville, 
onde li stolti sogliono agurarsi,                                     102

resurger parver quindi più di mille 
luci e salir, qual assai e qual poco, 
sì come ‘l sol che l’accende sortille;                            105

e quietata ciascuna in suo loco, 
la testa e ‘l collo d’un’aguglia vidi 
rappresentare a quel distinto foco.                               108

Quei che dipinge lì, non ha chi ‘l guidi; 
ma esso guida, e da lui si rammenta 
quella virtù ch’è forma per li nidi.                                   111

L’altra beatitudo, che contenta 
pareva prima d’ingigliarsi a l’emme, 
con poco moto seguitò la ‘mprenta.                             114

O dolce stella, quali e quante gemme 
mi dimostraro che nostra giustizia 
effetto sia del ciel che tu ingemme!                              117

Per ch’io prego la mente in che s’inizia 
tuo moto e tua virtute, che rimiri 
ond’esce il fummo che ’l tuo raggio vizia;                   120

sì ch’un’altra fiata omai s’adiri 
del comperare e vender dentro al templo 
che si murò di segni e di martìri.                                   123

O milizia del ciel cu’ io contemplo, 
adora per color che sono in terra 
tutti sviati dietro al malo essemplo!                              126

Già si solea con le spade far guerra; 
ma or si fa togliendo or qui or quivi 
lo pan che ’l pio Padre a nessun serra.                       129

Ma tu che sol per cancellare scrivi, 
pensa che Pietro e Paulo, che moriro 
per la vigna che guasti, ancor son vivi.                         132

Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ’l disiro 
sì a colui che volle viver solo 
e che per salti fu tratto al martiro, 

ch’io non conosco il pescator né Polo».                      136

orlando
Orlando impazzito. Incisione di G. Dorè


PARAFRASI

Ormai il beato (Cacciaguida) godeva solo delle sue parole, e io di quelle che avevo udito, attenuando l'asprezza (della profezia dell'esilio) con la dolcezza (della gloria futura);

e quella donna che mi guidava a Dio disse: «Non ti abbattere, e pensa che io sono vicina a Colui (Dio) che ripara ogni ingiustizia».

Io mi rivolsi a colei che mi confortava con l'amorevole suono della sua voce; e non posso certo descrivere qui l'amore che io vidi allora nei suoi occhi santi:

non solo perché io non mi fido delle mie capacità espressive, ma perché la mia memoria non può tornare a ricordare tanto, se non è sorretta da Dio.

Di quel momento posso dire solo che, guardando Beatrice, il mio affetto fu libero da ogni altro desiderio, fino a che la bellezza eterna di Dio, che raggiava direttamente in Beatrice, si rifletteva verso di me dal suo bel viso.

Vincendomi con la luce del suo sorriso, Beatrice mi disse: «Voltati e ascolta; infatti, il Paradiso non è soltanto nei miei occhi».

Come talvolta sulla Terra si vede l'affetto nello sguardo, se questo è tale che tutta l'anima sia presa da lui, così nello sfolgorio di quella luce santa (Cacciaguida) verso cui mi voltai capii quanto il beato avesse ancora desiderio di parlarmi un poco.

Egli cominciò: «In questo quinto Cielo dell'albero (il Paradiso), che riceve la vita dalla cima, fruttifica sempre e non perde mai le foglie, ci sono spiriti beati che sulla Terra, prima di morire, ebbero gran fama, al punto che offrirebbero ricca materia a ogni ispirazione poetica.

Perciò osserva nei bracci laterali della croce: lo spirito che nominerò, compirà l'atto che nella nube fa il lampo (scorrerà rapidissimo da una parte all'altra)».

Io vidi che, al nominare Giosuè, una luce si mosse per la croce all'unisono, tanto che l'ascoltare e il vedere avvennero allo stesso tempo.

E al nome del nobile Maccabeo vidi un'altra luce muoversi girando su se stessa, e la gioia era la frusta che faceva muovere la trottola.

Così, ai nomi di Carlo Magno e Orlando, il mio sguardo attento ne seguì altre due, come l'occhio che segue il volo del proprio falcone da caccia.

