Omero, Iliade, Libro XX. Achille fa strage di troiani.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

paride 4
IL GIUDIZIO DI PARIDE DI PETER PAUL RUBENS. ( Da questo episodio nasce tutta la storia narrata da Omero)

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”. Le varie edizioni non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari. Nel racconto Omero da buon greco parteggia palesemente per i greci; basti notare che quando il grande eroe troiano Ettore entra in battaglia, spesso, o scappa o è aiutato da Apollo.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti. . Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlava di un uomo cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende riguardanti Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le tematiche che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.
In realtà non sono proprio grandi eroi; le loro vicende sono spesso stimolate, incoraggiate o scoraggiate dall'intervento degli dei dell'Olimpo. Questi si presentano spesso sotto false sembianze, infondono forza e coraggio entrando nei corpi del proprio campione, atterriscono l'avversario con immagini spaventose, deviano le lance o le saette che colpisconi il proprio protetto.
Devo infine ricordare che l'Iliade è un vorticoso turbinio di miti che illudono, affascinano e appassionano (in alcuni casi ci rendono emotivamente partecipi alle vocende), ma la storia e la filologia ci insegnano che in molti miti può quasi sempre esservi un'ombra di verità; si pernsi a esempio ai miti di Medea, Edipo, Ulisse .... .

patroclo 3
Patroclo e Briseide. Affresco pompeiano


RIASSUNTO XX LIBRO

Giove raduna a concilio gli Dei e loro impone di prender parte nella battaglia. Giunone, Pallade, Mercurio, Nettunno, Vulcano discendono in aiuto de' Greci; stanno dalla parte de' Troiani Marte, Apollo, Latona, Diana, Venere e lo Scamandro. Enea venuto alle prese con Achille è circondato di nebbia e salvato da Nettunno. Achille mette a morte molti de' nemici, fra' quali Polidoro figlio di Priamo. Ettore, avendo assalito Achille, viene sottratto da Apollo. Prodezze di Achille che fa strage de' Troiani.

diomede

Ulisse e Diomede nella tenda di Reso, opera di Corrado Giaquinto

TESTO LIBRO XX

Così dintorno a te, marzio Pelíde,
Gli Achei metteansi in punto appo le navi,
E i Troi del campo sul rïalto. A Temi
Giove allor comandò che dalle molte
Eminenze d’Olimpo a parlamento 5
Convocasse gli Dei. Volò la Diva
D’ogni parte, e chiamolli alla stellata
Magion di Giove. Accorser tutti, e, tranne
Il canuto Oceán, nullo de’ Fiumi
Nè delle Ninfe vi mancò, de’ boschi 10
E de’ prati e de’ fonti abitatrici.
Giunti del grande adunator de’ nembi
Alle stanze, si assisero su tersi
Troni che a Giove con solerte cura
Vulcano fabbricò. Prese ciascuno 15
Cheto il suo posto; ma dal mar venuto
Obbedïente ei pure il re Nettunno,
Tra i maggiori sedendosi, la mente
Di Giove interrogò con questi accenti:
""Perchè di nuovo, fulminante Iddio, 20
Chiami i numi a consiglio? Alfin decisa
De’ Troiani vuoi forse e degli Achei
Pronti a zuffa mortal l’ultima sorte?"".
  "" Ben vedesti, o Nettunno, il mio pensiero,
Giove rispose; del chiamarvi è questa 25
La cagion: benchè presso al fato estremo
E gli uni e gli altri in cor mi stanno. Assiso
Su le cime d’Olimpo io qui mi resto
L’ire mortali a contemplar tranquillo.
Voi sul campo scendete, e a cui v’aggrada 30
De’ Teucri e degli Achei recate aita.
Se pugna Achille ei sol, nol sosterranno
Nè pur tampoco i Teucri, essi che ieri
Solo al vederlo ne tremaro. E oggi,
Che d’ira egli arde per l’amico, io temo35
Non anzi il dì fatal Troia rovini."".
   Disse, e di guerra un fier desire accese
De’ Celesti nel cor, che in due divisi
Nel campo si calâr: verso le navi
Giuno e Palla Minerva e coll’accorto 40
Util Mercurio s’avvïò Nettunno.
Li seguía zoppicando, e truci intorno
Gli occhi volgendo di sua forza altero
Vulcano, e il sottil stinco di sotto
Gli barcollava. Alla troiana parte 45
N’andâr dell’elmo il crollator Gradivo,
L’intonso Febo colla madre e l’alma
Cacciatrice sorella e Xanto e Venere
Dea del riso. Finchè dalle mortali
Turbe i numi fur lungi, orgoglio e festa 50
Menavano gli Achei, perchè comparso
Dopo lungo riposo era il Pelíde,
E corse ai Teucri un freddo orror per l’ossa
Visto nell’armi lampeggiar, sembiante
Al Dio tremendo delle stragi, Achille. 55
Ma quando le celesti alle terrene
Armi fur miste, una ineffabil surse
Di genti agitatrici aspra contesa.
Terribile Minerva, or sull’estremo
Fosso volando e or sul rauco lido, 60
Da questa parte orribilmente grida:
Grida Marte dall’altra a tenebroso
Turbin simíle, ed or dall’ardue cime
Delle dardanie torri, e or sul poggio
Di Colone lunghesso il Simoenta 65
Correndo, infiamma a tutta voce i Teucri.

priamo

Priamo è ucciso da Neottolemo, figlio di Achille, dettaglio di un'anfora attica a figure nere, ca. 520 a.C.–510 a.C.
   

