Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.
Cherubini - Raffaello
RIASSUNTO DEL CANTO XXIV
Protagonista assoluto del Canto è san Pietro, presentato alla fine del precedente come colui che tien le chiavi della gloria del Paradiso e che qui sottopone Dante a un esame circa il possesso della fede, mentre san Giacomo e san Giovanni faranno lo stesso nei Canti XXV e XXVI riguardo a speranza e carità: il triplice esame prepara Dante all'ascesa ai Cieli successivi, il Primo Mobile e l'Empireo in cui gli appariranno i nove cori angelici e la candida rosa dei beati, preludio alla visione di Dio che concluderà il viaggio nell'Oltretomba (siamo nella terza e ultima parte della Cantica, la più impegnativa sul piano poetico).
La scelta dei tre Apostoli come i maestri chiamati a interrogare il discepolo non è casuale, in quanto essi vengono citati assieme in vari passi del Vangelo come i prescelti da Cristo e gli esegeti medievali erano soliti accostarli alle tre virtù teologali, specie san Giacomo che era di fatto figura della speranza: l'apparizione di Pietro ha poi qualcosa di grandioso, con la solenne preghiera di Beatrice agli Apostoli tutti di concedere a Dante qualche briciola della loro sapienza (è la stessa immagine usata nel I Trattato del Convivio, fatto forse non privo di significato), quindi le luci iniziano a ruotare in cerchio e l'anima di Pietro si stacca dalla propria corona splendendo più di tutte le altre, evocata dall'ardente affetto di Beatrice.
Simone Martini: San Pietro
È quest'ultima a pregare il santo di esaminare Dante sulla fede, di punti lievi e gravi come in un esame universitario, non perché Pietro non sappia già che il poeta possiede intatte tutte e tre le virtù, ma perché è giusto che Dante affronti la questione glorificando la fede, ciò che consente prima di ogni altra cosa la salvezza e l'ammissione in Paradiso. E infatti Dante si prepara subito a rispondere, come il baccialier (il baccelliere, ovvero il candidato all'esame finale di un corso di teologia) che raccoglie gli argomenti con cui dovrà sostenere la questione proposta dal maestro e che agirà sotto lo sguardo attento di Beatrice-teologia, colei che ha condotto Dante sino a questo punto e che gli ha permesso di sostenere il delicato esame: esso si svolgerà secondo i procedimenti tipici delle Università del tempo e in base alla più rigorosa terminologia filosofica, non perché Dante intenda fare sfoggio di dottrina ma per sottolineare l'assoluta importanza della fede nella partita della salvezza, nonché la sua superiorità sul ragionamento filosofico, ciò in cui si può forse scorgere un riferimento al cosiddetto «traviamento» intellettuale del poeta.
Il colloquio si articola dunque in tre momenti distinti, che corrispondono alla definizione della fede, alla dichiarazione del suo possesso e della sua fonte, alla professione della fede individuale del poeta: quanto alla definizione, Dante ripete testualmente quella paolina contenuta nella Lettera agli Ebrei (XI, 1) e chiosata da san Tommaso nella Summa theol., quindi sottolineando l'impossibilità di vedere sulla Terra ciò che è oggetto di mistero divino e che solo dopo la morte, in Paradiso, diverrà manifesto, mentre durante la vita può solo essere oggetto appunto di fede.
Quest'ultima è dunque definita come atto supremo della volontà, non come procedimento intellettuale, e benché non venga totalmente sganciata dalla ragione è detto chiaramente che essa non è in grado di comprendere i misteri divini che sono inconoscibili all'uomo: è in fondo l'affermazione definitiva di quanto è stato spesso affermato nel poema, a cominciare dal discorso di Virgilio di Purg., III, 31-45, mentre è ribaltata la prospettiva del Convivio in cui la ragione veniva esaltata come la via in grado di condurre l'uomo alla vera conoscenza, sia pure imperfetta riguardo alle cose celesti che però potevano essere spiegate con argomenti fisici e filosofici, capaci di corroborare la fede nei misteri.
Qui Dante sembra invece ribadire la formula di sant'Agostino credo ut intelligam, subordinando la ragione alla fede proprio come Virgilio era subordinato a Beatrice, tanto che Pietro si compiace delle affermazioni di Dante e osserva che un tale possesso della dottrina renderebbe vano ogni ingegno di sofista (con riferimento forse all'averroismo e ad altre scuole filosofiche che sconfinavano nell'eresia, se non anche alle affermazioni di Dante stesso nel Convivio già evocato indirettamente con l'immagine delle briciole cadute dalla mensa del Paradiso).
Non deve sfuggire il fatto che le argomentazioni di Dante qui non fanno alcun riferimento ad Aristotele o ad altri filosofi dell'antichità, bensì si fondano principalmente sulle Scritture come fonte primaria della fede in forza del loro carattere ispirato, del fatto che le vecchie e... le nuove cuoia (Antico e Nuovo Testamento) sono state dettate direttamente dallo Spirito Santo: la prova di tale ispirazione è nei miracoli che le Scritture raccontano, non spiegabili con argomenti naturali, e all'obiezione di san Pietro in base alla quale essi sono testimoniati dalle Scritture stesse, Dante ribatte con l'argomento di Agostino per cui la diffusione del Cristianesimo nel mondo è un miracolo sufficientemente valido a dimostrare la veridicità dei testi sacri, così come la predicazione dello stesso Pietro in povertà che gettò le basi dell'edificio della Chiesa.
L'esame può concludersi con la professione di fede personale da parte del poeta, il cui Credo ricalca la formula ufficiale della dottrina e sottolinea anzitutto la fede nell'esistenza di Dio, di cui ci sono prove fisiche e metafisiche ma, soprattutto, la verità rivelata nelle Scritture, così come l'evangelica dottrina assicura Dante sul mistero della Trinità, non spiegabile razionalmente come del resto già affermato da Virgilio nel passo citato della II Cantica. Tutto viene dunque ricondotto alla rivelazione come elemento fondante della fede e della dottrina cristiana, svalutando la ragione che è di per sé insufficiente a spiegare all'uomo ciò che è inconoscibile per il suo limitato intelletto: viene ribadito ulteriormente quanto già affermato da Dante all'inizio della Cantica, quando aveva detto che in Paradiso si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l'uom crede (II, 43-45), mentre anche in questo Canto il poeta sottolinea che le profonde cose della vita eterna sono visibili in Cielo ma nascoste sulla Terra, quindi la fede in esse deve prescindere da ogni dimostrazione filosofica o scientifica, che almeno in parte erano presenti nel Convivio le cui affermazioni, non a caso, vengono spesso confutate nella III Cantica.
La conclusione del Canto non può allora che essere una viva manifestazione di affetto e carità da parte di san Pietro, che benedice Dante con un canto celestiale e gli gira intorno per tre volte, esattamente come aveva fatto con Beatrice all'inizio dell'episodio, paragonato a un padrone che si felicita col servo che gli ha portato una buona novella (la similitudine ribadisce ancora una volta la sottomissione di Dante all'autorità della Chiesa e alla parola rivelata, specie pensando che Pietro è stato il primo papa e autore di libri ispirati, dunque si può affermare che questa sia la definitiva riconciliazione fra lui e la teologia nei confronti della quale la filosofia torna ad essere, secondo la celebre formula cristiana, ancilla).
San Pietro. Dipinto di Rubens
NOTE
- Al v. 1 la gran cena è metafora per indicare la vita eterna, ma è anche probabile allusione agli Apostoli e all'Ultima Cena con Gesù, il benedetto Agnello che ora in Paradiso li ammette a un banchetto di sapienza; Beatrice li prega di ammettere ad esso anche Dante, che per grazia di Dio preliba, «pregusta» le briciole che cadono dalla mensa celeste (immagine simile in Conv., I, 1, 10).
- Al v. 6 prescriba vuol dire «ponga un limite», riferito alla morte.
- Ai vv. 8-9 l'immagine dei beati che dovranno estinguere la sete di conoscenza di Dante è fitta di echi scritturali: cfr. Purg., XXI, 1-3.
- I vv. 10-12 sono stati variamente interpretati, ma è probabile che Dante intenda dire che le luci dei beati formano dei cerchi che ruotano mantenendo fisso il centro: in tal modo ha un senso il paragone con gli ingranaggi dell'orologio, ovvero le ruote dentate che girano trasmettendo il movimento e che sono più o meno veloci (un altro riferimento agli orologi in X, 139 ss.).
- Al v. 16 carole indicano i balli in tondo. L'avverbio differente-mente è spezzato in tmesi tra i due versi successivi, artificio non raro nella poesia del Due-Trecento.
- Al v. 19 carezza indica «preziosità», dal lat. caritia.
- L'immagine ai vv. 25-57 allude alla tecnica pittorica con cui si raffigurano le pieghe di un abito, che richiedono tinte più scure: Dante vuol dire che, se cercasse di descrivere a parole il canto di Pietro, sembrerebbe dipingere quelle pieghe con una tinta troppo viva e perciò inadatta.
- Al v. 37 di punti lievi e gravi vale «su questioni secondarie ed essenziali», conforme al linguaggio della Scolastica.
- Il v. 39 allude al passo evangelico (Matth., XIV, 28-29) in cui si narra di Gesù che cammina sulle acque e invita Pietro a fare altrettanto, prova della fede assoluta dell'Apostolo; nel prosieguo del passo, in verità, Pietro si spaventa e viene rimproverato da Cristo di poca fede.
- Il baccialier citato al v. 46 è voce che deriva dal fr. bachelier, ovvero lo studente di un corso di teologia che deve affrontate l'esame finale: esso avveniva in due momenti, il primo dei quali vedeva il candidato addurre le prove a sostegno della questione proposta dal maestro, mentre alcuni giorni dopo il maestro confutava le possibili obiezioni e terminava l'esposizione della dottrina. Dante intende dire che il suo ruolo sarà quello dello studente che deve approvare la questione e non terminarla, che sarà compito del maestro.
- Al v. 51 il querente è san Pietro, che deve esaminare Dante. La professione è quella di fede.
- Al v. 59 primipilo è termine del linguaggio militare romano, ovvero il centurione che comandava il primo manipolo dei triari; qui indica Pietro come l'alto condottiero della Chiesa, in quanto primo papa.