Poi Guglielmo d'Orange e Rinoardo e Goffredo di Buglione attrassero la mia vista lungo quella croce, e così Roberto Guiscardo.

In seguito, essendosi mossa per riunirsi alle altre luci, l'anima che mi aveva parlato (Cacciaguida) mi si mostrò degna artista tra quei cantori del cielo (riprendendo a cantare).

Io mi voltai alla mia destra perché Beatrice mi indicasse il mio dovere, espresso nelle sue parole o nei suoi gesti;

e vidi i suoi occhi tanto splendenti, tanto pieni di gioia, che il suo aspetto superava in bellezza qualunque altro solitamente avesse e l'ultimo che avevo visto.

E come l'uomo, sentendo una maggiore gioia nel fare il bene, di giorno in giorno si accorge di accrescere la propria virtù, così io mi accorsi che il mio ruotare intorno col Cielo era divenuto più ampio, vedendo che la bellezza di Beatrice era aumentata.

E come una donna dal colorito pallido riacquista velocemente il suo aspetto, quando il suo volto perde il rossore della vergogna, così io vidi quando guardai la sesta stella (di Giove) che aveva un colore più candido di Marte e che mi aveva accolto in sé.

Io vidi nella stella di Giove le anime che vi erano ospitate e che sfolgoravano, formando delle lettere visibili ai miei occhi.

E come uccelli levatisi in volo da un fiume, quasi rallegrandosi a vicenda del pasto consumato, si raggruppano in cerchio o in altre forme, così dentro quelle luci le anime sante cantavano volteggiando, e assumevano l'aspetto ora di una 'D', ora di una 'I' o di una 'L'.

Dapprima, cantando, si muovevano al ritmo del loro canto; poi, trasformandosi in uno di questi segni (lettere), si fermavano e tacevano un poco.

O Musa, che fai gloriosi gli ingegni e li rendi longevi, ed essi grazie a te fanno lo stesso con città e regni, dammi la tua ispirazione, così che io rammenti quelle lettere così come le ho viste: risplenda in questi pochi versi tutta la tua potenza!

Dunque si mostrarono in tutto trentacinque lettere, tra vocali e consonanti; e io annotai mentalmente le lettere, così come mi parve che fossero scritte.

'Amate la giustizia' furono il verbo e il nome che apparvero per primi in tutta la figura; 'voi che giudicate la Terra' furono gli ultimi.

In seguito si fermarono nella 'M' della quinta parola, in modo tale che Giove, di colore argenteo, risaltava del loro splendore dorato.

E vidi scendere altre luci nella parte alta della 'M', e fermarsi lì mentre cantavano, credo, in onore di Dio che le attira a sé.

Poi, come colpendo i ciocchi che ardono si levano moltissime faville, dalle quali gli sciocchi sono soliti trarre auspici, così da quel punto (la parte alta della 'M') sembrò che si alzassero più di mille luci, alcune di più e altre di meno, a seconda di come aveva deciso il sole (Dio) che le aveva accese;

e vidi che ciascuna, una volta fermatasi nel punto assegnato, formava la testa e il collo di un'aquila in quello splendore che si stagliava (sull'argento di Giove).

Colui che dipinge lì (Dio) non ha modelli né maestri, ma è Lui stesso maestro, e da Lui si riconosce quella virtù creativa che è forma per gli esseri generanti nei nidi.

Le altre luci dei beati, che prima sembravano contente di formare il giglio araldico dalla 'M', con piccoli movimenti completarono la figura dell'aquila.

O dolce stella, quali e quante gemme (i beati) mi dimostrarono che la nostra giustizia umana è prodotto del Cielo che tu impreziosisci!

Dunque io prego la mente (di Dio) in cui la tua virtù e il tuo moto iniziano, di osservare da dove esce il fumo che oscura il tuo raggio;

cosicché si adiri un'altra volta del mercato che si fa dentro al Tempio, che fu costruito con miracoli e col martirio (la Chiesa).

O esercito del Cielo che io contemplo, prega per coloro che, in Terra, sono sviati dal cattivo esempio dei papi!

Un tempo si faceva guerra di solito con le spade; ora invece si fa togliendo a questo e a quello il pane (l'Eucarestia) che Dio non nega a nessuno (con le scomuniche).