Così l’un campo e l’altro inanimando
Gli Dei beati gli azzuffâr, commisti
In conflitto crudel. Dall’alto allora
De’ mortali e de’ numi orrendamente 70
Il gran padre tuonò: scosse di sotto
L’ampia terra e de’ monti le superbe
Cime Nettunno. Traballâr dell’Ida
Le falde tutte e i gioghi e le troiane
Rocche, e le navi degli Achei. Tremonne 75
Pluto il re de’ sepolti e spaventato
Diè un alto grido e si gittò dal trono,
Temendo non gli squarci la terrena
Volta sul capo il crollator Nettunno,
E intromessa colaggiù la luce 80
Agli Dei non discopra ed ai mortali
Le sue squallide bolge, al guardo orrende
Anco del ciel; cotanto era il fragore
Che dal conflitto de’ Celesti uscía.
Contra Nettunno il re dell’arco Apollo, 85
Contra Marte Minerva, e contra Giuno
Sta delle cacce e degli strali amante
La sorella di Febo alma Dïana:
Contra il dator de’ lucri e servatore
Di ricchezze Mercurio era Latona, 90
Contra Vulcano il vorticoso fiume
Dai mortali Scamandro e dagli Dei
Xanto nomato. E questo era di numi
Contro numi il certame e l’ordinanza.
   Ma di scagliarsi fra le turbe in cerca 95
Del Priámide Ettorre arde il Pelíde,
Chè innanzi a tutto gli comanda il core
Di far la rabbia marzïal satolla
Di quel sangue abborrito. Allor destando
Le guerriere faville Apollo spinse 100
Contro il tessalo eroe d’Anchise il figlio,
E presa la favella e la sembianza
Del Prïameio Licaon gl’infuse
Ardimento e valor con questi accenti:
   ""Illustre duce Enea, dove n’andaro 105
Le fatte tra le tazze alte promesse
Al re de’ Teucri, che pur solo avresti
Contro il Pelíde Achille combattuto?"".
  "" Prïamíde, e perchè, contro mia voglia,
Enea rispose, ad affrontar mi sproni 110
Quell’invitto guerrier? Gli stetti a fronte
Pur altra volta, e altra volta in fuga
La sua lancia dall’Ida mi sospinse,
Quando, assaliti i nostri armenti, ei Pédaso
E Lirnesso atterrò. Giove protesse 115
Il mio ratto fuggir: senza il suo nume
M’avría domo il Pelíde, esso e Minerva
Che il precorrendo lo spargea di luce,
E de’ Teucri e de’ Lélegi alla strage
La sua lancia animava. Alcun non sia120
Dunque che pugni col Pelíde. Un Dio
Sempre va seco che il difende, e dritto
Vola sempre il suo telo, e non s’arresta
Finchè non passi del nemico il petto.
Se della guerra si librasse eguale 125
Dai Sampiterni la bilancia, ei certo,
Fosse tutto qual vantasi di ferro,
Non avría meco agevolmente il meglio.
   E tu pur prega i numi, o valoroso,
Rispose Apollo, chè tu pure, è fama, 130
Di Venere nascesti, ed ei di Diva
Inferïor, chè quella a Giove, e questa
Al marin vecchio è figlia. Orsù dirizza
In lui l’invitto acciaro, e non lasciarti
Per minacce fugar dure e superbe."" 135
   Fatto animoso a questi detti il duce,
Processe di lucenti armi vestito
Tra i guerrieri di fronte. E lui veduto
Per le file avanzarsi arditamente
Contro il Pelíde, ai collegati numi 140
Si volse Giuno e disse: ""Il cor volgete,
Tu Nettunno e tu Pallade, al periglio
Che ne sovrasta. Enea tutto nell’armi
Folgorante s’avvía contro il Pelíde,
E Febo Apollo ve lo spinge. Or noi 145
O forziamlo a dar volta, o pur d’Achille
Vada in aiuto alcun di noi, che forza
All’uopo gli ministri, onde s’avvegga
Ch’egli ai Celesti più possenti è caro,
E che di Troia i difensor fann’opra 150
Infruttuosa. Vi rammenti, o numi,
Che noi tutti scendemmo a questa pugna
Perchè nullo da’ Teucri egli riceva
Questo dì nocumento. Abbiasi dopo
Quella sorte che a lui filò la Parca 155
Quando la madre il partorío. Se istrutto
Di ciò nol renda degli Dei la voce,
Temerà nel veder venirsi incontro
Fra l’armi un nume: perocchè tremendi
Son gli Eterni veduti alla scoperta."". 160
   ""Fuor di ragione non irarti, o Giuno,
Chè ciò sconvienti, rispondea Nettunno.
Non sia che primi commettiam la pugna
Noi che siamo i più forti. Alla vedetta
Di qualche poggio dalla via remoto 165
Assidiamci piuttosto, e ai mortali
Resti la cura del pugnar. Se poscia
Cominceran la zuffa o Marte o Febo,
E rattenendo Achille impediranno
Ch’egli entri nella mischia, e noi pur tosto 170
Susciteremo allor l’aspro conflitto,
E presto, io spero, dal valor del nostro
Braccio domati, per le vie d’Olimpo
Ritorneranno all’immortal consesso."".
   Li precorse, ciò detto, il nume azzurro 175
Verso l’alta bastía che pel divino
Ercole un giorno con Minerva i Teucri
Innalzâr, perchè a quella egli potesse
Riparato schivar della vorace
Orca l’assalto allor che furibonda 180
L’inseguisse dal lido alla pianura.
Qui co’ numi alleati il Dio s’assise
D’impenetrabil nube circonfuso.
Sul ciglio anch’essi s’adagiâr dell’erto
Callicolon gli opposti numi intorno 185
A te, divino saettante Apollo,
E a Marte di cittadi atterratore.
Così di qua, di là deliberando
Siedono i Divi, e niuna parte ardisce,
Benchè Giove gli sproni, aprir la pugna. 190
   E già tutto d’armati il campo è pieno,
E di lampi che manda il riforbito
Bronzo de’ cocchi e de’ guerrieri, e suona
Sotto il fervido piè de’ concorrenti
Eserciti la terra. Ed ecco in mezzo 195
Affrontarsi di pugna desïosi
Due fortissimi eroi, d’Anchise il figlio
E Achille. Avanzossi Enea primiero
Minacciando e crollando il poderoso
Elmo, e proteso il forte scudo al petto, 200
La grand’asta vibrava. Ad incontrarlo
Mosse il Pelíde impetuoso, e parve
Truculento lïone alla cui vita
Denso stuol di garzoni, anzi l’intero
Borgo si scaglia: incede egli da prima 205
Sprezzatamente; ma se alcun de’ forti
Assalitor coll’asta il tocca, ei fiero
Spalancando le fauci si rivolve
Colla schiuma alle sanne; la gagliarda
Alma in cor gli sospira, i fianchi e i lombi 210
Flagella colla coda, e sè medesmo
Alla battaglia irrita: indi repente
Con torvi sguardi avventasi ruggendo,
Di dar morte già fermo o di morire:
Tal la forza e il coraggio incontro al franco 215
Enea sospinser l’orgoglioso Achille,
E giunti a fronte, favellò primiero
Il gran Pelíde: ""Enea, perchè tant’oltre
Fuor della turba ti spingesti? Forse
Meco agogni pugnar perchè su i Teucri 220
Di Príamo speri un dì stender lo scettro?
Ma s’egli avvegna ancor che tu m’uccida,
Ei non porrallo alle tue mani, ei padre
Di più figli, e d’età sano e di mente:
O forse i Teucri, se mi metti a morte, 225
Un eletto poder bello di viti
Ti statuiro e di fecondi solchi?
Ma dura impresa t’assumesti, io spero;
Ch’altra volta, mi par, ti pose in fuga
Questa mia lancia. Non rammenti il giorno 230
Che soletto ti colsi, e con veloce
Corso dall’Ida ti cacciai lontano
Dalle tue mandre? Tu volavi, e, mai
Non volgendo la fronte, entro Lirnesso
Ti riparasti. Col favore io poi 235
Di Giove e Palla la città distrussi,
E ne predai le donne, e tolta loro
La cara libertà, meco le trassi.
Gli Dei quel giorno ti scampâr; non oggi
Lo faranno, cred’io, come t’avvisi. 240
Va, ritírati adunque, io te n’assenno,
Rïentra in turba, nè mi star di fronte,
Se il tuo peggio non vuoi, chè dopo il fatto
Anche lo stolto dell’error si pente."".
   ""Me co’ detti atterrir come fanciullo 245
Indarno tenti, Enea rispose; anch’io
So dir minacce e onte, e l’un dell’altro
I natali sappiamo, e per udita
I genitori; chè nè tu conosci
Per vista i miei, ned io li tuoi. Te prole 250
Dell’egregio Peléo dice la fama,