- I vv. 61-63 alludono a san Paolo, detto appunto da Pietro carissimus frater noster (II Lettera di Pietro, III, 5) e che insieme al primo papa mise il mondo sul retto sentiero della fede: questa è definita da Paolo (Lettera agli Ebrei, XI, 1) come sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium, formula che è ripresa letteralmente da Dante nei vv. 64-65. Come spiegato da san Tommaso in Summa theol., II-IIae, q. IV, la fede è il principio fondamentale su cui poggia la speranza di vita eterna, ed è la premessa con cui argomentiamo su cose che non vediamo.
- Al v. 75 intenza è termine scolastico che significa «denominazione».
- I vv. 82-87 alludono alla fede con la metafora della moneta, la cui lega e il cui peso sono passati bene nelle mani di Dante (dunque il poeta sa in cosa consiste la fede), mentre il poeta dichiara poi di averla nella borsa, cioè di possederla, lucida e... tonda, senza alcun dubbio circa il suo conio, ovvero il suo valore. Inforsa è neologismo dantesco, come t'insusi e s'insempra.
- Al v. 93 le vecchie e... le nuove cuoia sono i libri del Vecchio e Nuovo Testamento, ispirati dallo Spirito Santo.
- L'argomento usato da Dante ai vv. 106-108 è ripreso da Agostino, De civitate Dei, XXII, 5, a sua volta ribadito da san Tommaso, Summa contra gentiles, I, 6).
- Al v. 115 san Pietro è detto baron, secondo l'uso popolare che assegnava tali titoli a Cristo e ai santi.
- Al v. 118 il vb. donnea significa «signoreggia», «domina» (dal prov. domnejar, da domna, «dama amorosa»).
- I vv. 124-126 alludono al passo evangelico (Ioann., XX, 1-9) in cui si narra che Pietro e Giovanni, saputo dalla Maddalena che il sepolcro di Cristo era vuoto, corsero là per constatare che il suo corpo non c'era più: ciò non è nel Vangelo prova della loro fede nella avvenuta Resurrezione, mentre il passo è alterato da Dante in quanto non fu Pietro ad arrivare prima del più giovane Giovanni, ma quest'ultimo che si trattenne sulla soglia.
- I vv. 136-138 indicano i libri della Bibbia, secondo la tradizionale ripartizione: il Pentateuco (Moisè), i libri storici e profetici (Profeti), i libri didattici (Salmi), i Vangeli, gli Atti, le Epistole e l'Apocalisse, scritti da Pietro e dagli altri Apostoli.
Perugino: consegna delle chiavi
TESTO DEL CANTO XXIV
«O sodalizio eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
sì, che la vostra voglia è sempre piena, 3
se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa,
prima che morte tempo li prescriba, 6
ponete mente a l’affezione immensa
e roratelo alquanto: voi bevete
sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa». 9
Così Beatrice; e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
fiammando, a volte, a guisa di comete. 12
E come cerchi in tempra d’oriuoli
si giran sì, che ‘l primo a chi pon mente
quieto pare, e l’ultimo che voli; 15
così quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente. 18
Di quella ch’io notai di più carezza
vid’io uscire un foco sì felice,
che nullo vi lasciò di più chiarezza; 21
e tre fiate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice. 24
Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
non che ‘l parlare, è troppo color vivo. 27
«O santa suora mia che sì ne prieghe
divota, per lo tuo ardente affetto
da quella bella spera mi disleghe». 30
Poscia fermato, il foco benedetto
a la mia donna dirizzò lo spiro,
che favellò così com’i’ ho detto. 33
Ed ella: «O luce etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
ch’ei portò giù, di questo gaudio miro, 36
tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi. 39
S’elli ama bene e bene spera e crede,
non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi
dov’ogne cosa dipinta si vede; 42
ma perché questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a gloriarla,
di lei parlare è ben ch’a lui arrivi». 45
Sì come il baccialier s’arma e non parla
fin che ’l maestro la question propone,
per approvarla, non per terminarla, 48
così m’armava io d’ogne ragione
mentre ch’ella dicea, per esser presto
a tal querente e a tal professione. 51
«Di’, buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?». Ond’io levai la fronte
in quella luce onde spirava questo; 54
poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’io spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte. 57
«La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»,
comincia’ io, «da l’alto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi». 60
E seguitai: «Come ’l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
che mise teco Roma nel buon filo, 63
fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate». 66
Allora udi’ : «Dirittamente senti,
se bene intendi perché la ripuose
tra le sustanze, e poi tra li argomenti». 69
E io appresso: «Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose, 72
che l’esser loro v’è in sola credenza,
sopra la qual si fonda l’alta spene;
e però di sustanza prende intenza. 75
E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanz’avere altra vista:
però intenza d’argomento tene».
Allora udi’: «Se quantunque s’acquista
giù per dottrina, fosse così ‘nteso,
non lì avria loco ingegno di sofista». 81
Così spirò di quello amore acceso;
indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa
d’esta moneta già la lega e ‘l peso; 84
ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa».
Ond’io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla mi s’inforsa». 87
Appresso uscì de la luce profonda
che lì splendeva: «Questa cara gioia
sopra la quale ogne virtù si fonda, 90
onde ti venne?». E io: «La larga ploia
de lo Spirito Santo, ch’è diffusa
in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia, 93
è silogismo che la m’ha conchiusa
acutamente sì, che ’nverso d’ella
ogne dimostrazion mi pare ottusa». 96
Io udi’ poi: «L’antica e la novella
proposizion che così ti conchiude,
perché l’hai tu per divina favella?». 99
E io: «La prova che ’l ver mi dischiude,
son l’opere seguite, a che natura
non scalda ferro mai né batte incude». 102
Risposto fummi: «Di’, chi t’assicura
che quell’opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giura». 105
«Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo»,
diss’io, «sanza miracoli, quest’uno
è tal, che li altri non sono il centesmo: 108
ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno». 111
Finito questo, l’alta corte santa
risonò per le spere un ‘Dio laudamo’
ne la melode che là sù si canta. 114
E quel baron che sì di ramo in ramo,
essaminando, già tratto m’avea,
che a l’ultime fronde appressavamo, 117
ricominciò: «La Grazia, che donnea
con la tua mente, la bocca t’aperse
infino a qui come aprir si dovea, 120
sì ch’io approvo ciò che fuori emerse;
ma or conviene espremer quel che credi,
e onde a la credenza tua s’offerse». 123
«O santo padre, e spirito che vedi
ciò che credesti sì, che tu vincesti
ver’ lo sepulcro più giovani piedi», 126
comincia’ io, «tu vuo’ ch’io manifesti
la forma qui del pronto creder mio,
e anche la cagion di lui chiedesti. 129
E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con disio; 132
e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verità che quinci piove 135
per Moisè, per profeti e per salmi,
per l’Evangelio e per voi che scriveste
poi che l’ardente Spirto vi fé almi; 138
e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’. 141
De la profonda condizion divina
ch’io tocco mo, la mente mi sigilla
più volte l’evangelica dottrina. 144
Quest’è ’l principio, quest’è la favilla
che si dilata in fiamma poi vivace,
e come stella in cielo in me scintilla». 147
Come ‘l segnor ch’ascolta quel che i piace,
da indi abbraccia il servo, gratulando
per la novella, tosto ch’el si tace; 150
così, benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, sì com’io tacqui,
l’appostolico lume al cui comando
io avea detto: sì nel dir li piacqui! 154
Filippino Lippi: la crocefissione di Pietro.
PARAFRASI CANTO XXIV
«O compagnia invitata a partecipare all'alta cena dell'Agnello di Dio (Cristo), il quale vi dà tanto cibo spirituale che vi sazia sempre del tutto, poiché Dante per grazia divina pregusta prima che la morte ponga fine ai suoi giorni ciò che cade dalla vostra tavola, considerate il suo immenso desiderio di conoscenza e dissetatelo un poco: voi bevete sempre da quella fonte (la mente di Dio) da cui proviene ciò che egli pensa».
Così disse Beatrice; e quelle anime gioiose formarono dei cerchi con i centri fissi e ruotarono fiammeggiando, simili a comete.
E come i cerchi dentati degli orologi ruotano in modo tale che il primo sembra fermo, mentre l'ultimo è velocissimo, così quelle ruote che danzavano in tondo, con velocità diverse, mi permettevano di valutare la loro maggiore o minore beatitudine.
Da quel cerchio che io notai come più prezioso, vidi uscire una luce tanto gioiosa (san Pietro) che non vi lasciò dentro nessun'altra più splendente;
e per tre volte ruotò intorno a Beatrice, intonando un canto così celestiale che la mia fantasia non mi permette di descriverlo.
Dunque la mia penna salta questa parte e non ne parlo: infatti la nostra fantasia è colore troppo vivace per raffigurare certe pieghe, e così le nostre parole.
«O santa sorella che ci preghi in maniera così devota, tu mi fai uscire da quella bella corona (di anime) grazie al tuo ardente ardore di carità».
Dopo che si fu arrestato, il benedetto fuoco (san Pietro) si rivolse alla mia donna, e parlò nel modo che ho appena detto.
E lei: «O luce eterna del grande uomo al quale Gesù lasciò le chiavi di questa meravigliosa beatitudine, che egli portò sulla Terra, metti costui (Dante) alla prova su questioni secondarie ed essenziali, come desideri, sull'argomento della fede, grazie alla quale tu camminasti sopra le acque.
Tu sai bene che egli è in possesso delle tre virtù teologali, carità, speranza e fede, poiché figgi il tuo sguardo là (nella mente di Dio) dove si vede raffigurata ogni cosa;
ma poiché questo regno (il Paradiso) ha acquistato i suoi cittadini
(i beati) per la fede verace, è giusto che Dante ne parli per glorificarla».
Come il baccelliere si prepara e non parla finché il maestro non ha proposto la questione, per confermarla con argomenti a sostegno e non per portarla a compimento, così io mi preparavo con ogni mezzo dialettico mentre Beatrice parlava, per essere pronto a rispondere a un tale esaminatore (Pietro) e a una tale professione (di fede).
«Dimmi, buon cristiano, fatti conoscere: che cos'è la fede?» Allora io alzai la fronte verso la luce (Pietro) da cui venivano tali parole;
poi mi rivolsi a Beatrice e lei mi fece prontamente un cenno affinché io spandessi fuori l'acqua della mia fonte interiore (rispondessi).