Ma tu che scrivi solo per cancellare (papa Giovanni XXII), pensa che san Pietro e san Paolo, che morirono per la vigna (la Chiesa) che tu corrompi, sono ancora vivi.

Certo tu puoi dire: «Io desidero solamente colui (san Giovanni Battista) che volle vivere nel deserto e che fu condotto al martirio con una danza (di Salomè), cosicché io non conosco il pescatore (Pietro) né Polo (Paolo)».

Roberto G.
Roberto il Guiscardo


Roberto il Guiscardo
Roberto d'Altavilla, detto il Guiscardo (in latino: Robertus Guiscardus o Viscardus; Hauteville-la-Guichard, 1015 circa – Cefalonia, 17 luglio 1085), è stato un condottiero normanno. Sesto figlio di Tancredi (conte di Hauteville-la-Guichard) e primo della sua seconda moglie Fresenda (o Fressenda, figlia di Riccardo I di Normandia, detto Riccardo Senza Paura), divenne Conte di Puglia e Calabria alla morte del fratello Umfredo (1057). In seguito, nel 1059, fu investito da papa Niccolò II del titolo di Duca di Puglia e Calabria e Signore di Sicilia. Anna Comnena ci offre anche una straordinaria e dettagliata descrizione fisica del personaggio:
«Questo Roberto era di stirpe normanna, di bassi natali, cupido di potere, d'ingegno astutissimo e coraggioso nell'azione: aspirava soprattutto alla ricchezza e alla potenza dei grandi, e mostrava un'invincibile fermezza nel tener dietro a' suoi concepimenti, allorché ostinavasi di mandarli a buon fine. La sua statura era notevole, tale da superare anche i più alti fra gli individui; aveva una carnagione accesa, tendente al rosso, i capelli di un biondo chiaro, le spalle larghe, gli occhi chiari ma sprizzanti fuoco. La conformazione del suo corpo era elegantemente proporzionata. [...] In quanto alla voce, si racconta che il grido di quest'uomo avesse messo in fuga intere moltitudini. Così dotato dalla fortuna, dal fisico e dal carattere, egli era affatto alieno dall'assoggettarsi a chiunque, o dal prestare servile omaggio».
Non si dovrebbe tuttavia accordare molta fiducia a tale descrizione: la principessa bizantina nacque nel 1083 e Roberto morì nell'estate del 1085. In realtà la tradizione bizantina, nella quale l'Alessiade di Anna Comnena si inscrive, tendeva ad esaltare virtù e qualità dei nemici per magnificare ancor di più quelle del generale che li aveva sconfitti. In questo caso tale tesi si consolida, considerando che la principessa era figlia di Alessio I Comneno, l'imperatore che fronteggiò l'avanzata del Guiscardo nei Balcani. Le citazioni prese dalla letteratura classica, l'attenzione alle proporzioni del corpo, il complesso di valori che Roberto incarna nell'Alessiade si declinano perfettamente secondo i canoni dei gusti raffinati della corte di Bisanzio, erede dello sfarzo romano e della raffinatezza ellenistica.
Con un pizzico di malizia, inoltre, si potrebbe ipotizzare che, per descrivere l'adone bello e aitante che sfolgora nel passo sopracitato, Anna Comnena si fosse ispirata a uno dei tanti mercenari normanni (i vareghi), che dal secolo X avevano sostituito gli Excubitores, ossia la guardia personale dell'imperatore bizantino; o più semplicemente al figlio di Roberto, quel Boemondo che passò da Costantinopoli nel 1097 affascinando tutta la corte imperiale e l'adolescente Anna. Roberto il Guiscardo giunse nel 1047 nell'Italia meridionale, dove già i suoi fratellastri (Guglielmo, Drogone e Umfredo) si erano distinti come abili mercenari dei signori longobardi in contrasto con l'impero di Bisanzio, ottenendo la Contea di Puglia. Secondo la storica bizantina Anna Comnena, egli aveva lasciato la Normandia con un seguito di appena cinque cavalieri e trenta fanti avventurieri e, all'arrivo nell'antica Langobardia, si mise a capo di una compagnia errante di predoni. All'arrivo di Roberto le terre in Puglia scarseggiavano ed egli non poté aspettarsi grandi concessioni da parte di Drogone, il fratellastro allora regnante. D'altra parte lo stesso Umfredo aveva appena ricevuto in feudo la contea di Venosa. E così nel 1048 decise di unirsi al principe longobardo Pandolfo IV di Capua nelle sue incessanti guerre contro il principe Guaimario di Salerno, ma l'alleanza durò appena un anno: stando alle cronache di Amato di Montecassino, Pandolfo venne meno alla promessa di concedere a Roberto un castello e una figlia in sposa, al che il Normanno rispose rompendo gli accordi e abbandonando il sodalizio.