E della bella equórea Teti. Io nato
Di Venere mi vanto, e generommi
Il magnanimo Anchise. Oggi per certo
O gli uni o gli altri piangeranno il figlio. 255
Chè veruno di noi di puerili
Ciance contento non vorrà, cred’io,
Separarsi e uscir di questo arringo.
Ma se più brami di mia stirpe udire
Al mondo chiara, primamente Giove 260
Dardano generò, che fondamento
Pose qui poscia alle dardanie mura.
Perocchè non ancora allor nel piano
Sorgean le sacre ilíache torri, e il molto
Suo popolo le idée falde copriva. 265
Di Dardano fu nato il re d’ogni altro
Più opulente Erittónio. A lui tre mila
Di teneri puledri allegre madri
Le convalli pascean. Innamorossi
Borea di loro, e di destrier morello 270
Presa la forma alquante ne compresse,
Che sei puledre e sei gli partoriro.
Queste talor ruzzando alla campagna
Correan sul capo delle bionde ariste
Senza pur sgretolarle; e se co’ salti 275
Prendean sul dorso a lascivir del mare,
Su le spume volavano de’ flutti
Senza toccarli. D’Erittónio nacque
Tröe re de’ Troiani, e poi di Troe
Generosi tre figli Ilo ed Assáraco, 280
E il deïforme Ganimede, al tutto
De’ mortali il più bello, e dagli Dei
Rapito in cielo, perchè fosse a Giove
Di coppa mescitor per sua beltade,
Ed abitasse con gli Eterni. Ad Ilo 285
Nacque l’alto figliuol Laomedonte;
Titone a questo e Príamo e Lampo e Clízio
E l’alunno di Marte Icetaone:
Assáraco ebbe Capi, e Capi Anchise,
Mio genitore, e Príamo il divo Ettorre. 290
Ecco il sangue ch’io vanto. Il resto scende
Tutto da Giove che ne’ petti umani
Il valor cresce o scema a suo talento,
Potentissimo iddio. Ma tregua omai
Fra l’armi a borie fanciullesche. Entrambi 295
Possiam d’ingiurie aver dovizia e tanta
Che nave non potría di cento remi
Levarne il pondo. De’ mortai volubile
È la lingua, e ne piovono parole
D’ogni maniera in largo campo, e quale 300
Dirai motto, cotal ti fia rimesso.
Ma perchè d’onte tenzonar siccome
Stizzose femminette che nel mezzo
Della via si rabbuffano, col vero,
Spinte dall’ira, affastellando il falso? 305
Me qui pronto a pugnar non distorrai
Colle minacce dal cimento. Or via
Alle prove dell’asta."". - E così detto,
La ferrea lancia fulminò nel vasto
Terribile brocchier che dell’acuta 310
Cuspide al picchio rimugghiò. Turbossi
Il Pelíde, e dal petto colla forte
Mano lo scudo allontanò, temendo
Nol trafori la lunga ombrosa lancia
Del magnanimo Enea. Di mente uscito 315
Eragli, stolto! che mortal possanza
Difficilmente doma armi divine.
Non ruppe la gagliarda asta troiana
Il pavese achilléo, chè la rattenne
Dell’aurea piastra l’immortal fattura, 320
E sol due falde ne forò di cinque
Che Vulcano v’avea l’una sull’altra
Ribattute; di bronzo le due prime,
Le due dentro di stagno, e tutta d’oro
La media che il crudel tronco represse. 325
Vibrò secondo la sua lunga trave
Il Pelíde, e colpì dell’inimico
L’orbicolar rotella all’orlo estremo,
Ove sottil di rame era condotta
Una falda, e sottile il sovrapposto 330
Cuoio taurino. La pelíaca antenna
Da parte a parte lo passò. La targa
Rimbombò sotto il colpo: esterrefatto
Rannicchiossi e scostò dalla persona
Enea lo scudo sollevato; e l’asta, 335
Rotti i due cerchi che il cingean, sul dorso
Trasvolò furïosa, e al suol si fisse.
Scansato il colpo, si ristette, e immenso
Duol di paura gli abbuiò le luci,
Sentita la vicina asta confitta. 340
Pronto il Pelíde allor tratta la spada,
Con terribile grido si disserra
Contro il nemico. Era nel campo un sasso
D’enorme pondo che soverchio fôra
Alle forze di due quai la presente 345
Età produce. Diè di piglio Enea
A questo sasso, e agevolmente solo
L’agitando, si volse all’aggressore.
E nel vulcanio scudo o nell’elmetto
Avventato l’avría, ma senza offesa, 350
E a lui per certo del Pelíde il brando
Togliea la vita, se di ciò per tempo
Avvistosi Nettunno, ai circostánti
Celesti non facea queste parole:
  "" Duolmi, o numi, d’assai del generoso 355
Enea che domo dal Pelíde all’Orco
Irne tosto dovrà, dalle lusinghe
Mal consigliato dell’arciero Apollo.
Insensato! chè nulla incontro a morte
Gli varrà questo Dio. Ma della colpa 360
Altrui la pena perchè dee patirla
Quest’innocente, liberal di grati
Doni mai sempre agl’Immortali? Or via
Moviamo in suo soccorso, e s’impedisca
Che il Pelíde l’uccida, e che di Giove 365
L’ire risvegli la sua morte. I fati
Decretâr ch’egli viva, onde la stirpe
Di Dárdano non pera interamente,
Di lui che Giove innanzi a quanti figli
Alvo mortal gli partorío, dilesse: 370
Perocchè da gran tempo egli la gente
Di Príamo abborre, e su i Troiani omai
D’Enea la forza regnerà con tutti
De’ figli i figli e chi verrà da quelli.
   Pensa tu teco stesso, o re Nettunno, 375
Giuno rispose, se sottrarre a morte
Enea si debba, o consentir, malgrado
La sua virtude, che lo domi Achille.
Quanto a Pallade e a me, presenti i numi,
Noi giurammo solenne giuramento 380
Di non mai da’ Troiani la ruina
Allontanar, no, s’anco tutta in cenere
Troia cadesse tra le fiamme achee."".
   Udito quel parlar, corse per mezzo
Alla mischia e al fragor delle volanti 385
Aste Nettunno, e giunto ove d’Enea
E dell’inclito Achille era la pugna,
Una súbita nube intorno agli occhi
Del Pelíde diffuse, e dallo scudo
Del magnanimo Enea svelto il ferrato 390
Frassino, al piede del rival lo pose.
Indi spinse di forza, e dalla terra
Levò sublime Enea, che preso il volo
Dalla mano del Dio, varcò d’un salto
Molte file d’eroi, molte di cocchi, 395
E all’estremo arrivò del rio conflitto,
Ove in procinto si mettean di pugna
De’ Cáuconi le schiere. Ivi davanti
Gli si fece Nettunno, e così disse:
   ""Sconsigliato! qual Dio contra il Pelíde 400
Ti sedusse a pugnar, contra un guerriero
Di te più caro ai numi e più gagliardo?
S’altra volta lo scontri, ti ritira,
Onde anzi tempo non andar sotterra.
Morto Achille, combatti audacemente, 405
Chè nullo Acheo t’ucciderà"". - Disparve
Dopo questo precetto, e alle pupille
Del Pelíde sgombrò la portentosa
Caligine: tornâr tutto a un tempo
Chiari al guardo gli obbietti, onde fremendo 410
Nel magnanimo cor: Numi, diss’egli,
Quale strano prodigio? Al suol giacente
Veggo il mio telo, ma il guerrier non veggo
In cui bramoso di ferir lo spinsi.
Dunque è caro a’ Celesti ei pur davvero 415
Questo figlio d’Anchise! ed io stimava
Falso il suo vanto. E ben si salvi. Andata
Gli sarà, spero, di provarsi meco
In avvenir la voglia, assai felice
D’aver posta in sicuro oggi la vita. 420
Orsù, l’acheo valor riconfortato,
Facciam degli altri Teucri esperimento.
   Sì dicendo, saltò dentro alle file
E tutti rincuorò: ""Prestanti Achei,
Non vogliate discosto or più tenervi 425
Da’ nemici: guerrier contra guerriero
Scagliatevi, e pugnate ardimentosi.
Per forte ch’io mi sia, m’è dura impresa
Sol con tutti azzuffarmi ed inseguirli.
Nè Marte pure immortal Dio nè Palla 430
A tanti armati reggerían. Ma quanto
Queste man, questi piedi e questo petto
Potranno, io tutto vel consacro, e giuro
Di non posarmi un sol momento. Io vado
A sfondar quelle file, e non fia lieto 435
Chi la mia lancia scontrerà, mi penso."".
   Così gli sprona; e minaccioso anch’esso
Ettore i suoi conforta, e contro Achille
Ir si promette: ""Del Pelíde, o prodi,
