(Giovanni Boccaccio, Decameron, Proemio)
GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i grandi poeti che ci hanno donato momenti di grande felicitrà.
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William Shakespeare
Stratford-upon-Avon, 23 aprile 1564 – Stratford-upon-Avon, 23 aprile 1616
William Shakespeare nel ritratto eseguito da Martin Droeshout
William Shakespeare è considerato il più importante scrittore in inglese e generalmente ritenuto il più eminente drammaturgo della cultura occidentale. È considerato il poeta più rappresentativo del popolo inglese e soprannominato il "Bardo dell'Avon" (o semplicemente "Il Bardo") oppure il "Cigno dell'Avon"; delle sue opere sono stati ritrovati, incluse alcune collaborazioni, 37 testi teatrali, 154 sonetti e una serie di altri poemi. Le sue opere teatrali sono state tradotte in tutte le maggiori lingue del mondo e sono state inscenate più spesso di qualsiasi altra opera; inoltre è lo scrittore maggiormente citato nella storia della letteratura inglese e molte delle sue espressioni linguistiche sono entrate nell'inglese quotidiano. Nonostante la cronologia esatta delle sue opere sia ancora al centro di numerosi dibattiti, così come la paternità di alcune di esse, è possibile collocare con sufficiente certezza l'epoca di composizione della maggior parte dei suoi lavori nei circa venticinque anni compresi tra il 1588 e il 1613. Capace di eccellere sia nella tragedia sia nella commedia, fu in grado di coniugare il gusto popolare della sua epoca con una complessa caratterizzazione dei personaggi, una poetica raffinata e una notevole profondità filosofica. Benché fosse già popolare in vita, divenne immensamente famoso dopo la sua morte e i suoi lavori furono esaltati e celebrati da numerosi e importanti personaggi nei secoli seguenti. La scarsità di documenti pervenutici riguardanti la sua vita privata ha fatto sorgere numerose congetture riguardo al suo aspetto fisico, alla sua sessualità, al suo credo religioso e persino all'attribuzione delle sue opere. Ricordo ancora l'emozione che provai quando, trovandomi per lavoro nel Warwikshire, andai nella graziosissima città di Stratford-upon-Avon e visitai la casa di Shakerspeare.
La presunta casa natale di Shakespeare a Stratford.
Shakespeare visse a cavallo fra il XVI e il XVII secolo, un periodo in cui si stava realizzando il passaggio dalla società medievale al mondo moderno. Nel 1558 sul trono del regno era salita Elisabetta I d'Inghilterra, inaugurando un periodo di fioritura artistica e culturale che da lei prese il nome. Il padre di William, John, si trasferì, alla metà del Cinquecento, da Snitterfield a Stratford-upon-Avon, dove divenne guantaio e conciatore. John compare per la prima volta nelle documentazioni storiche nel 1552. Un documento ci informa che John Shakespeare aveva in affitto un'ala di quella che sarebbe poi diventata famosa come la casa natale del poeta, situata a Henley Street. Nel 1556 John accrebbe le sue proprietà, acquistando una proprietà fondiaria e l'altra ala della casa natale, che a quel tempo era una struttura separata. John prese in moglie Mary Arden, figlia del ricco agricoltore Robert Arden. Mary era la figlia minore, tuttavia era probabilmente la prediletta del padre visto che quando questi morì, verso la fine del 1556, le lasciò la sua tenuta e il raccolto della sua terra. Il matrimonio avvenne tra il novembre del 1556, mese in cui fu redatto il testamento di Robert Arden, e il settembre del 1558, mese in cui nacque la prima figlia. A partire dall'autunno del 1558, iniziò la carriera politica di John Shakespeare: prestò giuramento come uno dei quattro connestabili. Dal 1565 fu aldermanno, cioè un componente della giunta municipale di Stratford; nel 1568 ricoprì per un anno la carica più importante della città, quella di balivo. Raggiunto il massimo riconoscimento cittadino, decise di rivolgersi al Collegio degli araldisti per ricevere uno stemma, ma non riuscì a ottenerlo. Tra il 1570 e il 1590, John Shakespeare, oppresso dai debiti, ebbe problemi di natura finanziaria, che portarono alla fine della sua carriera pubblica e alla vendita di alcuni possedimenti.
Sebbene non ci siano giunti i registri scolastici di quel periodo, per alcuni biografi Shakespeare frequentò la King's New School, istituto gratuito per i maschi della cittadina, dedicato a Edoardo VI e fondato dalla Gilda della Santa Croce; lì avrebbe avuto modo di apprendere il latino e i classici della letteratura. Le lezioni erano impartite sei giorni alla settimana, cominciavano alle sei o alle sette di mattina e continuavano fino alle undici; dopo la sosta per il pranzo riprendevano all'una per poi concludersi alle sei di sera. Non risulta nessuna sua eventuale formazione universitaria. È probabile che William abbia lavorato come apprendista nel negozio del padre; è stato messo in rilievo come Shakespeare abbia fatto riferimento a svariati tipi di pelle e ad altre conoscenze tipiche dei conciatori. Il 27 novembre 1582, a diciotto anni, William sposò, a Stratford, Anne Hathaway, di otto anni più grande. Considerata la data di nascita della prima figlia, il matrimonio, testimoniato da Fulk Sandalls e John Richardson, fu forse affrettato dalla gravidanza della sposa. Il 26 maggio 1583 la prima figlia di Shakespeare, Susannah, fu battezzata a Stratford. Due anni dopo, il 2 febbraio 1585, furono battezzati due gemelli: un maschio, Hamnet, e una femmina, Judith. Gli Shakespeare chiamarono i figli come i loro vicini e inseparabili amici, Hamnet e Judith Sadler. Quando nel 1598 Judith e Hamnet Sadler ebbero un figlio, lo chiamarono William. Hamnet era una variante morfologica, consueta a quel tempo, di Hamlet, ed è stato supposto che per il nome del bambino si sia ispirato a quello del protagonista dell'opera omonima, benché il nome Hamnet o Hamlet fosse a quei tempi piuttosto comune. La figlia di Susannah e di John Hall, Elizabeth, sarà l'ultima discendente della famiglia.
Tra il battesimo dei due gemelli e la sua comparsa sulla scena letteraria inglese, non vi sono documenti relativi alla vita di Shakespeare; per questo motivo, il periodo che va dal 1585 al 1592 è definito dagli studiosi come "lost years" (anni perduti). Il tentativo di spiegare questo periodo ha dato vita a numerose supposizioni e fantasie; spesso nessuna prova suffraga queste storie se non le dicerie raccolte dopo la morte del drammaturgo. Nicholas Rowe, il primo biografo di Shakespeare, riporta una leggenda di Stratford secondo la quale Shakespeare abbandonò la città, rifugiandosi a Londra, per sfuggire a un processo causato dalla caccia di frodo di un cervo di Thomas Lucy, un signorotto locale.
Diversi documenti del 1592, improvvisamente, ci informano del successo di Shakespeare in ambito teatrale: sappiamo che sue opere sono già state rappresentate dalle compagnie dei conti di Derby, di Pembroke e del Sussex; si ha notizia, inoltre, della rappresentazione del 3 marzo 1592 della prima parte dell'Enrico VI. La fama delle opere di Shakespeare era probabilmente in ascesa, tanto da attirarsi le gelosie dei colleghi più anziani: proprio in quest'anno Robert Greene dedicò la celebre invettiva che sembrerebbe rivolta a Shakespeare:
«Un corvo parvenu, abbellito dalle nostre piume, che con la sua Arte di tigre nascosta da un corpo d'attore ritiene d'essere capace quanto il migliore di voi di tuonare in pentametri giambici; ed essendo un Giovanni Factotum, è secondo il suo proprio giudizio l'unico 'Scuoti-scene' del paese.» (Greene, nel Groatsworth of Wit, un opuscolo pubblicato il 3 settembre 1592)
Greene era uno scrittore dalla personalità focosa che entrò in contrasto col letterato John Florio e che nel Groatsworth criticò anche Marlowe e Nashe. Henry Chettle, il tipografo che aveva preparato per le stampe il manoscritto del Groatsworth, sentì il bisogno, mesi dopo, di prendere le distanze da Greene nella prefazione alla sua opera Kind-Heart's Dream (Sogno di cuor gentile); nel passo in questione, sul quale gli studiosi hanno spesso speculato dal momento che tramanda il carattere di Shakespeare, Chettle si dispiace di non averlo risparmiato, apprezzando la "rettitudine della sua condotta, che attesta della sua onestà, e della sua grazia arguta nello scrivere, che depone bene sulla sua arte".
Negli anni 1593-94, a causa di un'epidemia di peste, i teatri inglesi rimasero chiusi (ogni epoca ha sofferto la propria pandemia) ; Shakespeare, in questo periodo, pubblicò due poemetti, Venere e Adone e Il ratto di Lucrezia. Il primo, stampato nel 1593, è dedicato a Henry Wriothesley, III conte di Southampton, all'epoca diciannovenne. Sono state fatte molte speculazioni intorno alla relazione tra Shakespeare e Southampton - alcuni critici lo identificano come il misterioso "W.H." destinatario dei sonetti. Il volume ebbe molto successo ed ebbe numerose ristampe. Il successo dell'opera è testimoniato anche da un'opera teatrale, stampata nel 1606 ma di qualche anno precedente, The Return from Parnassus, rappresentata all'inizio del XVII secolo dagli studenti del St John's College di Cambridge. The Return from Parnassus è la seconda di un ciclo di tre opere teatrali; al suo interno, un personaggio dice: «Che il mondo ignorante stimi pure Spenser e Chaucer. Io venererò il dolce signor Shakespeare, e in suo onore metterò Venere e Adone sotto il mio cuscino». (The Return from Parnassus, 1606)
Tuttavia questa citazione manifesta solo la popolarità che il Venere e Adone aveva raggiunto in quegli anni; infatti, sebbene alcuni critici abbiano interpretato questa frase come un apprezzamento dell'ambiente universitario nei confronti di Shakespeare, altri hanno sottolineato che il personaggio che fa questo elogio è uno stupido. A supporto dell'ipotesi che Shakespeare non fosse visto di buon occhio dall'ambiente universitario, è possibile citare la terza e ultima parte del ciclo "Parnassus" degli studenti del St John's College, The Second Part of the Return from Parnassus; in questa, un personaggio che impersona William Kempe, parlando con un personaggio che impersona un altro membro della compagnia in cui si trovava Shakespeare, critica in maniera grossolana i drammaturghi con educazione universitaria e afferma che "il nostro compagno Shakespeare li ha tutti umiliati". Analizzando la storia e la vita di grandi personaggi non posso negare che questi furono, spesso, oggetto di diffamazioni e insulti dovuti all'invidia.
Nel 1594, Shakespeare dà alle stampe il suo secondo poemetto Il ratto di Lucrezia, anch'esso dedicato al conte di Southampton. Leggendo la dedica, la maggioranza degli studiosi sono d'accordo sull'accresciuta familiarità tra il poeta e il conte; tuttavia, la relazione tra i due resta di difficile interpretazione, dato che, escluse queste due dediche, Southampton non compare in nessun altro documento riguardante Shakespeare.
Nell'autunno 1594 la peste terminò , e ciò permise la riapertura dei teatri; Shakespeare si unì alla compagnia teatrale chiamata The Lord Chamberlain's Men ("servi del Lord Ciambellano"), della quale facevano parte anche Richard Burbage e William Kempe. La prima notizia dell'esistenza della compagnia si ebbe nel giugno 1594, attraverso un documento del libro dei conti del tesoriere privato della regina, che riportava la notizia di una rappresentazione della compagnia presso il palazzo reale di Greenwich, il giorno di S. Stefano (26 dicembre) e il giorno degli Innocenti (28 dicembre), di fronte a Elisabetta I.
Nel 1596 morì l'unico figlio maschio, Hamnet, che fu sepolto a Stratford l'11 agosto. Nello stesso anno, John Shakespeare, grazie al successo avuto dal figlio, riuscì a ottenere il diritto di fregiarsi di uno stemma e del titolo di gentleman per sé e per i suoi discendenti, nonostante il suo prestigio e la sua fortuna fossero notevolmente ridotti rispetto ad alcuni anni prima; il motto scelto è Non sanz droict, "Non senza diritto".
Nel 1597 Shakespeare comprò da William Underhill per sessanta sterline una residenza a Stratford, New Place, composta da "due granai, due giardini, due frutteti, con annessi". La casa, la più grande di Stratford a quei tempi, era stata infatti costruita da un eminente cittadino della generazione precedente, Sir Hugh Clopton. L'acquisto testimonia i notevoli guadagni ottenuti da Shakespeare con l'attività teatrale.
Nell 1598 Shakespeare si trasferì nella diocesi di St. Helen's Bishopsgate. Nello stesso anno, Francis Meres pubblicò il Palladis Tamia, nel quale parlava di "Un Ovidio risorto nel mellifluo Shakespeare", e aggiungeva che tra i drammaturghi inglesi era il migliore sia nella tragedia sia nella commedia, citando molti suoi titoli. Sempre nel 1598 il Bardo partecipò come attore alla rappresentazione di Every Man in his Humour di Ben Jonson, nella parte di Kno'well, un vecchio gentiluomo; nell'in-folio delle opere di Jonson del 1616, Shakespeare compariva infatti in cima alla lista degli attori.
Shakespeare divenne poi azionista dei The Lord Chamberlain's Men, acquisendo circa il 10% della compagnia la quale, soprattutto grazie a lui, era talmente popolare da far sì che, dopo la morte di Elisabetta I e l'incoronazione di Giacomo I (1603), il nuovo monarca la adottasse, e si fregiò così del titolo di King's Men ("Gli uomini del re"); in questa compagnia Shakespeare ricoprì anche il ruolo di amministratore, oltre a quelli di drammaturgo e attore. Vari documenti che registrano affari legali e transazioni economiche mostrano come la ricchezza di Shakespeare si fosse accresciuta molto nei suoi anni londinesi. Il 5 giugno 1607 sua figlia Susannah sposò il medico John Hall nella chiesa della Holy Trinity di Stratford.
Intorno al 1611 si ritirò nella sua città natale, Stratford. L'11 settembre "Mr. Shakespeare" figura sulla lista dei contribuenti che devono pagare l'imposta per la manutenzione delle strade reali. In quello stesso anno firmò una petizione dei cittadini di Stratford che chiedeva alla Camera dei comuni di riparare le strade maestre. Il 3 febbraio 1612 fu sepolto Gilbert, un fratello di Shakespeare. A maggio Shakespeare fu convocato a Londra per testimoniare nella causa "Mountjoy-Bellott", che opponeva due fabbricanti di parrucche londinesi, Christopher Mountjoy e il genero Stephen Bellott. Gli atti del processo sono giunti fino a noi: al termine di quelli che contengono la deposizione di Shakespeare è presente la sua firma.
Agli inizi del 1613 morì l'ultimo fratello di Shakespeare, Richard: degli otto figli di John Shakespeare rimanevano solo William e la sorella Joan. Nel mese di marzo Shakespeare acquistò una casa a Londra per 140 sterline (di cui 80 in contanti); era l'ex portineria dell'abbazia dei Frati Neri (Blackfriars), non lontano dall'omonimo teatro. A partire dal 1613 Shakespeare non produsse più alcunché. Nel novembre 1614 trascorse diverse settimane a Londra insieme al genero John Hall.
Il 10 febbraio 1616 sua figlia Judith sposò Thomas Quiney: quest'ultimo poco prima di sposarsi aveva messo incinta una ragazza di Stratford. Il 25 marzo seguente Shakespeare fece testamento: la maggior parte dei suoi beni andò alla figlia Susanna e al marito; all'altra figlia, Judith, lasciò alcune somme in denaro con clausole cautelative, mentre alla moglie lasciò "l'usufrutto della seconda camera da letto" nella casa a New Place; lasciò poi vari oggetti e piccole somme per l'acquisto di anelli ad alcuni conoscenti di Stratford e agli attori Richard Burbage, John Heminges e Henry Condell.
William Shakespeare morì il giorno del suo 52º compleanno, il 23 aprile 1616; era rimasto sposato ad Anne fino alla fine. John Ward, un vicario di Stratford, mezzo secolo dopo raccontò che Shakespeare, dopo aver passato una serata in campagna con Michael Drayton e Ben Jonson, in cui bevve molto alcol, morì di una febbre contratta in quell'occasione. È possibile che questa sia una delle numerose leggende relative alla sua vita.
Fu sepolto nel coro della Holy Trinity Church, la chiesa parrocchiale di Stratford; questo privilegio non fu dovuto alla sua fama come scrittore ma al pagamento di una quota della decima della chiesa, 440 sterline. Su un muro nei pressi della sua tomba si trova un monumento, commissionato probabilmente dalla sua famiglia; è un busto che mostra Shakespeare nell'atto di scrivere. L'epitaffio sulla sua tomba recita:
«Caro amico, per l'amor di Gesù astieniti,
dallo smuovere la polvere qui contenuta.
Benedetto sia colui che ha cura di queste pietre,
E maledetto sia colui che disturba le mie ossa»
(Epitaffio sulla tomba di W.Shakespeare)
Opere
L'opera poetica e drammaturgica di Shakespeare costituisce una parte fondamentale della letteratura occidentale ed è continuamente studiata e rappresentata in ogni parte del globo. La cronologia delle sue opere è incerta e rappresenta un argomento ancora dibattuto dagli studiosi. Nel First Folio del 1623, redatto da John Heminges e Henry Condell, sono comprese le 36 opere teatrali di Shakespeare, elencate in base alla loro classificazione come tragedie, commedie e drammi storici.
Nessun'opera poetica di Shakespeare è stata inclusa nel First Folio. Alla fine del XIX secolo, Edward Dowden ha definito quattro delle ultime commedie shakespeariane, Pericle, principe di Tiro, La tempesta, I due nobili congiunti e Il racconto d'inverno, come romances e, anche se molti studiosi preferiscono chiamarle "tragicommedie", questo termine è spesso usato.
Nel 1896 Frederick S. Boas coniò il termine problem play, "drammi dialettici", per descrivere quattro scritti di Shakespeare, Tutto è bene quel che finisce bene, Misura per misura, Troilo e Cressida e Amleto; il termine, nonostante sia dibattuto, rimane in uso, anche se Amleto viene definitivamente classificato come una tragedia. Altre opere, attribuite talvolta al drammaturgo di Stratford, sono elencate come apocrife. Due sono le opere andate perdute, Cardenio e Pene d'amore vinte.
Opere teatrali
Inizialmente, come era tradizione in età elisabettiana, Shakespeare collaborò con altri drammaturghi alla stesura delle sue prime opere; tra queste vi sono Tito Andronico, della quale un drammaturgo di fine Seicento disse "egli si è limitato soltanto a perfezionare con il suo magistrale tocco uno o due dei personaggi principali". I due nobili congiunti, scritta in collaborazione con John Fletcher, e Cardenio, andata perduta, hanno una documentazione sull'attribuzione a Shakespeare precisa.
Le prime opere di Shakespeare furono incentrate su Enrico VI; Enrico VI, parte I, composto tra il 1588 e il 1592, potrebbe essere la prima opera di Shakespeare, sicuramente messa in scena, se non commissionata, da Philip Henslowe. Al successo della prima parte fanno seguito Enrico VI, parte II, Enrico VI, parte III e Riccardo III, costituendo a posteriori una tetralogia sulla guerra delle due rose e sui fatti immediatamente successivi; queste furono in diversa misura composte a più mani attingendo copiosamente dalle Cronache di Raphael Holinshed, ma sempre più segnate dallo stile caratteristico del drammaturgo, descrivendo i contrasti tra le dinastie York e Lancaster, conclusisi con l'avvento della dinastia Tudor da cui discendeva l'allora regnante Elisabetta I. Nel suo insieme, prima ancora che celebrazione della monarchia e dei meriti del suo casato, la tetralogia appare come un appello alla concordia civile.
Molte opere risalenti al primo periodo della carriera di Shakespeare furono influenzate dalle opere di altri drammaturghi elisabettiani, in particolare Thomas Kyd e Christopher Marlowe, dalle tradizioni del dramma medievale e dalle opere di Seneca. Di datazione controversa, ma collocabili prima delle opere della maturità, sono un piccolo gruppo di commedie, in cui è forte l'influenza dell'eufuismo, dei testi dei letterati rinascimentali e delle ambientazioni italiane. Di questo periodo fanno parte I due gentiluomini di Verona, La commedia degli errori, in cui vi sono elementi riconducibili ai modelli classici e La bisbetica domata, che secondo alcuni deriverebbe da un racconto popolare, ma che troviamo nelle novelle di Giambattista Cinzio che ispirò anche Otello e Misura per misura.
Dal 1594 la peste e l'inasprirsi della censura provocarono la scomparsa di molte compagnie, mentre nacquero nuove realtà teatrali, come The Lord Chamberlain's Men, di cui fece parte come autore e attore. L'abilità del drammaturgo di identificare i temi più richiesti e il suo talento nella riscrittura dei copioni perché non incappassero nei tagli del Master of the Revels, gli assicurarono in questo periodo una rapida ascesa al successo. Le prime commedie shakespeariane, influenzate dallo stile classico e italiano, con strette trame matrimoniali e precise sequenze comiche, dal 1594 cedono il passo all'atmosfera romantica, con toni a volte più scuri e propri di una tragicommedia.
In tutte le opere di questa fase è presente il wit, gioco letterario basato sulle sottigliezze lessicali. Shakespeare riesce a rendere strumenti espressivi i giochi di parole, gli ossimori, le figure retoriche, che non sono mai fini a sé stessi, ma inseriti a creare voluti contrasti tra l'eleganza della convenzione letteraria e i sentimenti autentici dei personaggi. Questo periodo caratterizzato quindi da commedie romantiche ha inizio tuttavia con una tragedia, Romeo e Giulietta, una delle opere più note di Shakespeare, proseguendo poi con Sogno di una notte di mezza estate, che contiene diversi elementi inediti nelle opere del bardo come la magia e le fate, e Il mercante di Venezia. Completano le opere di questa fase degli scritti shakespeariani l'ingegno e i giochi di parole di Molto rumore per nulla, la suggestiva cornice rurale di Come vi piace, la vivace allegria de La dodicesima notte e Le allegre comari di Windsor.
Incisione da una scena de La bisbetica domata, atto IV, scena III
Negli stessi anni nacque la seconda serie di drammi storici inglesi; dopo la lirica Riccardo II, scritta quasi interamente in versi, Shakespeare presentò, alla fine del XVI secolo, alcune commedie in prosa, come Enrico IV, parte I e II ed Enrico V. L'ultimo scritto di questo periodo fu Giulio Cesare, basato sulla traduzione di Thomas North delle Vite parallele di Plutarco. La produzione di opere storiche riguardanti le origini della dinastia regnante andò di pari passo con il successo suscitato da tale genere. Edoardo III, attribuibile a Shakespeare solo in parte, offre un esempio positivo di monarchia, contrapposto a quello del Riccardo III. Re Giovanni, abile riscrittura shakespeariana di un copione pubblicato nel 1591, narra di un monarca instabile e tormentato e dei discutibili personaggi che lo circondano. In queste opere i suoi personaggi divennero più complessi e teneri, mentre si passa abilmente tra scene comiche e serie, tra prosa e poesia, raggiungendo una notevole varietà narrativa. Fu determinante per il successo dei drammi l'introduzione di personaggi fittizi a cui il pubblico si affezionò, come Falstaff.
Nei primi anni del XVII secolo, Shakespeare scrisse quelle che verranno definite da Frederick S. Boas problem play, i "drammi dialettici" che segnano un nuovo modo di intendere la rappresentazione, in cui i personaggi esprimono compiutamente le contraddizioni umane, dando voce alle problematiche di un'epoca che si è ormai distaccata completamente dagli schemi medioevali; di queste fanno parte Tutto è bene quel che finisce bene, Misura per misura, Troilo e Cressida e alcune tra le sue tragedie più note, come Amleto; l'eroe di quest'ultima è probabilmente il personaggio shakespeariano più conosciuto, discusso e studiato, soprattutto per il suo famoso monologo "To be, or not to be". Shakespeare inoltre ha probabilmente scritto parte della scena VI di Sir Tommaso Moro, frutto della mano di almeno cinque diversi autori, mai rappresentato e stampato soltanto nel 1814.
Il 1603 segna una svolta storica per il teatro inglese; salito al trono, Giacomo I promuove un nuovo impulso delle arti sceniche, avocando a sé la migliore compagnia dell'epoca, i Chamberlain's Men, che da quel momento si chiameranno King's Men. A Giacomo I, Shakespeare dedicò alcune delle sue opere maggiori, scritte per l'ascesa al trono del sovrano scozzese, come Otello, Re Lear e Macbeth, la più breve e più complessa delle tragedie di Shakespeare. A differenza dell'introverso Amleto, il cui errore fatale è l'esitazione, gli eroi di queste tragedie come Otello e Re Lear furono sconfitti da affrettati errori di giudizio; le trame di queste opere fanno spesso perno su questi errori fatali, che sovvertono l'ordine e distruggono l'eroe e i suoi cari. Le tre ultime tragedie, che risentono della lezione di Amleto, sono drammi che restano aperti, senza ristabilire un ordine ma generando piuttosto ulteriori interrogativi. Ciò che conta non è l'esito finale, ma l'esperienza. Ciò a cui si dà maggiore importanza è l'esperienza catartica dell'azione scenica, piuttosto che la sua conclusione.
Hamlet et Horatio au cimetière, Eugène Delacroix
Le sue ultime grandi tragedie contengono alcune delle più note poesie di Shakespeare e sono state considerate le migliori da Thomas Stearns Eliot. I drammi di argomento classico sono l'occasione per affrontare il tema politico, calato nella dimensione della storia antica ricca di corrispondenze con la realtà britannica. In Antonio e Cleopatra l'utilizzo di una scrittura poetica sottolinea la grandiosità del tema, le vicissitudini storiche e politiche dell'impero romano. Coriolano è invece occasione per affrontare il tema del crollo dei potenti, l'indagine sui vizi e sulle virtù, dando voce a un'intera comunità come in una sorta di coro. Timone d'Atene, probabilmente scritto in collaborazione con Thomas Middleton, contiene allo stesso tempo la coscienza dei rischi di un individualismo moderno e la denuncia della corruzione e del potere dell'oro.
Negli ultimi anni della produzione shakespeariana, il mondo del teatro londinese subisce un cambiamento sensibile; il pubblico aristocratico e della nuova borghesia agiata non frequenta più i grandi anfiteatri, ma teatri più raccolti come il Blackfriars. Le richieste di tale pubblico andavano più nella direzione dell'intrattenimento che non del coinvolgimento nella rappresentazione; alcuni commentatori hanno visto questo cambiamento di umore come prova di una più serena visione della vita da parte di Shakespeare. Il Bardo, sempre attento ai cambiamenti del gusto e della sensibilità dei suoi spettatori, produce dei nuovi drammi, i cosiddetti romances, "drammi romanzeschi", tornando in parte agli scritti romantici e alle tragicommedie; nascono dunque Pericle, principe di Tiro, Cimbelino, Il racconto d'inverno, La tempesta e I due nobili cugini. A differenza delle tragedie degli anni precedenti, queste spesso terminano con la riconciliazione e il perdono di errori potenzialmente tragici. In Enrico VIII, l'ultimo grande rifacimento di un dramma storico già in cartellone per le compagnie rivali, Shakespeare, aiutato probabilmente da Fletcher, arricchiva e perfezionava la vicenda, riprendendo i temi della produzione precedente, dalla cronaca storica e nazionale al dramma morale, riprendendo lo stile dell'età elisabettiana nel momento in cui quell'epoca era giunta al termine. Shakespeare abolisce le tre unità aristoteliche dalle proprie opere teatrali.
Elenco delle opere teatrali di Shakespeare
LE TRAGEDIE
Tito Andronico (1589-1593) VEDI SOTTO
Romeo e Giulietta (1594-1596) VEDI SOTTO
Giulio Cesare (1599) VEDI SOTTO
Amleto (1600-1602) VEDI SOTTO
Troilo e Cressida (1601) VEDI SOTTO
Otello (1604) VEDI SOTTO
Re Lear (1605-1606) VEDI SOTTO
Macbeth (1605-1608) VEDI SOTTO
Timone di Atene (1605-1608) VEDI SOTTO
Antonio e Cleopatra (1607) VEDI SOTTO
Coriolano (1607-1608) VEDI SOTTO
LE COMMEDIE
I due gentiluomini di Verona (1590-1595)
I due gentiluomini del titolo sono Valentino e Proteo. Valentino lascia Verona per recarsi a Milano (il contesto spesso non è chiaro), dove scopre ben presto di essersi innamorato di Silvia, una dama aristocratica che non è per nulla contraria ai suoi favori. Proteo più tardi visita Valentino, lasciando la sua fidanzata, Giulia, a Verona, e anche lui si innamora di Silvia. Il classico triangolo amoroso si complica quando Giulia, travestita da uomo, giunge inaspettatamente. La commedia si conclude con un teso confronto in una foresta, dove Proteo cerca di abusare di Silvia. Valentino la salva, ma poi la 'concede' a Proteo in nome della loro amicizia. Proteo rifiuta e torna da Giulia, da cui il lieto fine, almeno in apparenza. Nella trama comica secondaria, anche il servo trova l'amore, in una ragazza di umili origini della quale, come espone in un comico panegirico, "i difetti superano di numero i capelli".
La commedia degli errori. PDF Integrale
I due gentiluomini di Verona
La bisbetica domata (1593)
Battista Minola, un gentiluomo di Padova, che ha due figlie: la più grande, Caterina, conosciuta per la scontrosità, e la più giovane, Bianca, al contrario nota per la sua gentilezza e obbedienza. Bianca ha due corteggiatori, Gremio ed Ortensio, mentre Caterina non ne ha alcuno proprio a causa del suo carattere tremendo. Quindi Battista decide di allontanare Bianca dalla società finché Caterina non sarà sposata. Intanto Lucenzio, un giovane pisano, vede Bianca e si innamora perdutamente di lei, mentre Gremio ed Ortensio uniscono le loro forze per trovare un marito a Caterina. Quando Petruccio, un amico di Ortensio, arriva a Padova in cerca di moglie, essi gli parlano del brutto carattere di Caterina, ma anche del suo denaro: Petruccio decide all'istante di volerla sposare. Nel frattempo Lucenzio si è scambiato d'abito con il suo servo Tranio per diventare il tutore in letteratura di Bianca. Nello stesso modo Ortensio si traveste da tutore di musica e promette a Petruccio di introdurlo in casa di Battista. I fatti successivi aiutano Petruccio nel suo disegno ed il matrimonio viene fissato. Il giorno del matrimonio, Petruccio arriva dalla cerimonia vestito molto squallidamente e rifiuta di restare al banchetto, costringendo Caterina a seguirlo. Nel frattempo la corte di Lucenzio verso Bianca procede bene. Giunta a casa di Petruccio, Caterina è costretta dal marito a una serie di privazioni, di umiliazioni e a un lungo processo manipolatorio che gradualmente schiacciano il suo ostinato carattere e la rendono sempre più accondiscendente, annullandola. Bianca sposa il suo Lucenzio ed Ortensio una ricca vedova. Dopo la discussione viene proposta alle tre mogli una professione di obbedienza: Bianca e la vedova rifiutano, mentre Caterina, ormai impotente, obbedisce e fa alle altre due l'elenco dei loro doveri.PDF Integrale
Petruccio e Caterina
Pene d'amore perdute (1593-1596)
Quando il re di Navarra e i suoi sodali Birón, Longueville e Dumain, giurano di votarsi a tre anni di dedizione assoluta allo studio che prevedono l’esclusione di tutti i piaceri materiali e soprattutto la frequentazione dell’altro sesso, un doppio scacco li aspetta dietro l’angolo. Non solo si scopriranno in poche ore spergiuri, quando una delegazione composta dalla Principessa di Francia e da tre belle e soprattutto brillanti dame li faranno cadere innamorati all’istante; ma grazie a queste quattro “maestre d’amore” e a un inattesa epifania del lato più doloroso della vita, comprenderanno anche la natura adolescenziale della propria visione dell’amore e dell’esistenza, e la vacuità del loro culto fanatico del linguaggio concettoso come mezzo di conquista erotica e di dominio della realtà. Nella veloce quanto incisiva educazione sentimental-esistenziale cui vengono sottoposti, il Principe, Birón, Longueville, Dumain, e con loro forse Shakespeare stesso – che in questa commedia tocca il vertice del proprio virtuosismo stilistico ma quasi con malinconia ne scopre anche il limite – non possono fare a meno di constatare una verità che secoli dopo Harold Pinter sintetizzerà così: “il linguaggio è un costante stratagemma per coprire la nudità”. E attraverso questa consapevolezza accederanno, forse, ad una saggezza diversa, ad una visione della vita e dell’amore che non cerca più di espungere il dolore a colpi di wit “eufuistico”, ma lo ingloba in una concezione più matura della condizione umana; una concezione fondata sulla consapevolezza della nostra fallibilità e finitudine; ed entro la quale la donna non è un territorio di conquista ma può diventare autenticamente (e letteralmente) con-sorte nell’affrontare anche le asperità e i lati meno luminosi della vita. Con Pene d’amor perdute Shakespeare ha creato un teorema perfetto, sfrenatamente buffo ma anche screziato di una strana inquietudine, sui limiti dell’amore cosiddetto cortese (con tutto il suo apparato, in realtà, di metafore violentemente belliche per descrivere, appunto, la “conquista” della donna) e insieme di una idea della ricerca della verità come atto puramente intellettualistico di presa di possesso del reale (“penar su un libro in cerca d’una luce di verità? Vana ricerca invero!” afferma da subito Biròn). Due facce, a pensarci bene, della stessa attitudine predatoria verso il mondo e la donna, da cui noi uomini siamo troppo facilmente tentati. PDF Integrale
Ferdinando Re di Navarra
Il mercante di Venezia (1594-1597)
Venezia, XVI secolo. Bassanio, giovane gentiluomo veneziano, vorrebbe la mano di Porzia, ricca ereditiera di Belmonte. Per corteggiare degnamente Porzia, Bassanio chiede al suo carissimo amico Antonio 3.000 ducati in prestito. Antonio, pur essendo amico di Bassanio, non può prestargli il denaro, poiché lo ha interamente investito nei traffici marittimi. Tuttavia Antonio decide di garantire per lui presso Shylock, ricco usuraio ebreo. Shylock è disprezzato dai cristiani, e ricambia questo sentimento. Soprattutto non sopporta Antonio, il mercante di Venezia, che presta denaro gratuitamente, facendo abbassare il tasso d'interesse nella città, e che lo umilia pubblicamente con pesanti insulti.
Nonostante ciò, Shylock accorda il prestito a Bassanio, con Antonio come garante. L'ebreo stabilisce che in caso di mancato pagamento, Antonio debba pagare con una libbra di carne dal proprio corpo. Bassanio cerca di far desistere Antonio dall'accettare l'offerta, ma costui è sicuro di poter saldare il debito, dato che tre navi sono in viaggio per riportare a Venezia ricchezze tre volte più grandi di quanto abbia investito. Il tempo concesso per il saldo del prestito è di tre mesi, e le navi ne impiegheranno solo due. Bassanio si reca a Belmonte; secondo la volontà del defunto padre di Porzia, i suoi pretendenti sposi dovranno scegliere lo scrigno giusto tra tre differenti possibilità (oro, argento, piombo). Il principe del Marocco sceglie lo scrigno d'oro (che non è quello giusto), e il principe d'Aragona sceglie lo scrigno d'argento (e nemmeno questo è quello giusto), mentre Bassanio sceglie lo scrigno di piombo, il meno pregiato dei tre, e ottiene il diritto di sposare Porzia, già precedentemente innamorata di lui. L'amico di Bassanio, Graziano, sposa l'ancella di Porzia, Nerissa.
Intanto la sfortuna (nelle vesti della società veneziana!) si accanisce su Shylock: sua figlia Jessica, infatti, consenziente, viene rapita dal cristiano Lorenzo, amico di Antonio e Bassanio, con l'aiuto di Graziano e Salerio. La ragazza è fuggita portando con sé 2.000 ducati e soprattutto gioielli fra i quali l'anello donato a Shylock dalla defunta moglie. L'unica consolazione di Shylock deriva dalla pari sfortuna di Antonio: infatti le sue tre navi sono disperse in mare, per cui egli non potrà più saldare il debito. Nel frattempo Porzia e Nerissa donano ai rispettivi mariti, Bassanio e Graziano, un anello, segno del loro amore. Stringono una promessa, che non dovranno mai separarsene finché l'amore li legherà alle loro consorti.
Shylock decide di portare Antonio di fronte al Doge e alla corte, chiedendo di far valere i suoi diritti. Porzia, che viene a sapere del processo in arrivo, si traveste da avvocato, all'insaputa di tutti, per salvare Antonio. Nerissa la segue vestendosi da scrivano.
Giunta in tribunale, Porzia, travestita, esibisce la lettera del Dottor Bellario, giurista e consulente del Doge, in cui si spiega che al processo sarebbe stato presente il suo sostituto, il giovane avvocato Baldassarre (cioè lei stessa). Al processo assistono anche Bassanio e Graziano.
Porzia/Baldassarre invita Shylock ad accettare i 6000 ducati offerti da Bassanio, ormai ricco per avere sposato Porzia, al fine di estinguere il debito dell'amico. L'odio di Shylock verso i cristiani, fomentato dall'abbandono della figlia, gli impedisce di accettare. Al contrario, chiede a gran voce che gli sia pagato il debito con la libbra di carne di Antonio, come da accordo. Nonostante la crudeltà della proposta, il Doge, dice Baldassarre, deve necessariamente applicare la legge e permettere a Shylock di prendersi la libbra di carne, perché in caso contrario si creerebbe un precedente dannoso per lo stato.
Baldassarre invita Shylock a procedere, ma gli comunica che, dato che il contratto parla solo di carne, se verserà anche una sola goccia di sangue, sarà considerato colpevole di aver attentato alla vita di un cittadino veneziano, e quindi i suoi beni saranno confiscati e divisi tra Antonio e lo stato, e lui condannato a morte. Il Doge gli concede in grazia la vita e Antonio rinuncia alla sua parte purché venga ceduta, alla morte di Shylock, in eredità alla figlia Jessica. Inoltre si stabilisce che Shylock debba convertirsi al cristianesimo, pena assai più pesante per l'usuraio. In queste condizioni, Shylock, sconfitto, rinuncia ai suoi propositi.
Bassanio si complimenta con Baldassarre per aver salvato il suo amico e gli chiede come possa ringraziarlo. Il finto avvocato gli chiede solo il suo anello. Bassanio esita, a causa del valore affettivo dell'anello, ma spinto dall'onore e dalla gratitudine finisce per cederlo. Lo stesso è obbligato a fare Graziano per lo scrivano/Nerissa.
Quando tutti i cristiani giungono a Belmonte, Porzia e Nerissa chiedono ai mariti gli anelli, ma entrambi spiegano l'accaduto. Quindi le due donne fanno credere di aver trascorso una notte con i nuovi possessori dell'anello, Baldassarre e lo scrivano, per riottenere gli anelli, prima di rivelar loro la vera identità dell'avvocato e del suo assistente. Antonio fa di nuovo da garante per Bassanio che giura di non separarsi mai più dal suo anello. Successivamente Nerissa riferirà a Lorenzo che i beni di Shylock diventeranno suoi e di Jessica dopo la morte dell'usuraio.
Nel frattempo si scopre che le tre navi di Antonio sono tornate in porto. PDF Integrale.
Il mercante di Venezia
Sogno di una notte di mezza estate (1595)
Ad Atene fervono i preparativi del matrimonio tra Teseo e Ippolita, regina delle Amazzoni. Al cospetto di Teseo si presenta Egeo, padre di Ermia, con i due pretendenti della figlia per chiedere il suo giudizio: Ermia rifiuta di sposare Demetrio, perché innamorata di Lisandro che ricambia i suoi sentimenti. I due ragazzi sono pari per ricchezze, lignaggio e reputazione, ma Egeo preferisce Demetrio e le suppliche della figlia non lo toccano. Se Ermia rifiuta Demetrio deve essere condannata a morte o essere rinchiusa in un convento, e anche Teseo è dell'avviso che la giovane debba rispettare l'autorità paterna. Finita l'udienza, i due innamorati decidono di scappare dalla città quella notte, dandosi appuntamento nel bosco fuori città, per potersi sposare una volta lontani. Ermia confida il piano all'amica Elena, che era l'amante di Demetrio, prima che lui si infatuasse di Ermia. Per questo Elena, tradendo il segreto, rivela a Demetrio il piano degli innamorati, convinta che a quel punto Demetrio l'avrebbe allietata con un ringraziamento; invece Demetrio si lancia al loro inseguimento, seguito a sua volta da Elena.