Roberto fece nuovamente richiesta di un feudo al fratellastro Drogone, il quale stavolta gli concesse il comando della fortezza longobarda di Scribla (eretta nel 1044 dal Principe longobardo Guimario V), al centro della Piana di Sibari e punto strategico delle vie di transito tra Calabria, Campania e Puglia, a nord est di Cosenza. Roberto su questo avamposto fece costruire il primo castello in Calabria, durante le prime campagne militari progettate proprio da Scribla conquista quella zona e qualche tempo dopo Cariati. Da Scribla poteva controllare il tracciato dell' antica via Popilia, quindi era un punto strategico importante anche se la zona era paludosa e malsana. Durante questo periodo conquistò alcune delle roccaforti strategicamente più rilevanti per il controllo della Calabria Citeriore, tra queste vi era Malvito, già città fortificata di cui non sono ben chiare le origini, il Guiscardo la conquista intorno al 1049 o al 1050 (vi è la legenda del finto morto a tal proposito, ma questa diceria non è confermata da nessuna fonte), da qui poteva controllare tutta l'alta valle del Crati, successivamente prende accordi, dopo averlo rapito e aver chiesto un congruo riscatto, con Pietro di Tiro, si accaparra quindi un'alleanza con la vicina Bisignano, conquista Tarsia, sempre vicino all'antico tracciato della via Popilia e in fine, per assicurarsi delle piazzeforti conquista San Marco Argentano (in omaggio al quale, più tardi, battezzò la fortezza di San Marco d'Alunzio, il primo castello normanno in Sicilia, sito presso l'antica Aluntium) e vi edifica una fortificazione. Durante la sua permanenza in Calabria Roberto sposò la prima delle sue due mogli, Alberada di Buonalbergo, zia di Gerardo di Buonalbergo.
Dopo i primi anni di opaca presenza nel sud Italia, Roberto il Guiscardo mise di colpo in luce il proprio carattere, così diverso da quello dei suoi familiari e degli altri potenti della regione. I Longobardi, in un primo tempo vicini ai Normanni, si rivoltarono contro i loro vecchi alleati e si attirarono il favore del papa Leone IX, deciso ad espellere dalla penisola questo popolo di predoni. Lo scontro fra le armate longobardo-pontificie e le truppe normanne si consumò il 18 giugno 1053 a nord della Capitanata, dove l'esercito papalino fu duramente sconfitto nella Battaglia di Civitate. Vi presero parte Umfredo d'Altavilla e il conte Riccardo I di Aversa dei Drengot, che mise subito in fuga i soldati longobardi. A Roberto fu assegnato il comando delle truppe di riserva, che restarono ai margini della battaglia fino a che non fu evidente l'inefficacia degli attacchi sferrati dalle schiere di Umfredo: il Guiscardo si lanciò, allora, nella mischia insieme ad altri rinforzi guidati dal suocero e si distinse per il particolare valore della propria offensiva. Secondo lo storico del tempo Guglielmo di Puglia, il Normanno imperversò nella battaglia senza mai perdersi d'animo, anche se disarcionato, e poi rimontato in sella, per ben tre volte. L'esito dello scontro fu per lui un vero successo.