Io iniziai: «La Grazia che mi permette di confessarmi di fronte all'alto condottiero della Chiesa (Pietro), faccia sì che i miei concetti siano espressi nel modo dovuto».
Poi proseguii: «Come scrisse, o padre, la penna veridica del tuo caro fratello (san Paolo) che insieme a te mise Roma sulla retta strada, la fede è la sostanza delle cose sperate e la dimostrazione di quelle che non si vedono; e mi sembra che sia questa la sua essenza».
Allora sentii dire da Pietro: «Tu pensi bene, a patto che tu comprenda perché Paolo definì la fede come sostanza e come dimostrazione».
E io subito dopo: «I misteri divini che qui mi offrono il loro aspetto, sono così nascosti agli occhi dei mortali sulla Terra, che è possibile solamente credere alla loro esistenza, sulla quale si fonda l'alta speranza; e dunque prende il nome di sostanza.
E da questa fede dobbiamo fare deduzioni logiche, senza avere prove tangibili: dunque prende il nome di dimostrazione».
Allora sentii: «Se tutto ciò che sulla Terra si apprende con la dottrina fosse capito come lo capisci tu, non ci sarebbe spazio per nessun cavilloso ragionamento».
Così disse quel beato ardente di carità; poi aggiunse: «La lega e il peso di questa moneta (la fede) è ben passata per le tue mani (la conosci bene);
ma dimmi se la possiedi nella tua borsa». Allora dissi: «Sì, possiedo questa moneta così lucida e tonda che non ho dubbi sul suo valore (possiedo una fede assolutamente integra)».
Subito dopo uscirono queste parole dalla luce profonda che lì brillava: «Questa preziosa gemma (la fede) sulla quale si fonda ogni altra virtù, da dove ti venne?» E io: «La larga pioggia (ispirazione) dello Spirito Santo, che si diffonde sul Vecchio e sul Nuovo Testamento, è il sillogismo che me l'ha dimostrata con tale efficacia che, al paragone, ogni dimostrazione mi sembra debole».
Poi sentii dire: «In che modo tu sei certo dell'ispirazione divina dell'Antico e del Nuovo Testamento, che ti dimostrano la fede come hai detto?»
E io: «La prova che me lo dimostra sono i miracoli lì narrati, per produrre i quali la natura non ha alcun mezzo».
Mi fu risposto: «Dimmi, chi ti assicura che quei miracoli siano davvero avvenuti? A testimoniarlo ci sono solo le Scritture, che devi ancora dimostrare come ispirate».
Io dissi: «Se il mondo si è convertito al Cristianesimo senza la prova dei miracoli, questo solo fatto è un miracolo tale che gli altri non ne valgono che la centesima parte:
infatti tu (Pietro) entrasti povero e digiuno in campo, per seminare la buona pianta (la Chiesa, con la predicazione del Vangelo) che un tempo era vite, e ora è diventata un pruno (è corrotta)».
Terminato il colloquio, l'alta corte del Paradiso fece risuonare per le sfere celesti un 'Te, Deum, laudamus' nella melodia che si canta lassù.
E quel barone (Pietro) che, esaminandomi, mi aveva ormai tratto di ramo in ramo, tanto che ci avvicinavamo alle ultime fronde (eravamo ormai alla fine), ricominciò: «La Grazia, che signoreggia la tua mente, ti aprì la bocca fin qui come si conveniva, cosicché io approvo quello che hai detto; ma ora è necessario che tu faccia professione della tua fede, e dichiari da dove essa ti è venuta».
Io iniziai: «O santo padre, e spirito che adesso vedi quello che credesti in vita, con tanto ardore che vincesti correndo al sepolcro di Cristo piedi più giovani (di san Giovanni), tu vuoi che ora io dichiari l'essenza della mia fede, e mi hai chiesto anche la sua origine.
E io ti rispondo: Io credo in un solo Dio, eterno, che muove tutto il Cielo restando immobile, con amore e desiderio;
e a tale fede (nell'esistenza di Dio) non solo prove fisiche e metafisiche, ma anche la verità che si diffonde da qui attraverso i libri dell'Antico Testamento, i Vangeli e i libri del Nuovo Testamento, che voi Apostoli scriveste dopo essere stati ispirati dallo Spirito Santo;
e credo in tre persone eterne, e credo che questo essere sia uno e trino, tanto che di esso si può dire insieme 'sono' ed 'è'.
La parola del Vangelo mi rende convinto più volte di questa profonda essenza di Dio, di cui ora sto parlando.
Questo è il principio della mia fede, questa è la scintilla che poi si dilata in una fiamma viva, e brilla in me come una stella in cielo».
Come il padrone che ascolta quello che vuole sentire, quindi abbraccia il servo felicitandosi per la buona notizia, non appena quello tace;
così, benedicendomi e cantando, il lume apostolico (san Pietro) al cui comando io avevo parlato mi girò attorno tre volte, non appena io tacqui: a tal punto gli erano piaciute le mie parole!
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Duccio di Buoninsegna: Gesù chiama Pietro e Andrea perchè si uniscano a lui.
SAN PIETRO
Simone detto Pietro (Betsaida, I secolo a.C. – Roma, 29 giugno 64 o 67 d.C.) è stato uno dei dodici apostoli di Gesù; la Chiesa cattolica lo considera il primo papa. Nato in Galilea, fu un pescatore ebreo di Cafarnao. Divenuto apostolo di Gesù dopo essere stato chiamato presso il lago di Galilea, fece parte di una cerchia ristretta (insieme a Giovanni e Giacomo) dei tre che assistettero alla resurrezione della figlia di Giairo, alla trasfigurazione nel monte Tabor e all'agonia di Gesù nell'orto degli ulivi. Tentò di difendere il Maestro dall'arresto, ferendo uno degli assalitori. Unico, insieme al cosiddetto "discepolo prediletto", a seguire Gesù presso la casa del sommo sacerdote Caifa, fu costretto anch'egli alla fuga dopo aver rinnegato tre volte il Maestro, come questi aveva predetto. Prima della crocifissione (Mt 16, 17-19; Lc 22, 32) e anche dopo la successiva resurrezione di Gesù (Gv 21, 15-19), Pietro venne nominato dallo stesso Maestro capo dei dodici apostoli e promotore dunque di quel movimento che sarebbe poi divenuto la prima Chiesa cristiana.
Instancabile predicatore, fu il primo a battezzare un pagano, il centurione Cornelio. Entrò in disaccordo con Paolo di Tarso su alcune questioni riguardanti giudei e pagani, risolte comunque durante il primo concilio di Gerusalemme discutendo sulle tradizioni ebraiche come la circoncisione. Secondo la tradizione, divenne primo vescovo di Antiochia di Siria per circa 30 anni, dal 34 al 64 d.C., continuò la sua predicazione fino a Roma dove morì fra il 64 e il 67, durante le persecuzioni anticristiane ordinate dall'imperatore Nerone. A Roma Pietro e Paolo sono venerati insieme, come colonne fondanti della Chiesa; Pietro è considerato santo da tutte le confessioni cristiane, sebbene alcune neghino il primato petrino e altre il primato papale che ne consegue. Secondo fonti antiche Gesù fece il miracolo di donare ai suoi apostoli la capacità di parlare diverse lingue in modo da poter trasmettere nel mondo il suo insegnamento.
Le fonti storiche circa la vita e l'operato di San Pietro possono essere distinte in tre categorie:
La prima fonte, da considerarsi tra le più vicine al periodo in cui visse l'Apostolo, è costituita dagli scritti del Nuovo Testamento. Tra di essi un posto di rilievo spetta ai quattro Vangeli e agli Atti degli Apostoli. Questi testi, redatti in greco durante il I secolo, sono gli unici a contenere riferimenti diretti alla vita di Pietro. Oltre ai testi citati la tradizione cristiana indica, nel canone biblico, anche due lettere a lui attribuite, sull'autenticità delle quali permangono però alcuni dubbi. Che la Prima lettera sia stata scritta da Pietro potrebbe essere indicato dalle parole iniziali. Inoltre la citano Ireneo, Clemente Alessandrino, Origene e Tertulliano, attribuendola a Pietro. Eusebio afferma che i vescovi usavano liberamente la lettera, e del resto ai suoi tempi (circa 260-342 d.C.) non c'era nessun dubbio sull'autenticità della lettera. Riferimenti si trovano anche in Ignazio, Erma e Barnaba, dell'inizio del II secolo. Anche sulla Seconda lettera (2 Pietro 1:1) sussiste qualche dubbio di autenticità, dovuto soprattutto alla differenza di stile. Ma questa circostanza potrebbe non costituire un vero problema perché l'argomento e lo scopo delle due lettere erano diversi. La canonicità dello scritto è stata messa in discussione anche perché sarebbe poco attestata dai Padri della Chiesa, ma diversi cataloghi antichi delle Scritture Greche Cristiane (tra cui quelli di Ireneo, Cirillo di Gerusalemme, Atanasio di Alessandria e altri) considerano la Seconda lettera di Pietro parte del canone biblico.
La seconda categoria di fonti è costituita dagli scritti apocrifi a lui attribuiti. Questi testi vanno sotto il nome di Vangelo di Pietro, Predicazione di Pietro (andato perduto), Atti di Pietro, Atto di Pietro, Atti di Pietro e Andrea, Atti di Pietro e dei dodici, Atti di Pietro e Paolo, Lettera di Pietro a Filippo, Lettera di Pietro a Giacomo il Minore, Apocalisse di Pietro (greca), Apocalisse di Pietro (copta). A causa della datazione tardiva e del contenuto, così come gli altri testi apocrifi, anche questi scritti non sono considerati come fonti storiche attendibili. È possibile, infatti, che in essi siano confluiti dei testi storicamente fondati ma anche discorsi a carattere apologetico frutto della venerazione eccessiva che si era diffusa intorno all'Apostolo.
Una terza e ultima fonte è la testimonianza contenuta negli scritti dei Padri della Chiesa, in particolare di Papia, Clemente e Ireneo. Questa serie di testimonianze ha dalla sua parte il conforto dei ritrovamenti archeologici. Tra di essi il più antico è l'iscrizione in greco “Pietro (è) qui”, ma essa è frutto di una interpretazione, siccome gli unici graffiti leggibili erano 'Petr' ed 'eni', ritrovata nel cosiddetto “muro rosso” presso l'antica Tomba di Pietro, nella necropoli pre-costantiana sotto l'attuale Basilica di San Pietro a Roma. La datazione di questo reperto risale al 160 d.C. circa.