Il bosco, però, è un regno di fate pieno di misteri e insidie e qui si intrecceranno le storie di altri personaggi. I sovrani delle fate, Oberon e Titania, si stanno contendendo il figlio di un'amica umana di Titania per farne un paggio ed il bimbo rimane a Titania. Per avere il bambino paggio, Oberon allora ingaggia il folletto Puck, chiamato anche Hobgoblin o Robin Goodfellow, a che colga una viola del pensiero della quale sprema il succo sugli occhi della moglie addormentata; questo farà invaghire la regina del primo essere, persona o animale, che vedrà al risveglio e, quindi, nel piano di Oberon, dimenticandosi del resto cederà al re delle fate il suo servitore senza protestare. Assistendo a un dialogo fra Elena e Demetrio che passano di là, Oberon chiede a Puck di versare il medesimo succo anche negli occhi di Demetrio per aiutare la sua spasimante. Per errore Puck spreme il succo sugli occhi di Lisandro che al risveglio vede Elena (che vaga nel bosco dopo essere stata congedata in malo modo da Demetrio) e se ne innamora perdutamente, con grande disappunto di Ermia.
Nel bosco si sono radunati anche alcuni artigiani della città, che provano uno spettacolo teatrale con cui allietare le nozze di Teseo e Ippolita. Puck ha il tempo di far loro uno scherzo: l'artigiano Bottom si ritrova con la testa trasformata in quella di un asino, i suoi compagni fuggono via terrorizzati e lui crede che lo stiano prendendo in giro per spaventarlo. Sarà proprio Bottom la prima persona di cui si innamorerà Titania al suo risveglio, a causa dell'effetto della viola del pensiero.
Oberon inoltre si accorge dell'errore di Puck e gli ordina di dare il succo a Demetrio. Così ora sia Lisandro sia Demetrio vogliono sposare Elena. Elena però crede che la stiano prendendo in giro, perché prima nessuno la voleva, e quando Ermia mostra il suo disappunto nel vedere Lisandro che corteggia l'amica, le due cominciano a litigare. Oberon lo prende per una birbonata di Puck, il folletto spiega il suo errore, e Oberon gli ordina di risistemare definitivamente il disguido tra gli innamorati: quindi il folletto cala sui quattro ragazzi una nebbia fatata che li disperde e li addormenta, e versa il succo di un'altra erba negli occhi di Lisandro, che torna ad amare Ermia.
A questo punto Titania incontra Oberon, che realizza il suo scopo, per fare anche a lei la contro-magia. Puck quindi mette a posto le cose, compresa la testa del povero Bottom. Sicché tutto è accomodato: Oberon e Titania sono riconciliati, e i quattro giovani sono due coppie.
Questi vengono trovati addormentati al limitare del bosco il giorno dopo da Ippolita e Teseo, il quale, dopo aver ascoltato i loro racconti, decide che anche i quattro giovani si sposino quel giorno insieme a lui e Ippolita. Anche Egeo, sopraggiunto dopo aver cercato la figlia tutta la notte, può solo acconsentire, dato che ormai Demetrio ama Elena ed Ermia ama Lisandro. La notizia degli imminenti tre matrimoni manda in agitazione il villaggio, compresi i lavoratori ateniesi che stavano provando la commedia nel bosco, i quali però sono senza il personaggio principale della loro commedia: Piramo, che doveva essere interpretato da Bottom, da loro abbandonato nel bosco con la testa d'asino: il morale è a terra. Fortunatamente il protagonista entra in scena proprio in questo momento di sconforto di ritorno dal bosco, pronto allo spettacolo.
Al palazzo, Teseo, nonostante gli avvertimenti del cerimoniere, sceglie proprio il loro spettacolo (Piramo e Tisbe), in quanto sostiene che un qualcosa offerto con così buona volontà non possa essere rifiutato. Inoltre ha la sensazione che la rappresentazione sarà divertente a dispetto della trama e sicuramente interessante. A questo punto parte lo spettacolo nello spettacolo: gli artigiani mettono in scena una goffa versione della tragedia, generando una comica atmosfera ("sento il volto della mia Tisbe...", "vedo il suono della tua voce..."), nella quale è compreso anche un personaggio nel ruolo del leone (causa dell'equivoco che porta i due innamorati alla morte), uno nel chiaro di luna e un altro nella parte del muro (con relativo squarcio attraverso cui i due amanti si parlano). Degna di nota la performance dell'artigiano Francis Flute, che interpreta (in maniera del tutto singolare) il ruolo di Tisbe. La tragedia diventa una farsa in cui tutti ridono fino alle lacrime. Gli artigiani vengono anche ricompensati da Teseo, divertito dallo spettacolo. La commedia si chiude quella notte, con Oberon e Titania che mandano la loro benedizione sul palazzo addormentato e Puck che saluta il pubblico. PDF Integrale.
Johann Heinrich Füssli, Matrimonio di Titania
Come vi piace (1599-1600)
La commedia si svolge in un ducato francese, ma la maggior parte dell'azione si svolge in un luogo chiamato la "Foresta di Arden".
Federigo ha usurpato il ducato ed esiliato suo fratello maggiore, il Duca legittimo. Alla figlia del duca, Rosalinda, è stato permesso di rimanere a corte perché ella è la migliore amica e cugina dell'unica figlia di Federigo, Celia. Orlando, un giovane gentiluomo del regno che si è innamorato di Rosalinda, è costretto a scappare da casa sua a causa delle persecuzioni di suo fratello maggiore, Oliviero. Federigo si arrabbia con Rosalinda e la bandisce dalla corte. Celia e Rosalinda decidono di scappare insieme, accompagnate dal giullare Pietraccia. Durante la fuga Rosalinda si traveste da uomo, dandosi il nome di Ganimede ("Il paggio di Giove"), mentre Celia si fa chiamare Aliena (la parola latina per "straniera").
I tre arrivano nella idilliaca Foresta di Arden, dove ora vive il Duca esiliato, circondato da alcuni suoi sostenitori, tra i quali c'è il melanconico Jaques, innamorato di Aldrina. "Ganimede" ed "Aliena" non incontrano immediatamente il duca ed i suoi compagni, poiché prima incappano in Corino, un affittuario impoverito, e si offrono di comprare la capanna cadente del suo padrone.
Frattanto, Orlando ed il suo servo Adamo (un ruolo che potrebbe essere stato interpretato da Shakespeare stesso), trovano il Duca e i suoi uomini e presto decidono di vivere con loro, affiggendo agli alberi semplici poesie d'amore indirizzate a Rosalinda. Quest'ultima, che ricambia l'amore di Orlando, lo incontra travestita da Ganimede e finge di consigliarlo per curarlo dal mal d'amore. Ganimede dice che prenderà il posto di Rosalinda in modo che lui e Orlando possano recitare la loro relazione. Nello stesso momento, Febe, una pastorella della quale è innamorato Silvio, si è innamorata di Ganimede (alias Rosalinda), anche se "Ganimede" le dimostra continuamente di non essere interessato a lei. Inoltre, il cinico Pietraccia si è proposto alla poco arguta Aldrina e cerca di sposarla prima che i suoi piani siano rovinati da Jaques.
Orlando vede Oliviero nella foresta e lo salva da una leonessa, atto che fa pentire Oliviero per aver trattato male Orlando. Oliviero incontra Aliena (che è, in realtà, Celia) innamorandosi di lei, e i due decidono di sposarsi. Nel frattempo, Silvio, Febe, Ganimede ed Orlando si ritrovano a litigare su chi sposerà chi. Ganimede dice di poter risolvere il problema, facendo promettere ad Orlando di sposare Rosalinda e a Febe di sposare Silvio se non potrà sposare Ganimede. Il giorno dopo, Ganimede rivela la sua vera identità. Febe, dopo aver scoperto che l'oggetto del suo amore non è ciò che pensava, si lega a Silvio.
Orlando e Rosalinda, Oliviero e Celia, Silvio e Febe, e Pietraccia e Aldrina si sposano tutti insieme nella scena finale, e subito dopo scoprono che anche Federigo si è pentito delle sue colpe, decidendo di ridare il trono al fratello ed adottare uno stile di vita religioso. Jaques, sempre melanconico, decide di seguire l'esempio di Federigo e di dedicare la sua vita alla religione. PDF Integrale
Come vi pioace
La dodicesima notte (1599-1601)
La commedia si svolge in Illiria, antica regione dei Balcani occidentali a ridosso della costa sud del mare Adriatico, intesa da Shakespeare come un'ambientazione esotica, di pura fantasia. Le prime tre scene introducono ai luoghi e ai personaggi principali dell'opera, con l'eccezione di Olivia, che compare solo nella quinta scena.
Primo atto
Il primo atto si apre alla corte del Duca Orsino, nobile gentiluomo d'Illiria, che lamenta il suo amore non corrisposto per la bella Olivia, gentildonna che ha deciso di non concedersi a nessun uomo per sette anni al fine di onorare il lutto per il fratello morto. Inutilmente Orsino manda messaggeri al palazzo della donna: essi non vengono neppure ricevuti. Contemporaneamente, sulla costa, la protagonista femminile Viola ha fatto naufragio, e crede che suo fratello gemello Sebastian sia morto. Interrogando il capitano del bastimento naufragato, viene informata del luogo dove si trova e delle vicende di Orsino e Olivia. Viola decide allora di travestirsi da ragazzo, essendo molto abile in questo poiché da bambina più volte si era divertita a imitare il fratello, e credendo più sicura la sua posizione come uomo anziché donna, prende servizio da Orsino, come paggio, con il nome di Cesario.
In casa di Olivia, nel frattempo, il chiassoso zio della ragazza, Sir Toby Belch, intrattenendosi con la cameriera Maria, tesse le lodi del suo compare di bevute Sir Andrew Aguecheek, pretendente alla mano della giovane. Maria lo descrive invece come un perfetto beota e ubriacone, e quando Sir Andrew entra in scena non disattende le aspettative, dimostrandosi tardo e di spirito poco pronto.
La quarta scena del primo atto inaugura la prima sequenza della commedia (da I, iv a II, iii), della durata di un giorno, dal mattino a notte inoltrata. Nel palazzo del duca, Orsino incarica Cesario (Viola) di recarsi da Olivia per l'ennesimo messaggio d'amore. A parte, Viola lamenta quanto ingrato sia il compito affidatole, facendoci intendere l'amore che nutre per Orsino.
La scena si sposta a casa di Olivia, dove Maria sgrida il giullare Feste per essersi assentato a lungo da palazzo. Sopraggiunti Malvolio e la contessa, entrambi interrogano il matto. Questi offre una esibizione verbale condita da nonsense e ragionamenti non privi di sferzante saggezza, dimostrando infine di non essere lui la testa matta bensì la stessa Olivia. All'arrivo di Viola, Maria avverte la padrona della presenza di un giovane, frattanto intrattenuto da Sir Toby. Olivia è decisa a non ricevere alcun messo, e incarica Malvolio di scacciarlo. Tuttavia, dopo le ferme insistenze di Viola, Olivia, munitasi di velo per celarsi il volto, lo riceve. Nei panni di Cesario, la giovane si dimostra così suadente e di nobile portamento da far innamorare la contessa, pur non avendone l'intenzione.
Al termine dell'incontro Cesario (Viola) se ne va con la promessa di tornare per riferire la reazione del Duca Orsino, e inoltre Olivia inventa uno stratagemma per poter rivelare i suoi sentimenti al giovane, senza che altri vengano a saperlo: affida a Malvolio un suo anello, che sostiene di avere avuto in pegno da Cesario per conto di Orsino, e gli ordina di restituirlo al paggio.
Orsino si strugge d'amore per Olivia, ritratto di Walter Howell Deverell
Secondo atto
Il secondo atto si apre sulla riva del mare dove fanno il loro ingresso in scena Sebastian, il gemello di Viola, fino a quel momento fattosi chiamare Roderigo, e il capitano Antonio, il quale mostra di nutrire per lui un profondo attaccamento. Sebastian, crucciato dalla presunta morte della sorella che crede annegata, è deciso a recarsi alla corte di Orsino. Antonio, nonostante i nemici che l'uomo sostiene di avere lì, promette di raggiungerlo in seguito. Malvolio frattanto ha raggiunto Cesario in strada e gli ha consegnato in malo modo l'anello. Viola, dopo lo stupore iniziale, intuisce trattarsi di un dono, e comprende le reali intenzioni di Olivia. Cantando la vulnerabilità del cuore femminile, torna verso la corte del duca.
Alla corte di Olivia, seguono altri intrighi: Malvolio è protagonista delle trame burlesche di Maria, di Sir Toby e di Sir Andrew alla presenza del buffone Feste: dopo l'ennesima presa di posizione del maggiordomo che redarguisce Sir Toby del suo comportamento dissoluto, viene architettato alle sue spalle un piano per farlo sfigurare agli occhi di Olivia.[N 1] Maria, che è capace di imitare la calligrafia della padrona, stilerà una missiva contenente allusioni amorose all'uomo per trarlo in inganno e renderlo protagonista di una clamorosa beffa.
La seconda giornata (da II, iv a IV, i) dura dalla mattina al tramonto ed è la parte più estesa della commedia. Nel suo palazzo, Orsino, non ancora rassegnatosi ai rifiuti di Olivia, dialoga sulla natura dell'amore con Cesario, il servo Curio e Feste, il quale intona canzoni d'amore su richiesta del duca. Viola viene nuovamente incaricata di recarsi da Olivia per conto dell'uomo e a nulla valgono i tentativi della giovane di dissuaderlo. Per allusioni, tenta di esprimere i suoi sentimenti per il duca, fingendo siano diretti a una donna in tutto simile a Orsino, provocando solo l'ignaro commento di quest'ultimo, che lo invita a dirigere le sue attenzioni a una donna giovane e non a una matura.
Nel mentre Sir Toby, Sir Andrew e Fabian attendono da Maria notizie sullo svolgimento della beffa: la donna, concitata dall'aver appena stilato la falsa lettera diretta a Malvolio, informa di averla lasciata in bella vista nel viale che l'uomo a breve percorrerà. Nascostasi la cricca, Malvolio trova la lettera che, con allusioni indirette,[N 2] gli fa credere di essere oggetto delle mire amorose di Olivia. Seguendo le indicazione riportate sulla missiva, Malvolio corre a indossare calze gialle e giarrettiere incrociate che crede amate dalla donna, ignorando invece che, in realtà, ad ella sono invise.
Fabian sprona Viola (nei panni di Cesario) a combattere con Sir Andrew Aguecheek (III, iv).
Terzo atto
Il terzo atto vede il ritorno di Cesario alla corte della giovane Olivia, dove incontra Feste, il buffone, che lo annuncia alla contessa. Rimasta sola con Olivia, Viola ne subisce il corteggiamento. Toby, Andrew e Fabian, assistono e commentano la scena: Andrew, pretendente di Olivia, è particolarmente furibondo per le attenzioni che la donna riserva al giovane paggio e viene spinto dai due a sfidarlo a duello. L'azione però è interrotta da Maria che annuncia la vestizione di Malvolio secondo quanto scritto nella falsa missiva.
Sulla strada intrapresa da Sebastian per arrivare da Orsino, il giovane si separa da Antonio il quale, nonostante riveli aver combattuto contro il duca in una precedente battaglia navale sottraendogli del denaro e corra dunque il rischio di essere fatto prigioniero o addirittura giustiziato, non vuole abbandonare Sebastian, per l'affetto che lo lega al giovane. Mentre Sebastian visiterà la città dove sono giunti, Antonio lo aspetterà in una locanda. In via precauzionale, Antonio consegna a Sebastian la borsa dei denari, nella quale sono contenuti i soldi sottratti in passato ad Orsino.
La beffa a Malvolio intanto arriva a compimento: Maria e Olivia sono nel giardino quando giunge, convocato da quest'ultima, il maggiordomo in calze gialle e giarrettiere incrociate, convinto di soddisfare le richieste dell'amata contessa. Al trasecolare di Olivia, Malvolio allude alla finta lettera, citandone dei passi che la donna, ovviamente, non comprende, dubitando del fatto che Malvolio sia uscito di senno. Prega Sir Toby di badare a Malvolio, e resta sola con Cesario. Fabian, Maria e Toby trattano Malvolio come un folle e architettano di chiuderlo, legato, in una stanza. Sir Andrew ha frattanto terminato una lettera di sfida diretta a Cesario, piena di errori e dabbenaggini. Sir Toby, che medita un altro inganno ai danni del compare, gli consiglia di sfidarlo seduta stante. Mentre Andrew si apposta, Toby decide di non consegnare la missiva, ma di riportare a voce a Cesario la sfida a duello.
Olivia prosegue nella sua corte spassionata a Cesario, mentre Viola tenta di frapporre l'amore di Orsino per la donna. La conversazione è interrotta da Sir Toby e Fabian che irrompono annunciando la sfida imminente. Viola, stupita e preoccupata poiché non sa tirar di scherma, tenta di scampare allo scontro. Sir Toby e Fabian rincarano la dose: essendo i due contendenti divisi, fanno credere ad ognuno dei due che l'avversario vanta una capacità di combattimento senza pari, aumentando le ansie sia di Andrew sia di Viola. Il duello sta per iniziare quando entra Antonio che prende subito le difese di Viola, scambiandola per Sebastian. L'entrata gli è però fatale dal momento che le guardie di Orsino, riconosciutolo su denuncia di Malvolio, lo arrestano: Antonio chiede a Viola di restituirgli la borsa del denaro affidata in realtà a Sebastian, ma la giovane, non sospettando lo scambio di persona, nega di possederla scatenando la delusione, lo sbigottimento e l'ira di Antonio. Antonio si è rivolto a Viola chiamandola Sebastian, convincendo Viola non della salvezza del fratello, ma solo del fatto che, in abiti maschili, la somiglianza al fratello perduto è notevole. Distrutta dai ricordi abbandona il duello, instillando nella mente di Sir Toby, Andrew e Fabian che Cesario sia un ribaldo che abbandona gli amici nel momento del bisogno e che non sia in grado di battersi.
Olivia, Sebastian ed il prete ritratti da William Hamilton
Una scena dell'ultimo atto della commedia: Olivia, incredula sul comportamento di Cesario, interroga il prete per fargli testimoniare sul matrimonio avvenuto con l'uomo.
Quarto atto
All'inizio del quarto atto Feste è alla ricerca di Cesario, su ordine di Olivia. Il buffone incontra invece Sebastian. Sopraggiunto Sir Andrew, Sebastian è costretto ad affrontarlo in duello sconfiggendolo in una sola mossa. Al duello accorrono gli astanti tra cui Olivia che, vedendo Sebastian e scambiandolo per Cesario, lo invita a seguirla a palazzo. Qui Maria incita Feste a infierire sul beffato Malvolio, recandosi da lui nelle vesti di Monsignor Topas, esorcista gallese, per convincerlo della sua pazzia. Non riconoscendolo, Malvolio affida al buffone una lettera da consegnare alla padrona con la quale protesta per la sua situazione. Olivia frattanto ha chiesto a Sebastian di sposarla. Lui, incredulo di fronte a ciò che considera una sorta di sogno, acconsente.
L'ultima sequenza (da IV, ii a V, i), dalla notte del giorno precedente fino al mattino seguente, inizia con Malvolio rinchiuso come pazzo e prosegue con il matrimonio notturno tra Sebastian e Olivia.
Quinto atto
Il quinto atto si apre con l'ingresso di Viola ed Orsino col seguito al palazzo di Olivia. Qui Viola riconosce Antonio come salvatore del duello tra lei e Sir Andrew: al contempo Orsino lo indica come passato nemico. Inutilmente Antonio narra di come ha salvato l'uomo dal naufragio offrendogli la propria borsa di denaro: Viola nega l'accaduto, essendo Sebastian e non lei il reale amico del capitano. L'ingresso di Olivia interrompe il discorso di Antonio, introducendo una particolare conversazione a tre: mentre Orsino tenta inutilmente di dichiararsi a Olivia, questa chiede spiegazioni delle disattese promesse matrimoniali a Cesario, costretta a tacere per non disattendere le volontà del suo padrone, che vede in Viola un intermediario al suo servizio. Il discorso sembra chiarirsi ad Orsino, che vede in Cesario un nemico da affrontare per ottenere il cuore di Olivia: Viola, dal canto suo, cieca d'amore, è pronta a morire per mano dell'uomo amato, facendo intendere ad Olivia di non gradire la sua corte.
L'ingresso del prete in scena porta a conoscenza Orsino del matrimonio tra Olivia e Sebastian, scambiato per Cesario. Nel momento di maggiore confusione entra in scena anche Sir Andrew con la testa fasciata, pronto a giurare di esser stato offeso nel corso di un duello da Cesario, il quale difende invece la sua innocenza. Il colpo di scena è l'ingresso di Sebastian, che si reca da Olivia per scusarsi delle ferite provocate ad Andrew e vede Viola. Riconoscendosi, i gemelli comprendono che le morti erano presunte e gioiscono dell'avvenimento, narrandosi le vicissitudini che li hanno condotti a tali circostanze. Orsino chiede a Viola di vederla in veste da donna, e lei rivela di aver lasciato le vesti a casa di Antonio, ora in galera su denuncia di Malvolio. Orsino vuole ch'egli ritiri la querela quando giunge Feste con la lettera indirizzata ad Olivia scritta da Malvolio: grazie allo sfogo scritto gli astanti capiscono che l'uomo non è uscito fuori di senno e ne ordinano la scarcerazione.
All'arrivo di Malvolio egli chiede spiegazioni sulla lettera d'amore ricevuta dalla padrona, la quale riconosce in essa la falsificazione della propria calligrafia, capendo che si tratta di un inganno architettato ai danni del maggiordomo da parte di Maria e degli altri. Fabian confessa di essere uno degli autori della beffa. Sir Toby, frattanto, entusiasta delle capacità di Maria, vi è convolato a nozze.
Orsino chiede a Viola di essere sua sposa, ed Olivia le promette di essere una sorella sincera e devota: al lieto fine delle due coppie fa da contrasto l'ira di Malvolio, che scopre d'esser stato raggirato e promette vendetta.
Dopo questa scena Feste annuncia agli spettatori, cantando e suonando, la fine della commedia. PDF Integrale
Orsino e Viola - Di Frederick Richard Pickersgill.
Le allegre comari di Windsor (1599-1601)
Falstaff, a corto di denaro, decide di corteggiare due ricche donne sposate, la signora Ford e la signora Page, inviando loro due identiche lettere d'amore. Lo scopo dell'uomo è quello di arrivare al denaro posseduto dalle due signore. Il signor Ford è geloso ed è impaurito dal fatto di poter essere tradito dalla consorte. La signora Page ha una figlia, Anne, che vuole maritarsi ed è questo il motivo di contrasto con suo marito: lo sposo da scegliere. Ad Anne i suoi genitori non danno la possibilità di scegliere il proprio marito perché il signor Page vuole che sposi Slender, mentre la signora Page preferisce il dottor Cajus. In realtà Anna ama un giovane di nome Fenton. Nel frattempo Nym e Pistol, i servi di Falstaff che lui stesso aveva allontanato, avvertono i due mariti delle lettere. Le due donne, dopo avere ricevuto le lettere, scoprono che sono identiche e si mettono d'accordo su come vendicarsi contro Falstaff. Decidono quindi di invitarlo a casa della signora Ford. Così mandano Madama Quickly, loro amica, che rassicura Falstaff dicendogli che le due donne avevano ricevuto le lettere e lo volevano invitare quando i loro mariti non erano presenti. Successivamente il signor Ford, travestito e col nome di Brook, si reca da Falstaff fingendo di essere innamorato della signora Ford ma di non riuscire a conquistarla. Dietro la promessa di una corposa somma di denaro, Falstaff promette a Brook di conquistare la signora per lui e poi lasciargliela. All'improvviso, durante l'incontro tra Falstaff e la signora Ford, sopraggiunge insieme ad alcuni amici il marito, che era a conoscenza dell'appuntamento fra i due. Subito Falstaff è fatto nascondere nella cesta dei panni sporchi che poi viene portata presso il Tamigi e gettata nel fiume con tutto il suo contenuto. Brook si reca nuovamente da Falstaff che gli narra l'accaduto e lo informa di un nuovo appuntamento con la signora Ford. Durante questo secondo incontro sopraggiunge nuovamente il signor Ford con gli amici. Questa volta Falstaff rifiuta di farsi nascondere nella cesta dei panni sporchi e viene convinto a travestirsi da donna grassa fingendo di essere la zia della cameriera della signora Ford. Ancora una volta il signor Ford cerca di sorprendere la moglie ma finisce per battere Falstaff travestito che infine è gettato fuori di casa livido e pesto. Dopo questo episodio la signora Ford e la signora Page raccontano i fatti ai loro mariti e, insieme, decidono di umiliare Falstaff di fronte all'intera cittadina. Falstaff è invitato a vestirsi da cacciatore per un incontro nella foresta di Windsor. Page e la figlia Anne, insieme ad alcuni bambini, si vestono da folletti per tormentare Falstaff. Il signor Page e la moglie vorrebbero entrambi far rapire Anne dal loro rispettivo favorito affinché si sposino: Anne tuttavia avverte Fenton che, ingannando entrambi i genitori, riuscirà a sposarla. Appena l'incontro ha luogo i folletti si scatenano contro Falstaff mentre Slender, Cajus e Fenton rapiscono quelle che dovrebbero essere le loro mogli. Infine i presenti rivelano a Falstaff le loro identità. Falstaff è imbarazzato ma non si dispera perché si rende conto di aver meritato le burle. Il signor Ford pretende indietro i soldi che gli aveva versato e inoltre si impadronisce del cavallo di Falstaff come ricompensa. Slender e Cajus si lamentano di essere stati ingannati perché Anne è stata sostituita con dei ragazzi (Cajus ha veramente sposato quello che è toccato a lui). Fenton e Anne raccontano di essere innamorati e di essersi sposati. Infine tutti si allontanano per festeggiare e lo stesso Falstaff viene invitato.PDF Integrale
Le allegre comari di Windsor
Tutto è bene quel che finisce bene (1602-1603).
Elena, orfana del famoso medico Gerardo di Narbona, è stata allevata dalla Contessa di Rossiglione e da anni è segretamente innamorata del figlio di lei, Bertram. Quando Bertram lascia la casa natale per recarsi alla corte del re di Francia, Elena rivela alla Contessa l'amore finora celato e ottiene da lei il permesso di seguirlo a Parigi.
Grazie a una pozione lasciatale dal padre, Elena riesce a guarire da grave malattia il re il quale, in cambio del beneficio ricevuto, la dà in moglie a Bertram. Questi, pur non ricambiando il suo amore, obbedisce agli ordini reali ma allorché — istigato dal ribaldo Parolles — parte per la guerra, rende noto a Elena che potrà ritenersi davvero sua moglie soltanto se riuscirà a impadronirsi di un anello che lui non sfila mai dal dito e qualora dimostrerà di aspettare un figlio da lui.
Elena decide così di seguire di nascosto Bertram a Firenze, dove scopre che si è invaghito della locandiera Diana, che però lo respinge. Dopo aver convinto Diana ad accettare un appuntamento con Bertram, Elena si sostituisce a lei e riesce così a scambiare un anello regalatole dal padre con quello di Bertram nonché a fare l'amore con lui. Incinta di Bertam e in possesso del suo anello, Elena riesce quindi nel suo scopo. PDF Integrale
Tutto è bene ciò che finisce bene
Misura per misura (1603).
Vincenzo, Duca di Vienna, afferma di voler lasciare la città per svolgere una missione diplomatica e incarica Angelo, reputato da tutti un uomo austero e casto, di governare in sua vece. Claudio, un giovane gentiluomo, è fidanzato con Giulietta, che però rimane incinta prima del matrimonio. Il giovane deve comparire davanti ad Angelo e, pur provandosi disposto a sposare Giulietta, viene condannato a morte. Lucio, amico di Claudio, fa perciò visita alla sorella di quest'ultimo, Isabella, novizia in un convento, e le chiede di intercedere presso Angelo: Isabella ottiene di essere ricevuta da Angelo, e gli chiede la grazia per il fratello. Angelo accetta, ma a una condizione: egli libererà Claudio se Isabella accetterà di avere un rapporto sessuale con lui, dandogli la sua verginità. Isabella rifiuta, e decide di andare a visitare Claudio in prigione, consigliandogli di prepararsi alla morte. Il Duca però non ha affatto lasciato la città. Travestito da frate, col nome di Fra' Ludovico, è in grado di vedere come vanno le cose, e soprattutto di rendersi conto del modo di governare di Angelo. Il Duca (che Isabella crede un vero frate) diventa confidente di Isabella e le propone due sotterfugi per mandare in fumo i progetti di Angelo: quest'ultimo avrebbe dovuto sposare Mariana, ma si è rifiutato di farlo una volta saputo che la dote della ragazza era stata persa in un naufragio. Isabella perciò dovrà dire ad Angelo che acconsente, ma alla condizione che l'incontro si svolga nel buio più totale. Isabella esegue quanto suggerito; ma al suo posto manda invece Mariana, che ha un rapporto sessuale con Angelo, convinto di averlo avuto con Isabella. Angelo ritira la parola data, e manda un messaggio alla prigione dicendo che vuole che Claudio venga decapitato. Il Duca dapprima cerca di far giustiziare un altro prigioniero, ma senza risultato; infine Angelo viene accontentato: ma la testa che viene portata ad Angelo non è quella di Claudio, bensì quella di un pirata, morto quel giorno stesso di febbre maligna. L'opera si conclude con il "ritorno" del Duca a Vienna, dove si fa riconoscere nel corso del processo sollevato per le accuse che Isabella e Mariana hanno sporto contro Angelo, e condanna Angelo a morte. Mariana però chiede al Duca di avere pietà: egli decide così di graziare Angelo, a patto però che sposi Mariana. Il Duca quindi propone a Isabella di sposarlo, ma lei non risponde. Al silenzio di Isabella vengono date diverse interpretazioni; la più comune è che si tratti di un assenso. Un intreccio secondario riguarda Lucio, amico di Claudio, che è solito diffamare il Duca nelle sue conversazioni col frate, e nell'ultimo atto diffama invece il frate parlando col Duca. Ne consegue che Vincenzo ne rimane costernato, e mette Lucio nei guai quando si scopre che il Duca e il frate sono la stessa persona. La sua punizione, come per Angelo, è l'obbligo di contrarre matrimonio, nel suo caso con la prostituta Kate Keepdown. PDF Integrale.
Claudio e Isabella
Drammi storici
Enrico VI, parte I (1588-1590) VEDI PAGINA 2
Enrico VI, parte II (1588-1592) VEDI PAGINA 2
Enrico VI, parte III (1588-1592) VEDI PAGINA 2
Riccardo III (1591-1592) VEDI PAGINA 2
Riccardo II (1595) VEDI PAGINA 2
Enrico V (1598-1599) VEDI PAGINA 2
Enrico IV, parte I (1597) VEDI PAGINA 2
Enrico IV, parte II (1598) VEDI PAGINA 2
Enrico VIII (1612-1613) VEDI PAGINA 2
Re Giovanni (1590-1597) VEDI PAGINA 2
Drammi romanzeschi
Pericle principe di Tiro (1607-1608) VEDI PAGINA 2
Cimbelino (1609) VEDI PAGINA 2
Il racconto d'inverno (1610-1611) VEDI PAGINA 2
La tempesta (1611) VEDI PAGINA 2
Opere perdute
Pene d'amore vinte
Cardenio
Rappresentazioni teatrali
Non è chiaro per quali compagnie teatrali Shakespeare scrisse le sue prime opere; il frontespizio dell'edizione del 1594 del Tito Andronico rileva che la tragedia è stata messa in scena da tre gruppi di attori diversi. Dopo la peste del 1592-1593, le opere di Shakespeare vennero affidate alla propria compagnia, The Lord Chamberlain's Men, che si esibiva presso il The Theatre e il The Curtain di Shoreditch. Quando la compagnia si trovò in conflitto con il proprietario del The Theatre, con conseguente riduzione del pubblico del teatro, Richard Burbage, capo dei The Lord Chamberlain's Men, per salvare l'investimento fatto, decise di abbattere la struttura e utilizzare il legno rimanente per costruire il Globe Theatre. Il "Globe" venne aperto nell'autunno del 1599; uno dei primi copioni rappresentati nel nuovo teatro fu Giulio Cesare, mentre negli anni successivi vennero messe in scena alcune delle maggiori opere shakespeariane, tra cui Amleto, Otello e Re Lear. Nel 1603, i The Lord Chamberlain's Men entrarono nei favori di Re Giacomo I e cambiarono nome in King's Men; anche se le loro rappresentazioni non furono regolari e continue nel tempo, riuscirono a esibirsi sette volte a corte tra il 10 novembre 1604 e il 31 ottobre 1605. Dal 1608 si spostarono al Blackfriars Theatre in inverno (era infatti un teatro coperto) e al Globe, che venne distrutto da un incendio accidentale il 29 giugno 1613 mentre era in corso la rappresentazione dell'Enrico VIII, in estate. Le scenografie interne, combinate con le elaborate maschere della moda giacobina, permisero a Shakespeare di introdurre dispositivi scenici più complessi.
Tra gli attori della compagnia di Shakespeare vi erano Richard Burbage, William Kempe, Henry Condell e John Heminges. Burbage svolgeva il ruolo di primo attore nelle prime rappresentazioni delle opere di Shakespeare, tra cui Riccardo III, Amleto, Otello e Re Lear. Il popolare attore comico William Kempe ricoprì il ruolo del servo Pietro in Romeo e Giulietta e di Dogberry in Molto rumore per nulla, oltre ad altri personaggi. Alla fine del XVI secolo venne sostituito da Robert Armin, che fu Pietraccia in Come vi piace e il Fool in Re Lear.
Opere poetiche
Negli anni dal 1592 al 1594 a Londra infuriò la peste, provocando la chiusura dei teatri. Shakespeare, nell'attesa di riprendere la sua attività sul palcoscenico, scrisse due poemi di diverso stile, ma entrambi dedicati a Henry Wriothesley, III conte di Southampton; Venere e Adone, pubblicato nel 1593, fu ristampato numerose volte ed ebbe un notevole seguito; Il ratto di Lucrezia, registrato l'anno seguente, ebbe un successo molto inferiore. Influenzate da Le metamorfosi di Ovidio, le due opere, caratterizzate da forti tematiche erotiche, mostrano il senso di colpa e la confusione morale che derivano dalla lussuria incontrollata.
Negli anni seguenti Shakespeare continuò occasionalmente a scrivere poemi e sonetti, perlopiù diffusi nella cerchia delle sue amicizie. Nel 1609 l'editore Thomas Thorpe stampò senza il consenso dell'autore Sonnets, una raccolta di 154 sonetti del Bardo. Scritti prevalentemente tra il 1593 e il 1595, i sonetti rappresentano l'unica opera autobiografica di Shakespeare, da considerarsi anche come libro filosofico colmo di implicazioni meditative. La critica ha suddiviso sommariamente la raccolta in due parti: la prima è dedicata a un non meglio specificato fair friend ("bell'amico", sonetti 1-126), la seconda a una dark lady ("donna misteriosa", sonetti 127-154); tra questi possiamo poi individuare la sequenza del "poeta rivale" (sonetti 76-86).
Un terzo poema narrativo, A Lover's Complaint, attribuito a Shakespeare dalla maggior parte degli studiosi, venne stampato e inserito nella prima edizione dei Sonetti nel 1609. Nel 1599, due prime stesure dei sonetti 138 e 144 vennero incluse ne Il pellegrino appassionato, pubblicato sotto il nome di Shakespeare ma senza il suo permesso. La fenice e la tortora, pubblicato in appendice a Love's Martyr, un poema di Robert Chester, è conosciuto come uno dei suoi lavori più oscuri e ha portato a molti conflitti interpretativi.
Sonetti (1591-1604)
Venere e Adone (1592–1593)
Lo stupro di Lucrezia (1594)
A Lover's Complaint (1595-1596)
Il pellegrino appassionato (1599)
La fenice e la tortora (1600-1601)
Edizioni e pubblicazioni
A differenza del suo contemporaneo Ben Jonson, Shakespeare non ha partecipato alla redazione e pubblicazione delle sue opere. Infatti, fatta eccezione per due poemetti giovanili (Venere e Adone e Lo stupro di Lucrezia), il Bardo non si è mai curato di dare alle stampe le proprie opere; d'altra parte a quel tempo non vi era interesse a farlo, poiché le opere teatrali erano di proprietà della compagnia e pubblicarle avrebbe significato mettere nelle mani di compagnie rivali i propri copioni. I testi esistenti sono solitamente trascrizioni effettuate dopo le prime rappresentazioni oppure provengono direttamente dal manoscritto autografato dello scrittore o dagli stessi copioni.
Le prime stampe furono destinate a un pubblico popolare e le copie erano fatte senza particolari accorgimenti estetici. Il formato utilizzato è chiamato in quarto, le cui pagine sono ottenute piegando i fogli stampati in quattro parti; talvolta le pagine non erano ordinate correttamente. La seconda edizione fu destinata a un pubblico più agiato, comportando quindi una maggiore attenzione per la presentazione; per questa stampa fu utilizzato il formato in folio.
Nel 1598 Francis Meres pubblicò Palladis Tamia, primo resoconto critico delle opere di Shakespeare di natura enciclopedica, importante per la ricostruzione della cronologia dei drammi shakespeariani. Mr. William Shakespeare's Comedies, Histories & Tragedies, conosciuta comunemente come First Folio, fu la prima raccolta delle opere di Shakespeare, pubblicata nel 1623 a cura di John Heminges e Henry Condell; contiene 36 testi, di cui 18 stampati per la prima volta, elencati come tragedie, commedie e drammi storici. Il First Folio, che non comprende né poesie né poemi, rappresenta la sola fonte attendibile per circa venti opere e comunque una fonte molto importante anche per molte di quelle già pubblicate in precedenza. Due opere non sono incluse nel First Folio: I due nobili congiunti e Pericle, principe di Tiro, tuttavia accettate come parte del canone shakespeariano, dal momento che numerosi studiosi hanno concordato sul notevole contributo di Shakespeare nella loro composizione.
La ricerca dei testi originali di Shakespeare è diventata una delle principali preoccupazioni degli editori moderni. Refusi, errori di battitura, interpretazioni sbagliate del copista, dimenticanze di interi versi sono presenti nell'in quarto e nel First Folio. Inoltre il drammaturgo spesso scriveva utilizzando ortografie diverse anche per la stessa parola, aggiungendo del suo alla confusione della trascrizione; gli studiosi devono dunque ricostruire i testi originali eliminandone gli errori. Critici moderni credono che lo stesso Shakespeare abbia rivisto le sue composizioni nel corso degli anni, facendo così coesistere versioni differenti di una determinata opera. Per arrivare a un testo accettabile, gli editori devono scegliere tra la prima e la versione rivista, che è generalmente più "teatrale"; in passato, gli editori risolvevano la questione con la fusione dei testi, ma per i critici questo processo è contrario alle intenzioni di Shakespeare.
Stile
Le prime opere di Shakespeare vennero scritte seguendo lo stile convenzionale dell'epoca, utilizzando un linguaggio stilizzato che non sempre è funzionale ai personaggi e alle opere. La poesia si basa su estese ed elaborate metafore e il linguaggio è spesso retorico, scritto appositamente per declamare piuttosto che per parlare. Ben presto, però, Shakespeare cominciò ad adeguare lo stile tradizionale ai propri fini, riuscendo a coniugare le convenzioni e la scrittura del passato alle esigenze del pubblico; nel periodo della pubblicazione di Romeo e Giulietta, probabilmente il migliore esempio di mescolanza dei due stili, di Riccardo II e di Sogno di una notte di mezza estate, Shakespeare aveva iniziato a scrivere una poesia più naturale e scorrevole, in cui comico e tragico coesistono nello stesso testo, relazionando le metafore e le figure retoriche alle esigenze dell'opera. L'originalità di Shakespeare non era negli intrecci, ma nell'ampiezza di respiro con cui faceva propri gli apporti più diversi.
La forma poetica standard utilizzata da Shakespeare è il blank verse, mutuato nella letteratura inglese dalla tradizione classica tra XIII e XIV secolo e adottato anche da Christopher Marlowe; questo è composto da un sistema giambico a cinque accenti (pentametro giambico). Questo significava che i suoi versi, costituiti solitamente da dieci sillabe, lasciando l'accento su ogni seconda sillaba, non erano in rima; tuttavia le frasi tendono a coincidere con le righe, aumentando il rischio di una lettura monotona. Il blank verse delle sue prime opere è piuttosto diverso da quello dei suoi lavori più maturi, riuscendo a modificare il ritmo delle sue opere, dando così maggiore forza, flessibilità e importanza ai propri versi.
Dopo Amleto, Shakespeare modificò ulteriormente il suo stile poetico, in particolare nei passaggi più emotivi delle tragedie, sottolineando inoltre l'illusione del teatro. Il critico letterario A.C. Bradley ha descritto questo stile come "più concentrato, veloce, vario e meno regolare nella costruzione, non di rado contorta o ellittica". Nell'ultima fase della sua carriera, Shakespeare adottò molte tecniche letterarie per raggiungere questi effetti; tra queste vi sono gli enjambement, pause irregolari e notevoli variazioni nella struttura della frase e nella lunghezza dei versi, riuscendo a coinvolgere maggiormente il pubblico. Le opere della maturità, con le variazioni della sequenza cronologica degli eventi e i colpi di scena nella trama, sono invece caratterizzate da frasi lunghe e brevi in sequenza, dall'inversione tra oggetto e soggetto e dall'omissione di parole, creando così maggiore spontaneità. Shakespeare fu in grado di combinare il suo genio poetico con un senso pratico del teatro, strutturando le trame delle sue opere per creare vari centri di interesse e per mostrare diversi possibili punti di vista, senza schemi preordinati.