Il papa, imprigionato, fu costretto a riconoscere la Contea di Puglia e il Principato di Capua, confermato a Riccardo di Drengot. Il pontefice si recò a Melfi e nominò Umfredo suo vassallo; consacrò il vassallaggio alla Chiesa del Guiscardo, che s'impegnò a proteggerla e a recuperare le Regalia Sancti Petri in Apulia e Basilicata. La dipendenza feudale fu rappresentata con il dono al pontefice di una cavalla bianca. Il Guiscardo, in cambio, offrì al papa la signoria su Benevento. Fu questa la svolta decisiva nella conquista nel Sud: il Guiscardo diventò il braccio armato della cristianità con la nascita di un rapporto di vassallaggio fra il Papa e i sovrani normanni. Il Guiscardo, nel 1056, compì una spedizione contro il longobardo Gisulfo II di Salerno, poi conquistò Cosenza e una parte della Calabria. Raggiunse, quindi, a Melfi il fratellastro Umfredo, che era in fin di vita. Morto nel 1057, il conte Umfredo lasciò i due figli minorenni, Abelardo ed Ermanno, sotto la tutela della moglie longobarda Gaitelgrima di Salerno. Forte del successo ottenuto sul campo di battaglia di Civitate, Roberto reclamò per sé la successione. Ad agosto dello stesso anno i cavalieri normanni si riunirono a Melfi e Roberto il Guiscardo assunse la tutela del giovane Abelardo, ma presto diseredò entrambi i nipoti e pretese il riconoscimento del titolo di (quarto) Conte di Puglia e Calabria. Per non insidiare i diritti acquisiti alla propria discendenza, confiscò i possedimenti del defunto fratellastro e privò i nipoti della loro legittima eredità. In alleanza col fratello minore Ruggero si lanciò alla conquista dei territori non ancora sottomessi di Puglia e Calabria, mentre Riccardo Drengot Quarrel, già Signore di Aversa, suo cognato in quanto marito della sorella Fresenda, s'impadronì del Principato di Capua.
Poco dopo la sua ascesa al comando supremo dei Normanni, quasi certamente nel 1058, Roberto ripudiò la prima unione con Alberada di Buonalbergo, madre di Boemondo e di Emma. Egli fece annullare le nozze perché avvenute tra consanguinei; fu la prima volta che si ricorse a tale motivazione allo scopo di sciogliere un matrimonio. Alberada si fece in disparte, confinata nella rocca di Melfi (ma poi si risposerà con Riccardo, figlio di Drogone). Per rinforzare l'alleanza politica con i Longobardi, a Melfi si celebrarono le nozze tra il guerriero normanno e la potente principessa Sichelgaita di Salerno, figlia ventiduenne del defunto Guaimario IV e sorella del nuovo principe Gisulfo II. In cambio della mano della sorella, Gisulfo chiese a Roberto di distruggere due castelli appartenenti a Guglielmo del Principato, fratello minore del Guiscardo, che da tempo imperversava nei domini di Salerno. Questo evento aprì alla casa d'Altavilla le porte dell'aristocrazia, mentre si realizzava l'unione dei Normanni con i Longobardi. Nello stesso periodo maturò anche l'alleanza fra il nuovo capo normanno e lo Stato Pontificio: il Papato, infatti, venuto ai ferri corti con l'imperatore, presagiva un'imminente rottura (quella che sarà la Lotta per le investiture) e si risolse a riconoscere le conquiste dei Normanni nel Meridione d'Italia, assicurandosene così la fedeltà. Il rovesciamento dei precedenti assetti ebbe la sua clamorosa celebrazione con gli accordi di Melfi, che si articolarono su tre diversi momenti: il 24 giugno 1059 venne stipulato il Trattato di Melfi; dal 3 al 25 agosto 1059 venne celebrato il Concilio di Melfi I e infine il 23 agosto 1059 venne sottoscritto il Concordato di Melfi, in cui papa Niccolò II investì ufficialmente il Guiscardo del titolo di Duca di Puglia, Calabria e Sicilia, mentre Riccardo Drengot fu riconosciuto nuovo principe di Capua.