Da questo dato, o meglio dal significato originale del suo nome aramaico, scaturisce tutto il carisma della sua figura. Il suo nome originale era Simone (ebraico, Shim'on, dalla radice ebraica shama "ascoltare" e che assume molto probabilmente il significato di "colui che ha ascoltato"), ma, secondo quanto affermato da Matteo e Giovanni, ricevette da Gesù Cristo stesso il nome di Kefa, che in aramaico significa "roccia", "pietra", e quindi, per traslitterazione, “Pietro”, derivato dal greco Petros (cfr. Gv. 1,35-42).
Origini
Secondo il vangelo di Giovanni, Simon Pietro era nativo, così come il fratello Andrea e l'apostolo Filippo, di Betsaida, città situata a circa 3 chilometri a nord del Lago di Tiberiade, un antico villaggio successivamente ricostruito dal tetrarca Filippo che fondò qui la sua capitale, situata nell'allora provincia romana della Giudea.
Secondo i vangeli sinottici, dopo il matrimonio si trasferì a Cafarnao, piccolo villaggio della Galilea che divenne in seguito uno dei centri della predicazione di Gesù, che vi si recava spesso per soggiornare qualche tempo, come amico, presso la casa dell'Apostolo. Il trasferimento a Cafarnao, con la moglie, la suocera, il padre e il fratello Andrea, fu dettato probabilmente da motivi pratici, in quanto quella città offriva maggiori possibilità lavorative per il commercio del pesce. Gli scavi archeologici, effettuati a partire dal 1905, portarono alla luce i resti di un'antica sinagoga e di una chiesa di forma ottagonale alla cui base furono scoperte le fondamenta di una casa di pescatori. Nel 1968 la casa fu identificata con quella dell'Apostolo Pietro grazie alla presenza di alcuni attrezzi da pesca ivi rinvenuti, ma, soprattutto, per il ritrovamento di alcuni graffiti, raffiguranti Gesù e Pietro, databili al II secolo d.C.
Nei vangeli San Pietro è presentato come figlio di Giona o di Giovanni. Ora, pare che al tempo di Gesù, il nome del profeta Giona non fosse più in uso. «Jonah» infatti potrebbe essere la rara abbreviazione di “Johanan”, «Giovanni». Nel quarto vangelo abbiamo la riprova di una verosimiglianza: «Simone, figlio di Giovanni».
Di lui sappiamo essere fratello di Andrea, anche lui apostolo, ed entrambi furono scelti e chiamati sul lago di Galilea.
Secondo i vangeli, un giorno Gesù guarì a Cafarnao “dalla febbre” la suocera dell'apostolo. L'esistenza di questa suocera ha portato alla conclusione che Pietro fosse sposato, ma nulla si conosce né della moglie né dei figli. Interessante è però ricordare che l'apostolo Paolo allude a una “donna credente" presentata da Cefa (Pietro) che senza dubbio era la moglie di Pietro. L'autore stesso della lettera solitamente identifica le collaboratrici col titolo di "sorelle" e non "sorelle donne", come sarebbe meglio tradurre "donna credente" (derivando dalle parole greche adelphen gunaika).
La Prima Lettera di Pietro si conclude con:
- un cenno a Silvano, "che io riguardo come un fratello a voi fedele", in cui pistòs adelphòs intende una filiazione spirituale, fratelli in Spirito e verità;
- un saluto da parte di "Marco, mio figlio" (ho uiòs mou in greco), per il quale non è chiaro se si trovasse a Babilonia, o lì con Pietro pronto per partire;
- l'invito a salutarsi "con bacio di carità" per i presenti, che tutti "sono in Cristo".
Secondo Clemente Alessandrino la moglie di Pietro lo seguì nella sua predicazione e morì martire prima di lui.
Gli Atti apocrifi di Pietro copti attribuiscono all'apostolo anche una figlia. L'autore della Passio dei santi Nereo e Achilleo (V-VI circa) la identifica con Santa Petronilla, una martire sepolta nelle catacombe di Domitilla, a causa di un'assonanza col nome dell'apostolo e inserisce nel suo racconto, oltre al citato episodio, un brano secondo cui la giovane, guarita dal suo male, chiesta in sposa dal nobile Flacco, morì prima di accogliere la sua proposta di matrimonio. La tradizione indica il giorno della sua morte nel 31 maggio, data passata poi nel Martirologio Romano. Tuttavia S. Francesco di Sales afferma che "S. Petronilla, come dimostrato da Baronio e Galonio, era la figlia spirituale di S. Pietro, non la sua vera figlia".
I fratelli Pietro e Andrea vengono presentati nei vangeli, sin dalla loro prima chiamata, come pescatori e più volte li ritroviamo con le barche sul lago di Galilea. Si sa anche che Giacomo e Giovanni di Zebedeo erano, secondo il vangelo di Luca, soci di Simone e difatti saranno "chiamati" subito dopo gli amici. Emblematico in tal senso è il noto episodio della pesca miracolosa, nel quale Pietro è intento a ripulire le reti dopo una dura notte di lavoro senza alcun risultato. Anche dopo la Resurrezione, Gesù apparve a Pietro e ad altri discepoli mentre pescavano nei pressi del lago di Tiberiade. Dagli Atti degli apostoli emerge un altro aspetto importante della vita di Pietro: la sua condizione culturale. Arrestato con Giovanni e condotto in presenza del Sinedrio, l'apostolo rispose con saggezza al loro interrogatorio, lasciando meravigliati i due giudici che lo credevano senza istruzione e popolano.
Ciò che si definisce la vocazione degli apostoli pone notevoli problemi agli esegeti. Fu in Giudea, nel luogo dove si manifestò il Battista, che, secondo Giovanni, andrebbe situata la prima chiamata, collocabile storicamente nei primi mesi del 28: due discepoli infatti, sentendo Giovanni Battista indicare Gesù come l'Agnello di Dio, gli si avvicinarono e gli chiesero dove abitasse; quindi passarono la giornata con lui. Andrea, il fratello di Simone, era uno dei due discepoli e per primo egli avvertì suo fratello: “Abbiamo trovato il Messia”, e lo condusse da Gesù, il quale, “fissando lo sguardo su di lui, disse: Tu sei Simone, il figlio di Giovanni: ti chiamerai Cefa”, che vuol dire Pietro.
Pietro apostolo è menzionato con il nome di Kephas, non tradotto in ebraico e in lingua greca, anche in Galati 1:18, e in 1 Corinzi 9:5, riguardo all'annuncio della Resurrezione di Gesù.
Matteo colloca il nuovo nome dato a Simone in un diverso contesto, quello della “'confessione di Cesarea” e questa differenza nella tradizione sottolinea l'importanza che i primi cristiani davano al nome di Pietro, che non veniva usato come nome di persona nel loro ambiente.
I Sinottici collocano le prime chiamate in riva al mare di Galilea, detto anche lago di Genesaret. Gesù conosceva già Simone e per predicare gli chiese di salire sulla sua barca, invitando poi i pescatori a raggiungere il largo e gettare le reti. Sebbene non avessero pescato nulla nel corso di tutta la notte, Simone obbedì con sollecitudine e ottenne una pesca miracolosa, così abbondante che fu necessario chiamare in aiuto un'altra barca. Sopraffatto, il futuro apostolo cadde ai piedi di Gesù che gli annunciò che da quel momento in poi sarebbe diventato pescatore d'uomini. La risposta dei primi discepoli fu di abnegazione assoluta: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.
Significativo per la comprensione della personalità è il fatto che Pietro si sia unito inizialmente ai discepoli del Battista, che predicava l'avvento di un Messia. Era un periodo storico in cui stava affiorando, in Galilea, una certa insofferenza nei confronti del dominatore romano, e l'idea di un Messia, inteso come capo anche spirituale, che fosse in grado di guidare una riscossa contro Roma, era piuttosto sentita. L'incontro con Gesù, dotato di un notevole carisma personale, nonché di doti taumaturgiche straordinarie e di un comportamento fuori dall'ordinario anche nei confronti delle regole sociali e religiose, dovette indubbiamente segnare un momento molto intenso nella sua vita.
Pietro risulta dai racconti evangelici, nei quali viene menzionato 114 volte con particolare riguardo prima degli altri apostoli, come un personaggio spontaneo nelle sue reazioni, impetuoso ma anche disposto a comprendere i propri errori e a imparare. Nel celebre episodio della camminata sull'acqua Pietro corse incontro al maestro chiedendogli di poter fare lo stesso e imparando a sue spese, sprofondando fra le onde, che per compiere siffatti prodigi è necessaria una fede totale.
Egli, fra i dodici, è anche il più ardito nei suoi discorsi, e spesso parla e agisce a nome loro. All'inizio del ministero di Gesù, andò a cercarlo quando il Maestro si era ritirato nella solitudine del deserto. In più occasioni lo interrogò a proposito delle parabole, implorando da lui una spiegazione o domandandogli a chi fossero destinate, se ai Dodici o alla folla. È d'altronde da lui che gli esattori delle imposte si recarono per reclamare il tributo del Tempio. Pietro stava per comunicarlo a Gesù, che lo prevenne e gli dichiarò che egli stesso era esentato dalla tassa, ma non voleva provocare scandali. Così Gesù inviò Pietro a pescare un pesce nella cui bocca venne trovato uno statere, ossia quattro dracme, che rappresentavano l'ammontare delle due tasse dovute: quella di Gesù e quella di Pietro.
Mentre si avvicinavano a Gerusalemme, Pietro interrogò Gesù sul fico che aveva maledetto e che l'indomani era stato effettivamente trovato seccato fin dalle radici. Gesù si limitò a rispondere: “Abbiate fede in Dio”. A Gerusalemme fu di nuovo Pietro a informarsi sulla ricompensa che attendeva in cielo coloro che, come lui, avevano lasciato tutto per seguire Gesù. In risposta promise: per questa vita, una famiglia spirituale e dopo la morte, la vita eterna. Davanti al tempio, dopo la predizione di Gesù riguardo alla sua totale distruzione, Pietro convinse Andrea e i due figli di Zebedeo a tentare insieme di ottenere da Gesù la data di questo avvenimento.