Fonti letterarie
La grande maggioranza dei lavori di Shakespeare sono rielaborazioni di opere precedenti; inoltre, non raro è il caso in cui Shakespeare attinga a gruppi separati di narrazioni per intrecciarle tra loro. Il primo punto di riferimento sono evidentemente le opere dei contemporanei, in particolare le opere del teatro elisabettiano. Alcuni esempi di opere utilizzate come fonte d'ispirazione sono i romances Rosalynde di Thomas Lodge per Come vi piace, Pandosto o Il trionfo del tempo di Robert Greene per Il racconto d'inverno, Arcadia di Philip Sidney per Re Lear, I due gentiluomini di Verona e Come vi piace, oltre alle opere di autori stranieri riproposte da autori inglesi, come The tragical History of Romeus and Juliet di Arthur Brooke, riproposizione di una novella di Matteo Bandello rifacentesi a quella omonima di Luigi da Porto, per Romeo e Giulietta o il romanzo pastorale Diana Enamorada di Jorge de Montemayor, tradotto in inglese da Bartolomew Yong, per I due gentiluomini di Verona e per Sogno di una notte di mezza estate. Anche Geoffrey Chaucer venne utilizzato da Shakespeare per Troilo e Cressida e Due nobili cugini.
Per i drammi storici la fonte principale sono le imponenti compilazioni cronologiche degli storici Tudor. La prima opera utilizzata da Shakespeare per i suoi drammi storici fu The Union of the Two Noble and Illustre Families of Lancastre and Yorke di Edward Hall, tuttavia "ben presto Shakespeare avrebbe abbandonato l'opera di Hall a favore delle più ricche e pittoresche Chronicles of England, Scotland and Ireland di Raphael Holinshed". Oltre che ai drammi storici, queste cronache fornirono spunti importanti anche per Macbeth, Cimbelino e Re Lear. Sia Hall sia Holinshead hanno spesso attinto dalla Anglicae Historiae Libri XXVI dei Polidoro Virgili. Altre opere storiche certamente utilizzate da Shakespeare furono la Historia Regum Britanniae redatta in latino da Goffredo di Monmouth nel 1130 e poi ripresa da altri autori compreso Holinshed, utilizzata per Re Lear e Cimbelino, e le Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, fonte principale dell'Amleto.
Numerose sono le riproposizioni di storie e tematiche presenti nella novellistica italiana; tuttavia è probabile che Shakespeare sia arrivato a conoscenza di tali storie solo attraverso la mediazione di traduzioni e adattamenti francesi e inglesi. Le novelle di Matteo Bandello furono utilizzate per Romeo e Giulietta, Molto rumore per nulla e La dodicesima notte, mentre alcuni spunti del Decameron di Giovanni Boccaccio sono rintracciabili in Tutto è bene quel che finisce bene e nel Cimbelino. La traduzione inglese delle 100 novelle degli Hecatommithi di Giambattista Giraldi Cinzio servì a Shakespeare per alcuni elementi di Misura per misura e una novella in particolare fu la fonte principale dell'Otello. Il Pecorone di Giovanni Fiorentino servì per Le allegre comari di Windsor e per Il mercante di Venezia. La novella Le piacevoli notti di Gianfrancesco Straparola servì anch'essa per Le allegre comari di Windsor. La traduzione inglese di George Gascoigne de I suppositi di Ludovico Ariosto servì per La bisbetica domata. Gl'ingannati, una commedia italiana allestita a Siena dall'Accademia degli Intronati nel 1531 e stampata a Venezia nel 1537, fornì la guida principale per la vicenda amorosa de La dodicesima notte. La traduzione inglese di Thomas Hoby de Il Cortegiano di Baldassare Castiglione fu certamente letta da Shakespeare, attingendoci per Molto rumore per nulla.
Shakespeare probabilmente non conosceva il greco, tuttavia aveva studiato il latino e letto i classici come Seneca alla King's New School di Stratford, non c'è da stupirsi pertanto che molti spunti delle sue opere provengono da autori antichi. Le Vite parallele di Plutarco fornirono la fonte principale del Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano e del Timone d'Atene; non conoscendo il greco è probabile che Shakespeare abbia utilizzato la traduzione di Thomas North Plutarch's Lives of the noble Grecians and Romans stampata nel 1579 e nel 1595. I Menaechmi di Plauto servirono invece come spunto per La commedia degli errori e La dodicesima notte; la Mostellaria servì invece per La bisbetica domata. Le tragedie di Seneca fornirono alcuni elementi del Tito Andronico. Ovidio era il modello dichiarato dei due poemetti giovanili di Shakespeare, Venere e Adone e Lo stupro di Lucrezia. Le metamorfosi riecheggiano anche in Tito Andronico, La commedia degli errori, Le allegre comari di Windsor, Sogno di una notte di mezza estate (con la vicenda di Piramo e Tisbe), Troilo e Cressida e La tempesta.
Temi del teatro di Shakespeare
Sono temi ricorrenti nel teatro di Shakespeare: l'amore (passione disperata in Otello, passione sensuale in Romeo e Giulietta), la lotta per il potere, la morte, il carattere illusorio e la fugacità della vita, la precarietà dell'esistenza con i frequenti motivi dell'oscura presenza della morte e del dubbio che sembrano dominare il cammino terreno dell'uomo (si pensi al celeberrimo monologo di Amleto "Essere o non essere, questo è il problema", scritto nella prima scena del terzo atto). Il tema della lotta per il potere è frequente (Amleto, Macbeth, Re Lear) anche per il fatto che l'autore vive in un'epoca in cui predomina la monarchia assoluta che, se da una parte può assicurare l'ordine e la prosperità, dall'altra crea grande brama di potere e di potenza, nonché rivalità, invidie, gelosie.
Altri temi fondamentali sono la presentazione dei sentimenti e degli stati d'animo umani nella loro varietà e complessità, senza escludere i problemi morali e psicologici nonché gli stati anomali della mente quali le contraddizioni nel comportamento, l'inquietudine, la follia (quest'ultima presente, ad esempio, in Amleto). Dalla tradizione popolare e medievale Shakespeare accoglie poi la dimensione fantastica e irrazionale (gli spettri in Amleto e Macbeth, le streghe in Macbeth, i folletti in La tempesta, fate ed elfi nel Sogno di una notte di mezza estate, ecc.). Tali figure soprannaturali rappresentano le angosce e le colpe insite nell'animo umano. L'"eroe" si presenta come una figura complessa che resta tale e spesso esce moralmente nobilitata anche dopo drammatici conflitti di coscienza e una sconfitta subita per opera degli eventi.
Il fato nella tragedia classica era una forza soprannaturale, superiore anche agli dei, capace di determinare la sorte degli uomini. Nel teatro di Shakesperare esso non è più presente in quanto cede il posto al carattere, alle libere scelte e ai conflitti interiori dell'individuo. Quanto alle figure femminili, esse assumono una notevole importanza: sono dotate di autonomia e di forte individualità. I loro caratteri e i loro comportamenti sono diversi: ad esempio la tenera Giulietta (Romeo e Giulietta), l'innocente Desdemona (Otello), l'intelligente Porzia (Il mercante di Venezia). Altre invece sono coinvolte nella lotta per il potere come la sinistra Lady Macbeth (Macbeth) o le due perfide figlie di Re Lear. Il drammaturgo inglese da una parte è figlio del Rinascimento in quanto nelle sue opere interpreta l'uomo che afferma se stesso, la propria creatività e razionalità (antropocentrismo) contro i limiti posti dalla realtà e dal destino; d'altra parte egli è anche esponente della nuova sensibilità del barocco in quanto evidenzia le lacerazioni di coscienza dell'individuo, l'incertezza degli ideali, la mutevolezza della sorte, il mistero insondabile della vita accompagnato da un senso di smarrimento esistenziale. I drammi di Shakespeare si interrogano quindi sull'identità dell'uomo, sull'assurdità della vita, sui misteri profondi e inconfessabili dell'animo umano, senza però giungere a una verità unica capace di eliminare ansie e insicurezze. In Shakespeare troviamo poi un dubbio radicale, cioè se la vita, oltre a essere breve, fragile e minacciata dalla continua presenza della morte, sia anche un sogno, un'illusione: ne sono testimonianza due celebri affermazioni, una nel Macbeth (V, 5) ed una ne La tempesta (IV, 1).
Macbeth sostiene che "la vita è solo un'ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un'ora sulla scena e poi cade nell'oblio: la storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di foga, che non significa nulla". Nella seconda opera citata, il principe Prospero dice: "noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la nostra breve vita è cinta di sonno". I personaggi del drammaturgo inglese tuttavia lasciano aperta la questione in quanto non forniscono una risposta definitiva a questa domanda contenente un'idea ricorrente nell'età barocca: si pensi al Don Chisciotte di Cervantes (realtà-illusione) e al capolavoro La vita è sogno del grande drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca
Fortuna
Statua di Shakespeare, opera di John Massey Rhind, situata presso il Carnegie Museum of Art di Pittsburgh
Durante la sua vita, benché non fosse venerato e apprezzato come dopo la morte, Shakespeare ricevette comunque numerose lodi per i suoi lavori. Nel 1598 Francis Meres lo ha inserito in un gruppo di scrittori inglesi, definiti come "i più eccellenti". Gli autori del Parnassus del St John's College di Cambridge lo paragonarono a Geoffrey Chaucer, a John Gower e a Edmund Spenser. Anche Ben Jonson, nel First Folio, dimostrò apprezzamento per le sue opere.
Tra la restaurazione inglese e la fine del XVII secolo l'apprezzamento per le idee e i modelli classici fece sì che i critici del tempo apprezzavano John Fletcher e Ben Jonson piuttosto che Shakespeare. Thomas Rymer, ad esempio, criticò il drammaturgo per la sua combinazione di comico e tragico; tuttavia, il poeta e critico John Dryden aveva grande considerazione di Shakespeare, dicendo di Jonson, "Lo ammiro, ma amo Shakespeare". Per alcuni decenni, il giudizio di Rymer non fu largamente diffuso, ma nel corso del XVIII secolo, i critici cominciarono a considerare l'importanza e il genio del Bardo. Una serie di critiche letterarie sulle sue opere, in particolare quella di Samuel Johnson del 1765 e di Edmond Malone del 1790, ha contribuito alla sua crescente reputazione. Nel 1800, Shakespeare divenne poeta nazionale. Tra il XVIII e il XIX secolo, la sua fama si diffuse anche all'estero; tra coloro che hanno apprezzato le sue opere vi sono Voltaire, Goethe, Stendhal e Victor Hugo.
Durante l'età romantica venne ulteriormente riconosciuta l'importanza dei lavori di Shakespeare; venne elogiato dal poeta e filosofo Samuel Taylor Coleridge, mentre il critico Wilhelm August von Schlegel tradusse le sue opere nello spirito del romanticismo tedesco. Nel XIX secolo, l'ammirazione critica per il genio di Shakespeare spesso scivolava in eccessi e nell'adulazione; i vittoriani misero in scena le sue opere in modo sontuoso e su larga scala. George Bernard Shaw definì il culto di Shakespeare come bardolatry ("bardolatria"), ritenendo che il nuovo naturalismo di Ibsen avesse fatto diventare le opere shakespeariane obsolete.
La rivoluzione modernista nelle arti del XX secolo utilizzò con entusiasmo i suoi testi al servizio del Avanguardia. Gli espressionisti in Germania e i futuristi a Mosca organizzarono alcune rappresentazioni delle sue commedie; anche Bertolt Brecht mise in scena il suo teatro epico, influenzato dalle opere di Shakespeare. Il poeta e critico T. S. Eliot, insieme a G. Wilson Knight e al New Criticism, sostenne la necessità di una lettura più attenta di opere di Shakespeare. Negli anni cinquanta, nuovi approcci critici hanno aperto la strada a studi post-moderni sul bardo. Negli anni ottanta, le sue opere cominciarono a essere utilizzate per nuovi movimenti come lo strutturalismo, il femminismo, il New Historicism, gli studi afro-americani e queer.
Influenza
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Influenza di Shakespeare.
Macbeth Consulting the Vision of the Armed Head, Henry Fuseli, 1793–1794
I lavori di William Shakespeare hanno avuto una profonda influenza sul teatro e sulla letteratura successiva. In particolare, Shakespeare ampliò il potenziale drammatico della caratterizzazione dei personaggi, dell'intreccio e del linguaggio. Ad esempio, i monologhi erano generalmente utilizzati per fornire informazioni sui personaggi o gli eventi; Shakespeare, invece, li utilizzò per esplorare la mente dei personaggi.
Le sue opere influenzarono profondamente anche la letteratura poetica successiva. La poesia romantica tentò di far rivivere i versi drammatici shakespeariani, tuttavia con scarso successo. Il critico George Steiner descrisse tutti i versi drammatici inglesi da Coleridge a Tennyson come "flebili variazioni di temi shakespeariani". Shakespeare influenzò i romanzieri come Thomas Hardy, William Faulkner, e Charles Dickens. I monologhi del romanziere statunitense Herman Melville devono molto a Shakespeare: il suo Capitano Achab di Moby Dick è un classico eroe tragico, ispirato al King Lear. Alcune opere liriche sono direttamente collegate con i lavori di Shakespeare, tra cui tre lavori di Giuseppe Verdi, il Macbeth, l'Otello e il Falstaff. Shakespeare ha inoltre ispirato molti pittori, inclusi i romantici, tra cui Henry Fuseli, e i preraffaelliti.
Ai giorni di Shakespeare, la grammatica, l'ortografia e la pronuncia inglese erano meno standardizzati rispetto a oggi, e il suo utilizzo del linguaggio aiutò la formazione dell'inglese moderno. Samuel Johnson citò Shakespeare più spesso di qualsiasi altro autore nel suo dizionario di lingua inglese, il primo lavoro autorevole di questo tipo. Espressioni come "with bated breath" ("con il fiato sospeso", da Il mercante di Venezia) e "a foregone conclusion" ("una conclusione inevitabile", dall'Otello) sono ormai presenti nell'inglese di tutti i giorni.
Shakespeare nella cultura di massa
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Shakespeare nella cinematografia.
Screenshot di Cleopatra, film tratto da Antonio e Cleopatra
Diversi elementi degli scritti di Shakespeare sono stati spesso utilizzati nella cultura popolare come modelli stilistici, sia per le sceneggiature, sia per le ambientazioni, sia per i personaggi. Numerose sono le opere letterarie il cui titolo si basa su frasi del Bardo; Beds in the East di Anthony Burgess si riferisce ad Antonio e Cleopatra; Under the Greenwood Tree di Thomas Hardy a Come vi piace; Time Must Have a Stop di Aldous Huxley a Enrico IV; Band of Brothers di Stephen Ambrose a Enrico V; The Dogs of War di Frederick Forsyth e There is a Tide di Agatha Christie a Giulio Cesare; Twice-Told Tales di Nathaniel Hawthorne a Re Giovanni; Pomp and Circumstance di Noël Coward a Otello; The Winter of Our Discontent di John Steinbeck e Tomorrow in the Battle Think on Me di Javier Marías a Riccardo III; What's in a Name? di Isaac Asimov a Romeo e Giulietta; Absent in the Spring di Agatha Christie e Nothing Like the Sun di Anthony Burgess ai Sonetti; Brave New World di Aldous Huxley a La tempesta; Pale Fire di Vladimir Nabokov a Timone d'Atene e Cakes and Ale di William Somerset Maugham e Sad Cypress di Agatha Christie a La dodicesima notte; Brief Candles di Aldous Huxley, By the Pricking of My Thumbs di Agatha Christie, The Moon is Down di John Steinbeck, Something Wicked this Way Comes di Ray Bradbury, The Sound and the Fury di William Faulkner, Tomorrow and Tomorrow and Tomorrow di Kurt Vonnegut, Wyrd Sisters di Terry Pratchett a Macbeth; The Glimpses of the Moon di Edith Wharton; There are More Things di Jorge Luis Borges, Time Out of Joint di Philip K. Dick, Mortal Coils di Aldous Huxley, Infinite Jest di David Foster Wallace ad Amleto.
Altre opere shakespeariane sono state di grande influenza per diversi poeti, soprattutto in lingua inglese, come Childe Roland to the Dark Tower Came di Robert Browning, Macbeth per Out, Out— di Robert Frost, Amleto per Very Like A Whale di Ogden Nash e La tempesta per Full Fathom Five di Sylvia Plath. Anche diverse rappresentazioni teatrali hanno attinto in qualche modo alle opere del Bardo, in particolare Amleto; la tragedia venne infatti utilizzata, tra gli altri, come base le sceneggiature da Ivor Novello per il musical Perchance to Dream, da Agatha Christie per The Mouse Trap, da Tom Stoppard per Rosencrantz & Guildenstern Are Dead e da Elmer Rice per Cue for Passion. Inoltre Journey's End di R.C. Sherriff si basa su Otello, The Isle Is Full of Noises di Derek Walcott su La tempesta e Present Laughter di Noël Coward e Improbable Fiction di Alan Ayckbourn su La dodicesima notte. Si ipotizza inoltre che oltre 20 000 brani musicali sono collegati con i lavori di Shakespeare.
Il cinema è uno dei campi che ha maggiormente risentito dell'opera di Shakespeare, sia in forma integrale sia come adattamenti. Romeo e Giulietta è l'opera che è stata riprodotta sul grande schermo il maggior numero di volte; tra gli adattamenti più famosi vi sono Giulietta e Romeo (1936), Giulietta e Romeo (1954), West Side Story, Romeo e Giulietta (1968), Romeo + Giulietta di William Shakespeare, Shakespeare in Love e Romeo and Juliet (2013). Tra le altre pellicole che hanno tratto dai lavori del Bardo vi sono Falstaff da Le allegre comari di Windsor; Amleto (1948), Amleto (1964), Amleto (1990) e Amleto (1996) da Amleto; Cleopatra da Antonio e Cleopatra; La bisbetica domata e 10 cose che odio di te da La bisbetica domata; Belli e dannati da Enrico IV; Enrico V (1944) e Enrico V (1989) da Enrico V; Macbeth (1948), Il trono di sangue, Macbeth (1971), Macbeth (2015) da Macbeth; Otello (1951), Otello (1965), Otello (1995) e O come Otello da Otello; Ran da Re Lear; Riccardo III (1955), Riccardo III (1995) e Riccardo III - Un uomo, un re da Riccardo III; Sogno di una notte di mezza estate (1935), Sogno di una notte di mezza estate (1999) e Una commedia sexy in una notte di mezza estate da Sogno di una notte di mezza estate; Titus da Tito Andronico. Come vi piace, La dodicesima notte, Giulio Cesare, Il mercante di Venezia, Molto rumore per nulla, Pene d'amore perdute e La tempesta sono invece adattamenti delle rispettive opere.
Speculazioni su Shakespeare
I principali quattro candidati alternativi all'attribuzione delle opere di William Shakespeare (al centro). In senso orario, da sinistra in alto: Edward de Vere, Francis Bacon, William Stanley e Christopher Marlowe.
Attribuzione e identità
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Attribuzione delle opere di Shakespeare.
La maggior parte degli studiosi shakespeariani ritiene senza alcun dubbio che lo Shakespeare nato a Stratford on Avon sia l'autore materiale delle opere che gli furono attribuite. Tuttavia, a causa della scarsità di notizie sulla sua vita, la sua istruzione, assenza di documenti o lettere a lui intestate, sono stati avanzati diversi dubbi sull'identità del drammaturgo. A partire dal XVIII secolo questi temi sono stati ampiamente e intensamente dibattuti da studiosi e non. In campo accademico, tali ipotesi non hanno avuto riconoscimenti dagli studiosi shakespeariani.
In particolare, come autore delle opere shakespeariane sono state avanzate le candidature di Francis Bacon, celebre filosofo e scrittore, che avrebbe scritto le opere teatrali sotto uno pseudonimo, di Christopher Marlowe, autore teatrale, morto nel 1593, ma che secondi alcuni avrebbe svolto attività di spionaggio per la corona e avrebbe continuato la propria attività letteraria con un falso nome, di Edward de Vere, 17º conte di Oxford, colto nobiluomo della corte elisabettiana che avrebbe continuato la propria giovanile attività poetica sotto uno pseudonimo per motivi di decoro oppure di William Stanley, sesto Conte di Derby, genero di Edward de Vere.
Altre ipotesi hanno messo in discussione l'identità inglese stessa di William Shakespeare, per cui il bardo sarebbe da identificarsi con il linguista e scrittore di origini italiane Giovanni Florio, conosciuto come John. Diversi studi hanno approfondito l’influenza di Giovanni Florio sulle opere shakespeariane. John Florio ha coniato per la lingua inglese 1.149 parole e diversi proverbi e frasi scritti da John Florio compariranno in seguito nelle opere di William Shakespeare e diversi neologismi creati da Florio compariranno per la prima volta nel First Folio di Shakespeare. Inoltre, tre frasi di Florio diventarono titoli di tre commedie shakespeariane. John Florio è stato proposto come redattore del First Folio da alcuni studiosi di Shakespeare, tra cui Saul Frampton e Stuart Kells.
Un altro candidato proposto è il teologo e predicatore toscano Michelangelo Florio, padre di John Florio. Sono stati fatti, tra gli altri candidati, anche i nomi di Ben Jonson, Thomas Middleton, sir Walter Raleigh, Mary Sidney contessa di Pembroke, e persino la regina Elisabetta I.
Credo religioso
Alcuni studiosi affermano che i membri della famiglia Shakespeare fossero cattolici; sua madre, Mary Arden, proveniva infatti da una famiglia cattolica. Nel 1757, nella casa del padre di Shakespeare, fu trovato un testamento cattolico firmato da John Shakespeare; sebbene ne sia stato tramandato il contenuto, il testamento è stato perduto, pertanto gli studiosi discutono ancora della sua autenticità. Nel 1591 le autorità più volte riportarono che John Shakespeare non andava alla funzione domenicale "per paura di essere processato per debiti", una comune scusa utilizzata dai cattolici per evitare di seguire le cerimonie protestanti; tuttavia, molti documenti sembrano indicare che effettivamente all'epoca John Shakespeare avesse problemi economici. Nel 1606 il nome della figlia di Shakespeare, Susanna, apparve in una lista di persone che non presero la comunione durante la Pasqua di quell'anno.
Gli studiosi hanno trovato prove sia a favore sia a sfavore del cattolicesimo di Shakespeare nelle sue opere, ma la verità sembra impossibile da trovare nell'uno e nell'altro caso. Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury e primate della Comunione Anglicana, che è anche uno studioso di letteratura, ha comunicato durante l'Hay Festival in Galles del 2011: "Non penso che questo ci debba interessare molto, se posizionarlo tra i cattolici o i protestanti. Ma per quel che vale, penso che egli avesse probabilmente un retroterra cattolico e molti amici cattolici".
Possibili volti di Shakespeare
Il volto di Shakespeare
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Raffigurazioni di Shakespeare.
Numerosi sono i dipinti o le sculture che raffigurano William Shakespeare, tuttavia nella maggior parte dei casi si tratta di opere posteriori alla sua morte, realizzate da artisti che mai videro il vero volto di Shakespeare. Un tempo l'unica raffigurazione di cui era accettato il valore documentario è la statua del monumento funebre a Stratford, ma la forma attuale risulta solamente dopo il 1720, in quanto precedentemente aveva dettagli diversi dalle caratteristiche attuali (nel monumento originale Shakespeare non teneva in mano una penna e un libro ma si appoggiava a un sacco di grano). La celebre incisione presente sul First Folio del 1623 è di fatto posteriore di alcuni anni alla morte di Shakespeare. Tra i ritratti la cui attendibilità è discussa possiamo ricordare il Ritratto Chandos, il ritratto dell'Ely Palace, il ritratto Flowers, la maschera mortuaria Kesselstadt, il ritratto di Cornelius Janssen, la miniatura di Nicholas Hilliard e il recente Ritratto Cobbe.
TITO ANDRONICO
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La Tragedia di Tito Andronico è la prima tragedia di Shakespeare, composta con molta probabilità tra il 1589 e il 1593, probabilmente con la collaborazione di George Peele. Narra la storia di un immaginario generale romano che si vuole vendicare di Tamora, regina dei Goti. Aderente al genere della tragedia di vendetta che con La tragedia spagnola di Thomas Kyd aveva avuto in quegli anni uno straordinario successo, l'opera si rifà a Seneca e Ovidio, mantenendo del primo la struttura tragica e del secondo un linguaggio e un tono elegiaco che rimandano alle Metamorfosi. È sicuramente la tragedia shakespeariana più violenta e sanguinaria; tuttavia era molto popolare ai suoi tempi, per poi perdere i favori del pubblico verso la fine del XVII secolo. Durante l'età vittoriana questa tragedia venne duramente criticata per la gratuità delle scene violente e quindi poco rappresentata. Soltanto nel XX secolo la reputazione del Tito Andronico tornò in auge.
Atto I
L'Imperatore di Roma è morto, e i suoi figli Saturnino e Bassiano litigano per il possesso del trono. Il Tribuno della plebe, Marco Andronico, annuncia che la plebe ha scelto come nuovo imperatore suo fratello, Tito Andronico, un generale romano appena tornato da una campagna militare durata dieci anni contro i nemici dell'impero. Tito entra a Roma portando con sé alcuni prigionieri: Tamora, regina dei Goti, con i suoi figli, e Aronne il Moro. Tito ritiene un suo pio dovere religioso sacrificare il primo figlio di Tamora, Alarbo, alla memoria dei propri figli caduti durante la guerra. Tamora lo implora di non sacrificare Alarbo, e quando Alarbo viene comunque ucciso, giura vendetta. Tito Andronico rifiuta, in segno di umiltà, di diventare imperatore e rinuncia in favore del figlio maggiore del vecchio imperatore, Saturnino; i due concordano il matrimonio di Saturnino con la figlia prediletta di Tito, Lavinia. Non sanno che Bassiano e la ragazza si erano precedentemente sposati in segreto: i due giovani decidono di fuggire, aiutati da un altro dei figli di Tito, Muzio. Nel tentativo di impedire la fuga Tito si scontra con Muzio e lo uccide.
Saturnino, novello imperatore, decide quindi di sposare invece Tamora. Spinti l'uno dall'invidia per la popolarità di Tito e dall'affronto subito per il rifiuto di Lavinia, l'altra dall'odio verso chi ha ucciso il suo figlio maggiore, la coppia decide di vendicarsi sulla famiglia di Andronico.
Atto II
Il giorno seguente, durante una battuta di caccia, Aronne, l'amante di Tamora, incontra i figli di Tamora, Chirone e Demetrio, e discute con loro su chi dovrebbe prendersi le grazie di Lavinia.
Aronne ha gioco facile nel convincerli a tendere un agguato nel bosco a Bassiano e a ucciderlo davanti a Lavinia mentre Tamora osserva soddisfatta. Lavinia disperata chiede aiuto a Tamora e implora pietà. Tamora rifiuta: vuole la sua vendetta. Chirone e Demetrio portano via Lavinia, la torturano, la violentano e successivamente le tagliano lingua e mani.
Aronne conduce quindi i figli di Tito, Marzio e Quinto, nel luogo in cui è stato ucciso Bassiano, e li accusa falsamente dell'omicidio; l'Imperatore ha così la scusa per farli arrestare. Nel frattempo Marco trova la mutilata Lavinia nel bosco, la soccorre e la riconduce dal padre.
Atto III
Tito e il suo figlio rimasto Lucio sono preoccupati per le vite di Marzio e Quinto, ma non sanno che questi sono già stati giustiziati. Marco entra con la nipote Lavinia, ma nessuno riesce a capire se lei tenti di scagionare o incolpare i suoi fratelli.
Entra Aronne e dice agli uomini che l'Imperatore risparmierà i prigionieri, se uno di loro in cambio sacrificherà una mano. Tutti offrono di sacrificare la propria, ma Tito chiede ad Aronne di tagliargliela, e questi esegue. Come tutta risposta, un messaggero consegna a Tito le teste mozzate dei suoi figli.
Tito ordina quindi a Lucio di fuggire da Roma e di radunare un esercito tra quelli che erano in precedenza i suoi nemici, i Goti. Una volta tornato a casa, la disperazione di Tito sconfina nella follia, e i suoi familiari cominciano a essere preoccupati per lui.
Atto IV
Lucio il giovane, il nipote di Tito, che lo stava aiutando a leggere alcune storie a Lavinia, si accorge che ella non vuole lasciare il libro per nessun motivo. In quel libro Lavinia mostra a Tito e a Marco la storia di Filomela, nella quale la vittima di una violenza, muta come ora lei era, scrive il nome del suo violentatore. Marco le dà un bastone grande abbastanza perché lei lo possa stringere con la bocca e con i moncherini, e con esso la ragazza scrive i nomi degli aggressori nel terreno sabbioso. Una volta letti, tutti i presenti giurano vendetta.
Tito si finge allora impazzito, fa legare biglietti con preghiere e invocazioni agli dei a delle frecce e ordina ai suoi scudieri di scagliarle verso il cielo. Marco lancia le sue frecce in modo tale che atterrino all'interno del palazzo dell'imperatore Saturnino: costui si irrita molto e ordina di giustiziare un buffone che gli aveva consegnato l'ennesima supplica da parte di Tito.
Tamora intanto partorisce un bambino di pelle scura: l'ostetrica potrebbe rivelare che il padre in realtà è Aronne. Egli decide così di ucciderla e fugge con il bambino per salvarlo dall'inevitabile furia dell'Imperatore tradito.
Atto V
Lucio, mentre sta marciando su Roma con l'esercito appena radunato, incontra Aronne e lo cattura. Per poter salvare suo figlio, Aronne rivela quindi l'intero complotto, confessandosi ispiratore degli omicidi, dello stupro e delle mutilazioni di Lavinia.
Tamora, convinta della pazzia di Tito, va da lui insieme ai suoi due figli, travestiti da spiriti della Vendetta, dell'Assassinio e dello Stupro. Racconta a Tito che, con i poteri di spirito sovrannaturale, gli assicurerà la sua vendetta se egli convincerà Lucio a interrompere l'avanzata verso Roma.
Tito acconsente, manda Marco a invitare Lucio a partecipare a un banchetto e chiede a "Vendetta" (in realtà Tamora), di invitare anche l'Imperatore. Insiste però affinché "Stupro" e " Assassinio" (Chirone e Demetrio) restino con lui come suoi ospiti.
Tito fa legare Chirone e Demetrio dai suoi servi e a quel punto rivela loro il suo piano: li sgozzerà, mentre Lavinia raccoglierà il loro sangue stringendo una coppa con i suoi moncherini, quindi li farà a pezzi e con le loro carni preparerà un pasticcio che verrà servito durante il banchetto alla loro madre. È la stessa vendetta che Procne mise in atto per lo stupro della sorella Filomela.
Il giorno del banchetto Tito si presenta nel salone vestito da cuoco e invita tutti a mangiare a sazietà. Chiede quindi a Saturnino se un padre dovrebbe uccidere la figlia qualora essa fosse stata stuprata. Quando l'Imperatore si dichiara d'accordo, Tito uccide Lavinia e dice a Saturnino ciò che Tamora e i suoi figli hanno fatto. Rivela anche che Chirone e Demetrio si trovano nel pasticcio di carne che Tamora ha appena mangiato con soddisfazione e subito dopo uccide l'inorridita donna. Gli eventi precipitano. Saturnino uccide Tito: Lucio uccide Saturnino.
Lucio viene acclamato come nuovo imperatore. Egli, lo zio Marco e tutti i presenti tributano un commosso e addolorato addio a Tito.
Lucio dispone quindi che sia data un'appropriata sepoltura all'imperatore Saturnino, mentre il corpo di Tamora venga dato in pasto alle bestie. Quanto ad Aronne sia seppellito vivo fino alle spalle e lasciato a morire di fame e sete.
Aronne, impenitente e orgoglioso fino all'ultimo, proclama: «Se mai ho commesso una sola buona azione in tutta la mia vita
me ne pento dal profondo dell'anima».
Il taglio della mano di Tito
ROMEO E GIULIETTA
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Trama
Nel prologo il coro racconta come due nobili famiglie di Verona, i Montecchi e i Capuleti, si siano osteggiate per generazioni e che «dai fatali lombi di due nemici discende una coppia di amanti, nati sotto cattiva stella, il cui tragico suicidio porrà fine al conflitto».
Il primo atto comincia con una rissa di strada tra le servitù delle due famiglie (Gregorio, Sansone, Abramo e Benvolio), interrotta da Escalo, principe di Verona, il quale annuncia che – in caso di ulteriori scontri – i capi delle due famiglie sarebbero stati considerati responsabili e avrebbero pagato con la vita; quindi fa disperdere la folla. Il conte Paride, un giovane nobile, ha chiesto al Capuleti di dargli in moglie la figlia Giulietta, poco meno che quattordicenne. Capuleti lo invita ad attendere perché ritiene la figlia ancora troppo giovane, ma alle insistenze di Paride gli permette di farle la corte e di attirarne l'attenzione durante il ballo in maschera del giorno seguente. Anche la madre di Giulietta cerca di convincerla ad accettare le offerte di Paride. Questa scena introduce la nutrice di Giulietta, l'elemento comico del dramma.
Il rampollo sedicenne dei Montecchi, Romeo, è innamorato di Rosalina, una Capuleti (personaggio che non compare mai) che – per un voto di purezza e castità – non vuole corrispondere alle attenzioni di Romeo. Mercuzio (amico di Romeo e congiunto del principe) e Benvolio (cugino di Romeo) cercano invano di distogliere Romeo dalla sua malinconia, quindi decidono di andare mascherati alla casa dei Capuleti per divertirsi e cercare di dimenticare. Romeo, che spera di vedere Rosalina al ballo, incontra invece Giulietta. I due ragazzi si scambiano poche parole, ma sufficienti a farli innamorare l'uno dell'altra e a spingerli a baciarsi. Prima che il ballo finisca la balia rivela a Giulietta il nome di Romeo, il quale apprende che la ragazza è la figlia dei Capuleti.
Il secondo atto inizia quando Romeo si congeda dai suoi amici e – rischiando la vita – si trattiene nel giardino dei Capuleti dopo la fine della festa. Durante la famosa scena del balcone i due ragazzi si dichiarano il loro amore e decidono di sposarsi in segreto. Il giorno seguente il francescano frate Lorenzo – con l'aiuto della balia – unisce in matrimonio Romeo e Giulietta, sperando che la loro unione possa portare pace tra le rispettive famiglie.
Nel terzo atto le cose precipitano quando Tebaldo, cugino di Giulietta e di temperamento iracondo, incontra Romeo e cerca di provocarlo a un duello. Romeo rifiuta di combattere contro colui che è ormai anche suo cugino, ma Mercuzio (ignaro di ciò) raccoglie la sfida. Nel tentativo di separarli Romeo permette involontariamente a Tebaldo di ferire Mercuzio, che muore augurando «la peste a tutt'e due le vostre famiglie» e nell'ira Romeo uccide Tebaldo per vendicare l'amico. Giunge il principe che chiede chi abbia provocato la mortale rissa e Benvolio racconta di come Romeo abbia tentato invano di placare le offese e le angherie di Tebaldo. Donna Capuleti mette in dubbio però tale racconto poiché fatto da un Montecchi e allora il principe condanna Romeo all'esilio, dato che Mercuzio era suo congiunto e Romeo ha agito per vendicarlo. Romeo deve quindi lasciare la città prima dell'alba del giorno seguente e non più tardi del cambio della guardia, altrimenti sarà messo a morte.
Giulietta apprende intanto dalla sua balia della morte di Tebaldo (suo cugino) e del bando per Romeo e chiede disperata alla balia di trovare Romeo, portargli il suo anello e chiedergli di incontrarla per l'ultimo addio. La balia si reca quindi da frate Lorenzo, dove Romeo ha trovato rifugio e insieme concordano di far incontrare i due sposi. Nel frattempo il conte Paride incontra i Capuleti per chiedere delle nozze con Giulietta e questi decidono di fissare la data per giovedì, così da sollevare il morale alla figlia, credendo si stia disperando in lacrime per la morte di Tebaldo. I due sposi riescono a passare insieme un'unica notte d'amore e all'alba, svegliati dal canto dell'allodola, messaggera del mattino (che vorrebbero fosse il canto notturno dell'usignolo), si separano e Romeo fugge a Mantova. La mattina dopo Giulietta apprende dai suoi genitori della data delle nozze con Paride e al suo rifiuto viene verbalmente aggredita dal padre, che minaccia di diseredarla e cacciarla dalla sua casa. Giulietta chiede invano conforto alla sua Balia e poi, fingendo un ravvedimento, manda questa a chiedere ai suoi il permesso di andare a confessarsi con frate Lorenzo per espiare il torto fatto con il suo rifiuto.
Il quarto atto inizia con un colloquio tra frate Lorenzo e Paride, che gli annuncia il matrimonio con Giulietta per giovedì. Poco dopo giunge la ragazza, la quale si trova quindi di fronte al conte e per congedarlo è costretta a farsi baciare e poi, una volta uscito quest'ultimo, si rivolge disperata al frate. Frate Lorenzo, esperto religioso in erbe medicamentose, escogita una soluzione al dramma e consegna a Giulietta una pozione-sonnifero che l'avrebbe portata a uno stato di morte apparente solo per quarantadue ore, in realtà un sonno profondo con rallentamento del battito cardiaco (impercettibile), per non sposare Paride e fuggire. Nel frattempo il frate manda il suo fidato assistente, frate Giovanni, a informare Romeo affinché egli la possa raggiungere al suo risveglio e fuggire da Verona. Tornata a casa Giulietta finge la propria approvazione alle nozze e una volta giunta la notte beve la pozione e si addormenta nel profondo sonno. Al mattino la balia si accorge sconvolta della "morte" di Giulietta. La giovane viene sepolta nella tomba della famiglia dove riposa anche Tebaldo.
Nel quinto atto Romeo viene a sapere dal suo servo Baldassare (che ha assistito al funerale di Giulietta inconsapevole del retroscena) della morte della sua sposa. Romeo disperato si procura quindi un veleno con l'intento di tornare a Verona, dare l'estremo saluto alla sua sposa e togliersi la vita.
Nel frattempo frate Lorenzo apprende da frate Giovanni la mancata consegna a Romeo poiché Mantova è sotto quarantena per la peste e gli è stato impedito di recapitare la missiva. Romeo raggiunge precipitosamente Verona e in segreto si inoltra nella cripta dei Capuleti ordinando al suo servo Baldassare di andarsene e lasciarlo solo, determinato a unirsi a Giulietta nella morte. Qui si imbatte però in Paride, anch'egli in lutto venuto a piangere Giulietta. Paride riconosce Romeo e vorrebbe arrestarlo: ne nasce un duello nel quale Paride rimane ucciso. Il paggio di Paride (che era rimasto fuori di guardia) corre a chiamare le guardie, mentre Romeo – dopo aver guardato teneramente Giulietta un'ultima volta e sul punto di raggiungerla nella morte – si avvelena pronunciando la famosa frase: «E così con un bacio io muoio». Nel frattempo giunge frate Lorenzo che si imbatte in Baldassare e apprende che il suo padrone Romeo è già da mezz'ora nella cripta. Il frate intuisce che qualcosa di tragico sta accadendo e corre nella cripta, dove scorge i corpi ormai esanimi di Paride e Romeo. Giulietta intanto si sveglia e il frate cerca in un primo tempo di nasconderle la verità, ma poi pronuncia la frase: "Un potere più grande, cui non possiamo opporci, ha frustrato i nostri piani", sentendo quindi delle voci che si avvicinano supplica Giulietta di seguirlo, ma fugge impaurito a causa delle guardie che sopraggiungono, e Giulietta non lo segue. Questa, alla vista di Romeo morto accanto a lei, si uccide trafiggendosi con il pugnale del suo amato sposo e si unisce a lui nella morte.
Nella scena finale le due famiglie e il principe Escalo accorrono alla tomba, dove frate Lorenzo gli rivela infine l'amore e il matrimonio segreto di Romeo e Giulietta. Le due famiglie, come anticipato nel prologo, sono riconciliate dal sangue dei loro figli e pongono fine alle loro sanguinose dispute, mentre il principe li maledice per il loro odio che ha causato la morte delle loro gioie. Infine il principe si allontana pronunciando l'ultima frase della tragedia: «Una triste pace porta con sé questa mattina: il sole, addolorato, non mostrerà il suo volto. Andiamo a parlare ancora di questi tristi eventi. Alcuni avranno il perdono, altri un castigo.
Ché mai vi fu una storia così piena di dolore come questa di Giulietta e del suo Romeo.»