Non temete le borie: anch’io saprei 440
Pur co’ numi combattere a parole,
Coll’asta, no, ch’ei son più forti assai.
Nè tutti avran d’Achille i vanti effetto:
Se l’un pieno gli andrà, l’altro gli fia
Tronco nel mezzo. Ad incontrarlo io vado 445
S’anco la man di fuoco egli s’avesse,
Sì, di fuoco la man, di ferro il polso."".
   Da questo dire accesi, alto levaro
L’aste avverse i Troiani, e con immenso
Romor le forze s’accozzâr. Si strinse 450
Allora Apollo al teucro duce, e disse:
   Ettore, non andar contro il Pelíde
Fuor di fila: ma tienti entro la schiera,
E dalla turba lo ricevi, e bada
Che di brando o di stral non ti raggiunga. 455
Udì del Dio la voce, e sbigottito
Nella turba de’ suoi l’eroe s’immerse.
Ma di gran forza il cor vestito Achille
Con gridi orrendi si balzò nel mezzo
De’ Troiani, e prostese a prima giunta 460
Di numerose genti un condottiero,
Il prode Ifizïon che ad Otrintéo
Guastator di città nell’opulento
Popolo d’Ide sul nevoso Tmolo
Näide Ninfa partorì. Venía 465
Costui di punta a furia. Il divo Achille
Coll’asta a mezzo capo lo percosse,
E in due lo fêsse. Rimbombando ei cadde,
Ed orgoglioso il vincitor sovr’esso
Esclamò: Tremendissimo Otrintíde, 470
Eccoti a terra: e tu sepolcro umíle
In questa sabbia avrai, tu che superba
Cuna sortisti alla gigéa palude
Ne’ paterni poderi appo il pescoso
Illo e dell’Ermo il vorticoso flutto. 475
   Così l’oltraggia; della morte il buio
Coprì gli occhi al meschino, e de’ cavalli
L’ugna e li chiovi delle rote achee
Il lasciâr nella calca infranto e pesto.
   Ferì dopo costui Demoleonte, 480
D’Anténore figliuolo e valoroso
Combattitore; lo ferì sul polso
Della tempia, nè valse alla difesa
La ferrea guancia del polito elmetto.
L’impetuosa punta spezzò l’osso, 485
Sgominò le cervella, che di sangue
Tutte insozzârsi, e così giacque il fiero.
Gittatosi dal carro, Ippodamante
Dinanzi gli fuggía. L’asta d’Achille
Lo raggiunse nel tergo. L’infelice 490
Esalava lo spirto, e mugolava
Come tauro che a forza innanzi all’are
D’Elice è tratto da garzon robusti,
E ne gode Nettunno: a questa guisa
Muggía quell’alma feroce, e spirava. 495
   S’avventò dopo questi a Polidoro.
Era costui di Príamo un figlio: il padre
Gli avea difeso di pugnar, siccome
Il minor de’ suoi nati e il più diletto,
Che tutti al corso li vincea. Di questa 500
Sua virtute di piè con fanciullesca
Demenza vanitoso egli tra’ primi
Combattenti correa senza consiglio,
Finchè morto vi cadde. Il colse a tergo
In quei trascorsi Achille ove la cinta 505
Dall’auree fibbie s’annodava, e doppio
Scontravasi l’usbergo. Il telo acuto
Rïuscì di rimpetto all’ombilico:
Ululò quel trafitto, e su i ginocchi
Cascò: curvato colla man compresse 510
Le intestina, e mortal nube lo cinse.
   Come in quell’atto miserando il vide
Il suo germano Ettorre, una profonda
Nube di duolo gl’ingombrò le luci,
Nè gli sofferse il cor di più ristarsi 515
Dentro la turba; ma crollando immensa
Una lancia, volò contro il Pelíde
Come fiamma ondeggiante. A quella vista
Saltò di gioia Achille, e baldanzoso,
""Ecco l’uom, disse, che nel cor m’aperse 520
Sì gran piaga, colui che il mio m’uccise
Caro compagno: or più non fuggiremo
L’un l’altro a lungo pei sentier di guerra.
Disse, e al divino Ettór bieco guatando,
Gridò: T’accosta, chè al tuo fin se’ giunto."". 525
  ""Non pensar, gli rispose imperturbato
L’eroe troiano, non pensar di darmi
Per minacce terror come a fanciullo,
Chè oprar so l’armi della lingua io pure,
E conosco tue forze, e mi confesso 530
Men valente di te: ma in grembo ai numi
Sta la vittoria, e avvenir può forse
Ch’io men prode dal sen l’alma ti svelga.
Affilata ha la punta anche il mio telo."".
Disse, e l’asta scagliò: ma dal divino 535
Petto d’Achille la svïò Minerva
Con levissimo soffio. Risospinta
Dall’alito immortal, l’asta ritorno
Fece ad Ettorre, e al piè gli cadde. Allora
Con orribile grido disserrossi 540
Furibondo il Pelíde, impazïente
Di trucidarlo. Ma gliel tolse Apollo,
Lieve impresa a un Dio, tutto coprendo
Di folta nebbia Ettór. Tre volte Achille
Coll’asta l’assalì, tre volte un vano 545
Fumo trafisse, e con furor venendo
Il divino guerriero al quarto assalto,
Minaccioso tuonò queste parole:
""Cane troian, di nuovo ecco fuggisti
L’estremo fato che t’avea raggiunto, 550
E Febo ti scampò, quel Febo a cui
Tra il sibilo dei dardi alzi le preci.
Ma s’altra volta mi darai la pugna,
E se a me pure assiste un qualche iddio,
Ti finirò. Di quanti in man frattanto 555
Mi verranno de’ tuoi farò macello."".
   Così dicendo, a Drïope sospinse
Sotto il mento la picca, e questi al piede
Gli traboccò. Così lasciollo, e ratto
Scagliandosi a Demúco, un grande e prode 560
Di Filétore figlio, alle ginocchia
Lo ferì, l’arrestò, poscia col brando
L’alma gli tolse. Dopo questi Dardano
E Laógono assalse, illustri figli
Di Bïante, e travolti ambo dal cocchio 565
L’un di lancia atterrò, l’altro di spada.
Poi distese il troiano Alastoríde
Che a’ suoi ginocchi supplice cadendo
Chiedea la vita in dono, e ai conformi
Suoi verd’anni pietà. Stolto! chè vano 570
Il pregar non sapea, nè quanto egli era
Mite no, ma feroce. In umil atto
Gli abbracciava i ginocchi, e altro dire
Volea pure il meschin; ma quegli il ferro
Nell’épate gl’immerse, che di fuori 575
Riversossi, e di sangue un nero fiume
Gli fe’ largo nel seno. Venne manco
L’alma, e gli occhi coprì di morte il velo.
   Indi Mulio investendo, entro un’orecchia
Gli fisse il telo, e uscir per l’altra il fece. 580
Ad Echeclo d’Agénore un fendente
Calò di spada al mezzo della testa,
E la spaccò; s'intiepidì il grande
Acciar nel sangue, e la purpurea morte
E la Parca possente i rai gli chiuse. 585
Colse dopo di punta nella destra
Deucalïon là dove i nervi vanno
Del cubito a unirsi. Intormentito
Nella mano il guerrier vedeasi innanzi
La morte, e passo non movea. Gli mena 590
Un colpo col pugnale il Pelíde alla cervice,
Netto il capo gli mozza, e via coll’elmo
Lungi il butta. Schizzâr dalle vertébre
Le midolle, e disteso il tronco giacque.
Rigmo poscia aggredì, Rigmo dai pingui 595
Tracii campi venuto, e di Piréo
Generoso figliuol. Lo colse al ventre
Il tessalico telo, e giù dal cocchio
Lo scosse. Allor diè volta ai corridori
L’auriga Arëitóo; ma del Pelíde 600
L’asta il giunge alle spalle, e capovolto
Tra i turbati cavalli lo precipita.
   Quale infuria talor per le profonde
Valli d’arido monte un vasto fuoco
Che divora le selve, e in ogni lato 605
L’agita e spande di Garbino il soffio;
Tale in sembianza d’un irato iddio
D’ogni parte si volve furibondo
Il Pelíde, e insegue e uccide e rossa
Fa di sangue la terra. E come quando 610
Nella tonda e polita aia il villano
Due tauri accoppia di ben larga fronte
Di Cerere a trebbiar le bionde ariste,
Fuor del guscio in un subito saltella
Di sotto al piede de’ mugghianti il grano: 615
Del magnanimo Achille in questa forma
Gl’immortali cornipedi sospinti
I cadaveri calcano e gli scudi.
L’orbe tutto del cocchio e tutto l’asse
Gronda di sangue dalle zampe sparso 620
De’ cavalli a gran sprazzi e dalle rote.
Desío di gloria il cuor d’Achille infiamma,
E l’invitte sue mani tutte sozze
Son di polve, di fango e di sudore.