Dopo il discorso a Cafarnao sul pane di vita, a seguito del quale parecchi discepoli abbandonarono il maestro, quando Gesù domandò ai dodici se anche loro volevano andarsene, Pietro rispose a nome di tutti dicendo: "Signore, da chi andremo? Solo tu hai parole di vita eterna".
I Vangeli sinottici raccontano che Gesù si allontanò su un monte con Pietro, Giacomo e Giovanni. Là cambiò aspetto mostrandosi ai tre discepoli con uno straordinario splendore della persona e una stupefacente bianchezza delle vesti, e apparvero al suo fianco Mosè ed Elia. Pietro prese la parola dicendo:
« Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia. » ( Mt 17,4, su laparola.net.)
Ma Gesù ignorò il suggerimento e chiese di non riferire ad alcuno dell'episodio.
A Cesarea di Filippo, Gesù interrogò i suoi apostoli su quel che gli uomini dicevano di lui. Vennero varie risposte. Alla fine il Maestro domandò loro: “Voi chi dite che io sia?”. Fu Simon Pietro che, primo tra i Dodici, espresse in termini umani la realtà soprannaturale del Cristo: “Tu sei il figlio del Dio vivente!”.
Gesù in primo luogo proclama: “E io ti dico: tu sei Pietro". Il termine “Chiesa”, tanto frequente sotto la penna di Paolo, nei vangeli appare solo due volte e designa la nuova comunità che Gesù stava per fondare e che egli presenta come una realtà non solo stabile, ma anche indistruttibile. Essa è “edificata” su Simone, che grazie a questo ruolo riceve il nome di Pietro.
Gesù indica quindi i poteri conferiti a Simon Pietro: “A te darò le chiavi del Regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Il senso di questa immagine, nota alla Bibbia e all'Oriente del tempo, suggerisce l'incarico affidato a un unico personaggio di sorvegliare e amministrare la casa. Pietro è da Gesù nominato "Primo ministro" della sua Chiesa, della quale dovrà governare non solamente la massa dei fedeli, ma gli stessi funzionari.
I testi del Nuovo Testamento mostrano che Pietro aveva un ruolo privilegiato all'interno della cerchia degli apostoli. Su questo dato sono concordi tutte le confessioni cristiane. Diversa è invece l'interpretazione ecclesiale e teologica di tale dato:
- Per la Chiesa cattolica tale primato si estende ai Papi, cioè i vescovi di Roma suoi successori. Le due frasi precedenti vengono infatti interpretate, dalla Chiesa cattolica, come l'atto istitutivo del papato: una funzione da perpetuare nei secoli in una comunità nella quale Pietro e i suoi successori assicurano la stabilità e un potere decisionale che viene direttamente legato alla volontà di Dio e che quindi non può estinguersi fisicamente con Pietro.
- Per la Chiesa ortodossa il primato è relativo a ogni singolo vescovo all'interno della sua diocesi. Il vescovo di Roma non ha nulla di diverso dagli altri vescovi. La Chiesa ortodossa definisce Pietro come "l'apostolo per eccellenza", utilizzando inoltre anche il titolo di Corifeo, cioè direttore d'orchestra, prima voce di un coro. Viene riconosciuto il suo ruolo fondamentale nella vita della prima Chiesa, specialmente nei primi anni a Gerusalemme, ma non viene considerato il suo un "primato" fra gli altri apostoli, non essendo Pietro supremo responsabile nelle questioni relative alla fede o alla morale (e difatti al Concilio di Gerusalemme non è lui a dare le direttive finali ma Giacomo).
Riguardo poi alla frase pronunciata da Gesù: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa", l'interpretazione ortodossa ritiene che il Nazareno si riferisse alla sua professione di fede e non tanto alla persona stessa di Pietro. Presume ciò dal fatto che l'originale greco utilizza il pronome dimostrativo femminile quando viene detto "su questa pietra", mentre correttamente, se fosse stato riferito a Pietro, avrebbe usato il genere maschile.
- I Padri della Chiesa ortodossa siriaca erano invece pienamente convinti del primato di Pietro all'interno della primitiva comunità cristiana; basandosi sulla tradizione rabbinica infatti essi vedevano nel nome "Kefa", e dunque roccia, un simbolo vetero-testamentario del Messia. Quando dunque Gesù diede a Pietro il nome di Kefa, egli lo investiva di un ufficio parallelo al suo. Afrahat, uno fra i maggiori Padri siriani, credeva perfino che quello fosse un altro nome di Gesù e dunque, secondo i suoi scritti, dando il suo nome all'apostolo egli lo investiva di un ufficio tutto particolare: come Mosè aveva tratto acqua dalle rocce, così da Pietro sarebbe scaturito il suo messaggio fra le nazioni.
- Per le Chiese protestanti il primato era valido per la sola persona di Pietro ed è decaduto con la morte dell'apostolo. Secondo la tradizione protestante, Pietro fu sì uno fra gli apostoli più importanti nella direzione della prima comunità cristiana, ma a lui non spettava alcun primato; difatti, non riguardo all'apostolo, Gesù disse "su questa pietra edificherò la mia Chiesa" ma riguardo a sé stesso o, al massimo, riguardo a ciò che Pietro aveva rivelato, cioè "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". È questa, anche secondo la chiesa di professione Luterana, la pietra angolare alla quale si riferisce Gesù, prendendo a conferma anche un versetto della lettera agli Efesini, nella quale l'apostolo Paolo dichiara che la chiesa è fondata sugli apostoli e i profeti, senza specificare su Pietro. La tradizione protestante rispetta dunque la figura dell'apostolo, alla quale sono stati dedicati parecchi luoghi di culto, ma non ritiene che il suo primato sulla comunità cristiana debba essere ereditato dai pontefici romani.
- Le chiese evangelico-protestanti concordano nel ritenere Pietro il capo dei dodici apostoli, ma il suo primato deriverebbe non tanto dalla sua persona, che dai vangeli risulta piuttosto instabile, ma dalla sua professione di fede. Difatti non ignorano che negli Atti degli apostoli il santo abbia un particolare primato all'interno della comunità, ma lo ritengono soltanto uno fra i maggiori fautori della diffusione del cristianesimo, non la "roccia della Chiesa".
Subito dopo l'episodio sopra citato, Gesù comunicò ai suoi apostoli la prima rivelazione della passione che avrebbe dovuto subire. Pietro, prendendolo in disparte, protestò contro questa prospettiva che gli sembrava improbabile dicendo: "Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai". Ciò gli attirò un severo biasimo: colui che era appena stato consacrato capo della Chiesa si sentì chiamare "Satana", l'avversario, il tentatore, colui che vorrebbe far cadere il Cristo: "Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini".
Con Giovanni, Pietro è chiamato ai preparativi del pranzo pasquale in cui Gesù istituì l'eucaristia. Giovanni e Luca situano in questa occasione l'annuncio del rinnegamento di Pietro che invece Matteo e Marco collocano un po' più tardi, sulla via del Getsemani. Gesù dichiarò a Simone che Satana cercava in loro la sua preda, ma che egli avrebbe pregato per loro. Gli predisse che avrebbe rinnegato il suo Maestro, ancora prima che il gallo cantasse: la sincerità di Pietro era totale, ma la forza gli sarebbe venuta meno. Nondimeno Gesù l'avrebbe riconfermato nel suo ruolo preminente per il sostegno della fede: "Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli" (Lc 22,32). È nel corso di quest'ultimo pasto che Gesù annunciò il tradimento di uno dei Dodici, e Pietro fece cenno a Giovanni, che era seduto accanto a Gesù: "Di', chi è colui a cui si riferisce?"(Gv 13,24).
Il Vangelo di Giovanni, che non descrive l'istituzione dell'eucaristia, riferisce un altro episodio verificatosi durante la cena. Gesù s'interruppe per compiere delle funzioni normalmente lasciate a degli schiavi: lavare i piedi dei suoi ospiti. Stupefatto, Pietro protestò con energia ma alla risposta di Cristo: "Se non ti laverò, non avrai parte con me" (Gv13,8), l'ardente apostolo, eccessivo nel consenso come lo era appena stato nel rifiuto, reclamò: "Signore, non solo i piedi ma le mani e il capo"(Gv 13,9).
Ritiratosi nell'orto del Getsemani, Gesù chiese a Pietro, Giovanni e Giacomo di mettersi in disparte con lui per pregare. Essi però, sopraffatti dal sonno e dal vino della cena, caddero addormentati, ricevendo per ben tre volte il rimprovero del maestro che disse loro, e in particolare allo stesso Pietro: "Così non siete stati capaci di vegliare un'ora sola con me? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto ma la carne è debole".
Tutti i Vangeli riportano che, al momento dell'arresto di Gesù, uno di quelli che stava con lui tagliò con la spada un orecchio al servo del sommo sacerdote di nome Malco (Mt 26,51; Mc 14,47; Lc 22,50; Gv 18,10). Il Vangelo secondo Giovanni lo identifica in Simone Cefa; Gesù rimprovera il discepolo, dicendo di riporre la spada perché deve bere il suo calice.
«Pietro, che aveva una spada, la prese e colpì il servo del sommo sacerdote, recidendogli l'orecchio. Quel servo si chiamava Malco. 11 Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?»."»
Durante il processo religioso di Gesù, Pietro, seguito secondo Giovanni da un altro discepolo riuscì a intrufolarsi all'interno del cortile della casa del sommo sacerdote. L'apostolo innominato infatti, da molti riconosciuto nello stesso Giovanni, era noto in quell'ambiente e riuscì a entrare insieme a Pietro, che venne però riconosciuto da una serva (su questo concordano tutti e quattro i Vangeli. Giovanni sottolinea che la donna era la portinaia), la quale dichiarò davanti a tutti che il nuovo arrivato era uno dei discepoli di Gesù. Il pescatore di Cafarnao, sicuro di essere stato scoperto, giurò pubblicamente di non conoscerlo. Recatosi nell'atrio dove, come testimoniano Luca e Giovanni, era stato acceso un fuoco dalle guardie e dai servitori del sommo sacerdote, Pietro venne nuovamente riconosciuto, questa volta da un'altra serva, ma negò di nuovo la sua appartenenza al seguito del maestro.