Roberto, dunque, fu elevato da conte a duca di buona parte del Mezzogiorno e gli fu attribuita anche la signoria della Sicilia, che però non era ancora stata sottratta al dominio arabo. La formula fu: per Grazia di Dio e di San Pietro duca di Puglia e Calabria e, se ancora mi assisteranno, futuro Signore della Sicilia. Egli accettò anche di versare un tributo annuo alla Santa Sede, in modo da mantenere titoli e terre e garantirsi la piena legittimità sulle future conquiste. Nei vent'anni successivi fu impegnato in una formidabile serie di conquiste e annessioni nel Sud Italia e in particolare in Calabria, per poi passare a guadagnarsi il dominio sulle terre siciliane, assieme al fratello Ruggero I. La prima campagna d'espansione di Roberto il Guiscardo era cominciata poco prima, nel giugno del 1059, in coincidenza con l'apertura dei lavori del Concilio di Melfi. Roberto si pose a capo di un esercito e marciò sulla Calabria, compiendo così il primo tentativo di sottomissione di quella provincia, ancora saldamente in mano bizantina, dai tempi della campagna di Guglielmo Braccio di Ferro e Guaimario IV di Salerno. Recatosi a Melfi per ricevere l'investitura ducale del Mezzogiorno, fece rapidamente ritorno in Calabria, dove le sue armate tenevano sotto assedio Cariati. Al suo arrivo la città si arrese e prima dell'inverno anche Rossano e Gerace caddero nelle sue mani. Quando ormai ai Bizantini non restava che la sola Reggio, Roberto tornò in Puglia, dove cercò di rimuovere le guarnigioni greche dai castelli di Taranto e Brindisi (1060).
Tornato di nuovo in Calabria, si riunì al fratello Ruggero e si lanciò alla conquista di Reggio, caduta dopo un lungo e difficoltoso assedio al quale seguì la presa di Scilla, una cittadella fortificata in cui avevano trovato rifugio le guarnigioni reggine. A questo punto la strada verso la Sicilia era ormai spianata. Il primo attacco all'isola fu sferrato a Messina, contro la quale il Guiscardo inviò inizialmente un piccolo contingente, subito respinto dalle difese saracene. Non disponendo ancora di un esercito d'invasione adatto all'impresa, Roberto decise di prepararsi al rientro in Puglia, messa sotto attacco da un nuovo contingente bizantino inviato dall'imperatore Costantino X. Nel gennaio del 1061 la stessa Melfi fu cinta d'assedio e Roberto in persona fu richiamato in patria. L'imponenza della sua macchina bellica mise in fuga i bizantini e già nel maggio di quell'anno la regione fu sottomessa.
L'invasione della Sicilia ebbe inizio nel 1061 con la presa di Messina, espugnata con relativa facilità dalle forze congiunte di Roberto e Ruggero. Gli uomini del Guiscardo si appostarono nottetempo nei pressi delle guarnigioni e sorpresero le guardie saracene allo spuntare del mattino: quando le sue truppe raggiunsero la città, la trovarono già abbandonata. Roberto pose lì il suo quartier generale e provvide ad innalzare nuove fortificazioni, mentre stringeva un'inedita alleanza con l'emiro musulmano di Siracusa Ibn al-Thumna, rivale dell'emiro di Castrogiovanni, Ibn al-Hawwas.
Le armate di Roberto, Ruggero e del nuovo alleato musulmano marciarono verso il centro dell'isola passando per Rometta, rimasta fedele ad al-Thumna, e attraversando l'attuale Frazzanò (all'epoca casale di San Marco, dove nel 1061 il Guiscardo fondò il primo castello normanno di Sicilia) e la Piana di Maniace, dove il catapano bizantino Giorgio Maniace e i primi Altavilla si erano distinti in battaglia ventun anni prima. Gli invasori diedero l'assalto al castello di Centuripe, ma la strenua resistenza incontrata li convinse a procedere oltre. Caduta Paternò, il Guiscardo portò le sue truppe sotto le mura della potente fortezza di Castrogiovanni (oggi Enna). I Saraceni si lanciarono impavidi contro il nemico e furono sconfitti, ma la fortezza non capitolò. Roberto decise allora di retrocedere, lasciando alcune guarnigioni nel castello di San Marco, che prese il nome dalla prima roccaforte calabrese da lui ottenuta in feudo: l'attuale San Marco Argentano. Entro il Natale di quell'anno fece ritorno in Puglia insieme a Sichelgaita.