Traduzione di Vincenzo Monti. E' un vero peccato che i nomi greci siano tutti latinizzati.

troia 5

Scena di battaglia fra Achei e Troiani, kylix attico a figure rosse

AUDIO

APOLLO

Apollo (in greco antico: Apóllon; in latino: Apollo) è una divinità della religione greca e romana; Nell'Iliade cerca di proteggere Ettore.
Dio della musica, della profezia, della poesia, delle arti mediche (il dio della medicina è infatti suo figlio Asclepio), delle pestilenze e della scienza che illumina l'intelletto, il suo simbolo principale è la lira. In seguito fu venerato anche nella religione romana. In quanto dio della poesia, è a capo delle Muse. Viene anche descritto come un provetto arciere in grado di infliggere, con la sua arma, terribili pestilenze ai popoli che lo osteggiano. In quanto protettore della città e del tempio di Delfi, Apollo è anche venerato come dio oracolare capace di svelare, tramite la sacerdotessa, detta Pizia, il futuro agli esseri umani; anche per questo era adorato nell'antichità come uno degli dei più importanti del Dodekatheon.

apollo 5

Apollo istruisce le muse Euterpe e Urania. Olio su tela di Pompeo Batoni

Apollo era uno degli dei più celebri e influenti nell'antica Grecia; ed erano due le città che si contendevano il titolo di luoghi di culto principali del dio: Delfi, sede del già citato oracolo, e Delo. L'importanza attribuita al dio è testimoniata anche da nomi teoforici come Apollonio o Apollodoro, comuni nell'antica Grecia, dalle molte città che portavano il nome di Apollonia, dall'ideale del koûros ("giovane"), che gli appartiene e dà il "suo carattere peculiare alla cultura greca nel suo complesso". Il dio delle arti veniva inoltre adorato in numerosi siti di culto sparsi, oltre che sul territorio greco, anche nelle colonie disseminate sulle rive africane del Mediterraneo, nell'esapoli dorica in Caria, in Sicilia e in Magna Grecia.
Come divinità greca, Apollo è figlio di Zeus e di Leto (Latona per i Romani) e fratello gemello di Artemide (per i Romani Diana), dea della caccia e più tardi una delle tre personificazioni della Luna (Luna crescente), insieme con Selene (Luna piena) ed Ecate (Luna calante). Nella tarda antichità greca Apollo venne anche identificato come dio del Sole, e in molti casi soppiantò Elio quale portatore di luce e auriga del cocchio solare. Nella Religione romana, non aveva nessuna controparte, e il suo culto venne introdotto a Roma circa nel 421 a.C. In ogni caso, presso i Greci Apollo ed Elio rimasero entità separate e distinte nei testi letterari e mitologici dell'epoca, ma non nel culto, dove Apollo era ormai stato assimilato con Elio.
A differenza di altri dei, Apollo non aveva un equivalente romano diretto: il suo culto venne importato a Roma dal mondo greco, ma fu mediato anche dalla presenza nei pantheon etrusco di un dio analogo, Apulu. Ciò avvenne in tempi piuttosto antichi nella storia romana, infatti fonti tradizionali riferiscono che il culto era presente già in epoca regia. Nel 431 a.C. ad Apollo fu intitolato un tempio in una località dove già sorgeva un sacello o un'area sacra di nome Apollinar come scrive Livio III, 63, 7, in occasione di una pestilenza che afflisse la città. Durante la seconda guerra punica, invece, vennero istituiti i Ludi Apollinares, giochi in onore del dio. Il culto venne incentivato poi, in epoca imperiale, dall'imperatore Augusto, che per consolidare la propria autorità asserì di essere un protetto del dio, che avrebbe anche lanciato un fulmine nell'atrio della sua casa come presagio fausto per la sua lotta contro Antonio; tramite la sua influenza Apollo divenne uno degli dei romani più influenti. Dopo la battaglia di Azio l'imperatore fece rinnovare e ingrandire l'antico tempio di Apollo Sosiano, istituì dei giochi quinquennali in suo onore e finanziò anche la costruzione del tempio di Apollo In onore del dio, e per compiacere il suo imperatore, il poeta romano Orazio compose inoltre il celebre Carmen saeculare. In epoca imperiale lentamente si arrivò all'identificazione tra Apollo-Elio e l'imperatore stesso, di cui la testimonianza più notevole era il celebre colosso di Nerone che poi diede il nome al vicino anfiteatro Flavio o Colosseo. In epoca tarda il culto di Apollo tornò a separarsi da quello di Elio o Sole, che divenne un culto sincretistico: il Sol Invictus, compagno dell'imperatore, che regnava sul cielo, così come l'altro regnava in terra. In epoca tarda il culto è ancora vivo fino ai primi anni di regno di Costantino I, che, prima della sua conversione al cristianesimo, si faceva raffigurare nelle statue onorarie come il Sole. Gli stessi cristiani d'occidente utilizzarono l'iconografia di Apollo-Sole per le prime raffigurazioni di Cristo, che era raffigurato come un tipo apollineo, giovane, imberbe, con un nimbo di luce sul capo.
Le origini del culto apollineo si perdono nella notte dei tempi. È comunque opinione comune e consolidata tra gli studiosi che il culto del dio sia relativamente recente e che, precedentemente ad Apollo, il santuario di Pito avesse una sua antichissima religione ctonia, legata al culto della Dea Madre. Lo stesso racconto di Eschilo su Apollo che riceve il santuario da Gea, Febe e Temi, tenderebbe a confermarlo. Una teoria però, basata sulla decifrazione degli enigmatici e tanto discussi documenti greci di Glozel (Vichy, Francia), tenderebbe ad ampliare il quadro mitico-storico interessante l'oracolo e collegherebbe la nuova, non identificata divinità, alla vicenda cadmea di Europa e a quella dell'alfabeto portato dallo stesso Cadmo in Beozia in periodo premiceneo. Divinità semitica che di quell'alfabeto, di provenienza siro-palestinese, era l'assoluta detentrice. Il santuario ctonio di Pito era stato dunque occupato, in qualche modo, da una divinità non greca la quale però, a sua volta, venne grecizzata, secondo quanto fa intendere il noto racconto erodoteo (Historiae, I,61-62) sulla cacciata dei Cadmei, ovvero dei semiti, da parte degli Argivi. Tuttavia la divinità inglobata nella sfera della cultura greca manteneva alcuni dei caratteri orientali della divinità, come ad esempio l'ineffabilità, la figura androgina, l'aspetto di dio cacciatore