Origini
Il dramma è soprattutto di ispirazione medievale, nonostante Carol Gesner e J.J. Munro abbiano dimostrato come il motivo sia già presente nella letteratura greca antica nei Babyloniaka di Giamblico e negli Ephesiaka (Racconti efesii intorno ad Abrácome e Anzia) di Senofonte Efesio. In questo secondo romanzo Anzia, una donna separata dal marito a causa della sorte avversa, viene salvata da una banda di ladri di tombe. Sopraffatti dall'eroico Perilao, questi pretende da lei di sposarlo per riconoscenza, creando la stessa situazione provocata da Paride in Shakespeare. Una disperata Anzia beve una pozione che crede essere veleno, ma che come in Giulietta produce solo uno stato letargico di morte apparente. Dopo essersi risvegliata è tratta in salvo dagli stessi tombaroli, con i quali parte per altre avventure fantastiche.
Altra origine è la vicenda di Piramo e Tisbe, da Le metamorfosi di Ovidio, che contiene paralleli alla storia di Shakespeare: secondo la leggenda nella versione di Ovidio l'amore dei due giovani era contrastato dalle famiglie, tanto che i due erano costretti a parlarsi attraverso una crepa nel muro che separava le loro case e questa difficile situazione li indusse a programmare la loro fuga d'amore. Nel luogo dell'appuntamento – che era vicino a un gelso – Tisbe, arrivata per prima, incontra una leonessa dalla quale si mette in salvo perdendo un velo che viene stracciato e macchiato di sangue dalla belva stessa. Piramo trova il velo macchiato dell'amata e credendola morta si trafigge con la spada. Sopraggiunge Tisbe che lo trova così in fin di vita e, mentre tenta di rianimarlo gli sussurra il proprio nome, lui riapre gli occhi e riesce guardarla. Per il grande dolore anche Tisbe si uccide accanto all'amato sotto il gelso. Tanta è la pietà degli dei nell'ascoltare le preghiere di Tisbe che trasformano i frutti del gelso, intriso del sangue dei due amanti, in color vermiglio.
Romeo e Giulietta nella letteratura italiana
I nomi delle due famiglie in lotta erano già noti nel Trecento, inseriti da Dante nella sua Commedia (precisamente nel canto VI del purgatorio, versi 105-106-107):
«Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!»
Solo i Montecchi sono originari di Verona, mentre i Capuleti (che in realtà si chiamavano Cappelletti) provengono invece da Cremona, anche se si trovano pure a Verona fino agli anni della permanenza di Dante, nell'odierna casa di Giulietta, dove la loro presenza è testimoniata anche dallo stemma del cappello sulla chiave di volta dell'arco di entrata al cortile dell'edificio duecentesco. Non ci sono notizie di lotte tra Cappelletti e Montecchi, mentre questi ultimi hanno portato avanti per molto tempo una lotta sanguinosa contro i guelfi (in particolare con la famiglia guelfa dei Sambonifacio). Le notizie sui Montecchi vengono dopo che furono banditi dalla città da Cangrande della Scala, per aver tentato un complotto contro di lui. Il contesto storico in Dante non fa riferimento alle vicende dell'amore contrariato tra amanti di queste famiglie, che non vi appaiono, ma parla delle due famiglie, commiserandole, dato che erano famiglie «già tristi».
Una prima struttura della trama si delinea invece nella novella di Mariotto e Ganozza di Masuccio Salernitano, composta nel 1476, ma ambientata a Siena. La sua versione della storia comprende il matrimonio segreto, il frate colluso, la mischia in cui un cittadino di primo piano viene ucciso, l'esilio di Mariotto, il matrimonio forzato di Ganozza, la pozione e il messaggio fondamentale che si smarrisce. In questa versione Mariotto viene catturato e decapitato e Ganozza muore di dolore. Sia il tono sia la trama dell'opera mostrano delle notevoli differenze dall'opera di Shakespeare: Masuccio insiste più volentieri, almeno all'inizio, sull'aspetto erotico e spensierato della loro relazione, ben lontana dall'aspetto di sacralità che avrebbe acquisito in seguito. Ganozza trangugia allegramente la pozione (la Giulietta di Shakespeare beve il narcotico con terrore e da quei suoi versi sarebbero usciti dei presagi sinistri della catastrofe che avrebbe seguito di lì a poco). L'ambientazione di Masuccio è solare e mediterranea, mentre la morte di Tebaldo – qui scaduto a un ignoto "onorevole cittadino" – è effetto (non immediato) di una bastonata assestatagli da Mariotto in seguito a un'animata discussione. Non vi è ancora nessun duello, né un Mercuzio.
Il vicentino Luigi da Porto nella sua Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti, pubblicata nel 1530 circa, diede alla storia molto della sua forma moderna, rinominando i giovani Romeo e Giulietta e trasportando l'azione da Siena a Verona (città che ai tempi di Da Porto era strategicamente importante per Venezia), all'epoca di Bartolomeo della Scala, nel 1301-1304. Da Porto presenta il suo racconto come storicamente vero e nella trama sono già presenti elementi chiave: personaggi corrispondenti a quelli di Shakespeare (Mercuzio, Tebaldo e Paride), la rivalità tra famiglie, la rissa, la morte di un cugino dell'amata perpetrata da Romeo, il bando dalla città di quest'ultimo e il tragico suicidio di entrambi, Romeo con un veleno e Giulietta ("raccolto a sé lo spirito, e per buono spatio tenutolo") trattenendo il fiato. Da Porto trovò forse ispirazione da vicende autobiografiche, ovvero il suo amore con Lucina Savorgnan, nel contesto delle faide fra famiglie nobili in Friuli. Quest'ultime ebbero inizio con il Crudele giovedì grasso ad Udine nel 1511, di cui da Porto fu testimone e che ricorda nelle Lettere storiche di Luigi da Porto vicentino, dall'anno 1509 al 1528 (a cura di B. Bressan, Firenze, 1857). Rielaborata nelle riduzioni drammatiche Giulia e Romeo (1553) di Clizia (attribuito al nobile veronese Gerardo Boldiero) e Hadriana di Luigi Groto (1578), la Historia fu ripresa da Matteo Bandello e inclusa nel secondo volume delle sue Novelle del 1554. Bandello introduce la nutrice e Benvolio.
Versioni francesi e inglesi
La novella di Bandello fu tradotta in francese da Pierre Boaistuau (1559) nel primo volume delle sue Histories Tragiques. Boaistuau aggiunge molto moralismo e sentimento e la sua versione venne a sua volta tradotta in inglese, sia in prosa (da William Painter nel suo Palace of Pleasure, 1567), sia in versi: il poema narrativo Tragicall Historye of Romeus and Juliet, scritto nel 1562 da Arthur Brooke, fu infine la fonte primaria del Romeo and Juliet di Shakespeare. Si tratta di un poema drammatico di poco più di tremila versi, scritto in rime baciate di esametri giambici alternate a eptametri. Il risultato è piuttosto monotono, spesso sin troppo moraleggiante come in Boaistuau e i personaggi sono privi della freschezza di Shakespeare che, pur cambiandone il tono in parecchie parti, ne segue molto fedelmente la trama. A Brooke dobbiamo tra l'altro la felice invenzione della balia così come appare in Shakespeare, un po' sboccata, ma generosa con tutti, spontanea e dall'umorismo popolare.
La modifica sostanziale che Shakespeare introdusse nella vicenda, più che le azioni e i fatti, riguarda la moralità e il significato assegnato alla storia. Gli amanti «sfortunati e disonesti» descritti da Brooke diventarono personaggi archetipici dell'amore tragico, riflettendo allo stesso tempo la crisi del mondo culturale e sociale dell'epoca, in cui il principe e la Chiesa non riescono più a imporre l'ordine (materiale e spirituale). Nella versione di Boaistiau ancora si condannava apertamente l'unione tra Romeo e Giulietta, colpevoli di avere ascoltato i loro istinti voltando le spalle ai sentimenti delle loro famiglie e l'ordine sociale a cui tutti debbono conformarsi.
Shakespeare arricchì e trasformò stilisticamente la trama in modo più intenso con le vivide caratterizzazioni dei personaggi minori, tra cui Benvolio, cugino di Romeo e vicino al principe, nelle funzioni di testimone della tragedia, la nutrice (appena accennata da Brooke) che rappresenta un momento di comica leggerezza e infine Mercuzio, creatura shakespeariana di straordinaria potenzialità drammatica e figura emblematica, che incarna l'amore dionisiaco e vede la donna solo nel suo aspetto più immediatamente materiale. Romeo rivela però una concezione più alta, che innalza Giulietta oltre la pura materialità dell'amore.
In Shakespeare il tempo rappresentato si comprime al massimo, aumentando così l'effetto drammatico. La vicenda, originariamente della durata di nove mesi, si svolge in pochi giorni, da una domenica mattina di luglio alla successiva notte del giovedì. Il percorso drammaturgico si brucia in una sorta di rito sacrificale, con i due giovanissimi protagonisti travolti dagli avvenimenti e (come scrive Silvano Sabbadini in una sua introduzione all'opera) dall'impossibilità di un passaggio all'età adulta e alla maturazione.
Nonostante la diversità di impostazione, nel Romeo e Giulietta shakespeariano è possibile ravvisare citazioni quasi letterali da Brooke, che sembrano dimostrare come prima della composizione Shakespeare dovesse conoscere il poema quasi a memoria. Tuttavia vi sono anche influenze dirette da altri autori, seppure in misura minore: oltre a echi del Palace of Pleasure vi sono anche quelli del Troilo e Criseide di Geoffrey Chaucer, che Shakespeare doveva conoscere molto bene, derivati a loro volta dal Filostrato boccaccesco che Shakespeare sembra però non avere mai letto.
Al tempo in cui Shakespeare iniziava la sua carriera drammaturgica la storia dei due amanti infelici aveva ormai fatto il giro dell'Europa, riempiendo non solo le librerie, ma anche gli arazzi delle case. Brooke stesso ci parlava già, trent'anni prima dell'esordio di Shakespeare, dell'esistenza di un famoso dramma sull'argomento, non specificandone però l'autore. La popolarità di questo protodramma, anche se non ci sono pervenuti copioni né adattamenti, induce facilmente a pensare che molti autori minori avessero già messo in scena la storia un gran numero di volte prima che Shakespeare si cimentasse con la propria versione. Di solito, gli attori erano talmente presi dalla trama che, per non essere feriti dagli oggetti lanciati dalla platea (se il romanzo non era di loro gradimento) improvvisavano e facevano finire bene la storia.
Romeo e Giulietta di Francesco Hayez.
La vicenda dei due protagonisti ha assunto nel tempo un valore simbolico, diventando l'archetipo dell'amore perfetto, ma avversato dalla società. Innumerevoli sono le riduzioni musicali (per esempio: il poema sinfonico di Cajkovskij, il balletto di Prokof'ev e anche quello di Kenneth MacMillan, l'opera di Gounod, l'opera di Bellini I Capuleti e i Montecchi e il musical West Side Story) e cinematografiche (fra le più popolari quelle dirette da Zeffirelli e Luhrmann).
GIULIO CESARE
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TRAMA E TEMATICHE.
Il grande dramma, scritto con tutta probabilità nel 1599, usando come fonte principale le “Vite Parallele” di Plutarco, è uno dei capolavori di Shakespeare. Il protagonista della tragedia non è colui che dà il nome all’opera. Infatti, Cesare appare in sole tre scene e muore all’inizio del terzo atto. Il protagonista è invece Bruto, motore dell’azione dall’inizio alla fine. Un altro aspetto fondamentale della tragedia è il tempo: Shakespeare comprime i tre anni che vanno dalla vittoria di Munda nel 45 a.C. al suicidio di Bruto nel 42 d.C. per farli durare meno di sei giorni. Il dramma inoltre si può dividere in due parti distinte: i primi tre atti narrano la tragedia di Cesare e gli ultimi due la vendetta dei cesariani contro i congiurati. Date queste informazioni indispensabili per l’inquadramento del dramma posso cominciare con il riassunto: la narrazione si apre con la rappresentazione della vita di Cesare, del tutto ignaro di quello che porterà alle Idi di Marzo e al suo assassinio. La situazione però a Roma è in subbuglio: i senatori sono preoccupati del crescente potere di Cesare e preparano una congiura per impedire che il console trasformi la repubblica in una monarchia. Tra questi ci sono Bruto, Cassio, suo amico e altri cospiratori tra cui anche Casca, Trebonio, Ligario, Decio Bruto, Metello Cimbro e Cinna. La sorte di Cesare è nelle mani dei congiurati.
Cesare, ritornato a Roma dopo la campagna d’Egitto, viene allarmato da un indovino che lo avverte del pericolo imminente proprio durante le idi di marzo. A questo si aggiungono i sogni profetici e le premonizioni della moglie di Cesare, Calpurnia, che cerca in tutti i modi di convincerlo a rimanere a casa e a non recarsi al Senato. Decio però lo convince e Cesare decide di accettare l’invito in occasione della festa dei Lupercali: verrà assassinato durante la riunione per mano dei congiurati che lo circondano e lo pugnalano. Dopo la morte di Cesare arriva il console Marco Antonio, esponente del partito cesariano, che organizza i funerali del console. In questa occasione pronuncia il famoso monologo per esprimere l’elogio funebre in suo onore. Antonio, che si rivolge al popolo pronuncia questo incipit:
"Amici, romani,concittadini, prestatemi le vostre orecchie; sono venuto a seppellire Cesare, non a tesserne l'elogio. Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita, mentre il bene viene spesso sepolto assieme alle loro ossa.".
Dopo la morte del dittatore è il caos: Bruto si giustifica dell’uccisione evocando la libertà di Roma e affermando di voler evitare una tirannia, ma subito dopo parla Marco Antonio, che dopo un’attenta lettura del testamento di Cesare, scuote i romani contro i congiurati infiammando gli animi. Dopo la morte di Cesare, i cesariani preparano la vendetta, che si dipana negli atti IV e V, approfittando dei rapporti sempre più tesi tra Bruto e Cassio: Bruto infatti accusava Cassio di regicidio in cambio di denaro. I due però si riconcilieranno per praparare la guerra contro Marco Antonio e Ottaviano, pronipote e figlio adottivo di Cesare. Antonio, unitosi a Ottaviano e Lepido, guida la repressione contro i congiurati e raccoglie truppe per l'attacco decisivo contro Bruto e Cassio, i quali, riuniti a Sardi, cercano di ricomporre i dissidi in vista della battaglia di Filippi, alla vigilia della quale a Bruto compare in sogno il fantasma di Cesare, avvertendolo che lo rivedrà a Filippi. Nell’ultimo atto, prima della battaglia i capi delle due parti s'incontrano e si scambiano reciproche accuse di tradimento. L'esito della battaglia è assai incerto: Bruto ha la meglio su Ottaviano, Antonio prevale su Cassio, il quale, vistosi perduto, si fa uccidere dal servo Pindaro. Bruto, tornato all'attacco, è sopraffatto e, piuttosto che cadere vivo nelle mani dei triumviri, si uccide. Su quest'ultimo avvenimento, che nella realtà storica si svolse due anni dopo (nel 42 a.C.), la tragedia si chiude.
La tragedia in versi e in prosa in cinque atti è un unico conflitto, sia a livello personale che politico. Tutto il "Giulio Cesare" può leggersi come una ricerca delle contraddizioni tra fini e mezzi in cui incorre chi, battendosi per ideali di libertà e di eguaglianza, decide di ricorrere all'uso della violenza. Shakespeare ci presenta dunque, con assoluta imparzialità, due opposti esempi di complessità psicologica: Bruto, che ama Cesare, lo uccide in nome di un amore più grande, quello per la libertà; Antonio, che è sinceramente commosso alla vista del corpo esanime del dittatore, si sforza di sfruttare astutamente a proprio vantaggio la tragica vicenda. Shakespeare approfondisce e mette in risalto la psicologia dei personaggi in maniera magistrale, sottolineando difetti e virtù tipici delle persone quali l'odio, la fedeltà, l'onore. L’episodio descritto nel dramma è certamente un pretesto all'autore per un'acuta riflessione su temi politici di estrema attualità, soprattutto nell'Inghilterra del suo tempo, che si avvia a diventare una grande potenza politica e militare.
Testo dei monologhi di Antonio
Atto Terzo – Scena Seconda
Nobili romani! Amici, concittadini romani! Prestatemi orecchio. Sono venuto a seppellire Cesare, non a farne l’elogio. Il male che un uomo fa, gli sopravvive, il bene, spesso, resta sepolto con le sue ossa. E così sia di Cesare.
Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso: se era, ebbe grave colpa; e Cesare l’ha gravemente scontata.
Qui, col beneplacito di Bruto e degli altri – che Bruto è un uomo d’nore, e anche gli altri, tutti uomini d’onore – sono venuto a parlare al funerale di Cesare.
Fu un mio amico, leale e giusto con me.
Ma Bruto dice che era ambizioso: e Bruto è uomo d’onore.
Egli portò un gran numero di prigionieri in Patria, a Roma, che empirono col prezzo del riscatto le casse dell’erario; fu questa, forse, in Cesare ambizione? Quando vedeva piangere un pezzente, Cesare lacrimava: sembrerebbe, l’ambizione, di ben più dura scorza.
Ma Bruto dice – e Bruto è uomo d’onore – che era ambizioso.
Tutti vedeste come per i Lupercali tre volte gli offersi la corona di re ed egli per tre volte la respinse: è ambizione questa?
Eppure Bruto dice che Cesare era ambizioso, e Bruto è, lo sappiamo, un uomo d’onore.
Non parlo io già per contestare quello che Bruto ha detto; sono qui per dire soltanto quello che so. Tutti lo amaste un tempo; e non senza motivo. Quale motivo vi impedisce oggi di piangerlo? O senno,tu sei fuggito tra le bestie brute e gli uomini hanno perduto nil bene dell’intelletto!
Scusate, il mio cuore è lì, con Cesare, in quella salma.; devo interrompermi finché non sia tornato in me.
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Ora, se avete lacrime, Romani, preparatevi a spargerle. Il mantello lo conoscete tutti: io ho, nel mio ricordo, la prima volta ch’egli l’ha indossato: nella sua tenda, una sera d’estate, il giorno stesso che sconfisse i Nervii. Guardate: in questo punto è penetrato il pugnale di Cassio; qui, vedete, che squarcio ha fatto nella sua ferocia Casca, e per là è poi passato il pugnale del suo diletto Bruto; e quando questi ha estratto da quel varco il maledetto acciaio, ecco, osservate come il sangue di Cesare n’è uscito quasi a precipitarsi fuor di casa per sincerarsi s’era stato Bruto, o no, che avesse così rudemente bussato alla sua porta: perché Bruto era l’angelo di Cesare, lo sapete. E voi siete testimoni, o dèi, di quanto caramente egli l’amasse! Questo di tutti i colpi è stato certamente il più crudele: perché il nobile Cesare quando vide colui che lo vibrò, l’ingratitudine, più che la forza delle braccia degli altri traditori, lo soverchiò del tutto, e il suo gran cuore gli si spezzò di schianto; e, coprendosi il volto col mantello, ai piedi della statua di Pompeo, che intanto s’era inondata di sangue, il grande Cesare crollò e cadde. Oh, qual caduta, miei compatrioti, è stata quella! Tutti, in quell’istante, siamo caduti, mentre su di noi trionfava nel sangue il tradimento. Oh, ora voi piangete; e la pietà, m’accorgo, fa sentire in voi il suo morso: son generose lacrime, le vostre; e voi piangete, anime gentili, e avete visto solo sulla veste del nostro Cesare le sue ferite. Guardate qua: (Solleva il lenzuolo e scopre il corpo di Cesare) il suo corpo straziato dai pugnali traditori.
La morte di Cesare di Karl Theodor von Piloty
AMLETO
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Amleto (in inglese The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark,) è tra le più famose e citate tragedie di William Shakespeare. Fu scritta probabilmente tra il 1600 e l'estate del 1602. È tra le opere più frequentemente rappresentate in quasi ogni paese occidentale ed è considerata un testo cruciale per attori maturi. Il monologo di Amleto "Essere o non essere" (atto III, scena I), il passaggio più famoso del dramma, vanta un'immensa gamma di interpretazioni sui palcoscenici di tutto il mondo, anche se spesso questo soliloquio viene erroneamente citato accanto all'immagine di Amleto che tiene in mano un teschio: in realtà la scena del teschio è nella parte finale del dramma (atto V, scena I) e non ha niente a che vedere con "Essere o non essere", che si trova nella parte centrale (atto III, scena I). Amleto è una delle opere drammaturgiche più famose al mondo, tradotta in quasi tutte le lingue esistenti. È considerato dalla maggior parte dei critici il capolavoro assoluto di Shakespeare, nonché una delle più grandi opere della letteratura di tutti i tempi. Nel Novecento il principe danese è stato rappresentato sulle scene dal talento di attori come Laurence Olivier e John Barrymore e dall'attore britannico John Gielgud.
«Essere o non essere è questo il dilemma. È forse più nobile soffrire, nell'intimo del proprio spirito, le pietre e i dardi scagliati dall'oltraggiosa fortuna, o imbracciar l'armi, invece, contro il mare delle afflizioni, e combattendo contro di esse metter loro una fine? Morire per dormire. Nient'altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali di cui è erede la carne! Quest'è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire per dormire. Dormire, forse sognare. È proprio qui l'ostacolo; perché in quel sonno di morte, tutti i sogni di morte che possano sopraggiungere quando noi ci siamo liberati dal tumulto, dallo sviluppo di questa vita mortale, dovranno indurci a riflettere. È proprio questo scrupolo a dare alla sventura una vita così lunga! Perché, chi sarebbe capace di sopportare le frustate e le irruzioni del secolo, i torti dell'oppressore, gli oltraggi dei superbi, e le sofferenze dell'amore non corrisposto, gli indugi della legge, l'insolvenza dei potenti e lo scherno che il merito paziente riceve dagli indegni, se potesse egli stesso dare a se stesso la propria quietanza con un nudo pugnale?»
Trama
Nel XVI secolo, sulle torri che cingono Elsinora, la capitale della Danimarca, due soldati s'interrogano sul fantasma che nelle ultime sere sta facendo la sua comparsa, aspettando il cambio di mezzanotte. Al cambio, insieme alla sentinella arriva anche Orazio, amico del principe, chiamato dalla guardia a vigilare sullo strano fenomeno.
Lo spettro compare per la prima volta poco dopo la mezzanotte e si fa subito notare da Orazio per la somiglianza con il defunto sovrano; rimane però muto, e poco dopo scompare. I due restano in attesa di altre apparizioni. Orazio spiega così a Marcello, una delle guardie sulle mura, che il figlio di Fortebraccio sta riunendo un'armata ai confini della Norvegia, per riprendersi i territori che il padre ha perso in un duello con il defunto re. Prima dell'alba riappare il fantasma, ma quando è sul punto di parlare in seguito alle continue richieste di Orazio, canta il gallo e con questo suono il fantasma scompare.
La scena si sposta ora nel consiglio reale da poco aperto da Luciana Midulla. Sono presenti il re Claudio, fratello del re defunto, la regina Gertrude, Amleto, il ciambellano Polonio, suo figlio Laerte, i due ambasciatori Cornelio e Voltimando, e altri. Nella riunione viene per prima discussa la questione del figlio di Fortebraccio, e viene deciso di mandare i due ambasciatori dal re di Norvegia per convincerlo a indurre il nipote a più miti azioni. Poi Laerte chiede al re di poter partire alla volta della Francia e questi glielo permette.
Orazio, nel frattempo, raggiunge Amleto per metterlo al corrente delle apparizioni di uno spirito con le sembianze del padre e del proprio presentimento che questi voglia parlare solamente con lui. Decidono quindi d'incontrarsi sulle mura verso le undici. Giunti sulle mura lo spirito fa la sua apparizione e chiede subito di parlare con il solo Amleto. Questi, intuendo che si tratta dello spirito del padre, accetta senza esitazioni. Quando rimangono soli, lo spettro svela ad Amleto questa tremenda verità: suo zio, ambendo al trono e al matrimonio con la Regina, lo aveva ucciso, versandogli nell'orecchio un veleno mortale a base di giusquiamo mentre dormiva in giardino. Alla fine della tragica storia lo spettro chiede al giovane di vendicarlo, ed egli accoglie la richiesta senza indugiare.
Tornato tra i suoi amici (Orazio e la guardia Marcello), nonostante le richieste di questi di svelare loro il contenuto del colloquio, Amleto resta muto e li fa anche giurare, aiutato in questo compito dalla voce dello spettro, di non parlare con nessuno delle apparizioni. Dopo l'incontro Amleto diventa ancora più tetro, e i sovrani preoccupati mandano a chiamare Rosencrantz e Guildenstern (due amici dell'università) affinché indaghino sulla malinconia del principe e riferiscano tutto. I due parlano a lungo con Amleto, che però non si fida di loro, intuendo che siano d'accordo con il re. Questi tentano comunque di rallegrare il principe sfruttando l'occasione dell'arrivo di una compagnia teatrale.
L'idea rende Amleto euforico, non per lo svago che gli si prospetta, bensì perché la rappresentazione teatrale gli offre la possibilità di mettere in pratica un piano ideato per verificare se le informazioni dello spettro del padre siano vere o se egli sia piuttosto una visione demoniaca che lo spinge all'assassinio dello zio. I due compagni vengono intanto richiamati dal re per sapere se hanno scoperto qualcosa sulla crisi di Amleto e su come si possa riportarlo ai vecchi svaghi. È presente anche Polonio che, quando vede che i due non riescono a spiegare la causa dei problemi del principe, propone al re di verificare se la tristezza di Amleto derivi dal non vedere più Ofelia. Quindi, congedati Rosencrantz e Guildenstern e notando l'arrivo d'Amleto, Polonio, il re e la regina si nascondono lasciando sola Ofelia affinché si possa incontrare in modo “casuale” con Amleto. Amleto però giunge in quel momento in preda ai furori causatigli dalla rivelazione dello spettro, cosicché rifiuta ogni idea di vita coniugale e alla povera Ofelia, che gli ricorda le vecchie promesse d'amore, consiglia di farsi suora, terminando il loro dialogo con la tetra frase "Non avverranno più matrimoni e degli sposati uno morirà". Lo zio, sentendo questa frase, sospetta che Amleto possa aver intuito qualcosa dei suoi crimini, e comincia quindi a prospettare l'idea di esiliarlo in Inghilterra con la scusa di qualche incarico amministrativo.
Amleto, dopo ciò, va dagli attori per raccomandare loro una buona interpretazione nello spettacolo della sera. Il suo piano infatti consiste nel verificare se le accuse dello spettro sono vere, inscenando un dramma, "L'assassinio di Gonzago", simile a quello accaduto e osservando le reazioni del re: se il re si fosse mostrato turbato, ciò avrebbe significato che le accuse del fantasma erano fondate. L'idea riesce al meglio: infatti, durante la scena dell'avvelenamento, il re esce incollerito dal teatro. Dopodiché la madre, per placare la collera del re, chiama Amleto in camera sua per indurlo a spiegarsi con lo zio sui motivi della rappresentazione di quel dramma.
La regina stabilisce insieme a Polonio che, mentre lei parlerà con il figlio Amleto, questi (Polonio) si nasconda nella sua camera, cosicché possa riferire al re le parole di Amleto. Amleto, mentre sfoga la sua collera con la madre, scambia Polonio per il re e lo uccide al grido di "un topo, un topo!", e alla fine porta senza alcun rimorso il corpo con sé per seppellirlo velocemente.
Saputo di quest'atto, il re conviene che si deve affrettare la sua partenza per l'Inghilterra e manda Rosencrantz e Guildenstern a sollecitarlo per partire subito con la scusa del vento favorevole. Ofelia intanto giunge al palazzo in uno stato di completa pazzia perché, essendo venuta a sapere da alcune voci che il padre Polonio è stato ucciso, è stata sopraffatta dal nuovo dolore, aggiuntosi alla delusione amorosa inflittale da Amleto.
Amleto, intanto, in cammino verso il porto per imbarcarsi in direzione dell'Inghilterra, incontra le armate di Fortebraccio che passano sul territorio danese per attaccare la Polonia. Informatosi presso i soldati dell'importanza del territorio, viene a sapere che è un terreno brullo e strategicamente inutile, ma che loro lo conquisteranno, anche se ben difeso dai polacchi, solamente per l'onore che deriva da una conquista. Ciò induce Amleto a riflettere sulla propria meschinità che gli fa lasciare invendicato l'assassinio del padre nonostante la sua richiesta di vendetta.
Laerte intanto, cui sono giunte delle false voci secondo le quali suo padre è stato ucciso dal re, messosi alla guida di un'accozzaglia di criminali e avventurieri giunge in Danimarca, sbaraglia l'esercito danese e si presenta davanti al re, chiedendogli conto sia della morte di Polonio sia dei mancati onori funebri. Il re, dopo un lungo colloquio durante il quale compare anche Ofelia, riesce a illustrare al furente Laerte tutta la verità, omettendo naturalmente il motivo della furia del principe.
Intanto arriva a Orazio una lettera di Amleto in cui gli dice che di tutto l'equipaggio della nave lui solo è stato catturato dai pirati, e gli ordina di portare una lettera, allegata a quella che sta leggendo, al sovrano. Orazio manda subito al re un corriere, che giunge verso la fine della sua discussione con Laerte. La missiva annuncia al sovrano l'imminente ritorno di Amleto in Danimarca.
Il re propone allora a Laerte, come mezzo di vendetta, di sfidare Amleto a duello. I due concordano che Laerte userà una spada con la punta intinta in un potente veleno. Per sicurezza, il re decide anche di offrire al nipote, durante il duello, una bevanda avvelenata.
Nel frattempo Ofelia, ormai pazza, si è uccisa gettandosi in un lago e due becchini le stanno scavando la fossa. Amleto, trovandosi a passare di lì con Orazio, s'interroga su quale nobildonna (perché solo una nobildonna potrebbe avere una sepoltura cristiana anche uccidendosi) debba esser seppellita lì. Quando vede il corteo funebre capisce tutto e non può fare a meno di accorrere sulla bara di Ofelia. Laerte, pieno di collera contro di lui, lo riempie d'insulti e lo sfida a duello. Il giorno seguente Amleto viene chiamato nella sala del re per la sfida che sarà all'ultimo sangue. Amleto però, prima del duello, si riconcilia con Laerte per mezzo di sincere scuse e dimostrazioni di stima.
Comincia il duello e Amleto sta avendo la meglio, così il re gli offre la coppa di vino avvelenato. Ma il giovane la rifiuta, ed è invece la regina a berla, con orrore del re. I duellanti intanto, nella foga, si scambiano i fioretti, cosicché ognuno si ferisce con quello avvelenato. La prima a soccombere è la regina. Allora Laerte, pentito di aver escogitato un così ignobile piano, rivela tutto ad Amleto e poi muore per il veleno che lo ha ferito. La furia del principe si abbatte allora sul re e lo trafigge con la spada avvelenata, rivelandone i delitti e offrendogli anche la coppa avvelenata, da cui il re beve, morendo.
Amleto è in fin di vita quando Orazio gli annuncia che Fortebraccio è appena tornato vittorioso dalla Polonia. Amleto allora lo propone come nuovo re appena prima di morire. Fortebraccio, giunto quindi al castello, sale sul trono in quanto detentore dei maggiori diritti a reclamarlo, e dispone grandi funerali per il defunto principe.
Commento
Alla corte di Danimarca il dubbio e l'ambiguità prevalgono. C'è incertezza tra essere e apparire, pensiero e azione. Il giovane principe sembra determinato a compiere la sua vendetta ma continuamente procrastina l'azione; l'esitazione sembra essere la sua malattia. Il dubbio è il suo antagonista (ostacolo) che lo perseguita sino alla fine (tanto che "amletico" è sinonimo di dubbioso e irresoluto).
Anche se è basato su una struttura convenzionale, l'Amleto apre la via a un moderno concetto di teatro. Muove il fulcro dell'attenzione da una vendetta privata verso un'indagine sulle basi dell'umana esistenza e sulla validità delle azioni umane. Mette sotto scrutinio un gran numero di argomenti (la legittimazione del potere, l'incesto), idee (morte, suicidio, esistenza di un mondo soprannaturale), valori (castità, onore, lealtà, amicizia), mancanza di valori (incostanza, ipocrisia, tradimento), relazioni (vincoli familiari), emozioni (amore, gelosia, odio), forme sociali (potere sovrano, gerarchia).
La tragedia è costruita su confusione e contraddizione che resistono a spiegazioni logiche che riflettono il punto di vista di Shakespeare nello scrivere. Per Goethe Amleto è l'eroe romantico, sensibile, dubbioso, wertheriano, schiacciato da un'impresa più grande di lui. Lo Schlegel vede in Amleto quasi un ipocrita verso se stesso, i cui scrupoli non sono che pretesti per mascherare la sua mancanza di risolutezza; mentre secondo Coleridge, la causa diretta dell'incapacità ad agire del malinconico principe è l'eccesso di pensiero, di riflessione. Al contrario, Nietzsche: "L'uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo nell'essenza delle cose, hanno conosciuto e provano nausea di fronte all'agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell'essenza eterna delle cose [...] La conoscenza uccide l'azione, per agire occorre essere avvolti nell'illusione" . Per Karl Jaspers: "ciò che Amleto sa, e la sua brama di sapere, lo separano dal mondo. Egli non può vivere in esso secondo le sue leggi. E allora recita la parte del pazzo. La follia, in questo falso mondo, è la maschera che gli permette di non dissimulare [...] Nell'ironia gli è concesso di essere veritiero" Amleto (uomo o personaggio) scrive Eliot “è dominato da un'emozione che è inesprimibile perché “in eccesso” rispetto ai fatti quali appaiono nel testo. La supposta identità di Amleto con il suo autore è vera, nella misura in cui lo scacco di Amleto (scarsa attendibilità oggettiva) corrisponde allo scacco artistico dell'autore”. Perciò dal punto di vista letterario è un'opera mancata, ma che può essere colmata solo dall'interpretazione scenica che ne fa un capolavoro.
Per Raffaello Piccoli ciò che inceppa la volontà di Amleto è la consapevolezza di un'infinita esigenza che egli sa di non poter mai assolvere in un atto particolare; per cui la sua vendetta non sarà un'azione giustificata se non in quanto avrà un valore universale. Non è il re immaturo per ricevere il castigo, ma Amleto per infliggerlo. Egli è ancora e sempre lo schiavo della passione, e l'azione compiuta in queste condizioni sarebbe essa stessa viziata e corrotta, un nuovo anello nella infinita catena del male. La debolezza di Amleto non è dunque una generica incapacità di agire: è il sentimento dell'inadeguatezza della sua coscienza all'azione moralmente giustificata. Lo scrittore irlandese James Joyce dà grande spazio alla figura di Amleto nel suo libro Ulisse, trae dall'opera numerose citazioni, spesso messe in bocca a Leopold Bloom o a Sthepen Dedalus. Inoltre, nel dialogo tra Dedalus e i poeti irlandesi nella biblioteca, egli parla di una sua teoria riguardante la comprensione dell'Amleto, secondo Dedalus, e secondo Joyce stesso, l'autore non si immedesima in Amleto, ma in suo padre.
Ofelia vista da John William Waterhouse.
TROILO E CRESSIDA
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Shakespeare ci riconsegna gli eroi greci in una nuova dimensione: da miti, comuni mortali, che muoiono e soffrono a causa dei propri errori e delle proprie debolezze, che combattono una guerra senza un motivo sufficiente a giustificarla, a causa di valori svuotati del loro significato piu' profondo; le ragioni della politica diventano le ragioni di un nobile, l'onore non deriva dal mantenere intatta la propria coscienza o dall'agire positivamente verso gli altri, ma dal farsi vendetta o peggio dal semplice voler esibire la propria forza fisica, la gloria militare come valore in se, a prescindere dalla causa per cui si combatte.
Nel Troilo e Cressida non ci sono personaggi pienamente positivi, tranne forse la stessa Cressida,che ci viene consegnata sotto una luce nuova: non piu' simbolo di tradimento, semplicemente una persona debole in un mondo feroce, la cui identità si frantuma per adattarsi alle situazioni nuove, come in una moderna, pirandelliana frantumazione dell'io (uno nesuno centomila).
Esiste la Cressida innamorata di Troilo, quella che cede facilmente a Diomede, esisterebbero altre Cresside a seconda delle persone che il destino dovesse mettere sul suo cammino. A proposito del destino e' utile riconoscere la grande differenza tra i grandi tragici greci del V secolo a.c. e la tragedia di Shakespeare: il "destino" dei greci è sottoposto principalmete al volere degli dei, quello shakespeariano e' inteso come tragedia del carattere, nel senso che il destino e' determinato principalmete dall'agire dell'uomo, le cui fortune sono determinate dalla bonta' d'animo e le sventure dagli errori. Un tema ricorrente in molte opere di shakespeare e' ancora quello dei sogni, che in questo caso hanno funzione di premonizione.
Il suo carattere abbastanza sconcertante ha fatto sì che raramente Troilo e Cressida sia stata popolare sulle scene e non si ricordano allestimenti né durante il corso della vita di Shakespeare né nel periodo che va dal 1734 al 1898. All'epoca della Restaurazione inglese fu duramente condannata da John Dryden, che la definì "un cumulo di spazzatura" e decise di riscriverla. Fu anche malvista in epoca Vittoriana per i suoi espliciti riferimenti di natura sessuale. Non venne mai rappresentata nella sua forma originale fino all'inizio del XX secolo ma, a partire da allora, la sua fama è andata costantemente crescendo grazie alla cinica descrizione che fornisce dell'immoralità e della disillusione dell'uomo. Tutto questo specialmente dopo la prima guerra mondiale. La sua popolarità raggiunse un picco negli anni sessanta quando il pubblico malcontento per la guerra del Vietnam aumentò in maniera esponenziale. La sua ambientazione generale durante un lungo periodo di guerra, il cinico infrangere i giuramenti dei personaggi e la mancanza di moralità di Cressida e dei Greci colpirono molto il pubblico, favorendo la frequente messa in scena dell'opera, che evidenziava l'abisso che separa gli ideali dallo squallore della realtà.
Atto I
L'atto primo si apre con un dialogo tra l'impaziente Troilo, figlio di Priamo, e Pandaro, zio di Cressida. Pandaro, avendo notato un forte interesse del principe nei confronti di sua nipote, inizia a fare la spola tra i due, sia allo scopo di accasarsi nella famiglia reale, cosa di per se gia' probabile visti i sentimenti dei due giovani, e soprattutto per prendersi una buona parte di merito nell'unione dei due giovani. Interessante il dialogo della prima scena con la metafora del pane per mostrare la pazienza come elemento indispensabile per formare le cose buone (l'amore come il pane, a cui si arriva dopo tante fasi di lavorazione e attesa, partendo dal grano). Segue un divertente dialogo in cui emergono subito i principali tratti del carattere dell'eroina del dramma (spirito, intelligenza e la saggezza di aver bollato suo zio come ruffiano, immagine questa che lo accompagnerà per tutto il dramma, in quanto "parole, voti, doni, lacrime, il sacrificio pieno dell'amore, lui offre per conto di un altro".
La scena si sposta fuori dalle mura di Troia, nell'accampamento dei greci, e si apre con Agamennone che analizza i sette anni di guerra trascorsi, in cui ogni impresa ideata per conquistare le mura di Troia, e riportare a casa la "rapita" regina Elena, non ha visto compimento nella maniera in cui era stata ideata. In questa fase viene ancora analizzato il tema della pazienza, il comandante dei greci infatti dice ai suoi uomini che le prove della guerra, e della vita, hanno origine divina, e la pazienza non va calcolata col favore della fortuna, giacche' solo quando la tempesta spazza via l'effimero cio' che ha sostanza resta intatto, "ricco di intrinseca virtu".
Segue un appunto del saggio Nestore che usa la metafora della tempesta e del mare, nel quale in assenza di tempesta possono viaggare sia le barchette di fortuna che le navi corazzate : la pazienza, quindi, diventa moneta divina e assume sinonimo di forza. La scena prosegue con il celebre monologo di Ulisse sull'importanza delle gerarchie, sia in ambito sociale che della natura. Proprio le attuali minacce alla scala gerarchica dell'esercito greco vengono individuate nel discorso di Ulisse come causa della mancata presa di Troia nei primi setti anni di guerra, e ancora viene condannato il comportamento di coloro che si innamorano del proprio merito e si rifugiano nei vizi (in particolar modo Achille), e di quelli che vengono colti da spirito di emulazione nei confronti di quelli piu' intelligenti di loro, mettendo in risalto solo le loro qualita' fisiche (Aiace), disprezzando lo studio delle strategie. L'opera si apre, quindi, presentando gli eroi in maniera "classica", regalando superbe pagine di saggezza espresse in forma quasi poetica; a questo punto si inizia a vedere la rivoluzione apportata da Shakespeare, che umanizzera' i miti mostrandoci i loro limiti e le loro debolezze, oltre che il loro valore.