Più tardi Pietro venne nuovamente riconosciuto dalla gente intorno al fuoco, a causa del suo accento che lo identificava come appartenente alla cerchia dei galilei. Uno di essi, secondo il resoconto di Giovanni, era stato perfino presente al momento dell'arresto e l'aveva riconosciuto come colui che aveva ferito all'orecchio Malco. Senza via d'uscita, Pietro rinnegò una terza volta il Maestro. Sentito nello stesso istante il canto del gallo (due volte in Marco), ricordandosi le predizioni di Gesù (che secondo Luca egli incontrò subito dopo) riguardo al suo tradimento, l'apostolo fuggì via piangendo amaramente, fatto che è testimoniato allo stesso modo nei tre vangeli sinottici.
Dopo il triplice rinnegamento, i Vangeli abbandonano la figura di Pietro e non ci riportano ciò che egli fece durante la passione del Maestro. Lo ritroviamo soltanto la mattina di Pasqua: avvertito da Maria Maddalena che il corpo di Gesù era scomparso, Pietro corse al sepolcro con il discepolo che Gesù amava e lì trovò soltanto le bende di lino e il sudario che avevano avvolto il cadavere. Il Vangelo di Luca e la lettera di San Paolo ai Corinzi narrano che Pietro fu tra i primi ai quali Gesù risorto apparve. In seguito anche lui condivise con i compagni le apparizioni nel Cenacolo e sul mare di Galilea.
Secondo il vangelo di Giovanni, Pietro e altri sette apostoli, passato il tempo delle apparizioni del risorto, tornarono sul lago di Tiberiade alle loro mansioni di pescatore. Un mattino, mentre albeggiava, dopo una notte passata insonne e senza aver preso nulla, videro un uomo a riva che consigliò loro di gettare le reti dalla parte destra della barca. Seguendo i consigli dello sconosciuto essi presero una moltitudine di pesci; riconoscendo dunque in lui il maestro, Pietro si gettò in mare verso Gesù. Quando tutti furono tornati a terra, Gesù li invitò ad arrostire i loro pesci e a dividere con lui il pasto, quindi si rivolse direttamente a Pietro e per tre volte gli chiese: "Simone di Giovanni mi vuoi bene?".
La ripetizione della stessa domanda sconcertò l'apostolo, il quale insistette, e la terza volta, con una toccante umiltà disse: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene". La triplice protesta, secondo l'esegesi cristiana, serviva da contrapposizione al triplice rinnegamento nella tragica notte dell'arresto in casa di Caifa. Pietro si sentì quindi predire in parole velate il martirio che lo attendeva in età avanzata. Dopo di che Gesù lo invitò a seguirlo, e vedendo che anche il discepolo amato seguiva le loro orme, Pietro interrogò Gesù sul destino di costui, ma la risposta fu alquanto enigmatica.
Nel luogo di questa apparizione vi è oggi una cappella in basalto detta "il Primato di Pietro", che si erge su di uno scoglio a strapiombo sul lago, accessibile per il tramite di una scala scolpita nella roccia, che scende sino a una caletta. Eteria, una pellegrina proveniente dalla Spagna, che riferisce del suo viaggio nei luoghi santi in una cronaca risalente alla fine del IV secolo, cita "la scala dove stava il Signore". La cappella attuale, che risale al 1935, ha sostituito un antico santuario, spesso riedificato dopo il passaggio di Eteria, e che si chiamò a lungo "la chiesa dei dodici apostoli", perché si supponeva che Cristo vi avesse battezzato i suoi discepoli.
Sin dai giorni immediatamente successivi all'ascensione di Gesù, Pietro assunse il comando del piccolo gruppo degli apostoli. Ricordando il tradimento e la morte di Giuda, egli provvide alla sostituzione del traditore con un uomo che sarebbe divenuto, con gli undici, testimone della Risurrezione, eleggendo così tramite sorteggio un tale chiamato Mattia.
Il discorso di Pietro, immediatamente successivo alla discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, comincia con una lunga citazione dal profeta Gioele con cui spiegare alla folla stupefatta il miracolo per il quale i dodici parlavano in tutte le lingue della terra: “Io effonderò il mio Spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni e i vostri giovani avranno visioni... Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato”.
Pietro applicò al Cristo l'ultima frase della profezia e collegando immediatamente la morte e Pasqua, la sua Ascensione e l'effusione dello Spirito alla quale hanno assistito, egli dichiarò che Gesù era salito al cielo, e che aveva effuso lo Spirito come gli astanti stessi potevano vedere. Pietro consigliò dunque loro di pentirsi e farsi battezzare in nome di Cristo. Molti compresero che avendo partecipato alla crocifissione dovevano riparare, accettare la penitenza e il battesimo tanto che quel giorno vi furono tremila conversioni.
A questa prima predicazione seguì il primo miracolo dell'apostolo: nel nome di Gesù, Pietro restituì la salute a uno storpio che chiedeva l'elemosina. Poiché l'evento suscitò un grande concorso di popolo, Pietro da questo segno trasse profitto per annunciare la buona novella dichiarando che era stata la fede in Gesù ed essa sola, ad aver guarito lo zoppo. Anche qui Pietro invitò al pentimento e alla conversione, sottolineando per gli Ebrei che lo ascoltavano che Gesù era il compimento della promessa fatta ad Abramo e degli oracoli dei profeti. Questa nuova ondata contò circa cinquemila convertiti. (cf. Atti degli Apostoli, capitolo 3).
Mentre Pietro parlava al popolo, con Giovanni al suo fianco, fu arrestato dai sacerdoti e dai sadducei: vennero entrambi gettati in prigione perché era già tardi e sarebbero stati convocati davanti al Sinedrio solo l'indomani. Pietro allora, forte della sua fede, proclamò ancora che aveva guarito il paralitico solo nel nome di Gesù. I sinedriti ne furono sconcertati: ritenevano Pietro e Giovanni uomini semplici, ma vedendo con quale autorità Pietro sapesse parlare restarono attoniti e più ancora li sorprese la presenza, inconfutabile, del miracolato. Essi decisero semplicemente di vietare a Pietro e Giovanni di prendere la parola e di insegnare in nome di Gesù, ma i due apostoli rifiutarono di obbedire. Esaurito ogni argomento e sentendosi impotenti davanti all'entusiasmo che si scatenava intorno al taumaturgo, i sinedriti lasciarono andare gli apostoli. (cf. Atti degli Apostoli 4,1-31).
Gli Atti sottolineano come intanto i segni e i miracoli si moltiplicavano. Anania e sua moglie Saffira, che avevano mentito ai cristiani, furono smascherati da Pietro e caddero morti ai suoi piedi. La folla si accalcava intorno agli apostoli come un tempo in Galilea intorno al Maestro. I malati venivano portati lungo la via dove passava Pietro affinché “anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro”. (cf. Atti degli Apostoli 5,1-16).
L'ira del sommo sacerdote e dei sadducei si manifestò allora di nuovo: ciò che non avevano saputo ottenere con la persuasione lo avrebbero imposto con la forza, e Pietro e Giovanni vennero nuovamente arrestati. Ma, secondo le Scritture, un angelo li liberò durante la notte. Quando i loro persecutori li vollero convocare per interrogarli, appreso che i prigionieri erano nel Tempio, intenti a insegnare, li fecero ricondurre davanti a loro, ma, adirati per la tranquilla ostinazione dei due apostoli, furono calmati solo dall'intervento di Gamaliele. (cf. Atti degli Apostoli 5,17-42).
Venuti a sapere che la Samaria contava ormai molti cristiani, grazie alla predicazione del diacono Filippo, gli apostoli mandarono ai nuovi convertiti Pietro e Giovanni, che erano autorizzati a imporre le mani, perché ricevessero lo Spirito Santo. Tra loro vi era Simon Mago (il cui nome sarà legato al peccato di “simonia” o commercio dei sacramenti), al quale Pietro fece comprendere che il denaro non avrebbe mai potuto acquistare il potere d'invocare lo Spirito Santo. (Atti degli Apostoli 8,1-25).
Dopo la sosta in Samaria, Pietro fece ritorno alla pianura costiera. A Lidda guarì Enea, un paralitico; a Giaffa risuscitò una discepola di nome Tabita. I due prodigi guadagnarono alla fede molti abitanti delle due città. A Giaffa, Pietro abitava presso un conciatore di pelli. Mentre si trovava lì ebbe il privilegio di una visione: vide una grande tovaglia su cui si trovavano in gran quantità alimenti che la Legge di Mosè dichiarava impuri. Pietro venne invitato a mangiarli, e alle sue proteste una voce gli disse: “Ciò che Dio ha purificato tu non chiamarlo più profano”.
Poco dopo Pietro fu chiamato presso un pagano, il centurione Cornelio, che a sua volta era stato spinto da una visione a convocarlo. E mentre Pietro gli parlava, lo Spirito Santo calò sul centurione e sui suoi compagni, come in una nuova Pentecoste.
Nel frattempo Erode Agrippa I aveva avviato una persecuzione contro i cristiani e fatto giustiziare Giacomo, fratello di Giovanni, che fu dunque il primo degli apostoli a subire il martirio. Essendosi così attirato il favore dei Sinedriti, Erode decise di fare arrestare anche Pietro, ma nuovamente un angelo apparve in carcere e svegliò il prigioniero, che obbedì come in sogno ai suoi ordini risvegliandosi soltanto quando fu fuori dalla prigione. Si recò allora alla casa di Maria, madre di Marco, dov'era radunato un certo numero di fedeli in preghiera e costoro stentarono a credere ai loro occhi. Lo stupore e la confusione furono ancora più grandi nel campo di Erode, il quale fece imprigionare i carcerieri, in conformità con l'usanza del tempo per cui le guardie che lasciavano evadere un prigioniero incorrevano nella sua stessa pena.
Dopo questa liberazione miracolosa, gli Atti degli Apostoli si limitano ad annotare che Pietro uscì e si incamminò verso un altro luogo. Il Nuovo Testamento tace su questa parte della vita dell'apostolo. Per taluni l'“altro luogo” sarebbe Roma, dove Pietro avrebbe cercato rifugio durante la persecuzione di Erode Agrippa, nel 44; per altri, Antiochia, dove egli avrebbe soggiornato e dove si scontrò a quel tempo con Paolo, in un "incidente" che questi riferisce nel secondo capitolo dell'epistola ai Galati: fino a quel momento Pietro frequentava i pagani e mangiava con loro, ma all'arrivo di alcuni giudei, provenienti da Gerusalemme, per timore si allontanò da loro e si attenne alle prescrizioni mosaiche. Paolo gliene mosse vivo rimprovero poiché questo atteggiamento era contrario al pensiero cristiano, pur rendendogli omaggio come capo del gruppo apostolico.