e inseguitore del lupo (da cui Apollo Liceo), le qualità di dio ambiguo od obliquo (Lossia) ma, per chi sapeva capirlo rettamente, salvatore e liberatore. Con la calata dei Dori (XII-XI secolo a.C.), una volta annientati i Micenei, il santuario, verosimilmente, subì l'umiliazione e la distruzione dei vincitori e solo verso il IX-VIII secolo a.C. fu riaperto e si risollevò, ma con un Lossia del tutto trasformato e in linea con la nuova religione. Il potentissimo dio androgino di origine semitica entrerebbe così a far parte della sacra famiglia olimpica, sdoppiandosi in Apollo e Artemide e diventando figlio di Zeus e di Leto. Sempre secondo questa teoria, supportata da accertati documenti, la famosa E apud Delphos (la lettera alfabetica epsilon posta tra le colonne nell'ingresso del santuario apollineo) di cui scrive Plutarco, la "E" che stava alla base dell'epifonema esprimente 'acuto dolore' (Esichio) dei fedeli, potrebbe fornire la prova che il nome di Apollo (mai sufficientemente compreso e spiegato dagli studiosi: Farnell, Kern, Hrozny, Nilsson, Cassola, ecc.) fosse derivato da un A/E -pollòn (il grido di dolore "ah!, eh!" esclamato più volte, così come testimoniano la letteratura greca tragica e paratragica).
Nell'età del bronzo greca non esistono attestazioni (almeno nelle tavolette di lineare B note) di Apollo. Ne esistono invece numerose per il dio Paean, un epiteto di Apollo in età classica, noto in Acheo come pa-ja-wo-ne (e collegato con numerosi santuari antichi di Apollo). Paean è il guaritore degli dei, e il dio della magia e del canto (da cui peana) magico-profetico. Come dio della cura Paean compare anche nell'Iliade, dove, significativamente, non è completamente sovrapposto con Apollo (che parteggia esclusivamente per i troiani).
Infatti esisteva un importante dio anatolico (forse connesso con l'antica religione indoeuropea, e simile al dio vedico Rudra o meglio alla coppia Rudra-Shiba), noto come Aplu (stranamente lo stesso nome dell'Apollo etrusco) che è un dio terribile, legato alla malattia, ma anche alla cura, e un potente arciere, forse anche un protettore della caccia e degli animali selvatici. Per gli Ittiti e gli Hurriti Aplu era il dio della peste e della fine della pestilenza (come nell'Iliade). Per gli Hurriti soprattutto andava collegato agli dei mesopotamici Nergal e Šamaš. Molti culti anatolici sono legati alla profezia e alle sacerdotesse (o anche ai sacerdoti) che cadono in trance mistica per profetizzare, proprio come le sacerdotesse di Apollo a Delfi. Apollo, come già ricordato, è uno degli dei che parteggiano per l'asiatica e anatolica città di Troia nell'Iliade, forse elemento che nasconde una reminiscenza micenea, ovvero un dio che durante la fine dell'età del bronzo non sarebbe ancora greco, ma decisamente anatolico, e sarebbe aggiunto agli olimpi solo in un momento successivo a quella guerra (si veda anche di seguito).
Sempre in età arcaica, con probabili connessioni al periodo miceneo, esistono dei riferimenti ad Apollo Smintheus, il dio "ratto" legato all'agricoltura (forse una divinità pre-indeuropea, assunta a epiteto del dio Apollo), e in particolare ad Apollo Delfino. Questo epiteto di Apollo, molto venerato a Creta e in alcune isole egee, potrebbe essere un dio marino minoico. Ma Apollo poteva trasformarsi in tutti gli animali, fra cui proprio nei delfini, sovente raffigurati nell'arte minoica. Delfino (Delphinios) è un'etimologia alternativa a grembo (Delphyne) per il principale santuario del dio a Delfi. Sempre nella, per ora pressoché sconosciuta, religione minoica esisteva una signora degli animali, collegabile ad Artemide-Diana, o anche a Britomarti/Diktynna (nome a sua volta presumibilmente di etimologia minoica), che presumibilmente avrebbe dovuto avere un doppio maschile. E se la divinità femminile è antesignana di Artemide, quella maschile è da porsi in riferimento ad Apollo. Inoltre i sacerdoti di Apollo a Delfi si definivano Labryaden, nome che a sua volta rimanda alla doppia ascia e al labirinto, simboli religiosi importanti per i Cretesi. Tutti questi riferimenti secondo questa meticolosa ma discutibile analisi portano a ipotizzare che nell'Apollo classico siano confluiti uno o più dei minoici o comunque pre-indeuropei della Grecia e almeno un dio anatolico.
Apollo è normalmente raffigurato coronato di alloro, pianta simbolo di vittoria, sotto la quale alcune leggende volevano che il dio fosse nato e anche in virtù dell'epilogo del suo infatuamento per Dafne (che in greco significa alloro). Suoi attributi tipici sono l'arco, con le sue portentose frecce, e la cetra. Altro suo emblema caratteristico è il tripode sacrificale, simbolo dei suoi poteri profetici. Animali sacri al dio sono i cigni (simbolo di bellezza), i lupi, le cicale (a simboleggiare la musica e il canto), e ancora i falchi, i corvi, i delfini, in cui spesso il dio amava trasformarsi e i serpenti, questi ultimi con riferimento ai suoi poteri oracolari. E ancora il gallo, come simbolo dell'amore omosessuale, diversi, infatti, gli uomini di cui il dio s'innamorò. Altro simbolo di Apollo è il grifone, animale mitologico di lontana origine orientale.
Come molti altri dei greci, Apollo ha numerosi epiteti, atti a riflettere i diversi ruoli, poteri e aspetti della personalità del dio stesso. Il titolo di gran lunga maggiormente attribuito ad Apollo (e spesso condiviso dalla sorella Artemide) era quello di Febo, letteralmente "splendente" o "lucente", riferito sia alla sua bellezza sia al suo legame con il sole (o con la luna nel caso di Artemide). Quest'appellativo venne mutuato e utilizzato anche dai Romani.
Apollo nacque, come sua sorella gemella Artemide, dall'unione extraconiugale di Zeus con Leto. Quando Era seppe di questa relazione, desiderosa di vendetta proibì alla partoriente di dare alla luce suo figlio su qualsiasi terra, fosse essa un continente o un'isola. Disperata, la donna vagò fino a giungere sull'isola di Delo, appena sorta dalle acque e, stando al mito, ancora galleggiante sulle onde e non ancorata al suolo. Essendo perciò Delo non ancora una vera isola, Leto poté darvi alla luce Apollo e Artemide, precisamente ai piedi del Monte Cinto.