L'opera si trasforma in farsa: entra sulla scena Enea e dopo aver a sua volta dispensato alcune massime di saggezza "il valore della lode diventa disvalore se chi e' lodato e' lui stesso a lodarsi..." legge il proclama da parte del principe troiano Ettore: ovvero se tra i greci esiste uno che ami la propria donna piu' di Ettore voglia battersi a duello con lui, altrimenti Ettore potra' tornare a Troia e proclamare "che le donne greche non valgono la scheggia di una lancia". La sfida di Ettore e' in realta' un pretesto per sfidare Achille, ma a Ulisse e Nestore viene l'idea di fare un sorteggio che porti alla sfida Aiace, questo dopo aver fato credere a quest'ultimo di essere il migliore di tutti. In questo modo, snobbando Achille e sopravvalutando Aiace, si prepara la burla a entrambi.
Atto II
Nell'atto secondo, dopo un divertente equivoco tra Aiace e Tersite, entra in scena Ulisse, che riferisce, ad Aiace del proclama di Ettore. Nella seconda scena ci si trova all'interno del palazzo reale di troia: il re e i principi analizzano la necessita' della guerra: Ettore in maniera saggia propone di restituire Elena ai greci e porre cosi' fine alla guerra, in quanto neanche una tra le migliaia di vittime della guerra giustifica il motivo per cui questa si sta combattendo. Dello stesso parere è Eleno, sacerdote e figlio di Priamo. Proprio il focoso Troilo e' il principale sostenitore della guerra di Troia, (insiema ovviamente a Paride) e cosi' facendo, inconsapevolmente, gettera' le basi della sua ormai imminente tragedia, che coincidera' con quella di Troia.
Nel frattempo e' entrata in scena Cassandra a dire che in sogno ha visto Troia in fiamme, e a ricordare il noto sogno di Ecuba, che incinta di Paride lo sogno' come il fuoco che avrebbe bruciato Troia. Alla fine prevarranno le tesi sull'onore: restituire Elena ai greci sarebbe giusto, tuttavia sarebbe messo a rischio l'onore della famiglia reale ....la guerra quindi va avanti. Nella scena successiva, mentre i greci sono riuniti ad analizzare le strategie di guerra, Achille dà spazio ai suoi svaghi privati (Patroclo e ultimamente Tersite...uno per il corpo l'altro per la mente). Nello stesso momento prosegue la burla nei confronti Aiace, versando nelle sue orecchie fiumi di lusinghe, caricandolo cosi' contro Achille, illudendolo di essergli pari,e spingendolo cosi' a lottare contro Ettore, allo stesso tempo continua l'indifferenza nei confronti di Achille.
Indefferenza contro la vanita' e adulazione, contro la presunzione quindi; sull'adulazione shakespeare scrive (nel Giulio Cesare ) che e' il miglior modo di prendere in trappola gli uomini. Durante la scena e' comparso ormai piu' volte Tersite, che come tutti i fools Shakespiriani ha facolta e puo' permettersi di dire anche le verita' piu' scomode, in forma piu' o meno satirica. A differenza della maggior parte dei suoi fool Shakespeare non apprezza Tersite, dandogli un linguaggio sempre scurrile, non conferendogli nessuna dignita e, pur facendogli dire la verita', gli fa dire parole che si soffermano e rigurgitano solo gli aspetti negativi della realta' che lo circonda, limitandosi sempre a criticare senza offrire una soluzione migliore o un miglior modo di vedere le cose e gli altri.
Atti III e IV
Al terzo atto,compare Elena, liquidata con poche e frivole battute. Siamo al momento dell'incontro di Troilo e Cressida, che si dichiarano i loro sentimenti e consumeranno la prima e ultima notte di sesso, il tutto sotto le onnipresenti mediazioni e derisioni di Pandaro nei confronti dei due "ingenui" amanti. Troilo e Cressida sono davvero innamorati, si scambiano sincere promesse di amore eterno e voti di fedelta' qualsiasi cosa possa succedere, tuttavia a rendere imperfetta questa unione e' proprio l'intervento di Pandaro, che ha mendicato i sentimenti dei due giovani, e deriso i due fino al momento in cui sono entrati nel loro letto, quasi a voler svuotare il significato piu' pieno e intimo dell'amore, allo stesso modo in cui i greci e i troiani svuotano i concetti di fama e onore del loro valore morale, usandoli come pretesto per combattere una guerra in realta' utile solo a se stessa e all'alimentazione di falsi miti di forza e astuzia.
Intanto Calcante, indovino, padre di Cressida, in forza ai greci dopo aver predetto la caduta di Troia, chiede ad Agamennone di poter riavere sua figlia sfruttando come cambio per i troiani una persona molto importante agli occhi di Priamo: Diomede viene incaricato dello scambio. La scena torna sulla burla nei confronti di Achille che, sentendosi trascurato ne chiede il motivo a Ulisse, che si finge a lui solidale. Ulisse spiega ad Achille che ormai tutte le attenzioni sono rivolte verso Aiace, considerato vero pioniere dei greci; il discorso e' abbellito con monologhi di saggezza sulle virtu' che brillano solo quando risplendono verso il prossimo e sono praticate con perseveranza, giacche' obbediscono all'invidia e alla calunnia del tempo.
Intanto Aiace, ubriaco di lusinghe, si aggira per il campo di battaglia alla vigilia della sfida con Ettore. Nell'atto quarto arriva a Troia Diomede, per effettuare lo scambio di Cressida con Calcante. All'apprendere della notizia i due giovani si disperano, Troilo promette a Cressida che andra' a liberarla e Cressida giura eterno amore. Cressida e' ancora sincera nei suoi sentimenti, tuttavia non appena arrivata al campo dei greci capisce che sara' travolta dagli eventi, e la sua sara' una vita da esule: viene infatti sottoposta allo scherno dei capi greci, che la giudicano (non diversamente dai poeti che hanno narrato le sue vicende nei secoli) come puttana. Avvenuto lo scambio tra Calcante e Cressida ha luogo il tanto atteso duello tra Aiace ed Ettore che, dopo essersi scambiati pochi colpi, vi rinunciano col pretesto di una loro lontana parentela, tra la delusione generale. Troilo chiede ad Ulisse di essere condotto all'accampamento di Antenore: gli viene concesso.
Atto V
All'inizio dell'atto quinto, suo malgrado, Troilo assiste senza poter intervenire al corteggiamento di Cressida (da parte di Diomede) che cede, sapendo che Diomede per lei rappresenta l'unica possibilita' di sottrarsi a una vita di sofferenze e, divisa tra i sentimenti per Troilo e le sue paure, cede a queste ultime e dà a Diomede il pegno avuto pochi giorni prima dal suo amante troiano. Tutto sotto gli occhi di Tersite (che esprime come il mondo sia in balia della guerra e della lussuria), di Ulisse e dello sconvolto Troilo. La scena terza si apre con un tema tanto caro a Shakespeare, quello dei sogni: come nel Giulio Cesare, Andromaca ha fatto sogni di sangue e implora il proprio marito (Ettore) di non andare a combattere. Sopraggiunge Cassandra che a sua volta cerca di persuadere il proprio fratello Ettore che, tuttavia, non vuole sentire ragioni e, proprio come Cesare, in nome dell'onore va a combattere, seguito da Troilo che vuole reclamare il suo pegno d'amore, in possesso adesso di Diomede... sopraggiunge anche Pandaro (che a causa dello sciagurato svolgersi degli eventi si e' ammalato) a consegnare una lettera di Cressida a Troilo, che in amletico stato d'animo afferma "parole, parole, parole, niente dal cuore". In battaglia Ettore viene ucciso dai mirmidoni di Achille, che lo trascina sul campo di battaglia legato alla coda del suo cavallo in modo di far credere ai greci di essere stato lui a ucciderlo: la credibilita' di Achille e' in questo modo recuperata, ma cade anche l'ultimo, seppur distorto, valore per cui i greci stanno combattendo: l'onore. Il "dramma" si chiude con lo sfogo di Pandaro che, dopo aver ricevuto ufficialmene da Troilo il suo disprezzo e il marchio di ruffiano, vede l'ulteriore aggravarsi della sua salute e la sua imminente morte.
Nonostante questo intreccio sia quello che dà il titolo all'opera, in realtà si risolve in poche scene: la maggior parte della tragedia ruota attorno al un piano ordito da Nestore e Odisseo per spingere l'orgoglioso Achille a scendere nuovamente in battaglia tra le file greche.
Cressida di Edward J. Poynter
OTELLO
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Otello (titolo originale The Tragedy of Othello, the Moor of Venice) è una tragedia scritta nel 1601. La prima rappresentazione documentata ebbe luogo il 1º novembre 1604 al Whitehall Palace di Londra.
Trama
«Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre. Beato vive quel cornuto il quale, conscio della sua sorte, non ama la donna che lo tradisce: ma oh, come conta i minuti della sua dannazione chi ama e sospetta; sospetta e si strugge d'amore!»
(Iago ad Otello, atto III, scena III, traduzione italiana di Cesare Vico Lodovici)
Atto I
La tragedia si apre con due uomini che discutono tra loro, ovvero un ricco e dissoluto gentiluomo di nome Roderigo e l'amico alfiere Iago: il primo si lamenta perché il secondo tiene nascosto un matrimonio tenuto in gran segreto tra Desdemona, figlia del senatore Brabantio, e Otello, un moro al servizio della repubblica veneta; Roderigo è deluso perché egli ama Desdemona e aveva chiesto al di lei padre di sposarla. Da parte sua, Iago detesta Otello per aver posto in una posizione superiore a lui un certo Cassio, un giovane che Iago considera meno capace di lui. Volendo sfruttare Otello a proprio vantaggio, l'alfiere convince Roderigo a svegliare Brabantio e rivelargli l'affare della figlia, mentre lui stesso trova Otello e lo avverte dell'arrivo del senatore. Brabantio viene a sapere della cosa e, infuriato, raggiunge la residenza di Otello, trovandola però piena di guardie del Duca di Venezia. Sono inoltre giunte notizie che i turchi si stanno avvicinando a Cipro, e Otello viene dunque richiamato per avvisare i senatori.
Brabantio è dunque costretto a portare il moro alla residenza del Duca, dove si trovano anche vari senatori e gli uomini di Brabantio, tra i quali Lodovico, cugino di Desdemona e signore di Cipro, e Gratiano, fratello di Brabantio. Costretto a difendersi dalle accuse di aver sedotto Desdemona con la stregoneria, Otello spiega ai presenti che la donna si è innamorata di lui per le storie della di lui vita prima di Venezia; Desdemona conferma il suo amore per Otello, e soddisfatto, il senato lascia andare il moro, ma Brabantio gli consiglia gravemente di guardarsi da Desdemona, udito ignaro da Iago. A quel punto Otello lascia Venezia per lottare contro i Turchi, accompagnato da Cassio, Iago, Desdemona e la suai attendente Emilia, consorte dell'alfiere.
Atto II
Arrivati a Cipro, i veneziani scoprono che la flotta turca è stata distrutta da una tempesta. Otello ordina allora una festa per tutti, dove il moro consuma il suo matrimonio con Desdemona. Iago ne approfitta per far ubriacare Cassio, e quindi persuade Roderigo a combattere con il giovane; vedendo come quest'ultimo viene provocato facilmente, anche grazie al vino, Montano prova a calmare Cassio, ma questi lo combatte a duello e lo ferisce. Otello ricompare e chiede quello che è successo, e alla fine accusa Cassio di aver rovinato la festa e gli strappa ogni merito.
Amareggiato, Cassio viene avvicinato da Iago, che lo convince a chiedere a Desdemona di persuadere suo marito a riabilitarlo. La combinazione di persuasioni riesce: Iago convince Cassio, il quale convince Desdemona la quale convince Otello, e Cassio ritorna a essere luogotenente del moro.
Atto III
In realtà, questo fa parte dei piani di Iago, perché Otello ha assistito di nascosto alla conversazione tra Cassio e Desdemona, e per giunta su consiglio dell'alfiere. Venuto a sapere di ciò, Iago gli consiglia dunque di guardarsi bene da loro: se i due sono complici, è probabile che diventeranno persino amanti. Ironia della sorte, tutti gli sforzi di Desdemona di disinteressarsi a Cassio alimenteranno il seme del dubbio seminato da Iago.
Quando a un certo punto Desdemona fa cadere un fazzoletto (il primo regalo datole da Otello), Emilia lo trova e lo porta al marito Iago, ignara delle sue macchinazioni. Otello compare e Iago gli mostra il fazzoletto e gli dice di averlo visto in possesso di Cassio. Sempre più sospettoso, il moro chiede alla moglie di mostrargli il fazzoletto, cosa che lei ovviamente non può fare; sempre più convinto di essere stato tradito, Otello allora egli torna da Iago, lo nomina suo nuovo luogotenente e si accorda con lui per spiare Desdemona e Cassio in modo da trovare conferma dei suoi sospetti. Questo dialogo, ambientato nella terza scena del terzo atto, rappresenta il punto di svolta dell'opera, dove Iago capisce di essere riuscito a piantare il seme del dubbio nella mente di Otello e aver segnato così la caduta del moro.
Atto IV
Iago pone il fazzoletto nell'alloggio di Cassio, poi consiglia a Otello di osservare le reazioni del giovane mentre Iago lo interroga. L'alfiere spinge Cassio a parlare della sua relazione con Bianca, una cortigiana locale, ma sussurra il suo nome così piano che Otello crede che i due uomini stiano parlando di Desdemona. Più tardi, Bianca accusa Cassio di averle fatto un regalo di seconda mano che aveva ricevuto da un altro amante. Otello lo vede, e Iago lo convince che Cassio ha ricevuto il fazzoletto da Desdemona.
Furioso e umiliato, Otello decide di uccidere sua moglie (che farà fuori personalmente nel suo letto) e ordina a Iago di uccidere Cassio. Perché nessuno senta la mancanza di una traditrice, il moro inizia a rendere sempre più miserabile la vita di Desdemona, e, durante la visita di alcuni nobili veneziani, la colpisce di fronte ai presenti. Nel frattempo, Lodovico annuncia che il Moro è richiamato a Venezia e che Cassio gli è successo come governatore di Cipro. Roderigo si lamenta di non aver ricevuto risultati da Iago in cambio dei suoi soldi e degli sforzi per conquistare Desdemona, ma l'alfiere lo convince che sta facendo bene nei suoi interessi e che deve uccidere Cassio per ottenere Desdemona. Quest'ultima, obbedendo al marito, si appresta ad andare a letto, anche se dal suo atteggiamento sembra presagire la sorte disastrosa che l'attende.
Atto V
Roderigo raggiunge Cassio quando questi lascia l'alloggio di Bianca e lo attacca: Cassio ferisce gravemente l'aggressore, ma Jago gli arriva da dietro e gli taglia malamente una gamba, quindi riesce a nascondere la sua identità mescolandosi nelle ombre; quando Lodovico e Gratiano sentono le grida di aiuto di Cassio, Iago si unisce a loro. Quando Cassio identifica Roderigo come uno dei suoi aggressori, Iago pugnala segretamente Roderigo per impedirgli di rivelare la trama, e accusa poi Bianca del fallito complotto per uccidere Cassio.
Otello raggiunge invece Desdemona e, nonostante esiti perché la ama ancora, alla fine la soffoca con un cuscino. Emilia arriva e la morente Desdemona difende il marito nonostante egli la accusi di adulterio. Emilia chiede aiuto e intervengono Gratiano, Iago e Montano, l'ex governatore di Cipro. Quando Otello conferma le accuse di adulterio di Desdemona e menziona il fazzoletto come prova, Emilia comprende quello che ha fatto suo marito Iago e lo denuncia; Iago la uccide seduta stante e fugge inseguito da Montano, che alla fine lo acciuffa e lo riporta prigioniero. Sopraggiunge anche Cassio, su una barella, il quale svela il complotto e due lettere trovate sul corpo di Roderigo.
Resosi tardivamente conto dell'innocenza di Desdemona, Otello pugnala Iago ma non a morte, e gli dice che è un diavolo e merita di passare il resto della sua vita nel dolore. Iago si rifiuta di spiegare le sue motivazioni, giurando di rimanere in silenzio da quel momento in poi. Lodovico arresta sia Iago che Otello per gli omicidi di Roderigo, Emilia e Desdemona, ma Otello si suicida raggiungendo la moglie. Lodovico nomina Cassio successore di Otello come governatore di Cipro e parte per raccontare agli altri l'accaduto, lasciando il giovane ad occuparsi dell'esecuzione di Iago.
Origini
La trama di Otello fu sviluppata a partire dalla raccolta di novelle Ecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio, seguita in maniera fedele. L'unico personaggio di cui viene detto il nome nella storia di Cinzio è Disdemona, che in greco significa "sfortunata"; gli altri personaggi sono identificati come «l'alfiero», il «capo di squadra», e «il Moro». Nell'originale, l'alfiere si innamora perdutamente di Disdemona, ed è spinto alla vendetta quando lei lo rifiuta.
Shakespeare inventò un nuovo personaggio, Roderigo, che desidera la moglie del Moro e viene ucciso mentre tenta di assassinare il capitano. Contrariamente a Otello, il Moro del racconto di Cinzio non si pente mai dell'uccisione della moglie, e sia lui che l'alfiere scappano da Venezia e vengono uccisi molto più tardi. Cinzio diede anche una morale alla storia (per bocca della dama) per cui le donne europee non sono adatte a maritare gli uomini di altre nazioni, incontrollabili e dal sangue caldo. Shakespeare non riprodusse questa osservazione.
Questioni razziali
Nonostante nel dramma sia molto presente il tema della differenza di razza, la specifica etnia del protagonista non è ben precisata. Nell'opera, Otello viene frequentemente definito un "moro", termine con il quale il colto suddito elisabettiano poteva intendere sia un arabo o un nord-africano sia coloro che oggi vengono chiamati "neri", ossia le popolazioni dell'Africa subsahariana, allora piuttosto rari in Europa vista la barriera naturale del Sahara e che la colonizzazione dell'Africa non era ancora iniziata. In altre opere, Shakespeare ha descritto un moro d'Arabia, come nel Mercante di Venezia, e un moro africano nel Tito Andronico. Per Otello, ad ogni modo, i riferimenti alle caratteristiche fisiche del personaggio non sono sufficienti a definire con certezza a quale etnia l'autore si riferisse. La frase di Otello "Haply for I am black" non aiuta, dato che il termine "black", all'epoca, poteva significare semplicemente bruno. Il consenso popolare tra la maggior parte degli attori e registi di oggi si dirige verso un'interpretazione "nera" anche perché in questo personaggio si tende ad identificare e tendono ad identificarsi gli afroamericani statunitensi; questa visione basata sulla situazione odierna degli Stati Uniti viene ampiamente diffusa tra il grande pubblico nel mondo dal cinema e serie televisive di tale paese, che spesso citano l'Otello (e l'Amleto) come citazione vera e propria o come recita scolastica. Pertanto, gli Otello arabo-berberi sono stati piuttosto rari.
Significato
Otello sovverte il tradizionale simbolismo teatrale. Un pubblico contemporaneo all'autore avrebbe visto la pelle nera come segno di barbarie o di satanismo come è per Aron nel Tito Andronico
««un bruno Cimmerio... dalla tinta corporea macchiata, detestata e abominevole».
Un soldato bianco sarebbe stato interpretato come simbolo di onestà. Iago in effetti si adopera per convincere gli altri personaggi che Otello è un "cavallo barbaro" che copre Desdemona, o un "caprone nero", con le corna, che da animale la monta; e che lui stesso è fin troppo veritiero. In Otello, tuttavia, il personaggio nero è "nobile" e cristiano; e il soldato bianco è un bugiardo intrigante.
Otello così sfida in continuazione il collegamento tra un segno fisico o significante e ciò che viene significato da esso. per esempio, Iago – il cui compito come alfiere è di tenere alto un segno di fedeltà a Otello – dice, del suo fingere di amare il Moro: «Benché io lo odi come odio le pene dell'inferno, tuttavia per la necessità della vita concreta devo mostrare una bandiera e un segno di amore, che in realtà è solo un segno». Anche Desdemona vede una distinzione tra significante e significato, dicendo che lei «vedeva il volto di Otello nella mente di lui» – non nella sua faccia reale. Il dramma così sostiene che la relazione tra significante e significato è arbitraria; la trama stessa fa dipendere la significazione da un segno – completamente artefatto, un fazzoletto indicato come prova di infedeltà.
Il tragico errore di Otello è l'incapacità di capire quanto sia arbitraria la relazione tra significante e significato. Per esempio, quando Iago gli dice che Desdemona lo tradisce, Otello grida: «Il suo nome, ch'era fresco come il viso di Diana, adesso è tutto rughe e nero come il mio» – conducendolo al proposito suicida: «Se ci son corde o pugnali, o veleno o fuoco, o flutti dove annegare, non resisterò».I più basilari canoni della simbologia occidentale, per la quale bianco sta per purezza e nero significa il male, in Otello sono ripetutamente messi in discussione. Un esempio è nel personaggio di Bianca, che, come spiega Iago al pubblico, non incarna affatto l'ideale di purezza che il nome simboleggia, essendo infatti lei una "sgualdrina, che vendendo i suoi desideri si compra pane e vestiti". Ironicamente, appena prima che Desdemona giuri ad Otello d'essere onesta, anche Bianca assicura di non essere una prostituta, protestando contro chi l'accusa.
Nell'intero dramma la parola «Heaven», (in italiano paradiso) resta un significante di verità, ed «Hell», (ovvero inferno) un significante del travisamento. I termini ricorrono di frequente, tanto che Otello si sforza di aggiungere altri significanti ad essi: ad esempio, egli dice all'innocente Desdemona: «il Cielo sa veramente che sei falsa come l'Inferno» («Heaven doth truly know that thou art false as hell»).
Iago può essere visto come la forza motrice o catalizzatrice dietro a Otello; è il manipolatore che pianta i semi della malvagità nelle menti dei personaggi, giocando sulle loro emozioni e causando quindi la caduta di Otello.
Alessandro Serpieri, che è stato docente di Letteratura inglese all’Università di Firenze, ha messo al centro del suo saggio su Otello l’eros negato di Iago, interpretato come il motore di tutta l’azione della tragedia. “Lui è il personaggio più lussurioso mai uscito dalla penna di Skakespeare, crive lo studioso. Tuttavia, la lussuria di Iago è nascosta e censurata, assume le forma di una libidine negata ma poi riversata sull’altro. Personaggio chiaramente incapace di amare, è spinto da pulsioni erotiche epurate da qualsiasi sentimento d’amore. Anche nei confronti della moglie Emilia sembra non provare alcun tipo di sentimento amoroso né tantomeno erotico".
Secondo lo studioso, la repressione sessuale è uno dei temi fondamentali dell’opera e ci permette di comprendere meglio i moventi dell’azione di Iago, la cui cattiveria rimarrebbe altrimenti gratuita e immotivata.
La proiezione sull’Altro, una prospettiva storico-sociale: tale tema è da porre in relazione, da un lato, con le condizioni storico-culturali dell’età elisabettiana, dall’altro, col tema della razza spesso posta in secondo piano nell’analisi della sessualità in Otello. L’Inghilterra del Seicento, infatti, era abitata da una società in cui l’ideologia proto-borghese era alimentata da un fervente puritanesimo, e il represso sessuale riversava le proprie fantasie oscene sull’Altro, e cioè sulla donna, e sui barbari e gli stranieri che proprio in quegli anni cominciavano ad affluire per la prima volta in maniera davvero consistente in Inghilterra. L’Otello rappresenterebbe così una società che rimuove ed espelle i propri fantasmi tramite l’atto di proiezione, costituendo una sorta di psicoanalisi della sua epoca e della sua falsa società.
Cosa avvalora tale lettura dell’Otello?
Sicuramente la lingua di Iago, che si esprime nel segno della negazione tramite la figura retorica della litote e nell’atto di proiettare la sua libido in dense oscenità riguardanti gli altri personaggi. La litote, figura retorica consistente nell’affermare tramite la negazione del contrario, è l’arma linguistica preferita da Iago, poiché “è forma transitoria, intersoggettiva, usata per trasmettere all’altro, tramite negazione, il messaggio che vuole invece affermare”.
La negazione come strategia linguistica: leggiamo il dialogo con Otello nella terza scena del terzo atto:
Iago: Ah, questo non mi piace!
Othello: Che cosa dici?
Iago: Nulla, mio signore: cioè, non so…
Othello: Non era Cassio quello che salutava mia moglie?
Iago: Cassio, signore? No, non posso credere
Che sarebbe filato via come un colpevole
Vedendovi arrivare.
Othello: Mi sembrava proprio Cassio.
Si può facilmente notare che le battute di Iago sono piene di negazioni e sospensioni di giudizio. Comincia col dire che non gli piace ciò che sta vedendo, utilizzando un deittico (“questo”) che di per sé non ha senso poiché privo di un referente: di fronte alla sospensione del significato Otello risponde con una richiesta di chiarificazione (“Che cosa dici?”). Iago risponde con una negazione (“Nulla”) che spazza via il dubbio introdotto dal deittico, ma solo per un attimo, poiché sta per introdurre una frase ipotetica (“or if” tradotto qui con “cioè”), subito spezzata da una nuova negazione (“non so”). Queste negazioni e sospensioni insinuano atroci dubbi in Otello, che domanda se fosse Cassio quello allontanatosi da sua moglie, ipotesi negata da Iago anche di fronte alla certa affermazione del suo padrone (“Mi sembrava proprio Cassio”).
Sconcezze contro Otello.
Sempre nella lingua, attraverso sconcezze pronunciate in riferimento ad altri personaggi, avviene la proiezione delle sue fantasie erotiche. Nella prima scena del primo atto, infanga così il nome del Moro e di Desdemona innanzi al padre di quest’ultima:
Ora, ora, proprio ora,
Un vecchio montone nero sta montando
la vostra candida pecorella. Su, su, svegliate
con la campana a martello tutti i cittadini,
prima che il diavolo vi faccia nonno.
Iago sfoga nella volgarità le sue sopite pulsioni sessuali, proiettate sull’Altro, su Otello, la cui sessualità è dipinta come nera e bestiale. L’intrigo ordito da Iago è una modalità storica di espressione di pulsioni individuali e collettive cha la società tenta di reprimere, ma la cui rimozione non può tenere a freno la sua forza. Lo stesso Freud affermava che nella società gli individui erano costretti a rimuovere le proprie pulsioni sessuali e i propri ambigui fantasmi, costretti così a soffrire di psicosi e nevrosi. Ed è come se a teatro il pubblico avesse spiato le vicende private di Iago, Otello e Desdemona, per guardare in faccia i fantasmi della propria epoca.
L’omosessualità latente di Iago: alcuni critici e registi vedono una latente omosessualità nella figura di Iago, il quale sarebbe mosso dalla gelosia nei confronti di Otello. D’altronde, quali sono le cause del malefico piano da lui ordito? Shakespeare ce ne offre solo alcune: innanzitutto l’aver favorito Cassio come luogotenente lo costringe al rango di semplice alfiere; inoltre, si dice convinto a vendicare un plausibile tradimento della moglie Emilia col Moro. Queste motivazioni sono tuttavia nebulose, e non vengono mai del tutto confermate nel corso della vicenda, favorendo così ampia libertà critica al lettore e allo spettatore. La latente omosessualità di Iago favorirebbe la comprensione delle malvagità da lui compiute.
Una visione psicoanalitica di Iago: il neurologo e psicanalista britannico Ernest Jones, discepolo di Freud, ha ripetutamente favorito questa tesi. Afferma che:
“…from the psycho-analytic point of view, Othello […] turns upon sexual inversion, there being no possible motive for Iago’s behaviour in destroying Othello and Desdemona except the rancour of the rejected and jealous lover of the Moor”.
Il profondo amore di Iago nei confronti di Otello, un amore subconscio determinato da un’omosessualità ignorata da Iago, spiegherebbe le sue azioni. Ernest Jones assistette anche Laurence Olivier nella messa in scena teatrale dell’Otello, e la sua tesi spinse il famoso attore e regista a un’interpretazione assolutamente omosessuale di Iago.
Quali battute avvalorano questa tesi? Nella terza scena del terzo atto Iago dice a Otello “I am your own for ever”: queste parole, intrise di un tono romantico non dissimile dal linguaggio del giuramento matrimoniale, esprimono forse più che solidaria devozione. Ma anche nei confronti di Cassio ci sarebbe una sorta di tensione omoerotica. Nella stessa scena afferma “I lay with Cassio lately”, battuta che può riferirsi al semplice atto di dormire insieme come soldati camerati ma che, in virtù di queste letture, può anche riferirsi all’atto sessuale, giacché lay nei suoi molteplici significati ha anche quello di ‘avere rapporti sessuali con’. Segue la scena con la descrizione del sogno di Cassio, il quale, proiettando su Iago l’immagine di Desdemona, lo avrebbe preso per la mano e baciato passionalmente:
Poi mi afferrava
Una mano e stringedola gridava: “Soave creatura!”.
E mi baciava con violenza, come se avesse dovuto
strappare i baci con tutte le radici dalle mie labbra.
Poi mi prendeva una gamba sulla coscia,
e sospirando mi baciava ancora.
Che sia tutto una pura invenzione di Iago sembra avvalorare ancora di più la tesi della sua presunta omosessualità.
Otello e Desdemona a Venezia di Théodore Chassériau
RE LEAR
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Trama
ATTO I.
La tragedia sia apre con la decisione di Re Lear di abdicare e dividere il suo regno tra le tre figlie Goneril, Regan e Cordelia. Le prime due sono sposate, mentre Cordelia, seppur non ancora maritata, ha molti pretendenti al suo seguito. Il Re decide di proporre una gara per stabilire come dividere il suo regno: ogni figlia riceverà una porzione di territori in base all’amore che saprà dimostrare verso suo padre. Regan, sposa del duca di Cornovaglia, e Goneril, moglie del duca di Albany, si dilettano da subito a pronunciare parole d’amore verso il padre che, compiaciuto, assegna a ciascuna di esse una parte del regno, serbando però la parte migliore alla figlia prediletta, Cordelia. Quest’ultima, però, non ha nessuna intenzione di partecipare a questa farsa, quindi dichiara semplicemente di amare Re Lear quanto ogni figlia può amare un padre, avendo sulle labbra ciò che porta nel cuore, né più né meno. Re Lear non è soddisfatto dalla risposta della figlia e non riuscendo a persuaderla a cambiare le sue dichiarazioni, la bandisce dal regno in preda alla furia, dividendo anche quella porzione di regno tra le altre sue figlie.
Il duca di Borgogna, pretendente di Cordelia, perde ogni interesse nella ragazza dal momento che è diseredata, mentre il re di Francia, apprezzandone il carattere e la virtù, la prende in sposa anche senza dote. Nel frattempo, Kent, leale servitore di Re Lear, prova a far riconsiderare la posizione del sovrano nei confronti di Cordelia, ma il suo tentativo fallisce e anche lui viene bandito dal regno. Re Lear decide di andare a vivere con la figlia maggiore, mantenendo il titolo di re e avendo al suo seguito 100 cavalieri. Tuttavia, in segreto, Goneril e Regan già cospirano per impedire al padre di essere ancora re.
A questo punto viene introdotta la vicenda parallela che riguarda il Conte di Gloucester e i figli Edmond ed Edgar. Edmond, figlio illegittimo del Conte, scrive una lettera nella quale racconta, falsamente, che il suo fratellastro Edgar (e figlio legittimo del Conte) stia cospirando per uccidere il padre. Edmond fa sì che il padre legga la lettera e, nel frattempo, suggerisce a Edgar di scappare dicendogli che il Conte di Gloucester è furioso con lui. Edmond riesce così a mettere il padre e il figlio contro, guadagnandosi i favori del padre. Edgar, invece, fugge nella foresta e prende le sembianze di un pazzo chiamato “Poor Tom”.
Kent, nel frattempo, ritorna da Re Lear sotto mentite spoglie e chiede di essere preso come servo. Il sovrano accetta e invia il nuovo servo a recapitare una lettera al Conte di Gloucester. Sebbene Lear continui a comportarsi da re, è chiaro che ormai ha perduto il suo potere e le sue figlie iniziano a mancargli di rispetto sia in qualità di sovrano sia di padre.
ATTO II.
Al castello di Gloucester, il maggiordomo di Goneril, Oswald, manca di rispetto a Lear insultando Kent, il suo messaggero. Lo stesso fanno Regan e suo marito duca di Cornovaglia, ospiti di Gloucester. Quando re Lear li raggiunge e capisce la situazione è incredulo, ma poi comprende il complotto organizzato dalle figlie per depauperarlo di qualsiasi potere. Mentre Lear lancia insulti alle figlie, loro chiudono il portone del castello, lasciando il padre fuori, mentre è attesa una bufera.
ATTO III.
Mentre Kent prende contatti con la corte di Francia e con Cordelia e va alla ricerca de re, Lear è da solo nella tempesta. Viene però portato al riparo da Kent in una capanna, dove vive Edgar/Poor Tom. Nel frattempo, il conte di Gloucester è pentito per non avere aiutato il re e rivela al figlio le sue intenzioni di andare a salvarlo. Edmond, però, coglie quest’occasione per liberarsi del padre e svela al duca di Cornovaglia e d’Albany, generi di Lear, di presunti e fasulli complotti di Gloucester con la corte di Francia contro il regno di Gran Bretagna. Lear viene trovato da Gloucester, ma ormai il vecchio re sembra completamente pazzo: Kent, su indicazione del Conte, che teme per la sua vita, porta Lear a Dover.
Intanto, le due sorelle, Edmond e Cornovaglia, vengono a conoscenza di quanto fatto da Gloucester e lo fanno arrestare e torturare. Il Conte si ribella e per questo viene accecato da Goneril e Cornovaglia, e poi comprende che tutto il piano è stato organizzato da Edmond. Nel frattempo, il duca di Cornovaglia rimane ferito durante uno scontro con un servo intervenuto a difesa di Gloucester.
«Soffiate, venti, e rompetevi le guance! infuriate! soffiate!
Voi cateratte e uragani, eruttate
Finché non avrete sommerso i nostri campanili, annegato i galli sui tetti!
Voi fuochi sulfurei e veloci più del pensiero,
Avanguardie di fulmini che fendono le querce,
Bruciate la mia testa bianca! E tu, tuono che tutto scuoti,
Spiana la spessa rotondità del mondo!
Infrangi gli stampi della Natura, distruggi tutti i semi
Che fanno l'uomo ingrato!»
Atto III Scena II
ATTO IV.
Gloucester si libera e, ormai cieco, cerca di trovare la strada per Dover. Viene trovato da Edgar che accetta di guidare il padre, seppur non riconoscendolo. Nel palazzo del duca d’Albany, Goneril ed Edmond uniscono le forze per sconfiggere l’arrivo dell’esercito francese. La donna, infatti, è segretamente innamorata dell’uomo, così come Regan, mentre Edmond le sta solo corteggiando per i suoi fini. Arriva poi il duca d’Albany con la notizia che il duca di Cornovaglia, marito di Regan, è morto in seguito alle ferite riportate.
Nel campo dei francesi, Kent apprende che Cordelia, regina di Francia, è venuta a conoscenza di tutto quello che è successo al padre a causa delle sorelle. Inoltre, a Cordelia viene fatto sapere anche che Lear, che si trova nei pressi di Dover, si rifiuta di vedere la figlia per la vergogna, e che l’esercito britannico si sta mobilitando temendo uno sbarco francese sulle coste britanniche. Intanto, Gloucester tenta di uccidersi buttandosi da una scogliera e poi rischia di essere ucciso dal maggiordomo di Regan: fortunatamente è Edgar a uccidere Oswald salvando il padre. Infine, nel campo francese, avviene l’incontro di riconciliazione tra re Lear e Cordelia.
ATTO V.
Regan e Goneril, innamorate entrambe di Edmund, iniziano a covare un odio reciproco. Nel frattempo, Edgar consegna al duca d’Albany la lettera presa dalla mani di Oswald dopo averlo ucciso. Inizia la battaglia tra inglesi e francesi, che porta alla vittoria dei britannici e alla cattura di Re Lear e Cordelia. Il Duca d’Albany, letta la lettera, accusa Edmond di essere un traditore e lo sfida, invitando qualsiasi persona possa dimostrare il tradimento di Edmond a presentarsi entro il terzo squillo di tromba. È Edgar a presentarsi accusando il fratello di tradimento e lo sfida a duello. Edgar colpisce Edmond, che cade. Albany chiede che venga risparmiato, ma mostra a Goneril la lettera che spiega tutti gli intrighi orchestrati da Edmond. La donna scappa verso il castello, mentre Edgar si rivela alla fine al fratello morente. Il Duca d’Albany giura fedeltà al legittimo Gloucester. In quel momento, però, arriva anche un gentiluomo che annuncia la morte di Goneril e Regan: la prima, dopo avere avvelenato Regan, si è uccisa. Sentendo questo, Edmond, prima di morire, riferisce di aver disposto l’uccisione di Lear e Cordelia e dà ordine che l’esecuzione sia sospesa, in un ultimo e unico gesto di bontà. Tuttavia, l’ordine è arrivato troppo tardi: Lear arriva in scena portando sulle braccia il cadavere di Cordelia, che era stata impiccata per volere di Edmond. A questo punto anche re Lear muore stroncato dal dolore.
ANALISI DELLA TRAGEDIA.
Re Lear è una tragedia scritta sia in prosa che in versi, che si basa su un doppio intreccio, in cui la trama secondaria – in questo caso quella della famiglia Gloucester – serve per dare risalto alla vicenda e all’azione principale. È una tecnica utilizzata in molte opere shakespeariane, ma generalmente riservata alle sue commedie. Re Lear si basa su una vicenda popolare molto conosciuta all’epoca di Shakespeare, forse realmente accaduta molti secoli prima ed è probabilmente per curarne l’esattezza storica che Shakespeare ha impiegato molto tempo a scrivere questo dramma rispetto alle altre sue opere. I temi affrontati sono tanti, a partire dalla crudeltà di cui è capace l’uomo nei confronti degli altri uomini, arrivando a compiere gli atti più indicibili e insensati per un fatuo e cieco desiderio di potere. Tramite le parole di Gloucester ed Edgar, Shakespeare si interroga sulla possibilità di giustizia nel mondo e nel futuro, lasciandoci però senza nessuna certezza finale. È vero infatti che i villain muoiono alla fine della tragedia, ma anche Lear e Cordelia condividono la stessa triste fine, tanto che il finale venne apertamente contestato all’epoca di Shakespeare e ne sono state realizzate altre versioni in cui Cordelia vive e sposa Edgar.
Altro tema centrale nella tragedia è la follia, elemento che rispecchia il disordine esteriore e interiore dei personaggi, ma che conferisce a questi anche a una nuova saggezza, come King Lear che acquista nuovamente umiltà quando non è più un re. Anche Edgar, dalla sua esperienza di finto matto, esce comunque rafforzato, trovando la forza per sconfiggere il fratello. In particolar modo, la bufera dell’atto III rappresenta la metafora esplicita del disordine mentale di Lear ed esteriore del regno, ma incarna anche il potere della natura che costringe un re a riconsiderare il suo potere e a riscoprire l’umiltà. Re Lear è un re che non ha saputo distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e lo stesso vale per Gloucester, figura fondante, che scoprirà di essere stato cieco nel giudicare i figli solo quando perderà la vista.
IL LINGUAGGIO DEL RE LEAR Shakespeare crea, qui, un linguaggio teatrale il cui segno precipuo è quello di una totalità espressiva. Se questa "totalità" è congeniale al Novecento assai più che al Settecento e all'Ottocento, ancor più congeniale il Re Lear risulta al nostro secolo in quanto, il linguaggio qui, non è solo strumento ma oggetto di rappresentazione. In tutto il teatro shakespeariano al dramma dei personaggi s'intreccia quello del drammaturgo che s'interroga in un periodo di crisi quale è quello tra il '500 e il '600, sulla validità stessa delle parole che usa, percependo e analizzando e tentando di sanare la frattura verificatasi tra la parola e la cosa, nel re Lear tale dramma raggiunge una delle tappe decisive del suo percorso e il problema del linguaggio diventa componente centrale dell'opera. "Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire", afferma Edgar alla fine della tragedia. Ma per giungere a questa consapevolezza, a questa distinzione tra la parola "falsa" e la parola "vera", occorreva passare attraverso la violenza e il dolore, la follia e la morte. Nel momento in cui, abdicando, Lear separa il nome di Re dalla sostanza in cui esso si invera, egli commette la colpa che determina la sua caduta. Il linguaggio, invece di illuminarlo, lo fa cieco. L'incapacità di distinguere rende possibile l'inganno crudele che su di lui esercitano le figlie Regan e Goneril, così come, nell'intreccio secondario in cui la vicenda di Lear specularmente si riflette, Gloucester si fa ingannare dalle parole di Edmund. E vanamente quanti stanno accanto al vecchio re tentano di fargli "leggere" il significato del mondo. Non ci riesce Cordelia. Neppure Kent. E nemmeno il Matto, prodigioso fool di questo dramma la cui azione è una azione tutta linguistica, tesa a far recuperare al re (con la dissacrazione, l'ironia, la beffa, i giochi verbali) il senso vero della parola. Lear si chiude nel proprio linguaggio e adesso consegna la sua sfida agli uomini, alla natura, agli dei. Non di forza, però, i suoi discorsi impetuosi e ruggenti sono espressione bensì d'impotenza, inadeguatezza e fragilità. Le sue parole non modificano il reale, la tempesta dilaga e contro di essa le parole di Lear nulla possono, rimangono, mero preludio alla follia da cui viene aggredito e le scene della follia a metà del dramma sono anzitutto una rappresentazione della distruzione della parola, e tanto più che la deflagrazione del linguaggio di Lear è accompagnata dai discorsi del fool e di Edgar. Se l'emergere di Lear della follia alla conclusione dell'opera, è anche il suo riacquistare la parola vera, il suo imparare a leggere l'alfabeto del mondo, questa comprensione coincide con la sua morte. Lear non potrà più valersi di tale conoscenza: non potrà, come vorrebbe, parlare con Cordelia. Cordelia è morta, uccisa dalla parola da quella di Edmund che ha inviato l'ordine fatale, ma prima ancora da quella di Lear il quale allora non può che morire a sua volta. La grande divaricazione, la grande frattura tra la parola e la cosa non può ricomporsi nel presente ma solo nel futuro, nel "mondo nuovo" di Edgar. Un'altra ragione, oltre che la centralità del problema del linguaggio spinge la cultura del '900 a rappresentare il Re Lear con tanta frequenza e con tanto impegno, ed è il riconoscimento di situazioni e problemi affini a quelli del nostro tempo.