Gli Atti degli apostoli li collocano insieme a Gerusalemme al tempo del primo concilio della giovane Chiesa nel 49-50. La questione del centurione Cornelio, il primo non circonciso (e quindi considerato impuro dall'ebraismo) a entrare nella comunità dei cristiani, aveva suscitato diverse polemiche tra le varie chiese, che all'epoca erano ancora abbastanza autonome. La posta in gioco era fondamentale: per l'accesso alla nuova fede era sufficiente il battesimo o era necessario il prerequisito della circoncisione? In termini più generali (e tutt'altro che trascurabili): il cristianesimo poteva aprirsi all'ecumene o doveva rimanere un destino eventualmente limitato ai soli Ebrei?
I cristiani di origine ebraica di Antiochia sollevarono animatamente la questione, e investirono Paolo e Barnaba dell'incarico di rappresentare le loro istanze a Gerusalemme, nell'incontro con Pietro, fautore invece della tesi ecumenica, che prevedeva l'universalità della vocazione cristiana per un'indifferenziata dispensa della grazia; evidente in ciò l'esperienza del centurione Cornelio.
Come linea di mediazione, i cristiani della chiesa di Gerusalemme ammettevano l'accesso dei pagani, purché preventivamente passassero per la fase della conversione alla legge di Mosè. La linea di Pietro prevalse decisamente, solo attenuata e mediata da Giacomo che, essendo il responsabile della chiesa cristiana di Gerusalemme, era a più stretto contatto con gli ambienti ebraici: accesso anche ai pagani purché si adeguassero a quelle norme e condizioni delle leggi ebraiche riconosciute e applicate anche dai cristiani-giudaici (non cibarsi della carne offerta nei sacrifici, divieto di matrimonio fra parenti, non mangiare animali morti per soffocamento, ecc.).
La decisione orientò l'intero avvenire della Chiesa, poiché ormai giudei e gentili avrebbero avuto gli stessi, identici diritti.
Il concilio di Gerusalemme è l'ultima apparizione di Pietro nel libro degli Atti. Egli era il portavoce dei discepoli e la comunità primitiva appare fondata su di lui; ma il prestigio di Giacomo a Gerusalemme andò aumentando e, al tempo dell'ultimo viaggio di Paolo a Gerusalemme, Giacomo è il solo citato. È probabile che l'apostolo Pietro si sia recato a questo punto ad Antiochia e vi abbia soggiornato circa sette anni; è infatti considerato il fondatore della Chiesa di Antiochia.
Una tradizione del II secolo, confermata anche da Girolamo e da tutta la letteratura patristica cristiana, considera infatti l'apostolo il primo capo della comunità cristiana di Antiochia (non vescovo in quanto tale carica era inesistente all'epoca), tanto che già nei primi secoli la Chiesa romana celebrava il 22 febbraio la festa della Cattedra di San Pietro, la cui denominazione completa era appunto: Natalis cathedrae sancti Petri apostoli qua sedit apud Antiochiam.. La circostanza è coerente anche perché nella prima metà del I secolo la Provincia Siriana era il centro della nascente religione cristiana, come è dimostrato dalla contemporanea presenza di Saulo a Damasco e di Giacomo a Gerusalemme. La prima epistola di Pietro è indirizzata a cinque Chiese dell'Asia Minore, il che conferma la sua opera evangelizzatrice della regione medio orientale.
Probabilmente si recò anche a Corinto, poiché Paolo vi segnalò dei partigiani di Pietro. Anche in questo caso una testimonianza del II secolo li individua entrambi come fondatori della chiesa locale. Le tradizioni agiografiche parlano di un successivo e definitivo viaggio verso Roma. In questo caso, l'Apostolo lo si considera sbarcato sulle coste pugliesi, seguendo le antiche rotte romane. Le città nella Puglia che vantano la fondazione petrina delle proprie diocesi sono Otranto, Leuca, Taranto e Lucera. Prima di raggiungere Roma, Pietro avrebbe ordinato il giovane diacono Cesario a Terracina.
È probabile che Pietro abbia predicato anche a Roma: Papia vescovo di Gerapoli, citato da Eusebio, testimonia che Pietro predicò a Roma all'inizio del regno di Claudio, e che i suoi ascoltatori chiesero a Marco che mettesse per iscritto gli insegnamenti che avevano ascoltato a voce. Eusebio aggiunge che l'episodio è raccontato da Clemente Alessandrino nel VI libro delle Ipotiposi. Anche Ireneo ricorda che Matteo aveva scritto il suo vangelo mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma. Ulteriori documenti che riferiscono gli avvenimenti succedutisi dall'arrivo di Pietro nella città fino al suo martirio sono nei testi apocrifi, denominati "Atti di Pietro" (composti in greco nella seconda metà del II secolo), di contenuto abbastanza favolistico e senza dubbio poco fedeli alla realtà: testimonianza comunque di una devozione molto antica che vedeva in Pietro il padre evangelizzatore della città.
Secondo Lattanzio Pietro andò a Roma quando già Nerone era salito al trono, dunque dopo il 54. Ma quel che stupisce è la mancanza di riferimenti a Pietro negli Atti degli apostoli (che narrano anche la permanenza di Paolo a Roma) e nelle lettere ai Colossesi e a Filemone, nelle quali Paolo ringrazia i compagni che lo sostengono a Roma.
Antiche tradizioni lo fanno ospite nella casa del senatore Pudente (sulla quale oggi sorge la Basilica di Santa Pudenziana sua figlia, dove è conservata la tavola sulla quale l'apostolo avrebbe celebrato l'eucaristia) e nella casa, sull'Aventino, di Aquila e Priscilla (sui cui resti è stata edificata la chiesa di Santa Prisca). Anche l'attuale basilica di San Sebastiano fu venerata da tempi antichissimi come Domus Petri, e un'iscrizione del papa Damaso all'interno della chiesa attesterebbe che lì abitarono Pietro e Paolo. Ugualmente la basilica di Santa Maria in Via Lata sorgerebbe proprio dove vi era una casa in cui abitarono Pietro, Paolo e Luca, che qui scrisse gli Atti degli apostoli. Si ricorda poi la località ad nymphas sancti Petri, sulla via Nomentana, presso il cimitero dell'Ostriano, dove secondo la tradizione l'apostolo battezzava i fedeli.
Gli Atti di Pietro continuano raccontando come, a seguito dello scontro con Simon Mago, l'apostolo fosse riuscito a conquistarsi molti proseliti che decisero di convertirsi al cristianesimo e farsi battezzare. Fra i catecumeni vi erano parecchie donne, fra le quali spiccavano Santippe, moglie del nobile Albino, e le quattro concubine del prefetto Agrippa. Esse avevano preferito abbandonare i loro amanti e seguire l'insegnamento cristiano attraverso l'astinenza sessuale. Agrippa e gli altri mariti, decisi a ricondurre nei propri talami le mogli, ordirono una congiura contro Pietro che, avvertito da Santippe, preferì fuggire piuttosto che essere ucciso. Durante la fuga, mentre si trovava sulla via Appia, gli venne incontro Gesù, portando con sé la sua croce. Quando l'apostolo chiese al maestro: "Domine, quo vadis?" (Signore, dove vai?), questi rispose: "Vado a Roma per farmi crocifiggere un'altra volta". Sicuro che ormai la sua ora era segnata, Pietro preferì tornare a Roma per esservi crocifisso al posto del Maestro. Lungo la Via Appia, nei pressi delle catacombe di San Callisto, si trova oggi la piccola chiesa del "Domine quo vadis", che ricorda l'evento.
Benché non vi sia nulla di improbabile nel pensare che l'apostolo avesse deciso di fuggire via da Roma prima del martirio, è senza dubbio frutto di tradizione leggendaria il racconto di Santippe e della congiura dei mariti poiché è ben noto agli studiosi che, se Pietro morì realmente a Roma, fu vittima delle persecuzioni anti-cristiane volute da Nerone e non di certo di un complotto voluto da amanti smaniosi.
Pietro venne dunque arrestato a seguito della persecuzione neroniana e secondo antiche tradizioni rinchiuso, con Paolo, all'interno del carcere Mamertino (su cui poi sorse la chiesa di San Pietro in Carcere) dove i due carcerieri, destinati a diventare i santi Processo e Martiniano, vedendo i miracoli operati dai due apostoli, chiesero il battesimo. Allora Pietro, con un segno di croce verso la Rupe Tarpea, riuscì a farne scaturire dell'acqua e con essa battezzò i due carcerieri che subito dopo aprirono loro le porte per invitarli alla fuga, venendo però scoperti e giustiziati. La leggenda non sembra però fondata, perché il carcere Mamertino era destinato a prigionieri che si dovevano custodire con attenzione (basti pensare a Giugurta e Vercingetorige) e non certo a un uomo come l'apostolo, uno dei tanti immigrati nella capitale dell'Impero, a meno che Nerone non lo ritenesse talmente pericoloso da scatenare una rivolta negli ambienti della comunità cristiana. Benché non esistano prove certe della permanenza dei due nel carcere, la tradizione è comunque molto antica e la trasformazione del carcere in chiesa si fa risalire al IV secolo per volere di papa Silvestro I.
Fuggito dal carcere, Pietro si diresse verso la via Appia, ferito per la stretta delle catene. Nei pressi delle terme di Caracalla secondo la tradizione avrebbe perso la fascia che gli stringeva una gamba, oggi custodita nella chiesa dei Santi Nereo e Achilleo, detta appunto "in fasciola". Anche in questa versione ricorre l'episodio, già riportato, relativo all'incontro lungo la via Appia con il Maestro, che lo invitò a tornare a Roma per morirvi martire.
Catturato nuovamente dai soldati dell'imperatore venne crocifisso, secondo la tradizione trasmessa da Girolamo, Tertulliano, Eusebio e Origene, a testa in giù per sua stessa richiesta fra il 64, anno dell'incendio di Roma e dell'inizio della persecuzione anti-cristiana di Nerone, e il 67, benché l'autenticità di tale evento sia ancora oggi fonte di grande dibattito fra gli studiosi della Bibbia, di matrice atea.