MITI
- Altri miti riportano che la vendicativa Era, pur di impedirne la nascita, giunse a rapire Ilizia, dea del parto. Solo l'intervento degli altri dei, che offrirono alla regina dell'Olimpo una collana di ambra lunga nove metri, riuscì a convincere Era a desistere dal suo intento. I miti riportano che Artemide fu la prima dei gemelli a nascere, e che abbia in seguito aiutato la madre nel parto di Apollo. Questi nacque in una notte di plenilunio, che fu da allora il giorno del mese a lui consacrato, nel momento in cui nacque il dio, cigni sacri vennero a volare sopra l'isola, facendone sette volte il giro, poiché era il settimo giorno del mese.
- Ancora altri miti dicono che Era avesse mandato un serpente sulla Terra per seguire Leto tutta la vita impedendo così a chiunque di ospitarla e darle un rifugio. Leto vagò per molto tempo ma Poseidone, impietosito dalla sua situazione, lasciò che si rifugiasse in mare (dato che letteralmente non era terra) visto che lui, essendo il fratello di Zeus, poteva permettersi di sfidare Era.
- Poco più che bambino, Apollo si cimentò nell'impresa di uccidere il drago Pitone, colpevole di aver tentato di stuprare Leto mentre questa era incinta del dio. Partito da Delo, Apollo si diresse verso il monte Parnaso, dove si celava Pitone e lo ferì gravemente con le sue frecce forgiate da Efesto. Pitone si rifugiò presso l'oracolo della Madre Terra a Delfi, città così chiamata in onore del mostro Delfine, compagna di Pitone; ma Apollo osò inseguirlo anche nel tempio e lo finì dinanzi al sacro crepaccio. La Madre Terra, oltraggiata, ricorse a Zeus che non soltanto ordinò ad Apollo di farsi purificare a Tempe, ma istituì i giochi pitici in onore di Pitone, e costrinse Apollo a presiederli per penitenza. Apollo, invece di recarsi a Tempe, andò a Egialia in compagnia della sorella Artemide, per purificarsi; e poiché il luogo non gli piacque, salpò per Tarra a Creta, dove re Carmanore eseguì la cerimonia di purificazione. Al suo ritorno in Grecia, Apollo andò a cercare Pan, il dio arcade dalle gambe di capra e dalla dubbia reputazione, e dopo avergli strappato con blandizie i segreti dell'arte divinatoria, si impadronì dell'oracolo delfico e ne costrinse la sacerdotessa, detta pitonessa o la Pitia, a servirlo.
- Leto si era recata con Artemide a Delfi, dove si appartò in un sacro boschetto per adempiere a certi riti. Era, per vendicarsi di Leto suscitò un forte desiderio al gigante Tizio, che stava tentando di violentarla, quando Apollo e Artemide, udite le grida della madre, accorsero e uccisero Tizio con un nugolo di frecce: una vendetta che Zeus, padre di Tizio, giudicò atto di giustizia. Nel Tartaro Tizio fu condannato alla tortura con le braccia e le gambe solidamente fissate al suolo e due avvoltoi gli mangiavano il fegato.
- Altre azioni che gli sono state attribuite dai miti durante la giovinezza, non furono così nobili: il dio sfidò il satiro Marsia (o, secondo altre fonti, venne da questi sfidato) in una gara musicale di flauto; in seguito alla vittoria, per punire l'ardire del satiro, che si era impudentemente vantato di essere più bravo di lui, lo fece legare a un albero e scorticare vivo. Un altro mito racconta invece come si vendicò terribilmente di Niobe, regina di Tebe, la quale, eccessivamente fiera dei suoi quattordici figli (sette maschi e sette femmine), aveva deriso Leto per averne avuti solo due. Per salvare l'onore della madre, Apollo, insieme con sua sorella Artemide, utilizzò il suo terribile arco per uccidere la donna e i suoi figli, risparmiandone solo due, Amicla e Clori, i quali riuscirono a ottenere la pietà dei fratelli divini.
- Quando Zeus uccise Asclepio, figlio di Apollo, come punizione per aver osato resuscitare i morti con il suo talento medico, il dio per vendetta massacrò i ciclopi, che avevano forgiato i fulmini di Zeus. Stando alla tragedia di Euripide Alcesti, come punizione per questo suo gesto Apollo venne costretto dal padre degli dei a servire l'umano Admeto, re di Fere, per nove anni. Apollo lavorò dunque presso il re come pastore, e venne da costui trattato in modo tanto gentile che, allo scadere dei nove anni, gli concesse un dono: fece sì che le sue mucche partorissero solo vitelli gemelli. In seguito, il dio aiutò Admeto a ottenere la mano di Alcesti, che per volere del padre sarebbe potuta andare in sposa solo a chi fosse riuscito a mettere il giogo a due bestie feroci: Apollo gli regalò dunque un carro trainato da un leone e un cinghiale.
- Orfeo era un suonatore di cetra. Perse sua moglie Euridice, per cui tentò di salvarla dagli Inferi ma non ci riuscì. Sedusse Persefone con la sua musica e in cambio chiese di riportare in vita Euridice e lei acconsentì a un solo prezzo: non dovette guardare sua moglie finché non fossero stati all'uscita degli Inferi. Ma lui, quasi alla fine del corridoio che conduceva alla salvezza, si girò e lei morì per sempre. Disperato tentò il suicidio e distrusse la sua cetra. Così Apollo, lo prese con sé e lo portò sull'Olimpo.
- Un mito degli inni omerici racconta dell'incontro tra il giovane Ermes e Apollo. Il dio dei ladri, appena nato, sfuggì infatti alla custodia della madre Maia e incominciò a vagabondare per la Tessaglia, fino a imbattersi nel gregge di Admeto, custodito da Apollo. Ermes riuscì con uno stratagemma a rubare gli animali e, dopo essersi nascosto in una grotta, usò gli intestini di alcuni di essi per confezionarsi una lira; un'altra leggenda a questo proposito parla invece di un guscio di tartaruga. Quando Apollo, infuriato, riuscì a rintracciare Ermes e a pretendere, con l'appoggio di Zeus, la restituzione del bestiame, non poté fare a meno di innamorarsi dello strumento e del suo suono, e accettò infine di lasciare a Ermes il maltolto, in cambio della lira, che sarebbe diventata da allora uno dei suoi simboli sacri. Divenne quindi il dio della musica, mentre Ermes venne considerato anche come il dio del commercio. La lira poi passò a Orfeo; alla morte di questi, Apollo decise di tramutarla in cielo nell'omonima costellazione.