La campagna riprese nel 1064: il Guiscardo oltrepassò Enna senza ritentare l'assalto e puntò dritto verso Palermo, andando però incontro ad un clamoroso insuccesso: l'accampamento normanno fu invaso dalle tarantole, il che costrinse le truppe alla fuga, facendo naufragare i disegni di Roberto. Nel 1071 Roberto lasciò l'isola a suo fratello Ruggero, che nominò conte di Sicilia. L'impresa fu ritentata solo nel 1072, quando un lungo assedio di Ruggero mise in ginocchio Palermo e la costrinse a capitolare, segnando la fine del dominio arabo in Sicilia. Un'ultima disperata resistenza fu invano tentata da Benavert, che combatterà una eroica battaglia d'una guerra ormai persa, prima di cadere a Siracusa nel 1086. La conquista del resto dell'isola fu solo questione di tempo (l'ultima città musulmana a capitolare fu Noto, nel 1091). Prima di espugnare Palermo e insignorirsi della Sicilia, Roberto il Guiscardo dovette combattere contro le ultime guarnigioni bizantine che ancora occupavano parte della Puglia, cuore del suo dominio. Il 16 aprile 1071, con la caduta di Bari, i Greci furono definitivamente estromessi dal sud Italia e il Guiscardo poté così rivolgere la propria attenzione ai grandi principati indipendenti di origine longobarda che ancora tenevano in mano propria vaste aree del meridione. Il primo obiettivo fu il Principato di Salerno: la città fu messa sotto assedio e cadde nel dicembre del 1076, ma il principe Gisulfo II, cognato del Guiscardo in quanto fratello di Sichelgaita, abbandonò il castello con la propria corte solo nel maggio del 1077. Al dominio totale del Guiscardo nel Mezzogiorno mancavano a questo punto il Principato di Capua, sotto i Normanni dei Drengot, il Ducato di Napoli e Benevento, antico e potente principato longobardo ormai in decadenza: l'attacco alla città, sferrato nel 1078, mise in allarme papa Gregorio VII, poiché Benevento era considerato feudo della Santa Sede. Ma il pontefice non era in condizioni di inimicarsi i Normanni, impegnato com'era contro l'imperatore Enrico IV nella questione delle investiture. Decise allora di farseli alleati e, convocato Roberto a Ceprano nel giugno del 1080, lo investì nuovamente dei suoi titoli e diritti, assicurandogli anche la signoria sugli Abruzzi meridionali e - seppure con una formula sospensiva - sulla Marca Fermana, Salerno e Amalfi. Anche Benevento, da cinquecento anni indipendente, cadde sotto i colpi del Guiscardo, che ne assunse il titolo principesco.
L'ultima grande impresa di Roberto il Guiscardo fu la campagna contro l'Impero bizantino, che rappresentò anche un importante tavolo di trattativa con i suoi vassalli ribelli. Nei disegni del normanno c'era la conquista del trono di Bisanzio, che egli legittimava con la recente deposizione (1078) di Michele VII, il cui figlio Costantino era stato promesso a sua figlia Olimpia. Un obiettivo che però non riuscì mai a realizzare. La spedizione partì nel maggio del 1081: Roberto salpò da Brindisi con un esercito di 16.000 uomini e in ottobre inflisse una dura sconfitta all'imperatore bizantino Alessio alleatosi alla Repubblica di Venezia nella battaglia di Durazzo e si impadronì di Corfù. Ma il precipitare delle vicende italiane lo costrinse a sospendere temporaneamente la campagna: nel giugno del 1083 il papa Gregorio VII, assediato a Castel Sant'Angelo dalle truppe tedesche di Enrico IV, lo chiamò in proprio soccorso. Il 21 maggio 1084 Roberto entrò a Roma con 36.000 uomini e diede inizio a 3 giorni di devastazioni selvagge e sfrenato saccheggio della città, costringendo l'imperatore germanico alla ritirata. Al termine del saccheggio Roberto scortò il papa fino a Salerno per proteggerlo da un contrattacco imperiale.

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Eugenio Caruso - 20 - 10 - 2021

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