Un punto controverso è poi la questione se Pietro e Paolo siano stati martirizzati nello stesso giorno e nello stesso anno. Il Martirologio Romano, i Sinassari delle Chiese orientali, nonché il Decretum Gelasianum del V secolo affermano: «Non in un giorno diverso, come vanno blaterando gli eretici, ma nello stesso tempo e nello stesso giorno Paolo fu con Pietro coronato di morte gloriosa nella città di Roma sotto l'imperatore Nerone», fissandone quindi la data al 29 giugno 67.
La tradizione sulla presenza e martirio di Pietro a Roma è abbastanza ben radicata; a questo si aggiunge il fatto che nessun'altra Chiesa ha rivendicato la morte di Pietro. Tuttavia, si è osservato che la tradizione appare in forma scritta solo alla fine del II secolo, e l'identificazione di Pietro come primo vescovo di Roma compare nella letteratura solo all'inizio del III secolo; inoltre né Clemente (96 d.C.) né Ignazio di Antiochia (circa 100 d.C.) confermano esplicitamente il martirio di Pietro a Roma, anche se la cosa potrebbe spiegarsi con il fatto che la cosa era nota a tutti.
A sostegno della presenza di Pietro a Roma si pronunciano anche importanti storici di area protestante; tra questi il teologo e storico protestante Adolf von Harnack che si espresse con queste parole: "Il martirio di S. Pietro a Roma è stato negato dai tendenziosi pregiudizi protestanti e in seguito dai preconcetti dei critici partigiani... Non vi è studioso che attualmente esiti a riconoscere che questo fu un errore". Anche il teologo luterano e storico Oscar Cullmann, pur negando il concetto di successione apostolica, non nega che Pietro sia stato a Roma e lì sia stato martirizzato.
In un passo del Vangelo secondo Giovanni (I secolo d.C.) Gesù si rivolge a Pietro dicendogli:
« In verità, in verità ti dico che quand'eri più giovane, ti cingevi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti » ( Giovanni 21,18, su laparola.net.)
e successivamente compare l'inciso:
« Disse questo per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio » ( Giovanni 21,19, su laparola.net.).
Si può supporre quindi che l'evangelista, e anche i lettori a cui egli si rivolgeva, conoscessero alcuni dettagli della morte di Pietro.
La Prima lettera di Pietro si conclude con:
« La chiesa che è in Babilonia, eletta come voi, vi saluta. Anche Marco, mio figlio, vi saluta. »
Pietro dichiara di trovarsi presso la chiesa di Babilonia. Su questo punto esistono due posizioni molto chiare: da un lato tutta la letteratura e tradizione cristiana che sostiene che per Babilonia si deve intendere Roma, e la posizione degli storici non cristiani che intendono Babilonia o Babilonide in senso letterale. Va ricordato che Pietro fu non il vescovo, carica inesistente all'epoca, ma il capo spirituale della comunità cristiana di Antiochia, che non solo era la terza città dell'Impero Romano, ma era anche situata nella Grande Siria che fu la sede della nascita e dello sviluppo delle prime comunità cristiane. Anche Saulo, come è noto, si convertì e cominciò la predicazione a Damasco. Il riferimento porterebbe quindi semplicemente alla Nuova Babilonia (Seleucia) lungo le rive del Tigri, oppure alla Babilonide, cioè alla zona tra Tigri ed Eufrate, zone della predicazione di Pietro. Le due posizioni sono chiaramente inconciliabili. C'è da dire che Pietro indirizzò la sua Prima lettera ai cristiani del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell'Asia e della Bitinia letterali quindi si potrebbe concludere che anche Babilonia doveva essere letterale. Inoltre l'apostolo Paolo afferma che a Pietro era stata affidata 'l'evangelizzazione dei circoncisi' ebrei (Galati 2:7) e l'Encyclopaedia Judaica menziona le grandi accademie rabbiniche di Babilonia. D'altro canto, la letteratura cristiana punta a dimostrare il primato di Pietro, nei suoi ultimi anni di vita, a Roma. Eusebio di Cesarea accenna ad esempio alla testimonianza del vescovo Papia di Ierapoli e Clemente di Alessandria secondo i quali Marco scrisse il suo Vangelo a Roma su richiesta dei cristiani di quella città, che desideravano una testimonianza scritta degli insegnamenti di Pietro e dei suoi discepoli; questa notizia è confermata da Ireneo di Lione. Sulla base di queste testimonianze Eusebio dichiarò che Pietro si rivolgeva a Roma con il nome figurato di Babilonia nella sua prima lettera (1 Pt 5, 13).Uno dei motivi per cui Pietro non avrebbe scritto in tutte le sue lettere il nome di Roma, potrebbe essere che dopo la sua liberazione miracolosa narrata negli Atti degli Apostoli e la fuga da Gerusalemme, egli era per le autorità un latitante ricercato; ma non mancano altre spiegazioni, come l'uso di crittogrammi tipicamente giudaici per Roma, come l'antico toponimo "Babilonia". Nella prima lettera di Clemente (95-97 circa), attribuita a Clemente di Roma si trova scritto:
«Per invidia e per gelosia i più validi e i più importanti pilastri [della Chiesa] hanno sofferto la persecuzione e sono stati sfidati fino alla morte. Volgiamo il nostro sguardo ai santi Apostoli... San Pietro, che a causa di un'ingiusta invidia, soffrì non una o due, ma numerose sofferenze, e, dopo aver testimoniato con il martirio, assurse alla gloria che aveva meritato»
(Clemente di Roma, lettera ai Corinzi, v)
Sono poi menzionati Paolo e altri, dichiarando che essi patirono il martirio presso di noi, ovvero tra i Romani, espressione che è chiarita dal capitolo IV. In questa lettera ci si riferisce a quella che fu poi interpretata come la prima persecuzione dei cristiani dopo il grande incendio di Roma, sotto l'imperatore Nerone, collocando quindi la morte di Pietro in quell'epoca.
Nella sua lettera scritta all'inizio del II secolo, prima del 107, il vescovo Ignazio di Antiochia cerca di dissuadere i cristiani di Roma dall'intercessione in suo favore, con la quale avrebbero potuto evitarne la condanna a morte, dichiarando:
«Non vi comando, come Pietro e Paolo: loro furono apostoli, mentre io non sono altro che un rifiuto»
(Ignazio di Antiochia, Ai Romani 4)
Il vescovo Dionigi di Corinto nella sua lettera alla Chiesa romana durante il pontificato di papa Sotero (165-174) scrive che:
«Dovete quindi, con la vostra più vivida esortazione, riunire insieme i prodotti della semina di Pietro e di Paolo a Roma e a Corinto. Poiché entrambi hanno seminato la parola del Vangelo anche a Corinto, e insieme lì ci hanno istruiti, nello stesso modo in cui insieme ci hanno istruiti in Italia e insieme hanno patito il martirio»
Ireneo di Lione, che trascorse del tempo a Roma poco dopo la metà del II secolo prima di recarsi a Lione, descrive la chiesa di Roma come:
«la più grande e antica chiesa, conosciuta da tutti, fondata e organizzata a Roma dai due più gloriosi apostoli, Pietro e Paolo»
(Ireneo di Lione, Contro gli eretici, III, iii; cf. III, i)
Clemente di Alessandria dichiara che:
«Dopo che Pietro ebbe annunciato la Parola di Dio a Roma e predicato il Vangelo nello spirito di Dio, la moltitudine degli uditori richiese a Marco, che aveva a lungo accompagnato Pietro nei suoi viaggi, di scrivere quello che gli apostoli avevano loro insegnato.»
(Clemente di Alessandria, Hypotyposes).
Tertulliano fa spesso riferimento alla predicazione di Pietro e Paolo a Roma:
«Se sei in Italia, hai Roma, da cui si diffonde un'autorità che va molto oltre [i confini della stessa Italia]. Quanto è fortunata questa Chiesa per cui gli Apostoli hanno versato la loro dottrina con il loro sangue, dove Pietro ha emulato la passione del Signore, dove Paolo è stato coronato con la stessa morte di Giovanni (Battista).»
(Tertulliano, De Praescriptione, xxxv).
Riferendosi al passo del Vangelo descritto precedentemente (Giovanni 21,15-19):
«La germogliante fede cristiana fu insanguinata per primo da Nerone a Roma. Là Pietro fu legato da un altro come Gesù gli aveva profetizzato, quando fu legato alla croce»
(Tertulliano, Scorpiace, xv).
Per illustrare il fatto che non è importante con quale acqua si amministri il battesimo, scrive che non c'è
«[...] nessuna differenza tra quella con cui Giovanni battezzava nel Giordano e quella con cui Pietro battezzava nel Tevere»
(Tertulliano, Sul battesimo, capitolo 5).
e contro Marcione si riferisce alla testimonianza dei cristiani romani:
«[...] a cui Pietro e Paolo hanno trasmesso in eredità il Vangelo racchiuso nel loro sangue»
(Tertulliano, Contro Marcione, IV, v).
San Girolamo nel De viris illustribus, basandosi su fonti più antiche, soprattutto Eusebio di Cesarea, scrive:
«Simon Pietro, figlio di Giovanni, dal villaggio di Betsaida nella provincia di Galilea, fratello di Andrea apostolo, ed egli stesso capo degli apostoli, dopo essere stato vescovo della Chiesa di Antiochia e aver predicato alla Diaspora - i credenti nella circoncisione, nel Ponto, Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia - si spostò a Roma nel secondo anno di Claudio per spodestare Simon Mago, e vi mantenne il seggio sacerdotale per venticinque anni fino all'ultimo, ovvero il quattordicesimo anno di Nerone. A causa sua ricevette la corona del martirio venendo inchiodato alla croce con la testa verso terra e i piedi innalzati al di sopra, sostenendo che era indegno di essere crocifisso nella stessa maniera del suo Signore. Scrisse due lettere che sono dette "cattoliche", la seconda delle quali, essendo diversa nello stile rispetto alla prima, è considerata da molti non di sua mano. Anche il Vangelo secondo Marco, che era suo discepolo e interprete, è ritenuto suo. D'altra parte i libri ascritti a lui, di cui il primo è intitolato Atti, un secondo Vangelo, un terzo Discorso, un quarto Apocalisse, un quinto Giudizio, sono respinti come apocrifi. Seppellito a Roma in Vaticano presso la via del trionfo, è venerato da tutto il mondo.»
(Sofronio Eusebio Girolamo, De viris illustribus).
Eugenio Caruso - 13 - 11 - 2021