- Apollo ordinò a Oreste, tramite il suo oracolo di Delfi, di uccidere sua madre Clitennestra; per questo suo crimine Oreste venne a lungo perseguitato dalle Erinni.
- L'inizio dell'Iliade di Omero vede Apollo schierato a fianco dei Troiani, durante la guerra di Troia. Il dio era infatti infuriato con i Greci, e in particolare con il loro capo Agamennone, per il rapimento da questi perpetrato di Criseide, giovane figlia di Crise, sacerdote di Apollo. Per vendicare l'affronto, il dio decimò le schiere achee con le sue terribili frecce, fino a che il capo dei Greci non acconsentì a rilasciare la prigioniera, pretendendo in cambio Briseide, schiava di Achille. Questo fatto provocò l'ira dell'eroe Mirmidone, che è uno dei temi centrali del poema.
- Apollo continuò comunque a parteggiare per i Troiani durante la guerra: in un'occasione salvò la vita a Enea, ingaggiato in duello da Diomede. Da non dimenticare, infine, l'importantissimo aiuto che il dio offrì a Ettore e a Euforbo nel combattimento che li vedeva avversari del potente Patroclo, amante e allievo del valoroso Achille; il dio infatti, oltre ad aver stordito il giovane, che i Troiani avevano scambiato per il re mirmidone, vista l'armatura che indossava, lo privò di quest'ultima sciogliendola come neve al sole. Distrusse perfino la punta della lancia con cui Patroclo stava mietendo vittime tra le file troiane.
- Fu Apollo a guidare la freccia scoccata da Paride che colpì Achille al tallone, l'unico suo punto debole, uccidendolo.
- Un giorno, Cupido, stanco delle continue derisioni di Apollo, che vantava il titolo di dio più bello, di essere il dio della poesia nonché un arciere migliore di lui, colpì il dio con una delle sue frecce d'oro, facendolo cadere perdutamente innamorato della ninfa Daphne. Allo stesso tempo però, colpì anche la ninfa con una freccia di piombo arrugginita e spuntata in modo che rifiutasse l'amore di Apollo e addirittura rabbrividisse per l'orrore alla sua vista. Perseguitata dal dio innamorato, la ninfa, piangendo e gridando, chiese aiuto al padre Penéo, dio del fiume omonimo, che la tramutò in una pianta di alloro. Apollo pianse abbracciando il tronco di Daphne, che ormai era un albero. Per questo l'alloro divenne la pianta prediletta da Apollo con la quale era solito far ornare i suoi templi e anche i suoi capelli.
- Uno dei miti più conosciuti riferiti al dio è quello della sua triste storia d'amore con il principe spartano Giacinto, mito narrato, fra gli altri, da Ovidio nelle sue Metamorfosi. I due si amavano profondamente, quando un giorno, mentre si stavano allenando nel lancio del disco, il giovane venne colpito alla testa dall'attrezzo lanciato da Apollo, spintogli contro da Zefiro, geloso dell'amore fra i due. Ferito a morte, Giacinto non poté che accasciarsi tra le braccia del compagno che, impotente, lo trasformò nel rosso fiore che porta il suo nome, e con le sue lacrime tracciò sui suoi petali le lettere (ai), che in greco è un'esclamazione di dolore. Saputo che Tamiri, un pretendente "scartato" da Giacinto, reputava di superare le muse nelle loro arti, il dio andò dalle sue allieve per riferire tali parole. Le muse, allora, privarono Tamiri, reo di presunzione, della vista, della voce e della memoria.
- Per sedurre Cassandra, figlia del re di Troia Priamo, Apollo le promise il dono della profezia. Tuttavia, dopo aver accettato il patto, la donna si tirò indietro, rimangiandosi la parola data. Il dio allora, sputandole sulle labbra, le diede sì il dono di vedere il futuro, ma la condannò a non venir mai creduta per le sue previsioni. La previsione più tragica e inascoltata di Cassandra fu la caduta di Troia.
- Apollo amò anche una donna chiamata Marpessa, che era contesa fra il dio e l'umano chiamato Ida. Per dirimere la contesa tra i due intervenne addirittura Zeus che decise di lasciare la donna libera di decidere; questa scelse Ida, perché consapevole del fatto che Apollo, essendo immortale, si sarebbe stancato di lei quando l'avesse vista invecchiare.
- Secondo un altro mito, Apollo s'innamorò della ninfa Melissa. Fu un amore profondo e incondizionato, e il dio lasciò spazio soltanto alla fedele e totale devozione per la fanciulla piuttosto che adempiere i suoi doveri da divinità del Sole. Il carro del Sole venne quindi sempre meno guidato e trasportato, e il mondo cadeva sempre più nelle tenebre. Allora, per un decreto di entità superiori, Apollo venne punito e la ninfa venne trasformata in un'ape regina.
- Il figlio più noto di Apollo è certamente Asclepio, dio della medicina presso i Greci. Asclepio nacque dall'unione fra il dio e Coronide; quest'ultima però, mentre portava in grembo il bambino, si innamorò di Ischi e fuggì con lui. Quando un corvo andò a riferire l'accaduto ad Apollo, questi dapprima pensò a una menzogna, e fece diventare il corvo nero come la pece, da bianco che era. Scoperta poi la verità, il dio chiese a sua sorella Artemide di uccidere la donna. Apollo salvò comunque il bambino, e lo affidò al centauro Chirone, perché lo istruisse alle arti mediche. Come ricompensa per la sua lealtà, il corvo divenne animale sacro del dio e venne dotato da Apollo del potere di prevedere le morti imminenti. In seguito Flegias, padre di Coronide, per vendicare la figlia diede fuoco al tempio di Apollo a Delfi, e venne per questo ucciso dal dio e scaraventato nel Tartaro.

Eugenio Caruso - 22 - 11 - 2021

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