I TEMI DEL RE LEAR Il tema dell’ingratitudine filiale. Oggi, forse il tema della ingratitudine filiale ci colpisce meno di quanto avveniva nel '700 o nell'800, ma se ne individuassimo l'espresso e implicito problema generazionale, il rapporto tra i padri e i figli, ecco che possiamo scorgervi una tensione particolarmente operante nella nostra società, che è ancora più vero della violenza: in un secolo come il nostro, che ha visto le più grandi tragedie collettive della storia, come non riconoscere le insidie che ci minacciano nei simboli di violenza che scandiscono il Re Lear?
Il tema del potere. Ed è vero altresì del tema del potere. L'angoscia e la solitudine, la disperazione e la follia, il senso del vuoto, dell'illusorietà, della precarietà della vita, tutto ciò che lacera la nostra coscienza e tutti i segni delle nostre contraddizioni, nevrosi e paure, trovano nel Re Lear una drammatica lancinante prefigurazione, efficace e dolorosa, in quanto espressa in un linguaggio molto vicino a quello della drammaturgia contemporanea. Se nel Re Lear c'è una desolazione e una angoscia in cui l'uomo in assoluto può riconoscere la propria e l'uomo del nostro tempo un'immagine della propria condizione c'è anche il riconoscimento di alcuni fondamentali valori che possano dare un senso, una ragione, alla vita.
Il tema della maturità. "La maturità è tutto" dice Edgar e la maturità, ripeness, che Lear e Gloucester, Edgar, Kent e Albany, faticosamente conseguono è appunto la capacità di vivere e morire con la consapevolezza che l'esistenza non è, malgrado tutto, il gioco capriccioso degli dei di cui dice Gloucester e nemmeno il "grande palcoscenico di pazzi" evocato da Lear, ma un arduo, lento, doloroso e fin crudele cammino verso una verità che tutto contribuisce a oscurare. Un mondo crolla, qui, ed è il mondo medioevale e, insieme, il sistema ideologico e sociale ad esso legato con cui l'età elisabettiana si era sostenuta per decenni. Ma il Re Lear è anche il treno su cui Shakespeare ridisegna una fisionomia dell'uomo, ritrova un ordine in base al quale vivere e in base al quale costruire una tragedia. E il Re Lear è grande tragedia moderna perché quest'ordine non è fuori o al di sopra dell'uomo e non è un ordine trascendente che è dato acquistare come nel dramma medioevale verso un intervento soprannaturale. Nonostante l'uso frequente di immagini attinte all'esperienza religiosa, quest'ordine è laico, è umano, e l'uomo lo cerca nella propria coscienza e umanità. Certo, è un ordine fondato su quel dubbio che Amleto scopriva come essenza del vivere: precario, fragile. Ma alcuni valori (come la solidarietà, l'amore e la pietà) si scorgono e vivono, tra le rovine, e alcuni personaggi li hanno riconosciuti e fatti propri, attraverso le proprie stesse colpe ed errori. Il palcoscenico, alla fine, è coperto di cadaveri ma Edgar, il figlio di Gloucester resta sulla scena, accettando il proprio destino, la propria condizione storica. Perché Edgar, estenuato dall'esperienza patita eppure fortificato da essa è appunto l'uomo moderno, consapevole dei propri limiti e della propria fragilità ma anche della possibilità di affrontare la realtà e di agire su di essa. E' il nuovo principe che, reso maturo dal dolore e dalla stessa degradazione, potrà durare un qualche precario equilibrio al "mondo fuor di sesto".
Re Lear compiange la morte di Cordelia, dipinto di James Barry, 1786-1788
FONTI
Re Lear (originariamente Leir) fu un re della Britannia vissuto nell'VIII secolo a.C., in un periodo poco precedente alla fondazione di Roma. La fonte è costituita dalla Historia Regum Britanniae (ca. 1130) di Goffredo di Monmouth.
La fonte storica abituale di Shakespeare, "The Second Booke of the Historie of England" (1577, Raphael Holinshed) riportava la storia di re Lear, ma poteva trovarsi anche in "The Mirror of Magistrates" (nella sezione aggiunta nel 1577 da John Higgins), nel poema "The Faerie Queene" (1596) di Edmund Spenser, precisamente nel canto X, libro II; oppure nel dramma anonimo pubblicato nel 1605 (ma rappresentato prima) "The True Chronicle Historie of king Leir".
Re Leir era un semi-leggendario Re dei Britanni come riportato da Goffredo di Monmouth.
King Llyr era un Re semi-leggendario che regnò in Cornovaglia e Devon nell'Inghilterra di oggi. Secondo la Historia Britonum, Llyr potrebbe essere stato portato come prigioniero a Roma, e questa leggenda tradizionale potrebbe essere l'origine del dramma di Shakespeare.
Lear potrebbe anche essere Lir, un dio del mare nella mitologia celtica; tra i figli di Lir ci sono Brân il Benedetto e Mannanan, il creatore dell'Isola di Man.
Una delle fonti di Shakespeare era un dramma precedente, King Leir. In questo dramma Cordelia e il Re di Francia servono Leir travestiti da contadini. Tuttavia, l'antica leggenda popolare di Lear era esistita in molte versioni precedenti a questa, ed è possibile che Shakespeare ne fosse a conoscenza.
Si ritiene che la fonte più importante di Shakespeare sia stata la seconda edizione di The Chronicles of England, Scotlande, and Irelande di Raphael Holinshed, pubblicata nel 1587. Lo stesso Holinshed trovò il racconto nella più antica Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, scritta nel secolo XII.
Il nome di Cordelia fu probabilmente tratto da La regina delle fate di Edmund Spenser, pubblicata nel 1590. Anche la Cordelia di Spenser muore impiccata, come nel "Re Lear".
Per quanto invece riguarda l'intreccio secondario di Gloucester, la fonte principale è il capitolo X, libro II di Arcadia (1590) di Sir Philip Sidney (di cui è possibile sia stato usato anche il capitolo XV, sempre del libro II).
MACBETH
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Macbeth (titolo completo The Tragedy of Macbeth) è una fra le più note tragedie shakespeariane. Essa drammatizza i catastrofici effetti fisici e psicologici della ricerca del potere per il proprio interesse personale: l'esito di tale condotta è un gorgo inesorabile di errori ed orrori. Fu pubblicata nel Folio del 1623, probabilmente da un copione teatrale. Frequentemente rappresentata e riadattata nel corso dei secoli, Macbeth è divenuta l'archetipo per eccellenza della brama di potere sfrenata e dei suoi pericoli, definizione che è stata tuttavia spesso giudicata estremamente restrittiva, se non addirittura erronea, date le ampie ripercussioni di natura filosofica sui temi del destino, dell'azione e della volontà, e le molte ombre e misteri che ancora aleggiano attorno alla vicenda della coppia Macbeth/Lady Macbeth, la cui vicenda personale è arricchita da un non-detto pregno di ambiguità.
Costituita da cinque atti, è la più breve tragedia di Shakespeare, ed è spesso stata indicata dalla critica come il suo lavoro più complesso e sfaccettato dopo Amleto.
Per la trama Shakespeare si ispirò liberamente al resoconto storico sul re Macbeth di Scozia di Raphael Holinshed e a quello del filosofo scozzese Ettore Boezio. Molto popolare è anche la versione operistica di questa tragedia, musicata da Verdi su libretto di Francesco Maria Piave (1847, prima versione; 1865, seconda versione).
Trama
Atto primo
La tragedia si apre in una cupa Scozia d'inizio Basso Medioevo, in un'atmosfera di lampi e tuoni; tre Streghe (Le Sorelle Fatali, ispirate certamente alle Norne del mito norreno e alle Parche/Moire della tradizione greco-romana) decidono che il loro prossimo incontro dovrà avvenire in presenza di Macbeth.
Nella scena seguente, un sergente ferito riferisce al re Duncan di Scozia che i suoi generali, Macbeth e Banquo, hanno appena sconfitto le forze congiunte di Norvegia e Irlanda, guidate dal ribelle Macdonwald. Macbeth, congiunto del re, è lodato per il suo coraggio e prodezza in battaglia.
La scena cambia: Macbeth e Banquo appaiono sulla scena, di ritorno ai loro castelli, facendo considerazioni sulla vittoria appena conseguita e sul tempo "brutto e bello insieme", che caratterizza la natura ambigua e carica di soprannaturale della brughiera desolata e pervasa di nebbia che stanno attraversando. Le tre streghe, che li stavano aspettando, compaiono e pronunciano profezie. Anche se Banquo per primo le sfida, esse si rivolgono a Macbeth. La prima lo saluta come "Macbeth, sire di Glamis", titolo che Macbeth già possiede, la seconda come "Macbeth, sire di Cawdor", titolo che non possiede ancora, e la terza "Macbeth, il Re". Macbeth è stupefatto e silenzioso, così Banquo ancora una volta tenta di fronteggiarle, intimorito dall'aspetto delle Sorelle Fatali e dalle condizioni particolari e misteriose del momento. Le streghe dunque informano anche Banquo di una profezia, affermando che sarà il capostipite di una dinastia di re. Poi le tre streghe svaniscono, lasciando nel dubbio Macbeth e Banquo sulla reale natura di quella strana apparizione.
Sopraggiunge dunque il re, che annuncia a Macbeth la concessione a suo favore del titolo di generale dell'armata Scozzese: la prima profezia è così realizzata. Immediatamente Macbeth incomincia a nutrire l'ambizione di diventare re.
Macbeth scrive alla moglie (Lady Macbeth) riguardo alle profezie delle tre streghe.
Quando Duncan decide di soggiornare al castello di Macbeth a Inverness, Lady Macbeth escogita un piano per ucciderlo e assicurare il trono di Scozia al marito. Anche se Macbeth mostra dei tentennamenti, volendo ritornare sui propri passi e smentendo le ambizioni manifestate nella lettera inviata alla moglie, Lady Macbeth alla fine lo persuade a seguire il piano.
Nella notte della visita, Lady Macbeth ubriaca le guardie del re, facendole cadere in un pesante sonno. Macbeth, con un noto soliloquio che lo porta a vedere di fronte a sé l'allucinazione di un pugnale insanguinato che lo guida verso l'omicidio del suo stesso re e cugino, si introduce nelle stanze di Duncan e lo pugnala a morte. Sconvolto dall'atto si rifugia da Lady Macbeth, la quale invece non si perde d'animo e recupera la situazione lasciando la coppia di armi usate per l'assassinio presso i corpi addormentati delle guardie, imbrattando i loro volti, le mani e le vesti col sangue del re.
Al mattino, poco dopo l'arrivo di MacDuff, nobile scozzese venuto a recare omaggio al sovrano, viene scoperto l'omicidio. In un simulato attacco di rabbia, Macbeth uccide le guardie prima che queste possano rivendicare la loro innocenza.
Atto secondo
MacDuff è subito dubbioso riguardo alla condotta di Macbeth, ma non rivela i propri sospetti pubblicamente. Temendo per la propria vita, il figlio di Duncan, Malcolm, scappa in Inghilterra. Su questi presupposti Macbeth, per la sua parentela con Duncan, sale al trono di Scozia.
A dispetto del suo successo, Macbeth non è a suo agio circa la profezia per cui Banquo sarebbe diventato il capostipite di una dinastia di re, temendo di essere a sua volta scalzato. Così lo invita a un banchetto reale e viene a sapere che Banquo e il giovane figlio, Fleance, usciranno per una cavalcata quella sera stessa. Macbeth ingaggia due sicari per uccidere Banquo e Fleance (un terzo sicario compare misteriosamente nel parco prima dell'omicidio: secondo una parte della critica potrebbe essere immagine e personificazione stessa dello spirito dell'Assassinio). Banquo viene dunque massacrato brutalmente, ma Fleance riesce a fuggire. Al banchetto, che dovrebbe celebrare il trionfo del re, Macbeth è convinto di vedere il fantasma di Banquo che siede al suo posto, mentre gli astanti e la stessa Lady Macbeth non vedono nulla. Il resto dei convitati è spaventato dalla furia di Macbeth verso un seggio vuoto, finché una disperata Lady Macbeth ordina a tutti di andare via.
Atto terzo
Macbeth, che cammina ormai a cavallo fra mondo del reale e mondo soprannaturale, si reca dalle streghe in cerca di certezze. Esse, interrogate, chiamano a rispondere degli spiriti: una testa armata dice a Macbeth "temi MacDuff", un bambino insanguinato gli dice "nessun nato di donna può nuocerti", un bambino incoronato gli dice "Macbeth non sarà sconfitto fino a che la foresta di Birnam non muova verso Dunsinane"; infine appare un corteo di otto spiriti a simboleggiare i discendenti di Banquo, alla vista dei quali Macbeth si dispera.
Si avvia una stagione di sanguinaria persecuzione ai danni di tutti i lord di Scozia che il sovrano ritiene sospetti, e in particolare contro MacDuff. Un gruppo di sicari viene inviato al suo castello per ucciderlo, ma una volta lì i mercenari non lo trovano, essendo questi recatosi in Inghilterra per cercare aiuto militare contro Macbeth e avviare una rivolta. Gli assassini a ogni modo perpetrano il massacro della moglie di MacDuff e dei suoi figli, in una scena piena di patetismo e crudeltà.
Lady Macbeth nel frattempo, incapace di raggiungere il marito nelle dimensioni surreali in cui si è perso, non regge più il peso dei suoi delitti e comincia a essere tormentata da visioni e incubi che sconvolgono il suo sonno, portandola a episodi di sonnambulismo che sfociano in crisi disperate dove tenta di ripulire le mani da macchie di sangue incancellabili.
Atto quarto
In Inghilterra MacDuff e Malcolm pianificano l'invasione della Scozia. Macbeth, adesso identificato come un tiranno, vede che molti baroni disertano dal suo fianco. Malcolm guida un esercito con MacDuff e Seyward, conte di Northumbria, contro il castello di Dunsinane, fortezza associata al trono di Scozia dove Macbeth risiede. Ai soldati, accampati nel bosco di Birnam, viene ordinato di tagliare i rami degli alberi per mascherare il loro numero. Con ciò si realizza la terza profezia delle streghe: tenendo alti i rami degli alberi, innumerevoli soldati rassomigliano al bosco di Birnam che avanza verso Dunsinane. Alla notizia della morte della moglie (la cui causa non è chiara; si presume che ella si sia suicidata, oppure che sia caduta da una torre in preda al delirio da sonnambula) e di fronte all'avanzata dell'esercito ribelle, Macbeth pronuncia il famoso soliloquio ("Domani e domani e domani"), sul senso vacuo della vita e di tutte le azioni che la costellano, vani atti insignificanti che puntano al raggiungimento di obiettivi che non hanno alcun reale valore.
Richiede poi che gli siano portate armi e armatura, pronto a vendere cara la pelle in quello che già sente essere il suo atto finale.
La battaglia infuria sotto le mura di Dunsinane, e il giovane Seyward, alleato di MacDuff, muore per mano del tiranno, il quale poi affronta MacDuff. Macbeth ritiene di non avere alcun motivo di temere il lord ribelle perché non può essere ferito o ucciso da "nessuno nato da donna", secondo la profezia delle streghe. MacDuff però dichiara di "essere stato strappato prima del tempo dal ventre di sua madre" e che quindi non era propriamente "nato" da donna. Macbeth tuttavia, nella furia della battaglia accetta tale destino e non dimostra neanche un momento di cedimento, nella sua lucida follia. I due combattono e MacDuff decapita Macbeth, realizzando così l'ultima delle profezie.
Anche se Malcolm, e non Fleance, salí al trono, la profezia delle streghe riguardante Banquo fu ritenuta veritiera dal pubblico di Shakespeare, che riteneva che re Giacomo I fosse diretto discendente di Banquo.
Una tragedia cruenta
Si tratta di una tragedia fosca, cruenta, i cui personaggi sono ambigui e immersi in un'atmosfera a tratti apocalittica. Infatti, mentre in Re Lear il mondo naturale resta totalmente indifferente nei confronti delle vicende umane, Shakespeare sceglie di introdurre in Macbeth l'elemento sovrannaturale funesto che contribuisce a far crollare il regno del protagonista e a provocarne quindi la tragica morte. Il tema fondamentale della tragedia è la natura malvagia dell'uomo, o comunque la pulsione distruttrice che alberga all'interno del suo cuore. Lady Macbeth, personificazione del male, è animata da grande ambizione e sete di potere: è lei a convincere il marito, spesso indeciso, a commettere il regicidio, ma non riuscirà poi a sopportare la deriva di violenza dello stesso consorte, arrivando alla follia e, forse, al suicidio, mentre Macbeth andrà incontro a una lenta disumanizzazione di se stesso, accompagnata dalla perdita di contatto con la realtà, incluse le sue azioni più efferate.
Macbeth presenta una certa ambiguità: la sua sete di potere lo induce al delitto, ma ne prova anche rimorso, essendo incapace di pentimento.
Il soprannaturale è presente con apparizioni di spettri, fantasmi, che rappresentano le colpe e le angosce dell'animo umano, nonché dalla presenza, forse reale o forse solo immaginata, delle tre streghe, quali emissarie di un Fato incombente e ineffabile, giustificazione e al tempo stesso ineluttabile sovrano delle sorti degli uomini.
Nella follia sanguinaria Macbeth ha un solo conforto attraverso il contatto con il soprannaturale e, all'inizio del IV atto, egli si reca nuovamente dalle streghe per conoscere il proprio destino. Il responso è solo in apparenza rassicurante, in realtà molto enigmatico, eppure Macbeth vi si appiglia con convinzione e affronta i nemici (V atto) fino al momento in cui scopre il vero significato di quelle oscure profezie.
Il tema del potere è sviluppato anche da altri personaggi, come il giovane figlio di Duncan, Malcolm, che si sente in qualche modo indegno del titolo regale: il nobile scozzese MacDuff, quindi, spiega quale sia la vera essenza del potere e quale differenza intercorra tra il regno, anche quello di una persona ambiziosa e corrotta, e la tirannide.
Interessante poi è la riflessione esistenziale (atto V, scena V) con una famosa definizione della vita umana, dominata da precarietà ed incertezza, temi dominanti nel Barocco, età in cui Shakespeare visse: "La vita non è che un'ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla".
Sul palco, un analista ha scomposto un testo e poi ne è stato assorbito. Fuori, oggi usiamo strumenti del teatro nelle nostre stanze di terapeuti. Giochi di ruolo li chiamiamo, memorie vere messe in scena così che la sofferenza sgorghi potente, di Giancarlo Dimaggio
Succede ancora una volta. Mi prende quel demone, il destino che le Streghe a me hanno predetto e che in certi giorni devo accogliere. L’impulso a correggere, irrefrenabile quando osservo un collega psicoterapeuta al lavoro. Appare in video la registrazione di uno psicoanalista, dialoga con gli attori in carne e ossa. L’adattamento del Macbeth di Angela Dematté e Carmelo Rifici è iniziato da poco. Cosa hanno fatto gli autori? Hanno invitato un discepolo di Jung a intervistare gli attori, filmando tutto. Cosa ti evoca il Macbeth? Sono apparsi riti arcaici, paesi che incatenano e orchi. Molti hanno rinunciato al ruolo.
La messa in scena inizia da lì, ma la mia testa sfugge al controllo, filtro ogni domanda dell’uomo anziano e ne farei uguale solo mezza. Un moto di ribellione mi prende quando Angelo Di Genio racconta di un padre aggressivo, rifiutante e l’analista lo invita a capire le ragioni di quel padre. No! Avrebbe dovuto domandargli cosa gli succedeva dentro quando ha subito due anni di silenzio ostile. La psicoanalisi junghiana rimane al fondo delle mie preferenze, io insegno altro. Se chiediamo al paziente di mettersi nei panni di chi lo ha fatto soffrire, prima di esserci collocati vicino alle ferite che si porta addosso, gli siamo inutili, dannosi, al meglio rallentiamo il processo di cura. In quel momento il demone della correzione tuona dentro di me in una lingua arcana e non so arrestarlo.
Me ne libera Tindaro Granata, le domande dell’analista gli evocano i misteri di un’infanzia siciliana: la preghiera delle sciamane, lo ‘nciarmari’, fascinazione, malocchio, tre croci disegnate sul corpo per togliere i vermi dalla pancia. Capisco che non sono al centro Lugano Arte e Cultura, il LAC, per correggere, l’anziano psicoanalista nel video è finzione teatrale. Mi suscita simpatia, ci accomuna il tenere le mani incrociate dietro la nuca mentre ascoltiamo drammi, seduti sulla poltrona Pixbo di Ikea, l’oggetto che riscatta il postmoderno. Il demone è scacciato, solo riapparirà durante l’inutile finale, mal recitato dall’attore giovane, un monologo che Ecate non avrebbe pronunciato. Importa poco, perché a quel punto ero già catturato. Tre momenti mi hanno trasportato nell’altrove. Prima di svelarli, devo rispondere a domande: chi sono Macbeth e Signora? Cosa motiva le loro azioni? Dallo psicoterapeuta a teatro la risposta uno se l’aspetta.
Una coppia avida di potere. Questo è facile, Shakespeare ne ha dipinta una simile nella sua opera, House of Cards. È mossa da una pulsione umana innata: il rango, la scalata nella gerarchia, lo status. Fin qui, niente di strano. Eppure, fino al giorno dell’incontro con le Streghe, Macbeth era stato un valoroso combattente fedele alla bandiera, anche se, pare, a volte preda di momenti di bizzarria. Le Streghe cosa evocano in lui? Intanto, non è un caso che l’incontro avvenga dopo una battaglia sanguinosa, dove l’eroe ha seminato sangue. Ha aperto Sinell il traditore “come un maiale”, ma in quel momento di fronte alla calma dell’uomo gli è tremata la mano e ha “visto il tempo fermarsi”. Sono sintomi, Macbeth non è immune al destino dei soldati, il disturbo post traumatico da stress, quella sindrome che frammenta la mente quando il senso di sicurezza di base che dovrebbe accompagnarci nella vita salta in aria.
Quindi, un uomo ambizioso che paga il prezzo della guerra. Un uomo così, può perdere il controllo. Andiamo indietro. Chi sono lui e Lady Macbeth? Mi sono ossessionato sul testo, dovevo capire. Non hanno figli, sono sterili. Ma c’è di più. Lei recita, incitando il marito ad uccidere re Duncan: “Io so quanta tenerezza ci sia in una madre che allatta il figlio”. Hanno addolcito le parole originali. Come effetto del processo psicoanalitico? Chi parlava in quel momento, il personaggio, l’attrice, la scrittrice o il regista? Shakespeare è più diretto e, a mio vedere, non lascia dubbi: “I have given suck”, “Io ho allattato”. Lady Macbeth ha avuto un figlio, col marito, oppure prima? E lo ha perso.
Le azioni che compiono dopo la profezia delle tre Streghe di Ecate sono efferate, tipiche di animali a sangue freddo, ma loro non lo sono. Io ci leggo una delle trame psichiche più dolenti e terribili, un dramma in tre atti. Nel primo, la vulnerabilità iniziale, spesso sedimento della storia di sviluppo. Nel secondo, l’evento scatenante: la perdita del figlio, il trauma della battaglia? Nel terzo avviene la metamorfosi malefica: la cura errata infetta la ferita e l’infiamma. Una cattiva medicina chiamata rivalsa, riscatto attraverso la gloria.
Cosa distingue Macbeth e Lady Macbeth dai predatori di tipo rettiliano? L’ombra di un figlio non avuto – come i loro discendenti in House of Cards – e di un figlio che Lady Macbeth ha perso, li turba e li trasforma in divoratori. Ma conservano un’umanità residua, ne ho le prove. Quali?
Per lei parla quello che gli psicologi chiamano effetto Lady Macbeth, me lo ricorda Francesco Mancini: negli esperimenti di laboratorio, una minaccia alla purezza morale induce le persone a lavarsi. “Non saranno mai bianche queste mani?” dice la regina. Il lavaggio ossessivo, aiutato dall’acqua che scorre sul palco, indica colpa, la colpa indica senso morale, che indica umanità. Lady Macbeth è ambiziosa, certo, ha perso la gioia di essere madre e l’invidia la corrode, ma è ancora donna e la sua coscienza ne paga il prezzo.
E ora le tre scene che mi hanno condotto altrove, figlie del testo e dell’incursione della psicanalisi nella drammaturgia.
La prima. Macbeth è stato fomentato dalla moglie a uccidere Duncan. Ha il coltello in mano, le Streghe intonano un canto incessante con voci di boschi notturni, radici e viluppi e lui, preso dalla frenesia, si agita e si agita e non la finisce più e io vorrei che il canto finisse, ma non posso fermarlo e Macbeth, burattino epilettico, non la smette e la musica cresce e la luce è rossa. Non è più teatro, è un folle rito di trasformazione del quale io sono più che spettatore.
La seconda. Macbeth è alla tavola dove siede il fantasma di Banco, l’uomo fertile i cui figli succederanno alla sua corona, morto per suo ordine. Macbeth è prono, faccia al pavimento. Dall’attore smette di uscire voce umana, un animale lo possiede, una scimmia, un cinghiale, non lo so, ma in quel momento ho paura. Di nuovo quell’esercizio di persistenza, vorrei che la smettesse e invece ogni grugnito è più lontano dall’umano. Per la sua malattia non c’è più cura. Perché l’analista ha smesso di guidare il testo dopo la morte del re.
La terza è di quei momenti in cui sai che un gesto doveva accadere, per necessità. Però lo capisci dopo, sul momento ti spiazza, ti folgora. L’analista appare in video, ma lo hanno reso un trittico di Francis Bacon, di quelli in cui una bocca che vorrebbe gemere non articola più suoni. Appartiene ormai all’infraterreno, un impasto di dolore, distanza e cera rossa squagliata. Questo doveva essere lo spettacolo.
L’analista ha preso la coppia folle e l’ha lanciata dentro gli attori, dalla rifrazione sono emerse chimere metà sovrani in delirio e metà squarci del passato, verità e rappresentazione al tempo stesso. E ora l’analista stesso è diventato finzione, fagocitato dal teatro, digerito dalle entità silvane che vagavano per i boschi della Scozia.
Un’altra scena condensa il senso del tutto. Macbeth e la moglie, potenti senza più sonno, parlano ma al centro del palco un’inattesa luce pura soffonde la madre del piccolo maschio di Macduff. Lei lo lava nudo in un catino, lo avvolge di amore tenero. È intollerabile quella scena, l’invidia obbliga a estirpare una felicità a loro preclusa. Lì si chiude il cerchio. L’uccisione del bambino Tindaro Granata la esegue secondo il rito dello scannamento del maiale nella sua Sicilia: “Lui fa un verso che fa paura”. Macbeth è stato fecondato da storie di altre terre e ha generato.
Esco, chiedo agli spettatori, lo spettacolo è piaciuto. L’aria del lungolago è fredda e secca, cammino solo e porto un segreto. Ho visto rappresentato il riflesso del mio lavoro. Sul palco, un analista ha scomposto un testo e poi ne è stato assorbito. Fuori, nel mondo specchio in cui vivo, oggi usiamo strumenti del teatro nelle nostre stanze di terapeuti. Giochi di ruolo li chiamiamo, memorie vere messe in scena così che la sofferenza sgorghi potente. A questa temperatura alta, trasformiamo. La storia che possedeva il corpo del paziente diventa racconto.
Macbeth e Lady Macbeth, di Johann Zoffany (1768)
TIMONE DI ATENE
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Timone d'Atene (The Life of Timon of Athens) è una tragedia che tratta del leggendario misantropo ateniese Timone, probabilmente ispirato anche al celebre omonimo filosofo. Viene generalmente considerata come una delle opere più oscure e di difficile comprensione di Shakespeare.
Trama
Atto I
Timone organizza un grande banchetto, a cui partecipano quasi tutti i personaggi. Distribuisce il proprio patrimonio senza parsimonia e tutti cercano di compiacerlo per averne di più, tranne Apemanto, un filosofo il cui cinismo non piace a Timone. Gradisce molto gli omaggi del poeta e del pittore e accetta in dono un gioiello dal gioielliere, anche se prima che l'atto si concluda l'ha già dato ad uno dei suoi amici.
Atto II
Flavio è turbato per il fatto che Timone ha sperperato tutti i suoi beni esagerando con la sua munificenza, patrocinando scrittori e artisti parassiti e risollevando dubbi amici dai loro guai finanziari. Timone, tornando dalla caccia, è invece arrabbiato per il fatto, che il suo comportamento non gli sia stato fatto osservare prima e rimprovera Flavio, che gli dice che in passato aveva tentato varie volte di farlo senza successo ed ora è finita: tutti i suoi terreni sono stati venduti. Ad aiutare Timone è proprio il suo opposto, il cinico filosofo Apemanto, che spaventa i falsi amici di Timone con le sue caustiche battute. Insieme a un buffone attacca i creditori di Timone quando si presentano per chiedere di essere saldati. Timone manda i propri servi a chiedere aiuto agli amici che considera a lui più vicini.
Atto III
Ad uno ad uno i servi di Timone vengono cacciati dai suoi falsi amici, e due di essi si abbandonano a due lunghi monologhi per esprimere la propria rabbia verso di loro. In un altro luogo uno dei più giovani ufficiali di Alcibiade sfoga la propria rabbia in maniera ancor più esagerata, uccidendo un uomo. Alcibiade chiede clemenza al Senato, sostenendo che un crimine passionale non dovrebbe essere giudicato con la stessa severità richiesta da un omicidio premeditato. I senatori non sono d'accordo e, quando Alcibiade insiste troppo, lo condannano all'esilio perpetuo. L'atto si conclude con Timone che discute con i servi la vendetta che preparerà in occasione del successivo banchetto.
Atti IV e V
Timone dà una festa più modesta, organizzata soltanto per coloro che l'hanno tradito. Vengono portati vassoi ed anfore, ma gli amici non vi trovano cibi e leccornie, ma solo sassi ed acqua bollente. Timone li scaglia contro di loro e fugge via. Il leale Flavio giura di ritrovarlo.
Maledicendo le mura della città Timone si rifugia in una zona selvaggia e va a vivere in una grotta, cibandosi di radici. Qui scopre un tesoro sepolto. La notizia si sparge e il poeta con il pittore, Apemanto, e tre banditi riescono a trovare Timone prima di Flavio. Egli offre la maggior parte di quest'oro ad Alcibiade per finanziargli l'assedio della città. Ad accompagnare Alcibiade ci sono due prostitute, Frine e Timandra, che scambiano pungenti battute con l'amareggiato Timone. Quando entra in scena Apemanto e accusa Timone di imitare la sua indole pessimista, gli spettatori sono costretti ad assistere allo strano spettacolo di un reciproco scambio di invettive tra i due misantropi.
Arriva Flavio. Anche lui vuole la sua parte di denaro, ma vuole anche che Timone torni indietro e riprenda il suo posto nella società. Timone si rende conto di avere in Flavio un vero amico, ma si duole del fatto che quell'uomo sia un semplice servo. Dice agli inviati di Atene, che speravano che Timone potesse ridurre Alcibiade a più miti consigli, di andarsi ad impiccare e muore. Alcibiade, marciando verso Atene, posa a terra il proprio guanto e conclude la tragedia leggendo l'amaro epitaffio che Timone si era preparato:
«Timone, qui giaccio; in vita tutti gli uomini odiai;
passa ed impreca pure, ma non sostare qui mai»
Oppure in alternativa:
«Qui giace il misero corpo della grama anima sua ormai privato:
non cercate il mio nome: codardi malvagi, che una pestilenza vi abbia consumato!»
Anche se il manoscritto originale di Shakespeare li riporta entrambi, data la loro natura contraddittoria, non è possibile che il poeta intendesse includerli entrambi e si pensa che, nel dubbio, abbia alla fine dimenticato di cancellarne uno. Il primo è una citazione di Callimaco.
Fonti
La tragedia è fonte di notevoli dispute tra gli studiosi. È costruita in un modo strano e il manoscritto presenta diverse lacune: per queste ragioni è stata spesso descritta come un'opera incompiuta, scritta da mani diverse e/o uno dei primi esempi di teatro sperimentale. Uno dei risultati di queste discussioni è che non si può indicare una data precisa per la sua stesura, dato che alcuni sostengono che si tratti del primo lavoro di Shakespeare, altri dell'ultimo, mentre altri ancora la situano in un periodo di poco anteriore a quello delle commedie di epoca tarda.
Generalmente viene inserita tra le tragedie (come accade nel First folio) anche se alcuni studiosi la inseriscono tra le "commedie" nonostante il suo protagonista finisca per morire. Le fonti dell'opera includono la "Vita di Alcibiade" di Plutarco e il dialogo di Luciano di Samosata "Timone il misantropo". La tragedia non fu mai pubblicata prima della sua inclusione nel First Folio del 1623.
A partire dal XIX secolo si è ipotizzato che il Timone sia in realtà opera di due autori diversi suggerendo che le sue inusuali caratteristiche siano il risultato del fatto che i suoi autori siano stati drammaturghi con attitudini e mentalità differenti tra loro; il principale indiziato come coautore, Thomas Middleton, fu individuato per la primavolta nel 1920. Uno studio del 1917 di John Mackinnon Robertson sostiene invece che George Chapman fu l'autore de Il lamento di un'innamorata e sempre lui iniziò il Timone d'Atene. Queste tesi sono state rifiutate da altri commentatori, tra i quali Bertolt Brecht, Frank Harris, e Rolf Soellner, che sostiene che l'opera sia in realtà un esperimento. Questi studiosi dicono che se un autore avesse rivisto il lavoro di un altro, avrebbe comunque dovuto adeguarsi agli standard del teatro giacobiano, cosa che evidentemente non è avvenuta. Soellner pensa che l'opera sia insolita perché fu rappresentata alle Inns of Court dove trovò un pubblico di nicchia composto per lo più da giovani avvocati.
Nondimeno, negli ultimi tre decenni, molte analisi linguistiche condotte sul testo sembrano aver rintracciato conferme a quelle che erano le ipotesi più datate: l'opera contiene numerose parole, frasi e scelte di punteggiatura tipiche dei lavori di Middleton e non di quelli di Shakespeare. Queste particolarità linguistiche si concentrano in determinate scene, il che sembra indicare che sia un lavoro comune di Middleton e Shakespeare e che si tratti di una collaborazione, piuttosto che di una revisione dell'uno sul testo dell'altro. Il curatore dell'edizione Oxfordiana, John Jowett, descrive queste prove e sottolinea come la presenza della mano di Middleton non significhi che la tragedia debba essere trascurata o sottovalutata: "Timone d'Atene è a maggior ragione interessante perché il testo mostra un dialogo tra due drammaturghi dall'indole molto diversa".
In ultima analisi però, nessuna delle teorie finora citate ha riscosso unanime consenso tra gli esperti.
Il personaggio è realmente esistito nella Atene di Pericle (inizio del V sec. a.C.). Ne parla Plutarco nella “Vita di Antonio”, descrivendolo come un maligno, un misantropo, un introverso, che evitava la compagnia di tutti tranne quella del filosofo Apemanto, “perché assai simile a lui per natura e condizione”, e quella del giovane Alcibiade, il brillante e intraprendente nipote di Pericle, perché si aspettava da lui che, bandito da Atene – come Coriolano da Roma – e sceso in guerra contro la città, recasse gran danno agli odiati Ateniesi.
Un Timone si trova anche in uno dei “Dialoghi dei morti” di Luciano di Samosata, saggi di acerba critica della vanità umana: è un ricco e nobile ateniese, che, ridotto in miseria per la sua prodigalità, è abbandonato da tutti; costretto a isolarsi dalla città e a scavare radici per terra per cibarsi, gli dèi gli fanno trovare dell’oro. La notizia del ritrovamento si sparge per Atene, e Timone è di nuovo assediato da una folla di gente d’ogni ceto, tra cui alcuni dei suoi ingrati amici da lui beneficati al tempo della primitiva ricchezza. Contro tutti egli si scaglia, cacciandoli a colpi di vanga e a sassate.
Un Timone ateniese è anche il protagonista di una commedia, in terzine, di Matteo Maria Boiardo (1487), intitolata appunto “Timone” e ispirata alla vicenda del dialogo di Luciano, che però Shakespeare non conosceva, la traduzione dei “Dialoghi” essendo apparsa in Inghilterra solo nel 1637 ad opera di Thomas Heywood.
Sul piano drammaturgico-letterario, il “Timone” è opera ineguale: accanto a brani di grande raffinatezza poetica – come il dialogo iniziale fra il Poeta e il Pittore – ce ne sono di scadenti nella fattura e addirittura improbabili rispetto alla omogeneità della vicenda – come l’episodio di Alcibiade (III, 6) davanti al Senato in difesa del soldato condannato a morte, di cui non si sa altro che è colpevole di omicidio. Ciò ha fatto pensare all’intervento di altra mano, come s’è detto sopra.
Illustrazione ottocentesca di Timone
ANTONIO E CLEOPATRA
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""""FILONE
Bah, mi pare che il nostro generale
con questa sua amorosa infatuazione
stia davvero passando la misura:
quegli occhi che hanno sempre folgorato
come quelli di un Marte corazzato,
su guerresche falangi, ora dimessi,
in atto di servile devozione
abbassano lo sguardo su una fronte
del colore del bronzo.
Quel suo cuore di grande condottiero
che nel cozzo d’asperrime battaglie
gli ha schiantato le fibule sul petto,
rinnegato ogni senso di ritegno,
s’è ridotto ad un mantice, a un ventaglio
per raffreddar gli ardori d’una zingara.
Trombe.
Entrano ANTONIO e CLEOPATRA con
le sue ancelle e con degli eunuchi che le fanno
vento agitando grandi ventagli
Eccoli. Osserva bene Marcantonio,
e vedrai uno dei tre gran pilastri
su cui si regge il mondo
trasformato
nel giullare d’una baldracca. Osservalo,
e mi darai ragione.
CLEOPATRA - (Ad Antonio)
Se è vero amore, dimmi quant’è grande!
ANTONIO - L’amore che si può quantificare
è da elemosinanti.
CLEOPATRA - I confini entro i quali essere amata
voglio fissarli io.
ANTONIO - Allora occorrerà che tu ti trovi
un nuovo cielo ed una nuova terra. """"
Antonio, triumviro di Roma insieme ad Ottaviano e a Marco Emilio Lepido, si è fermato in Egitto per essersi innamorato della regina Cleopatra. Antonio riceve la notizia che sua moglie, Fulvia, si è ribellata contro Ottaviano insieme a Lucio Antonio, ed è morta a causa di una malattia. Ora il triumvirato è minacciato da Sesto Pompeo, figlio del Pompeo avversario di Giulio Cesare. Pompeo ha raccolto una flotta, insieme ai pirati Menecrate e Mena e controlla la Sardegna e la Sicilia. A causa di questa situazione, Antonio è consapevole che deve tornare a Roma. Nonostante l'opposizione di Cleopatra, parte.
Tornato a Roma, Ottaviano convince Antonio a sposare sua sorella, Ottavia, per saldare il legame tra i due generali. Il luogotenente di Antonio, Enobarbo, sa che Ottavia non potrà appagarlo, dopo esser stato con Cleopatra. In un famoso passo, egli descrive il fascino di Cleopatra con un'iperbole:
"L'età non può appassirla, né l'abitudine rendere insipida la sua varietà infinita: le altre donne saziano i desideri che esse alimentano, ma ella affama di sé laddove più si prodiga: poiché le cose più vili acquistano grazia in lei, così che i sacerdoti santi la benedicono nella sua lussuria."
Un indovino mette in guardia Antonio:
"se giochi con Ottaviano a un gioco qualunque, sei sicuro di perdere"
In Egitto, Cleopatra viene a sapere del matrimonio di Antonio, e mette in atto una terribile vendetta nei confronti del messaggero che le riferisce la notizia. La sua collera si placa solo quando le sue cortigiane le assicurano che Ottavia è brutta: bassa, rozza, con il viso rotondo e con capelli sciupati.
I triumviri discutono con Pompeo, e gli offrono un accordo: egli può mantenere il controllo della Sicilia e della Sardegna ma deve aiutarli a "liberare tutto il mare dai pirati" e mandargli un tributo in grano. Dopo qualche esitazione, Pompeo accetta. I generali s'intrattengono in un festino sulla galea di Pompeo. Mena consiglia a Pompeo di uccidere i triumviri per diventare condottiero di Roma, ma egli non accetta. Più tardi, Ottaviano e Lepido rompono la tregua con Pompeo, e i combattimenti ripartono. Questa decisione è disapprovata da Antonio, che è furente.
Una volta ritornato ad Alessandria, Antonio incorona se stesso e Cleopatra sovrani dell'Egitto e del terzo orientale dell'impero romano, che era il territorio posseduto da Antonio in quanto triumviro. Egli accusa Ottaviano di non aver spartito con lui le terre conquistate a Pompeo, ed è indispettito dal fatto che Lepido, imprigionato da Ottaviano dopo una ribellione, sia stato escluso dal triumvirato. Ottaviano cede all'ultima richiesta, ma è molto deluso dal comportamento di Antonio.
Antonio si prepara a dare battaglia a Ottaviano. Enobarbo lo spinge a dare battaglia sulla terraferma, dove egli sarebbe avvantaggiato, anziché in mare, dove le navi di Ottaviano sono più leggere e meglio condotte. Antonio rifiuta, in quanto era stato sfidato da Ottaviano a una battaglia navale. Cleopatra s'impegna a mettere la sua flotta a disposizione di Antonio; ma, durante la battaglia navale, la regina abbandona il campo con le sue sessanta navi. Antonio la insegue causando così la disfatta del suo esercito. Vergognandosi per i suoi gesti, dovute all'amore che egli prova per Cleopatra, Antonio la richiama per averlo fatto sembrare un codardo, ma pone anche il suo amore sopra ogni altra cosa, dicendo "datemi un bacio, questo basta a compensarmi."
Ottaviano manda un messaggero a chiedere a Cleopatra di consegnargli Antonio, e di allearsi con lui. Ella esita, e flirta col messaggero; nel frattempo, Antonio entra in scena e, rabbioso, condanna il comportamento della principessa. Fa frustare il messaggero, e finalmente perdona Cleopatra, e le promette di combattere un'altra battaglia per lei, questa volta sulla terraferma.
Alla vigilia della battaglia, i soldati di Antonio odono strani oracoli, che interpretano come la perdita di protezione per il loro condottiero, da parte del dio Ercole. Inoltre, Enobarbo, lo storico luogotenente di Antonio, lo abbandona per passare dalla parte del nemico. Invece di confiscare i beni di Enobarbo, che erano stati lasciati presso Antonio durante la fuga da Ottaviano, Antonio ordina che tali beni siano riportati a Enobarbo. Enobarbo è talmente colpito dalla generosità di Antonio, e così pieno di vergogna per la sua infedeltà, che si suicida.
La battaglia comincia bene per Antonio, finché Ottaviano non la tramuta in una battaglia navale. Ancora una volta, Antonio perde, la sua flotta si arrende, ed egli denuncia Cleopatra: "questa infame egiziana mi ha tradito."
Antonio decide allora di uccidere la regina per il suo ennesimo tradimento. Cleopatra capisce che l'unico modo per riconquistare l'amore di Antonio, è quello di fargli credere che si è uccisa, col nome di Antonio come ultime parole. Ella si rinchiude nel suo mausoleo, e aspetta il ritorno di Antonio.
Il suo piano, però, fallisce: invece che correre per vedere Cleopatra morta, con il cuore pieno di rimorso, Antonio decide che la sua vita non ha più senso. Chiede a Erote, uno dei suoi più intimi amici, di trapassarlo con una spada; Erote non riesce però ad uccidere il suo generale, e si suicida. Antonio ammira il coraggio di Erote e cerca di morire allo stesso modo, ma si ferisce solamente. In uno stato di dolore lancinante, scopre che, in realtà, Cleopatra è ancora viva. Si trascina fino al suo mausoleo, e muore tra le sue braccia.
Ottaviano si reca da Cleopatra e cerca di convincerla ad arrendersi. Ella però rifiuta orgogliosa, per non essere trascinata in trionfo per le vie di Roma come una schiava qualsiasi. Cleopatra descrive alla cortigiana Ira la loro probabile sorte:
"istrioni di pronto ingegno improvviseranno commedie su di noi, rappresentando i nostri conviti alessandrini; Antonio sarà raffigurato ubriaco, e io vedrò qualche giovanotto travestito da stridula Cleopatra avvilire la mia grandezza in atteggiamento da prostituta."
Questo discorso è intriso di ironia drammatica, perché al tempo di Shakespeare la parte di Cleopatra era veramente recitata da un "giovanotto travestito", e la tragedia di Shakespeare raffigura i festini di un Antonio ubriaco.
Cleopatra decide di suicidarsi insieme alle sue ancelle Carmiana e Iras usando il veleno di un aspide. Muore serena pensando di rivedere Antonio nell'aldilà. Ottaviano scopre i corpi morti e ordina che sia data loro sepoltura con un funerale solenne.
Composizione e stampa
L'Antonio e Cleopatra entrò a far parte del Stationers' Register (una forma di copyright) nel maggio del 1608, ma fu stampato solo nell'in folio del 1623. Le edizioni moderne dividono la tragedia nei cinque atti convenzionali, benché Shakespeare non avesse creato né una divisione in atti né nelle quaranta scene separate in cui è di solito articolata la tragedia. Questo alto numero di scene (molto più alto di quello usato nelle altre opere) corrisponde agli spostamenti dell'azione, da Alessandria d'Egitto, all'Italia, alla Sicilia, alla Siria, ad Atene e ad altre parti dell'impero egiziano e romano.
La tragedia conta trentaquattro personaggi che dicono almeno una battuta; il numero è nella media delle altre opere di Shakespeare di questa portata.
Commento
Molti studiosi dell'opera cercano di spiegare la natura ambivalente di molti dei personaggi. Sono Antonio e Cleopatra dei veri eroi tragici, o sono in realtà troppo buffi e pieni di difetti per essere tragici? L'anima della loro relazione è l'amore, o, invero, la lussuria? È la loro passione totalmente distruttiva, o mostra invece anche elementi trascendenti? E infine, Cleopatra si uccide per amore di Antonio, o perché è troppo orgogliosa per esser portata in trionfo da Ottaviano? Anche Ottaviano è un personaggio molto ambiguo; egli può infatti essere visto sia come un condottiero buono e dall'animo nobile, che ricerca solamente la prosperità di Roma, o anche come un politico crudele e senza scrupoli.
La data e il teatro della prima rappresentazione di Antonio e Cleopatra sono oggetto di dibattito accademico, ma la tragedia è stata presumibilmente portata in scena dai King's Men per la prima volta tra il 1606 e il 1607 in un teatro all'aperto come il Globe Theatre o uno privato al chiuso come il Blackfriars Theatre. Alcuni accademici ritengono però che l'opera sia procedente alla congiura delle polveri, scritta forse tra il 1603 e il 1604; per certi critici la prominenza del tema politico e la natura aristocratica dei personaggi suggeriscono anche che non sia da escludere la possibilità che la tragedia sia andata in scena alla corte di Giacomo I d'Inghilterra. Nel 1669 i registri del Lord Chamberlain riportano una precedente rappresentazione di Antonio e Cleopatra al Blackfriars, un teatro che avrebbe quindi presentato l'opera a un pubblico più selezionato e aristocratico.
La fortuna dell'opera cambiò dopo la Restaurazione, quando la tragedia di John Dryden Tutto per amore soppiantò la versione shakespeariana della storia di Antonio e Cleopatra sulle scene londinesi. La versione di Dryden non era solo più vicina al nuovo gusto del pubblico, ma anche di più facile messa in scena, dato che i personaggi erano stati ridotti da trentaquattro a dieci. Il conflitto tra amore e onore era meno marcato nella tragedia di Dryden, che allo stesso tempo ampliò la figura di Cleopatra come eroina tragica in un periodo in cui le donne potevano calcare per la prima volta recitare sulle scene inglesi. L'opera di Dryden si dimostrò popolare con il pubblico londinese, tanto da essere messa in scena a Londra per centroventitré rappresentazioni nel corso del XVIII secolo.
Il diciannovesimo secolo vide un ritorno in auge della tragedia shakesperiana, anche se Antonio e Cleopatra tendeva ad essere portato in scena non nella versione tramandata dal First Folio, bensì in adattamenti spuri che alternavano scene di Shakespeare con quelle dell'opera di Dryden. Diverse scene furono eliminate interamente, soprattutto quelle più politiche, per favorire sfarzose messe in scena dei momenti bellici e per attirare l'attenzione sui momenti più romantici e melodrammatici. Nel 1813 John Philip Kemble allestì una messa in scena faraonica a Covent Garden con una processione funebre con quarantacinque coristi come epilogo, mentre vent'anni dopo William Charles Macready volle portare sul palco le flotte egizie e romane per la battaglia di Azio in un revival al Theatre Royal Drury Lane. Nel 1849 Samuel Phelps curò un'altra messa in scena titanica al Teatro Sadler's Wells con una parata militare che accompagnava il ritorno di Antonio ad Alessandria, ricevuto da Cleopatra con la sua guardia egizia e quella amazzone. La più stravagante delle produzioni del secolo fu probabilmente quella allestita al Drury Lane da Chatterton nel 1873: il testo di Shakespeare fu ridotto a sole dodici scene, che però includevano una ricca rappresentazione della battaglia di Azio, un balletto, trenta coristi, una processione di amazzoni per il matrimonio tra Antonio e Ottavia, nonché una barca per il primo incontro tra il generale romano e Cleopatra riccamente descritto da Enobarbo.
L'incontro fra Antonio e Cleopatra, Sébastien Bourdon, 1645 circa
""""La sessualità.
La sessualità, nella tragedia, si esprime nelle forme di un’incontrollata libidine, caratterizzante sia la relazione dei due protagonisti, sia la figura femminile di Cleopatra. Tutto l’Egitto, simbolo dell’oriente e dell’esotico, incarnato nella figura della sovrana, sarebbe associato alla dimensione della libidine, del sesso, della passione e dell’irrazionale, contrapponendosi alla dimensione dell’onore, della razionalità, della giurisdizione su cui si impianta la cultura romana invece incarnata da Antonio. Già il titolo dell’opera, dunque, crea una dualità che oppone due terre differenti, permettendo il confronto tra due culture e modus vivendi opposti. La relazione tra Antonio e Cleopatra, che si risolve nella distruzione di entrambi, è il punto di incontro tra queste due culture.
Da sempre il personaggio di Cleopatra, ultima regina del regno tolemaico d’Egitto, è rappresentato in connessione alla sua natura sessuale: sensualità e lascivia sono i tratti principali che artisti e letterati le hanno associato nel corso dei secoli, nonostante nelle sue Vite Parallele Plutarco, la fonte principale per la storia di Marco Antonio e Cleopatra, ne avesse sottolineato l’intelligenza e le capacità politiche. Dante Alighieri, ad esempio, la colloca nel quinto canto dell’Inferno nel girone dei lussuriosi, mentre il mondo della pittura l’ha ritratta in situazioni pregne di erotismo e sensualità. Nel quadro di Gerome Cleopatra e Cesare alcuni critici hanno infatti affermato che l’atmosfera ricorda quella di un bordello.
La medesima prospettiva sulla sovrana egizia è adottata da Shakespeare nella sua tragedia: il personaggio di Cleopatra è rappresentato sin dagli inizi del dramma in connessione alla sua natura sessuale, connotata come lasciva ed esagerata. Filo, un seguace di Antonio, parla della sua “lussuria di una zingara” (il termine “zingara” era un dispregiativo utilizzato per una donna molto promiscua). Molti dei personaggi romani la connotano ora come prostituta (Ottaviano e Mecenate la definiscono “puttana”) ora come animale in calore (Scaro la definisce, invece, “giumenta” e “vacca a giugno”). La sessualità estrema e sfrenata non si limita a tratteggiare il personaggio della sovrana egizia, ma si estende a connotare la relazione tra i due protagonisti. La storia d’amore tra Antonio e Cleopatra è percepita dai romani quale degradante ed umiliante per il famoso condottiero, portato alla perdizione e al disonore dal fascino sessuale di Cleopatra.
Cleopatra assurge nell’opera a simbolo di un’intera terra e cultura: Cleopatra è l’Egitto, com’è solito apostrofarla Antonio. Due culture sono così poste in una continua tensione dialettica. Da un lato l’Egitto, terra del sentimento e della sensualità, dell’eccesso nel bere e nel mangiare, del Nilo e della fertilità. Dall’altro Roma, fondata su un’apparentemente incrollabile moderazione e sulla capacità razionale di controllare i sentimenti e le pulsioni, terra dell’azione militare e politica, che non riesce a sopportare il disordine, la libertà sessuale e gli eccessi egizi. “Non è ancora una festa alessandrina” dice Pompeo nella settima scena del secondo atto.
“Balliamo il baccanale egizio
per celebrare le nostre bevute?”
chiede Enobaro qualche riga più tardi. I giudizi dei Romani su Cleopatra e sull’Egitto e, conseguentemente, sulla depravazione a cui è stato soggetto un perfetto romano quale Antonio sono categorici e inflessibili. La loro cultura della vergogna non accetta cedimenti e venera l’onore (honour) come valore sommo.
In prospettiva post-coloniale, l’analisi della sessualità in Antonio e Cleopatra diventa estremamente interessante. Tramite il continuo riferimento alla natura sessuale di Cleopatra, considerata degradante e anormale, i personaggi romani del dramma si distanziano costantemente dalla sovrana e dalla terra d’Egitto, presentando di continuo la superiorità del loro modello esistenziale.
La sessualità è dunque utilizzata dai romani col fine di rappresentare l’alterità di Cleopatra e della terra da essa incarnata, cioè col fine di stabilire una differenza morale, etnica e culturale tra il sé e l’altro. Con ‘altro’ qui si intende chi proviene da una terra, da un’etnia, da una cultura differenti dalla propria, verso cui il proprio gruppo di appartenenza esprime un constante sentimento di superiorità.
La dicotomia tra Egitto e Roma è costruita anche sulla contrapposizione tra due diversi modelli femminili: a Cleopatra corrisponde Ottavia, la sorella di Ottaviano che Antonio accetta di sposare per risanare le avversità emerse col futuro imperatore di Roma. La moderatezza, la passività, la debolezza della donna romana si contrappongono all’esagerazione, al potere e all’assertività della sovrana egizia. Soprattutto, la ritrosia e il pudore sessuale della prima si oppongono alla lascivia e alla lussuria della seconda.
Esemplificativo a comprendere le differenze tra i due modelli culturali è l’atteggiamento di Antonio nei confronti delle due donne: il matrimonio con Ottavia è solo uno stratagemma politico, come dice Enobaro (“qui non ha sposato che la sua convenienza”), a indicazione che il pragmatismo della cultura romana non apre alcuno spazio all’amore. Con Cleopatra, dal cui fascino sessuale è stato incantato secondo i personaggi romani, invece, intrattiene una relazione di estrema e incontrollabile passione.
Una serie di opposizioni dicotomiche vengono a configurarsi, scontrandosi, nella tragedia shakespeariana, che pone in contrasto due culture e modi di vivere differenti: Roma e Alessandria, e in maniera più estesa l’Occidente e l’Oriente.
La relazione tra Antonio e Cleopatra, che si risolve nella distruzione di entrambi, è il punto di incontro tra queste due culture.
D’altronde, uno dei motivi della caduta dell’Impero Romano d’Occidente e della decadenza della cultura romana è proprio rintracciabile nell’incontro con culture, credenze e riti orientali, che contribuirono a soddisfare alcuni bisogni spirituali ormai irrisolvibili dalla religione pagana romana. In una visione amplificata, si potrebbero rintracciare nella vicenda, catastrofica per entrambi i protagonisti, i rischi dell’incontro con culture e popolazioni ‘altre’. Il dramma verrebbe così a configurarsi come uno spunto di riflessione fondamentale per il discorso colonialista e post-colonialista, attraverso la cui ottica la critica sta appunto rileggendo alcune delle più famose opere shakespeariane. """"
Salvatore Cammisa
Sarah Bernhardt nella parte di Cleopatra (1891)
CORIOLANO
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Protagonista di questa tragedia, rappresentata per la prima volta probabilmente nel 1608, è il generale romano Caio Marzio. Egli, dopo aver condotto l’esercito romano ad una schiacciante vittoria contro i Volsci, viene proposto console dal Senato di Roma e insignito del soprannome di Coriolano (da Corioli, la città dei Volsci espugnata da Caio Marzio). La nomina a console deve essere ratificata dalle assemblee popolari, e così avviene, nonostante la ripugnanza di Coriolano a chiedere il voto ai plebei, che egli disprezza apertamente. Dopo l’elezione, i due tribuni della plebe Sicinio e Bruto sobillano la plebe di Roma a rivoltarsi contro Coriolano, il quale, indignato e adirato, esorta il patriziato romano a esautorare i tribuni della plebe e a riprendere in mano il potere. Accusato perciò di alto tradimento da Sicinio e da Bruto, Coriolano è condannato all’esilio, proprio mentre i Volsci stanno riorganizzando il loro esercito per muovere contro Roma. Coriolano giura vendetta contro la città che lo ha esiliato e si rifugia a Corioli, dal generale dei Volsci Tullo Aufidio (prima suo nemico giurato) il quale gli affida il comando di metà dell’esercito volsco. Coriolano, dopo aver sbaragliato l’esercito di Roma, rimane sordo alle suppliche dei suoi concittadini che lo scongiurano di desistere dai suoi propositi di vendetta e di rinunciare alla distruzione della città. Ma, quando sua madre Volumnia, sua moglie Virgilia e il suo figlioletto si recano al campo dei Volsci per scongiurare Coriolano di risparmiare la sua città, Coriolano cede: firma con Roma un trattato di pace vantaggioso per i Volsci e fa ritorno a Corioli, dove Tullo Aufidio (che già iniziava a preoccuparsi per la crescente importanza politica del generale romano) lo accusa di tradimento e lo uccide.
A una lettura superficiale, questa tragedia sembra giustificare le critiche di Lev Tolstoj, il quale, com’è noto, accusò Shakespeare di non provare alcuna simpatia per le classi popolari. Indubbiamente nel “Coriolano” (come anche nel “Giulio Cesare”) la plebe viene raffigurata come una massa volubile e incostante, ignorante e incapace di ragionamento, preda delle passioni più elementari, facilmente manipolabile da mestatori e da demagoghi; tuttavia mi sembra che nel testo shakespeariano ciò che appare con maggior evidenza sia il cinismo degli esponenti delle classi dominanti, che adoperano la plebe come massa di manovra per i propri giochi di potere. Ciò vale non solo per i due tribuni Sicinio e Bruto, ma anche per Tullio Aufidio e in generale per il patriziato romano, il quale, nel primo atto, non esita ad approfittare della guerra con i Volsci per distogliere la plebe di Roma dalle sue rivendicazioni sociali. Sulla figura di Coriolano (il quale non fa altro che esprimere apertamente quel disprezzo per il popolo, che è condiviso da tutti i patrizi, i quali, però, gli rimproverano la sua mancanza di diplomazia e la sua scarsa capacità di dissimulare) si riflette invece la simpatia di Shakespeare per le persone sincere e schiette.
La tragedia di Coriolano è quella di un uomo che non sa adattarsi alle convenzioni e alle ipocrisie della vita politica, la quale sempre è rappresentata da Shakespeare come una mera e spietata lotta per il potere fra individui privi di scrupoli. Ad ogni modo, i contrasti di classe nella società romana sono rappresentati nel “Coriolano” in modo vivido e realistico e anche il punto di vista dei plebei è reso con efficacia; ciò che destò l’interesse dello stesso Bertolt Brecht, il quale nel 1951 realizzò un proprio rifacimento di questa tragedia.
Coriolano è una tragedia in cinque atti. La trama è ispirata alla vita del condottiero romano Caio Marzio Coriolano, così come descritta nelle Vite parallele di Plutarco e nell'Ab Urbe condita di Tito Livio.
Trama
La tragedia è ambientata a Roma, poco dopo la cacciata dei re etruschi della dinastia dei Tarquini. La città è in preda a una sommossa dopo che le scorte di grano sono state negate al popolo. I rivoltosi sono particolarmente adirati con Caio Marzio, un valoroso generale che incolpano della sparizione delle scorte alimentari. Incontrano dapprima un patrizio di nome Menenio Agrippa, quindi Caio Marzio stesso. Menenio tenta di placare i rivoltosi, mentre Caio Marzio si mostra sprezzante e dice che i plebei non meritano il grano perché non hanno servito l'esercito. Due tribuni della plebe, Bruto e Sicinio, denunciano personalmente Caio Marzio che lascia Roma quando giunge la notizia che l'esercito dei Volsci è pronto a dare battaglia.
Il capo dell'esercito dei Volsci, Tullo Aufidio, si è varie volte scontrato con Caio Marzio e lo considera un nemico giurato. L'esercito romano è guidato da Cominio, mentre Caio Marzio è alla caccia di Aufidio, Caio Marzio guida una sortita contro la città volsca di Corioli. L'assedio di Corioli è inizialmente infruttuoso, ma Marzio riesce poi ad aprire le porte della città e a conquistarla per Roma. Anche se esausto per la battaglia, Marzio raggiunge velocemente Cominio e si batte contro le rimanenti forze dei Volsci. Lui e Aufidio si sfidano a un duello che termina solo quando i soldati di Aufidio lo trascinano via dalla battaglia.
In segno di riconoscimento per il suo incredibile valore Cominio concede a Marzio il soprannome onorifico di "Coriolano". Quando tornano a Roma, Veturia, la madre di Coriolano, incoraggia il figlio a candidarsi alla carica di console. Coriolano esita ma alla fine cede ai desideri della madre. Grazie al sostegno del Senato vince senza difficoltà e sulle prime sembra avere la meglio anche sugli oppositori della fazione popolare. Tuttavia Bruto e Sicinio tramano per distruggerlo e aizzano un'altra rivolta contro la sua elezione a console. Di fronte a tutto ciò Coriolano si infuria e critica duramente il concetto di governo del popolo. Paragona il permettere ai plebei di esercitare il potere sui patrizi al concedere "ai corvi di prendere a beccate le aquile". Per queste parole i due tribuni lo condannano come traditore e ordinano che sia mandato in esilio.
Dopo essere stato esiliato da Roma Coriolano si reca da Aufidio nella capitale dei Volsci e gli propone di guidare il suo esercito alla vittoria contro Roma. Aufidio e i nobili volsci abbracciano Coriolano e gli concedono di condurre un nuovo assalto contro la città. Roma, in preda al panico, cerca disperatamente di convincere Coriolano ad abbandonare i suoi propositi di vendetta, ma né Cominio né Menenio riescono nell'intento. A questo punto viene mandata a incontrare il figlio Veturia, insieme alla moglie e al figlio di Coriolano: la donna riesce a dissuadere il figlio dal distruggere Roma. Coriolano, invece di muovere battaglia conclude un trattato di pace tra i Volsci e i Romani. Quando però Coriolano torna nella capitale dei Volsci, alcuni congiurati guidati da Aufidio lo uccidono per il suo tradimento.
La tragedia fu pubblicata per la prima volte nel First folio del 1623. Alcuni particolari del testo, come la non comune cura delle didascalie sceniche, hanno suggerito ad alcuni studiosi shakespeariani che quel particolare testo fosse stato preparato per essere utilizzato come copione per un allestimento teatrale.
Come accade per altre opere di Shakespeare, come Tutto è bene quel che finisce bene o Timone d'Atene, non esistono testimonianze di allestimenti di Coriolano antecedenti al periodo della restaurazione inglese. Per la prima rappresentazione, di cui si abbia notizia, al Drury Lane, venne usato la cruenta rielaborazione che nel 1682 ne fece Nahum Tate. Un adattamento successivo, The Invader of His Country, or The Fatal Resentment di John Dennis, nel 1719 fu tolto dal cartellone per il malcontento del pubblico dopo tre sole rappresentazioni. Solo nel 1754 David Garrick si riaccostò al testo shakespeariano interpretandolo in un allestimento del Drury Lane.
Il più famoso Coriolano della storia è certamente Laurence Olivier, che per primo riscosse un enorme successo interpretando la parte nel 1937 all'Old Vic Theatre, ripetendosi poi con successo ancora maggiore nel 1955 allo Shakespeare Memorial Theatre. Divenne celebre perché in quest'ultimo allestimento interpretò la scena della morte di Coriolano lasciandosi cadere all'indietro da un'alta pedana e restando appeso a testa in giù, un chiaro riferimento alla fine di Mussolini. Altri famosi interpreti contemporanei di Coriolano sono stati Ian McKellen, Ralph Fiennes e Tom Hiddleston.
Coriolano, madre e moglie lo convincono a non combattere contro Roma. Di James Caldwell e Gavin Hamilton
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Eugenio Caruso - 08 - 01 - 2022
I DRAMMI STORICI
ENRICO VI
Enrico VI, parte prima (King Henry VI, Part I).
Con quest'opera si apre, anche da un punto di vista semplicemente cronologico (la sua stesura è fatta risalire dagli studiosi agli anni 1588-1592), la lunga e complessa produzione shakespeariana.
Il dramma storico, basato sulla vita del monarca Enrico VI d'Inghilterra, si compone di altre due parti: l'Enrico VI, parte II e l'Enrico VI, parte III; ma allo stesso tempo è il primo capitolo della tetralogia minore del Bardo assieme a Riccardo III.
È il dramma del potere, indagato nei suoi aspetti più torbidi e oscuri, vissuto come fatalità e maledizione - come testimonia la maledizione contro gli inglesi di Giovanna d'Arco sul rogo, nella quarta scena del V atto - che incombe come una cappa asfissiante non solo su chi se lo ritrova a gestire senza averlo cercato (come appunto Enrico VI) ma anche su coloro la cui vita è presentata invece come un'interminabile sforzo per raggiungerlo, agguantarlo e mantenerlo. Il tema del peso del potere è un elemento centrale, che continua a svilupparsi nelle successive parti dell'opera.
«Ci fu mai monarca che occupasse un trono in terra e fosse meno felice di me? Appena uscito di culla fui fatto re all’età di nove mesi; e non vi fu mai suddito che desiderasse di essere sovrano quanto io desidero di essere suddito»
(Enrico VI, parte II - Atto 4, scena 9)
Shakespeare, non ancora trentenne, dimostra di ben conoscere gli arcana imperii, i meccanismi segreti del governo e delle lotte di potere, le logiche spietate che presiedono alle alleanze e ai tradimenti, alle promesse di fedeltà eterna e ai repentini spergiuri, alle richieste di perdono o di pietà da parte dei vinti e alla sete di vendetta dei vincitori.
Il sottofondo di ogni vicenda è quello eterno della lotta fratricida di Caino che colpisce suo fratello Abele (evocata esplicitamente da Winchester nella scena terza del primo atto) e delle inevitabili tristi conseguenze che questo delitto originario riproduce nella storia senza mai trovare redenzione, come un veleno versato alla sorgente di un fiume e che mai si diluisce o dissolve durante il suo corso, mantenendo intatti nel tempo il suo potere letale e la sua capacità di infettare le valli che attraversa; forse, soltanto quando le acque sfoceranno e si disperderanno nel mare aperto, alla fine della storia umana, questo veleno perderà la sua concentrazione mortale.
Trama
Nella prima parte assistiamo alle celebrazioni per la morte prematura di Enrico V (padre di Enrico VI), grande re e condottiero, che con la battaglia di Azincourt (1415) aveva piegato a sé la Francia e poi riportato alla corona inglese tutta la Normandia. L'evento inatteso inaugura per l'Inghilterra un periodo di incertezza e di torbidi politici.
«Ora che Enrico è morto, o generazioni future, attendetevi anni di dolore: i bambini suggeranno agli umidi occhi materni, quest’isola diverrà nutrice di amaro pianto, e non resteranno che donne a piangere i morti» (Atto I, Scena 1)
Ma la ribellione e la riscossa delle forze francesi, (“Tristi notizie vi porto dalla Francia, di perdite, di stragi e di sconfitte; la Guienna, la Sciampagna, Reims, Orléans, Parigi, Guysors, Poitiers, sono tutte perdute”, Atto I, Scena 1) alla cui guida vediamo una figura di Giovanna d'Arco non valorizzata da Shakespeare, (scriveva per un uditorio inglese, certamente non ben disposto verso la pulzella d'Orléans), sono solo la conseguenza esteriore, non la causa del problema; questa infatti va individuata in un fattore interiore, cioè nelle discordie, nell'odio, nelle rivalità meschine che crescono come un tumore negli animi della nobiltà inglese e da qui si trasmettono nel popolo.
Storicamente, questi torbidi sono rappresentati dalla cosiddetta Guerra delle due rose, e appunto nella scena 4 del secondo atto viene descritta plasticamente l'origine di tale rivalità tra le opposte fazioni degli York e dei Lancaster, in una contesa che si protrarrà sanguinosamente per oltre trent'anni:
«E qui faccio una profezia: questa contesa fra rosa bianca e rosa rossa, divenuta oggi fazione nel giardino del Tempio, manderà mille anime nelle tenebre della morte.
[...]
Sì, marciamo pure in Inghilterra o in Francia, senza capire quello che probabilmente seguirà. Questa discordia nata da poco fra i pari cova sotto le ceneri fallaci di un amore simulato, e da ultimo eromperà in fiamma: come le membra infette imputridiscono a poco a poco finché ossa e carne e muscoli cadono in disfacimento, tali saranno i frutti di questa vile discordia nata dalla rivalità. Ed ora temo quella fatale profezia che al tempo di Enrico V correva persino sulle bocche dei lattanti: che Enrico di Montmouth avrebbe conquistato tutto e Enrico di Windsor tutto avrebbe perduto»
(Atto II, scena 4 e Atto III, scena 1)
Sullo sfondo di questa crisi drammatica, Enrico VI è il re, ma la sua figura è quella di chi il potere regale lo subisce invece che esercitarlo. Già la sua ascesa al trono d'Inghilterra all'età di appena nove mesi aveva qualcosa di innaturale; la sua incoronazione a re di Francia (procuratagli da un'accorta politica dinastica predisposta da suo padre Enrico V, che aveva sposato Caterina di Valois figlia di Carlo VI di Francia, Delfino e poi re di Francia) era avvenuta quando aveva 9 anni (nel 1430 a Parigi) e il regno di Enrico VI fu necessariamente un lungo periodo di reggenza, di governo per interposta persona (quella dei Lord Protettori); e Shakespeare fa commentare ad uno dei suoi personaggi:
“ grave quando lo scettro è in mano di un fanciullo”.
Enrico VI è giovane e non ama la guerra; la sua indole meditativa e introversa, come egli stesso ammette lo rende inadatto al suo ruolo, dati i tempi; la sua figura tragica è quella di chi vive credendo nella buona fede di quelli che lo circondano, sicuro che tutti siano come lui e quindi vogliano indefettibilmente il bene e rifiutino sempre e comunque il male. Ma il mondo non funziona così. Persino la sua intimità, la sua vita sentimentale è pregiudicata dall'inganno: il conte Suffolk gli propone in matrimonio la bella Margherita, di cui però egli stesso è invaghito e di cui si propone di fare la sua amante nonché la leva per la sua ascesa al potere, una volta condottala alla corte d'Inghilterra dalla nativa Francia.
Enrico VI d'Inghilterra
Enrico VI, parte seconda
Trama
La parte prima si era aperta con il cordoglio per un funerale; la parte seconda si apre invece con la gioia per un matrimonio annunciato, quello di Enrico VI con Margherita d'Angiò. Ma questa felicità non è affatto condivisa da molti membri autorevoli della corte, per i quali “questo matrimonio è fatale”, essendo parte di un accordo di tregua in cui il re, “ben felice di barattare due ducati con la bella figlia di un duca”, accordava condizioni molto favorevoli alla Francia di Carlo VI.
L'intrigo e la ribellione covano sotto la cenere attorno al re e assediano la sua lieve felicità; persino le donne sono contagiate da questo fascino mortale del potere, e se in questo sembrano "presuntuose e perverse", tuttavia esse testimoniano una diversa autocoscienza.
Nella seconda scena del secondo atto, durante una passeggiata serale nel giardino della casa di York, accade un fatto centrale per l'intera vicenda narrata nell'Enrico VI: York esce allo scoperto con i suoi buoni amici Salisbury e Warwick, del grande e potente clan dei Nevil, e chiedendo loro apertamente “che cosa pensino del suo indiscutibile diritto alla corona d'Inghilterra” ne ottiene il prezioso appoggio, ancorché segreto. Sulla base di questo patto, la corda dell'intrigo si stringe sempre più attorno a Gloucester, il fedele protettore del re, cui vengono estesi i sospetti che si nutrono sul conto di sua moglie Eleonora e pertanto gli viene revocato il ruolo di Protettore; nonostante dubiti della veridicità delle accuse
(“Il duca è virtuoso, mite e di troppo buoni costumi per sognare il male o per adoperarsi per la mia rovina”, e “è mia viva speranza che riusciate a giustificarvi pienamente di ogni sospetto: la coscienza mi dice che siete innocente”),
Enrico non ha la forza di opporsi alle accuse che vengono rivolte al suo ex protettore, con lo scopo di farlo cadere e di eliminare un ostacolo ai piani di coloro che agiscono e si comportano da congiurati, anche se – e non è paradossale in Shakespeare questa ulteriore complessità della trama - da un punto di vista giuridico sono nel giusto e rivendicano il loro buon diritto. Ma con i mezzi dei congiurati.
Del resto, lo stesso Gloucester avverte che
“questi sono tempi pericolosi: la virtù è soffocata dalla vile ambizione e la carità cacciata di qui dal rancore; l'istigazione al male domina e la giustizia è sparita”
e, prima di essere arrestato, mette in guardia Enrico sulle trame che si stanno compiendo alle sue spalle.
In questo frangente decisivo, York incoraggia se stesso all'impresa, e la fortuna aiuta gli audaci: una sommossa in Irlanda consente a York, incaricato di sedarla, di radunare sotto il suo comando, senza destare sospetti, un grande esercito. La morte di Gloucester, assassinato durante la sua prigionia e prima del processo, consente ai veri alleati di York, cioè Salisbury e Warwick, di accusare davanti al re e al popolo Suffolk, Wichester e la stessa regina Margherita. Complice una sommossa, Suffolk viene così esiliato e deve dire addio all'Inghilterra e a Margherita, sua amante. E, come spesso avviene in Shakespeare, proprio in questo frangente al perfido Suffolk vengono ispirate parole d'addio a Margherita di una struggente bellezza:
«Così il povero Suffolk è dieci volte bandito, una volta dal re e nove da te medesima. Non è questa terra che mi importi, quando tu non ci sia; il deserto sarebbe anche troppo popolato se Suffolk avesse la tua celestiale compagnia, perché dove sei tu, colà è il mondo con tutti i piaceri che può dare; e dove non sei tu, non è che desolazione. Non posso più parlare, vivi e godi: io stesso avrò gioia soltanto dal sapere che tu vivi»
(Enrico VI parte II, Atto terzo, scena II)
Intanto anche il cardinale di Winchester muore “bestemmiando Dio e maledicendo gli uomini” in un delirio di sensi di colpa e di disperazione]; e muore Suffolk, ucciso da pirati che hanno intercettato la sua barca mentre egli, insieme ad altri gentiluomini, attraversava lo stretto per raggiungere il suo esilio in Francia.
Il piano di York prosegue senza intoppi; tutte le sue mosse riescono; i suoi nemici si eliminano tra di loro senza che egli debba scoprirsi o destare sospetti. Manca ancora una mossa per preparare il terreno propizio alla sua azione: come egli stesso ammette
"Susciterò in Inghilterra una tenebrosa tempesta che manderà migliaia di anime in paradiso o le precipiterà all'inferno; e questo tremendo turbine non cesserà di infuriare finché l'aureo serto sul mio capo, come i raggi luminosi dello splendido sole, non calmi la furia di questo pazzo uragano". Lo strumento di questi disordini sarà Jack Cade, una losca figura di “demonio… e furfante”, un abile sobillatore senza scrupoli, che ama presentarsi come giustiziere del popolo e rivoluzionario che
“vuol dare nuova veste allo stato, o rivoltarla e farvi nuovo pelo… animato dallo spirito di buttar giù re e principi...e giura di fare una riforma generale: in Inghilterra le pagnotte da sette soldi e mezzo saranno vendute per un soldo; la capacità del boccale sarà triplicata...tutto il regno sarà di tutti...e quando sarò re non ci sarà più denaro, tutti mangeranno e berranno a mie spese e vi vestirò tutti con la stessa livrea perché andiate d'accordo come buoni fratelli e mi riveriate come vostro signore”.
Il motto di questo brigante del Kent è: “Il nostro ordine è il massimo disordine!”. Alla testa del suo esercito costituito da "una moltitudine cenciosa di servi e contadini rozzi e spietati", Cade avanza verso Londra, se ne impadronisce, costringe il re alla fuga e assapora l'ebbrezza del potere:
«La mia bocca sarà il parlamento d’Inghilterra…e non si sposerà ragazza che non mi dia il tributo della sua verginità, prima che l’abbiano gli altri; gli uomini saranno miei vassalli diretti; inoltre ordiniamo e comandiamo che le loro mogli siano tanto libere quanto il cuore sa desiderare o lingua sa dire.»
(Atto IV, scena 7)
Ma ben presto viene abbandonato da quella stessa folla che lo aveva poco prima acclamato e reso padrone di Londra.
“Ci fu mai piuma che si movesse al vento come questa moltitudine?”.
Con questo amaro commento, fugge e poco dopo viene ucciso. In questo frangente, il duca di York torna in Inghilterra alla testa dell'esercito che gli era stato messo a disposizione per sedare la rivolta irlandese. Nella sua mente un solo pensiero:
Dall'Irlanda viene York in armi per rivendicare il suo diritto e togliere la corona dal capo del debole Enrico…Ah, santa maestà! Chi non vorrebbe comprarti a qualunque prezzo? Obbediscano coloro che non sanno comandare”. Ma egli pensa di dover ancora dissimulare le sue intenzioni “finché Enrico non sia più debole ed io più forte”.
Tuttavia gli eventi precipitano e in conclusione i giochi finora nascosti si rivelano apertamente:
«Allora, York, schiudi i tuoi pensieri a lungo celati e lascia che la tua lingua vada di pari col tuo cuore. Falso re! Ti ho chiamato re? No, tu non sei re, né atto a governare e a reggere moltitudini, tu che non osi né sai importi a un traditore. Alla tua testa non si addice una corona; la tua mano è fatta per stringere un bordone di pellegrino e non per onorare lo scettro temuto del principe. Codesta corona d’oro deve cingere la mia fronte, che spianandosi o accigliandosi può, come la lancia di Achille, uccidere o sanare. Ecco qua una mano adatta a tenere alto uno scettro e con quello sancire leggi sovrane. Cedimi il tuo posto, per il Cielo!» (Atto V, scena 1) .
Segue uno scontro cruento tra i partigiani di York, cioè innanzitutto i suoi figli Edoardo e Riccardo, e quindi Salisbury e Warwick, contro i partigiani di Enrico, ovvero Somerset e i due Clifford, padre e figlio. Nella sera di quella giornata, la vittoria arride agli York; il re e i resti dei suoi sostenitori si sono ritirati a Londra per salvare il salvabile e tentare una controffensiva. Il duca di York sa che deve incalzarli e non dare loro tregua..
Margherita d'Angiò, miniatura del 1445 circa
Enrico VI, parte terza
Trama
Lo scontro militare tra gli York e i Lancaster sembra far pendere definitivamente il piatto della bilancia dalla parte di York, ma in realtà lo scontro non è ancora concluso. Enrico VI è ancora libero a Londra e può far leva su potenti appoggi politici nel Consiglio dei Pari e nel paese. Gli York occupano nella notte il Parlamento e lì attendono i loro nemici. Il sole sta sorgendo su una giornata decisiva e tutti sono consapevoli della gravità dell'ora:
"Questo sarà chiamato il Parlamento sanguinoso se Riccardo Plantageneto, duca di York, non sarà fatto re e non verrà deposto il pauroso Enrico la cui viltà ci ha fatti passare in proverbio presso i nemici".
Dopo una convulsa trattativa piena di minacce reciproche, Enrico cede all'ultimatum di York, strappando tuttavia una condizione: egli stesso potrà continuare a regnare vita natural durante, e solo dopo la sua morte, il duca di York potrà far valere i suoi legittimi diritti dinastici e diventare re. Ma non c'è onore in questo accordo ed Enrico è abbandonato con disprezzo anche dai suoi partigiani più irriducibili, dalla moglie e dal figlio Edoardo, che si vede preclusa la successione al trono.
Del resto, anche nella fazione di York c'è chi non è soddisfatto di questo accordo ed Edoardo, figlio maggiore di York, incita a riprendere immediatamente le armi:
"Se date alla casa di Lancaster agio di respirare, alla fine vi oltrepasserà nella corsa"; e se il duca di York teme di violare un accordo su cui ha giurato, è ancora Edoardo a vincere i suoi scrupoli: "Ma per un regno si può rompere qualsiasi giuramento: per conto mio verrei meno a mille giuramenti pur di regnare un anno".
La guerra dunque è decisa: la pace appena sancita solennemente in Parlamento si rivela una fragile e breve tregua. Ma la volubile fortuna adesso gira le spalle a York e le forze raccolte dalla regina Margherita e dai suoi sostenitori prevalgono in battaglia; lo stesso duca di York è fatto prigioniero ed ucciso.
"Vostro padre fu vinto da molti nemici, ma ucciso soltanto dal braccio irato del crudele Clifford e della regina. Questa per dispregio prima incoronò il grazioso duca, gli rise in faccia e quando piangeva pel dolore gli diede, perché si asciugasse le guance, una pezzuola intinta nel sangue innocente del piccolo Rutland" [figlio minore e beniamino di York] "già ucciso dal crudele Clifford. Dopo molti scherni e turpi beffe gli tagliarono la testa e la posero sulla porta della città di York e colà è ancora, il più triste spettacolo che abbia mai visto". E il codice atavico della vendetta si attiva immediatamente.
Dice Riccardo: "Piangere è diminuire la profondità del dolore: piangano dunque i fanciulli; per me, colpi e vendetta!".
Ma certo occorre ponderare bene le proprie mosse: “Ma in questo difficile momento, che cosa si deve fare?” (ivi). Si decide nuovamente per lo scontro frontale, senza lasciarsi aperte vie di fuga. Tutti sono consapevoli che l'odio ha ormai creato una matassa inestricabile; né il dialogo né il diritto possono sciogliere il nodo gordiano della successione al trono d'Inghilterra.
Intanto, l'ennesima battaglia viene rappresentata a tinte fosche sulla scena. Enrico VI ne attende fatalisticamente l'esito:
"Questa battaglia è come la guerra del mattino quando le nubi morenti contendono con la luce che cresce, e il pastore soffiandosi sulle dita intirizzite non sa se sia giorno o notte. Ora la vittoria inclina da questa parte, come un mare possente forzato dalla marea a combattere col vento; ora inclina dall'altra parte, come quello stesso mare che la furia del vento forzi a ritirarsi; talora la vince il vento e talora la marea; ora l'uno è più forte ora l'altra fortissima: lottano entrambi per la vittoria corpo a corpo, e nessuno è vincitore o vinto: così ugualmente bilanciata è questa terribile battaglia. Mi siederò qui su questa tana di talpa: conceda Dio la vittoria a chi vuole! (…) O volesse Dio farmi morire! Poiché, che vi è in questo mondo se non dolori e guai? O Dio! Che vita felice se fossi un semplice campagnuolo!".
La battaglia è sempre più cruenta e il suo orrore cresce inesorabilmente secondo una logica perversa che travalica le stesse intenzioni degli uomini. Da opposti schieramenti, si avanzano sulla scena padri che si rendono conto di aver ucciso il figlio, e figli che si avvedono di aver ucciso il padre.
Finalmente, il pendolo della fortuna si sposta nuovamente dalla parte di York. Edoardo torna a Londra a prendersi il titolo di re per cui si è tanto combattuto versando fiumi di sangue ma la sua indole buontempona e godereccia lo induce ad usare il suo potere non per occuparsi primariamente degli affari di stato e degli interessi politici del suo regno bensì per cercare di costringere un'avvenente vedova, Lady Grey, a diventare la sua amante. Ma Lady Grey resiste alla impacciate avances del re (definito da lei "il più goffo corteggiatore della Cristianità") e questi finisce, contro ogni logica politica e dinastica, col chiederle addirittura di sposarlo. Suo fratello Riccardo assiste a questa miserevole tresca e la collera di Caino, origine di tutto, torna nuovamente protagonista della scena. Riccardo confessa le sue intenzioni più segrete, le sue mire a spodestare il fratello e tutti quelli che lo precedono nella linea di successione al trono. Un sogno a occhi aperti, difficile da realizzare, anzi quasi impossibile. Però, supponendo
"che non vi sia possibilità di regno per Riccardo: quale altro piacere può fornirmi il mondo? Troverò forse il mio paradiso in grembo a una donna, coprirò il mio corpo di gai ornamenti, e affascinerò il bel sesso con le parole e con gli sguardi? O miserabile pensiero e più difficile a mettere in atto che ottenere venti corone d'oro! Già! L'amore mi abbandonò fin da quando ero in seno a mia madre e perché non m'impacciassi con le sue tenere leggi corruppe con qualche dono la fragile natura e la indusse ad atrofizzarmi il braccio come un ramo secco, a crearmi un'odiosa prominenza sul dorso dove la deformità siede a scherno del mio corpo, a dar forma disuguale alle mie gambe, a far di me un ammasso caotico, un orsacchiotto mal leccato che non ha alcuna delle sembianze materne. Come potrei essere fra quelli che piacciono alle donne? Mostruoso errore nutrire un tal pensiero! Dunque, giacché questa terra non mi offre alcuna gioia se non nel comandare, nel tenere a freno e nell'usar prepotenze a coloro che son fatti meglio di me, sarà mio paradiso sognare il trono e per tutta la mia vita considerare il mondo come un inferno, finché il mio capo, portato dal tronco deforme, non sia circondato da una splendente corona".
In questa situazione ancora fluida e non assestata, una leggerezza di re Edoardo fa di nuovo precipitare la situazione. Infatti, mentre Warwick si trova in Francia per chiedere al re Luigi il consenso al matrimonio fra Edoardo stesso e madama Bona, la sorella del re, giunge notizia che intanto proprio Edoardo, sconfessando di fatto l'operato del suo plenipotenziario e il suo disegno politico di alleanza con la Francia, ha sposato Lady Grey, "spinto alle nozze dall'appetito e non dall'onore né dal desiderio di rafforzare e garantire il nostro paese". Questa azione di Edoardo offende profondamente Warwick e ne determina il passaggio al campo dei sostenitori dello spodestato Enrico. Ma anche nell'entourage di Edoardo c'è malcontento e preoccupazione per questa sua scelta non meditata.
Ben presto si giunge allo scontro armato ed Edoardo cade prigioniero di Warwick, che gli notifica la sua deposizione e l'imminente ritorno al trono di Enrico. La ruota della fortuna, come la gigantesca pala di un mulino, si rimette in moto cigolando. Le scene si susseguono velocemente, fino a giungere al grande finale dell'atto V, con lo scontro campale tra le opposte fazioni che culmina col trionfo di Edoardo di York e il conseguente assassinio di Enrico VI e di suo figlio Edoardo. Ma ora che tutto è finito, proprio ora la maledizione di Caino si mostra di nuovo furtivamente all'opera, increspando minacciosamente la superficie liscia della storia. Ed è ancora Riccardo di Gloucester che incarna questa sete sanguinaria, Riccardo che confessa: "non ho né pietà né amore né paura… giacché il cielo ha foggiato così il mio corpo, l'inferno mi storpiò la mente in proporzione. Non ho fratelli, non somiglio a nessun fratello; e questa parola amore che i barbogi chiamano divina, stia con gli uomini che si somigliano l'un l'altro, non con me; io sono soltanto me stesso. Re Enrico e il principe suo figlio sono morti; Clarence ora tocca a te e poi agli altri" [che mi precedete nella linea di successione al trono] "perché continuerò a ritenermi infimo finché non sia salito più alto di tutti".
Così, Shakespeare conclude l'Enrico VI quasi preannunciando e gettando il seme del successivo dramma storico, il Riccardo III.
Riccardo di Gloucester, poi Riccardo III d'Inghilterra.
RICCARDO III
Riccardo III (The Life and Death of King Richard III, Vita e morte di re Riccardo III) è l'ultima di quattro opere teatrali nella tetralogia minore di William Shakespeare sulla storia inglese: conclude un racconto drammatico cominciato con Enrico VI, parte 1 e continuato con Enrico VI, parte 2 e Enrico VI, parte 3. Dopo Amleto, questa è l'opera teatrale più lunga di Shakespeare.
L'intera tetralogia è stata composta verso l'inizio della carriera di Shakespeare: il periodo più probabile di composizione è tra il 1591 e il 1592.
Culminando con la sconfitta di re Riccardo III di York nella battaglia del campo di Bosworth alla fine dell'opera, Riccardo III è una drammatizzazione degli eventi storici recenti per Shakespeare, conclusi nel 1485, dopo la guerra tra le due famiglie dei Lancaster e degli York (Guerra delle due rose) e la presa di potere definitiva dei Tudor. Il monarca Riccardo III è descritto in modo particolarmente negativo.
Ritratto postumo di Edoardo IV d'Inghilterra, 1540 circa, National Portrait Gallery.
Trama
Il dramma ha inizio con Riccardo che elogia il fratello, re Edoardo IV d'Inghilterra, il maggiore dei figli di Riccardo, Duca di York.
«Ormai l'inverno del nostro scontento
s'è fatto estate radiosa ai raggi di questo sole di York»
Da notare come nella traduzione italiana si perda la consonanza fra il termine sole (sun) e figlio (son). Il monologo rivela l'invidia e l'ambizione di Riccardo, in quanto suo fratello Edoardo regna sul paese con successo. Riccardo è un orrendo gobbo, che descrive se stesso come:
«plasmato da rozzi stampi" e "deforme, monco", privo della minima attrattiva per "far lo sdilinquito bellimbusto davanti all'ancheggiar d'una ninfa".»
Egli risponde all'angoscia della sua condizione affermando la sua volontà:
«Ho deciso di fare il delinquente
E odiare gli oziosi passatempi di questa nostra età.»
Senza molte pretese di accuratezza cronologica (che egli professa di disprezzare), Riccardo cospira affinché suo fratello Giorgio, che lo precede come erede al trono, sia condotto nella Torre di Londra come sospettato di assassinio; Riccardo, per riuscire nel suo intento, corrompe un indovino per confondere il re sospettoso.
Successivamente Riccardo entra nelle grazie di Lady Anna, la vedova di un Lancaster, Edoardo di Westminster, il principe di Galles. Riccardo si confida con il pubblico:
«Prenderò per moglie la figlia più giovane di Warwick.
Sì, le ho ucciso marito e padre, ma che importa?»
Nonostante il pregiudizio di lei nei confronti di Riccardo, Anna è vinta dal suo corteggiamento e accetta di sposarlo. Riccardo, in collaborazione con il suo amico Buckingham, Enrico Stafford, secondo duca di Buckingham, trama per la successione al trono, e si presenta agli altri signori come un uomo devoto e modesto, senza alcuna pretesa di grandezza. Riesce così a convincerli a sceglierlo come re alla morte di Edoardo IV - la morte del quale, ironicamente, non vede Riccardo coinvolto in alcun modo - finendo con l'ignorare le rivendicazioni dei giovani nipoti innocenti, i due principi nella Torre.
Riccardo si assicura attivamente il possesso della corona. Egli assassina chiunque si frapponga ad esso nella scalata al potere, inclusi il giovane principe, Lord Hastings, il suo precedente alleato Buckingham, e addirittura sua moglie e i figli. Questi crimini non passano inosservati, e quando Riccardo perde ogni tipo di appoggio, egli si trova ad affrontare il conte di Richmond, Enrico VII d'Inghilterra nella battaglia di Bosworth Field. Prima della battaglia, Riccardo riceve la visita dei fantasmi delle persone che ha ucciso (tra cui Enrico VI e suo figlio Edoardo di Lancaster, entrambi assassinati in Enrico VI, parte III), i quali gli dicono:
«Dispera e muori!»
Si sveglia implorando Gesù di aiutarlo, e lentamente comprende di essere rimasto solo nel mondo che egli stesso odia. Nonostante il combattimento inizialmente sembri procedere per il verso giusto, Riccardo si ritrova presto solo in mezzo al campo di battaglia, e urla sconsolato il verso sovente citato
"Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!".
Riccardo viene quindi sconfitto in seguito ad un combattimento corpo a corpo con Richmond, che lo trafigge con la spada.
In termini drammatici, forse la caratteristica più importante (e, opinabilmente, la più divertente) è l'improvviso cambiamento del personaggio di Riccardo. Nella prima parte del dramma, infatti, appare come una sorta di anti eroe, che provoca violenza e si compiace per questo:
«Io mi sono ingannato fino ad oggi sopra la mia figura;
S'ella mi trova, al contrario di me,
Un uomo di straordinario fascino. M'accollerò, costi quel che costi, la spesa d'uno specchio;»
Quasi immediatamente dopo l'incoronazione, comunque, la sua personalità e le sue azioni prendono una piega oscura. Egli tradisce il fedele Buckingham ("Non sono in vena oggi!"), e cade vittima dell'insicurezza ("Sono così corroso dal sangue, che peccato richiamerà peccato"); ora egli vede ombre dove non ve ne sono e il suo destino che verrà. ("Dispera e muori!").
L'attore David Garrick nei panni di Riccardo III, di William Hogarth
Fonti
La fonte primaria a cui attinse Shakespeare per la sua opera furono le cronache di Raphael Holinshed, ma sembra plausibile che si sia servito del lavoro di Tommaso Moro, autore dell'incompleta 'Storia di Riccardo III', pubblicata da John Rastell dopo la morte di Moro. Rastell, fratellastro di Moro, compilò il testo da due manoscritti in via di scrittura, uno in inglese e uno in latino, in diversi stadi di composizione. Il lavoro di Moro non è storico nel senso moderno della parola. È un resoconto letterario molto variopinto che contiene (discutibilmente) dettagli storici e inventati in egual misura. Moro ebbe molte fonti a disposizione per il suo resoconto (molte delle quali, come il suo protettore, il Cardinale John Morton, altamente ostili al vecchio regime), ma come per Shakespeare la fonte principale fu la sua propria immaginazione: più di un terzo del testo consiste in discorsi inventati.
Contesto storico
Il ritratto shakespeariano di re Riccardo e del suo "regno del terrore" offre un'immagine del tutto negativa del personaggio. La verità storica, secondo i maggiori storici contemporanei, è molto diversa. Secondo e ultimo monarca della casa di York, regnò per poco più di due anni, e il suo breve regno non fu più crudele o ingiusto dei suoi predecessori o di coloro che lo seguirono.
Le opere teatrali di argomento 'storico' di Shakespeare, non sono, in ogni caso, da intendere come storicamente accurate, bensì come opere d'intrattenimento, il cui valore va oltre le persone descritte. In Riccardo III attraverso la storia del re crudele e ambizioso e della sua rovina Shakespeare descrive la sete umana di potere, e le conseguenze malsane di una smodata volontà di rivincita. Come con Macbeth, l'infamia di Riccardo è enfatizzata, resa un archetipo, anche allo scopo di aumentare l'effetto drammatico. Shakespeare, come in altri casi, approfitta di una letteratura precedente: il personaggio di Riccardo dipinto come il più vile farabutto della storia inglese era già stato descritto da numerosi scrittori in precedenza.
Per comprendere come mai Riccardo divenne simbolo di villania durante il periodo Elisabettiano, bisogna inserire il dramma nel suo contesto storico. Durante la vita di Shakespeare, era sul trono Elisabetta I, nipote di Enrico VII, il conte lancasteriano del Richmond, che sconfisse e uccise l'ultimo discendente dei Plantageneti, Riccardo III di York, dando così inizio alla dinastia Tudor. L'opera di Shakespeare, di cui la corte reale fu spesso committente, propone la versione storica dei Tudor-Lancaster, dipingendone a tinte fosche gli avversari ed esaltandone gli antenati (come nel caso dell'opera dedicata alla figura di Enrico V di Lancaster).
In realtà l'unica colpa di Riccardo Plantageneto, discendente di Edoardo III, poi duca di York, fu quella di aver preso parte alla guerra delle due rose, nella quale gli York, con il simbolo della rosa bianca si allearono con Richard Neville, Conte di Warwick per deporre il re Lancaster Enrico VI, ormai incapace e malato di mente. Nella fazione opposta le casate di Somerset e Suffolk si allearono con i Lancaster sotto il simbolo della rosa rossa, in difesa del monarca. La versione degli avvenimenti che si affermò nelle epoche successive fu, come si direbbe oggi, la storia dei vincitori.
In Enrico VI Parte III, Shakespeare aveva già iniziato il processo di costruzione del carattere di Riccardo come quello di un vile, anche se non avrebbe potuto essere stato coinvolto in nessuno degli eventi narrati. Egli difatti partecipa a battaglie quando storicamente è ancora un bambino.
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RICCARDO II
Riccardo II (King Richard the Second o The Tragedy of King Richard the Second) è un dramma storico composto intorno al 1595 e basato sulla vita del re Riccardo II d'Inghilterra, ultimo del ramo principale dei Plantageneti. È la prima parte di una tetralogia, denominata in seguito Enrieide, a cui seguono tre parti, dedicate ai successori di Riccardo: Enrico IV, parte 1, Enrico IV, parte 2, Enrico V. Sebbene l'edizione delle opere nel First Folio ponga l'opera tra i drammi storici di Shakespeare, la precedente Quarto edition del 1597 la chiamava tragedia.
La vicenda storica da cui Shakespeare trae il suo dramma è quella della ribellione dei Pari d'Inghilterra, che terminò con l'abdicazione del monarca e la sua morte in prigione, assassinato. Sullo sfondo del passaggio di consegne che implica il crollo di un regime, anzi di una concezione di autorità, si sussegue una lotta per il potere intinta nel sangue, mentre proseguono lo sfacelo economico e il saccheggio dello Stato.
Trama
La trama si apre con un evento già compiuto che si presuppone come antefatto (cosa che ha lasciato molte perplessità nella critica), cioè la misteriosa morte di Thomas Woodstock, duca di Gloucester, dietro la quale, secondo alcune illazioni malcelate, ci sarebbe la mano del re Riccardo II. Questo episodio è propedeutico al contrasto tra Bolingbroke e Mowbray, due Pari del regno che si imputano a vicenda la morte di Gloucester.
Ne sorge una contesa che si realizza in una giostra il cui giudice e garante è proprio Riccardo. La contesa viene interrotta dal re, il quale decreta l'esilio a vita per Mowbray e un esilio di 10 anni (poi ridotti a 6) per Bolingbroke.
Le scene successive mostrano in che modo Bolingbroke, assetato di rivalsa, sfruttando come scusa la confisca non prevista dei suoi beni, ritorna in patria dalla Francia (luogo dell'esilio), pianificando una sommossa con l'appoggio del popolo per rovesciare il trono di Riccardo. Questi, tradito da molti suoi nobili fidati, inizia a vivere il suo cammino tragico e sofferto che lo porterà, non prima di avergli dato più volte la vana illusione di riuscire a conservare il potere, ad abdicare in favore di Bolingbroke, a dover leggere le sue accuse pubblicamente dinnanzi alla Camera dei Comuni (costrizione da cui viene poi sgravato per grazia dello stesso Bolingbroke), all'arresto con conseguente carcerazione nella Torre di Londra e, infine, alla morte, anch'essa avvenuta in circostanze misteriose.
All'interno del Riccardo II, come sempre nel teatro shakespeariano, i temi storico-politici fanno da sfondo a questioni di ordine filosofico e psicologico. In particolare, ciò che il dramma mette a tema è la questione rinascimentale dell'uomo inteso come ente divino, da un lato, di contro alla secolarizzazione del soggetto, dall'altro lato.
Inoltre, centrale nel dramma è l'aspetto "narcisistico" del protagonista, che - convinto del suo essere sovrano per volere divino - presenta numerosi motivi di comparazione con la descrizione del narcisismo e dell'autismo nella riflessione della psicanalisi moderna.
L'opera conobbe un certo successo nel XVIII secolo; nel Ventesimo secolo il ruolo di Riccardo è stato interpretato da attori del calibro di John Gielgud (Old Vic, 1929), Maurice Evans (Old Vic, 1934), Paul Scofield (Old Vic, 1952); nel XXI, da Kevin Spacey (Old Vic, 2005) ed Eddie Redmayne (Donmar Warehouse, 2011).
Due allestimenti italiani di rilievo furono quelli di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano il 23 aprile 1948 con Gianni Santuccio e quello di Gianfranco De Bosio con Glauco Mauri al Teatro Stabile di Torino il 26 febbraio 1966[2], nella splendida traduzione di Mario Luzi.
Frontespizio del Riccardo II pubblicato nel 1615.
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I DRAMMI ROMANZESCHI
PERICLE PRINCIPE DI TIRO
Pericle, principe di Tiro (Pericles, Prince of Tyre) è considerato il primo dramma di genere ‘romance’ scritto da Shakespeare, databile tra il 1607 ed il 1608. È stato pubblicato per la prima volta nella raccolta in-folio del 1663 insieme ad altri 6 apocrifi e ai 36 drammi già inclusi nel in-folio del 1623. Nonostante il testo pervenutoci abbia grandi differenze stilistiche tra i primi due atti e gli altri tre, la sua paternità shakespeariana è indubbia.
Gli editori moderni sono d'accordo nel dire che Shakespeare è l'autore della maggior parte dell'opera dopo la scena 9, delle parti che seguono la storia di Pericle e Marina. Si pensa che i primi due atti, che descrivono dettagliatamente i molti viaggi di Pericle, siano stati scritti da un collaboratore di poco talento, forse George Wilkins.
Trama
Nel prologo vediamo Gower, il personaggio che rappresenta il coro. Questi si avvicina e annuncia l'intento di dare piacere all'orecchio e all'occhio insieme agli spettatori per la durata della vicenda, esprimendo la perfetta simbiosi che Shakespeare stesso voleva raggiungere con le sue opere teatrali. «To glad your ear and please your eyes».
Atto I
In Siria il re Antioco annuncia lo sposalizio della bella figlia con chi riuscirà a risolvere un enigma che gli verrà posto dal re stesso. Chi fallirà verrà mandato a morte.
L'indovinello si rivela essere proprio un fatto veramente avvenuto: l'unione incestuosa fra Antioco e la figlia: se il pretendente rivela ciò verrà ucciso, ma soccomberà anche se mentisse.
Tutti i pretendenti sono in preda allo sconforto, tranne uno: il giovane Pericle, che trova subito la soluzione. Si presenta a corte, ma ha un dubbio e chiede ad Antioco tempo per riflettere.
Il crudele sovrano gli concede quaranta giorni di tempo, ma dopo qualche settimana manda dei sicari ad ucciderlo. Pericle viene avvisato appena in tempo e fugge a Tiro, dall'amico Elicano.
Dopo averlo nominato reggente provvisorio della città, Pericle si reca a Tarso per dare aiuto alla popolazione e ai sovrani Cleone e Dionisia. Infine si rimette in viaggi per Tiro.
Atto II
Durante la traversata una violenta tempesta fa naufragare la nave di Pericle, e il giovane si ritrova sulla spiaggia di Pentapoli. Qui scopre che il re Simonide sta organizzando una serie di tornei per dare in sposa la figlia al vincitore. Pericle ne approfitta immediatamente, dimenticando il re Antioco, e vince mirabilmente tutti i tornei. Così a lui viene concessa la mano di Taisa e si celebrano le nozze. Intanto a Tiro si viene a sapere della morte di Antioco e di sua figlia, avvenuta per mano divina, e il popolo pensa di affidare la corona al reggente Elicano. Ma questi, ricordandosi del patto con Pericle, dichiara di accettare solo se saprà della morte dell'amico; e manda una pattuglia a cercarlo.
Atto III
Nel frattempo a Pentapoli, Pericle viene informato della spedizione di Elicano e così si reca subito a Tiro con la moglie incinta. Ma durante il viaggio l'eroe fa naufragio di nuovo e Taisa muore di parto. Pericle, affranto, è costretto a gettare il corpo di Taisa, dentro una cassa, in mare per placare la furia degli dei. Poi fa sosta a Tarso per la salute dell'infante Marina, mentre un vecchio mago trova la bara di Taisa e la fa resuscitare. Ella credendo che il marito sia morto, si fa sacerdotessa al tempio di Diana.
Dopo aver affidato la piccola Marina ai sovrani di Tarso, Pericle si rimette in viaggio per Tiro.
Atto IV
Passano una ventina di anni e Marina, fattasi più bella della figlia di Cleone e Dionisia, che medita di ucciderla, viene rapita da dei pirati e condotta a Mitilene. Lì la ragazza riuscirà a conservare la sua verginità dimostrandosi molto abile nel cantare e suonare.
Pericle, compiuti tutti i suoi viaggi, torna a Tarso per riprendersi Marina, ma i sovrani, in accordo con la figlia, gli mentono dicendo che è morta. Disperato, Pericle riprende i suoi viaggi in cerca della figlia.
Atto V
Dopo varie traversate, l'anziano Pericle giunge per caso a Mitilene, dove il sovrano Lisimaco gli presenta casualmente Marina, con la speranza che lei possa divertirlo e rincuorarlo.
Pericle non vuole avere rapporti sessuali con la ragazza e decide di raccontarle la sua triste storia. Solo così i due scopriranno di esser padre e figlia. Dopo ciò Pericle viene avvertito da Diana che lo invita a recarsi al suo tempio, dove incontra, con suo grande stupore, la moglie Taisa.
Così riunitasi la famiglia, Pericle fa giustiziare i sovrani Cleone, Dionisia e la loro figlia.
Contesto storico
Il modello è la Storia di Apollonio re di Tiro, conosciuta attraverso il poema Confessio amanti di John Gower, composto tra il 1386 e il 1390, e l'opera The Pattern of Painful Adventures di Lawrence Twine (1576).
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CIMBELINO
Cimbelino (Cymbeline, King of Britain [Cimbelino, il re di Britannia]) è un'opera teatrale, scritta probabilmente nel 1609 e pubblicata nel 1623. Ritenuta inizialmente una tragedia (e inclusa in quel gruppo nel cosiddetto First folio), oggi la critica è unanime nell'includerla nel gruppo dei romance. Raramente messo in scena e poco amato dalla critica, Cimbelino presenta una trama molto ricca e articolata oltre alla presenza di alcuni dei versi tardivi più belli e interessanti ad opera del poeta.
Trama
Durante l'Impero Romano. Cimbelino, re di Britannia, ha avuto dalla sua prima moglie tre figli: due maschi, Guiderio e Arvirago, e una femmina, Imogene. I due bambini, vent'anni prima, sono stati misteriosamente rapiti e di loro non si è saputo più nulla: perciò Cimbelino, ignorando la sorte dei figli, ha nominato Imogene sua erede al trono.
In seguito, il sovrano è rimasto vedovo e si è risposato con una bella e giovane vedova, che da un precedente matrimonio aveva avuto un bambino, Cloteno, che ha circa l'età dei suoi figli. Si auspicava il matrimonio tra il ragazzo e Imogene, ma la ragazza, spaventata dai modi crudi e rozzi del fratellastro, si è invece innamorata di un suo amico d'infanzia, Postumo Leonato, un povero e onesto gentiluomo allevato a corte da Cimbelino.
I due si sono sposati, ma il matrimonio ha vita breve: il padre di lei, che non vede di buon occhio quelle nozze, costringe la figlia a divorziare: l'uomo partirà per l'esilio, e lei rimarrà reclusa nelle sue stanze finché non si deciderà a sposare Cloteno.
La vicenda inizia con la partenza per l'esilio di Postumo, diretto a Roma: la giovane principessa, ancora innamoratissima del marito, si confida col fido servo Pisanio, non fidandosi molto dei modi melensi della matrigna. In effetti, la nuova regina, sotto la maschera di moglie e madre amorevole, è una cinica e spietata macchinatrice che non esiterebbe a uccidere Imogene e Cimbelino per salire al trono.
Con il pretesto di compiere alcune ricerche, chiede un veleno al medico Cornelio: l'uomo, intuendo il pericolo, ne ha sostituito il letale contenuto con una pozione che causa la morte apparente. La boccetta in seguito finisce nelle mani di Pisanio, a cui viene spacciata come una medicina.
Nel frattempo, a Roma, Postumo scommette con l'amico Iachimo sulla fedeltà della moglie: l'uomo perciò viene mandato in Britannia a conoscere la donna, che prova inutilmente a sedurre. Iachimo perciò si nasconde in un baule fatto entrare con una scusa nella camera di Imogene, e ne approfitta per rubare il bracciale che Postumo le ha lasciato come pegno d'amore e per studiare l'ambiente e soprattutto, la vittima. Davanti al bracciale e alla descrizione della stanza da letto e di certe caratteristiche fisiche della moglie, Postumo si convince che Imogene lo abbia tradito.
Mentre Cimbelino è alle prese con gli ambasciatori di Roma che richiedono il tributo che la Britannia si rifiuta di pagare da molto tempo, Imogene, dopo un'aspra discussione con Cloteno, che le ha dichiarato inutilmente il suo amore, fugge dalla corte con l'aiuto di Pisanio, dirigendosi al porto di Milford Haven, dove suo marito, ora che è scoppiata la guerra, le ha chiesto di raggiungerla. Per strada, Pisanio le rivela una terribile verità: Postumo l'ha accusata di adulterio (per motivi che Imogene ancora ignora) e in una lettera ha chiesto al servo di ucciderla una volta arrivati a Milford.
Ma Pisanio non ha alcuna intenzione di uccidere la sua padrona: la fa travestire da uomo e partire da sola per Milford Haven, dove potrà imbarcarsi al servizio di Gaio Lucio, un ambasciatore amico di Cimbelino, mentre lui porterà a Postumo la finta notizia della sua morte. Prima di partire le dà la boccetta ricevuta dalla Regina. Nel frattempo, a corte, si scopre che Imogene è scappata: Cloteno, che vuole vendicarsi della ragazza, parte al suo inseguimento.
Persasi per strada, Imogene (che ora è travestita da uomo e si fa chiamare Fedele) trova ospitalità presso una famiglia di campagnoli, formata dal padre Morgan e dai figli Polidoro e Cadvalo: la ragazza si affeziona ai due giovani e li considera come dei fratelli. Quello che la principessa non può sapere è che i due ragazzi in realtà sono Guiderio e Arvirago, i suoi veri fratelli: Bellario (questo è in realtà il vero nome di Morgan) li aveva rapiti con l'aiuto della loro balia per vendicarsi di un'accusa ingiusta, ma non ha mai fatto loro alcun male, anzi li ha educati in maniera impeccabile.
Mentre Bellario e Arvirago sono a caccia, Guiderio, rimasto a badare a Imogene, che nel frattempo si è ammalata, uccide Cloteno, giunto nei pressi per cercare la ragazza. Imogene, nel frattempo, ha ingerito la medicina datagli da Pisanio, e cade in catalessi: i due fratelli celebrano un funerale molto semplice per lei e per Cloteno. La giovane si risveglia, vede il corpo decapitato del fratellastro e vedendogli addosso i vestiti di Postumo (che Cloteno indossava per una sorta di vendetta verso Imogene), crede che quel corpo sia quello del marito, e che Pisanio l'abbia ucciso.
In quel momento, Gaio Lucio passa per caso con l'esercito, e saputa la sua storia, decide di prenderla sotto la sua ala. Imogene perciò finisce al fronte. La battaglia tra Romani e Britanni finisce con la vittoria dei secondi, spronati da Bellario, Guiderio e Arvirago: molti uomini romani vengono catturati, tra cui l'ambasciatore, Iachimo e Postumo, il quale, per il forte senso di colpa, ha deciso di aiutare l'esercito del suocero, salvando anche in battaglia lo stesso sovrano. La mattina dopo la battaglia, Cimbelino riunisce tutti, prigionieri e membri della corte.
L'incontro per il vecchio sovrano sarà davvero sorprendente: Cornelio lo informerà della morte di sua moglie e dei delitti che ella intendeva compiere; si viene a sapere della morte di Cloteno; Iachimo, spronato dalla stessa Imogene, confesserà il suo misfatto; Imogene si toglierà gli abiti da uomo, si chiarirà con Pisanio e si riunirà al marito; Postumo svela il suo contributo alla causa britannica durante la battaglia e Bellario svela a Guiderio e Arvirago la loro identità di eredi al trono. Cimbelino, felice, libera i prigionieri e perdona tutti: inizia così quello che si preannuncia un lungo periodo di pace.
AUDIO
IL RACCONTO D'INVERNO
Polissene e Leonte sono, rispettivamente, i re di Boemia e di Sicilia, grandi amici di infanzia. Polissene va a rendere omaggio a Leonte in Sicilia, e vi permane nove mesi, al termine dei quali si accinge a salutare l'amico per tornare nel suo regno. Leonte, dispiaciuto per la partenza, supplica l'amico di restare, e prega anche la propria moglie, Ermione, di dissuaderlo dall'andar via. Inizialmente inamovibile, Polissene cede alle lusinghe di Ermione e decide di prolungare il soggiorno: Leonte, però, sembra turbato dall'eccessiva confidenza tra i due. Poiché Ermione è in avanzato stato di gravidanza, in Leonte si insinua il sospetto che la paternità non sia sua ma dell'amico Polissene. Roso dalla gelosia, incarica Camillo, barone di Sicilia, di avvelenare l'amico: quest'ultimo, sebbene non voglia contraddire il suo re, si trova in conflitto poiché non intende macchiarsi dell'omicidio. Polissene, avvertito da Camillo, decide di fuggire e porta con sé il cortigiano per risparmiarlo dalla punizione di Leonte. La fuga, però, conferma i sospetti di Leonte, che allontana Mamilio, il suo piccolo figlio, da Ermione, e la offende verbalmente, facendola condurre poi in prigione nonostante il suo stato: la condizione le procurerà un parto prematuro, così che Ermione darà alla luce una bimba che chiamerà Perdita. Per sincerarsi dei suoi sospetti, Leonte decide di interrogare l'Oracolo di Delfi, e manda presso di lei Cleomene e Dione, due cortigiani, per raccoglierne il responso.
Nel frattempo Paolina, moglie del barone di Sicilia Antigono, preleva la piccola dalla prigione in cui è nata ed affronta Leonte, dichiarandosi pronta a giurare sulla nobiltà di Ermione. Leonte la caccia in malo modo, ma non trova il coraggio di far uccidere la piccola: l'affida così ad Antigono, chiedendogli di sbarazzarsene. Intanto Ermione viene processata, ma il responso dell'oracolo, che avrebbe dovuto decretarne la colpevolezza, depone invece a favore della regina, che viene dichiarata casta e vittima di un marito geloso. Leonte è incredulo, quando giunge la notizia che Mamilio, privato dell'affetto della madre e sapendola accusata dal padre, muore di crepacuore. Alla notizia, Ermione ha un malessere: portata fuori dal tribunale, ne annuncerà la morte Paolina, condendo il suo discorso contro il re con parole severe. A Leonte non rimane altro che scontare il rimorso della morte della moglie e dei figli a causa dei suoi infondati sospetti.
Antigono intanto, giunto alle sponde della Boemia, abbandona la piccola Perdita che viene trovata e raccolta da un contadino e un pastore, che l'accudiscono facendole da padri ma che non ne conoscono la reale identità sebbene capiscano, dai tesori che la piccola ha con sé, che sia di nobili origini. Antigono viene nel frattempo sbranato da un orso e la nave che lo ha condotto in Boemia affonda: in tal modo, nessuno in Sicilia sa che Perdita è stata risparmiata da morte certa dai due uomini. Passano quindici anni e Perdita, divenuta una fanciulla bellissima, si innamora di Florizel, figlio di Polissene ignaro che la giovine fosse figlia di un re. D'altro canto Florizel, per non svelare la sua identità, si spaccia agli occhi dei pastori come un loro simile, assumendo il nome di Doricle.
Polissene e Camillo, desiderosi di capire le strane frequentazioni di Florizel, si mascherano da contadini e, sotto mentite spoglie, si presentano a una festa campestre desiderosi di spiare il principe. La festa è ricca di danze e di personaggi particolari come il vagabondo Autolico, truffatore e ladro di professione. Polissene, capite le intenzioni del figlio di sposare Perdita, svela la propria identità alla ragazza e intima a Florizel di lasciarla perdere, ordinando a quest'ultima di non vedere più suo figlio. Camillo consiglia al giovane di tentare una via di fuga: presentarsi a Leonte con Perdita fingendo di essere tornati da lui per cancellare i ricordi dell'accusa di adulterio che Polissene si vide infliggere quindici anni prima; in tal modo Camillo avrebbe potuto anche tornare nel paese natìo, spingendo Polissene a rincorrere il figlio.
Giungono in Sicilia, alla corte di Leonte, prima Florizel e Perdita, spacciata per principessa della Libia; dopo poco arrivano Polissene e Camillo in città, e anche Autolico con i pastori che hanno trovato anni prima la piccola Perdita sulla spiaggia boema, desiderosi di dire la verità sulla ragazza, nella quale hanno riconosciuto una discendenza nobile. Si scopre la verità e i re, con i rispettivi figli, si trovano tutti in casa di Paolina per festeggiare. I due pastori nel frattempo, aiutati da Autolico nel portare la verità a galla, strappano a quest'ultimo la promessa di condurre una vita migliore e senza sotterfugi di dubbia moralità.
Nella casa di Paolina è custodita una statua dalle sembianze di Ermione: Leonte si strugge dal dolore guardando come essa sia perfettamente somigliante alla moglie. Paolina allora svela che la statua è in realtà Ermione stessa, trasformata in statua per magia per non permetterle di morire di dolore: rompe così l'incantesimo, riconducendo la regina a nuova vita. La tragicommedia si conclude con il preannunciato matrimonio tra Florizel e Perdita e tra Camillo e Paolina.
AUDIO
LA TEMPESTA
La Tempesta (The Tempest) è un'opera teatrale in cinque atti scritta tra il 1610 e il 1611.
Il dramma, ambientato su di un'isola imprecisata del Mediterraneo[3], racconta la vicenda dell'esiliato Prospero, il vero duca di Milano, che trama per riportare sua figlia Miranda al posto che le spetta, utilizzando illusioni e manipolazioni magiche. Mentre suo fratello Antonio e il suo complice, il re di Napoli Alonso, stanno navigando sul mare di ritorno da Cartagine, il mago invoca una tempesta che rovescia gli incolumi passeggeri sull'isola. Attraverso la magia e con l'aiuto del suo servo Ariel, uno spirito dell'aria, Prospero riesce a rivelare la natura bassa di Antonio, a riscattare il re e a far innamorare e sposare sua figlia con il principe di Napoli, Ferdinando. La narrazione è tutta incentrata sulla figura di Prospero, il quale, con la sua arte, tesse trame con cui costringe gli altri personaggi a muoversi secondo il proprio volere.
È tradizionalmente ritenuta la penultima opera di William Shakespeare – l'ultima interamente sua – ed è considerata da molti il lavoro che segnò l'addio alle scene del poeta
Trama
Il racconto della commedia inizia quando gran parte degli eventi sono già accaduti. Il mago Prospero, legittimo Duca di Milano, insieme alla figlia Miranda, è esiliato da circa dodici anni in un'isola abitata da spiriti, dopo che il geloso fratello di Prospero, Antonio, aiutato dal re di Napoli, lo ha deposto e costretto all'esilio con la figlioletta dell'età di tre anni. In possesso di arti magiche dovute alla sua grande conoscenza e alla sua prodigiosa biblioteca, Prospero è servito controvoglia da uno spirito, Ariel, che egli ha liberato dall'albero dentro il quale era stato intrappolato dalla strega africana Sicorace, esiliata nell'isola anni prima e morta prima dell'arrivo di Prospero. Il figlio della strega, un mostro deforme di nome Calibano, è l'unico abitante mortale dell'isola prima dell'arrivo di Prospero: inizialmente amichevole nei confronti di Prospero e Miranda, propose a quest'ultima di unirsi a lui per creare una nuova razza che popoli l'isola; al suo rifiuto tentò di violentarla, cosa che indusse Prospero a soggiogarlo con la magia e a renderlo suo schiavo.
A questo punto inizia la commedia. Prospero, avendo previsto che il fratello Antonio sarebbe passato nei pressi dell'isola con una nave (di ritorno dalle nozze della figlia di Alonso, Clarabella, con un re cartaginese), scatena una tempesta che causerà il naufragio della nave. Sulla nave viaggia anche il re Alonso, amico di Antonio e compagno nella cospirazione, il figlio di Alonso, Ferdinando, e il fratello Sebastiano, assieme al fidato consigliere Gonzalo che aiutò Prospero a fuggire. Prospero, con i suoi incantesimi, riesce a separare tutti i superstiti del naufragio cosicché
Alonso e Ferdinando credano entrambi che l'altro sia morto. La commedia ha quindi una struttura divergente e, poi, convergente allorquando i percorsi dei naufraghi si ricongiungono presso la grotta di Prospero. I viaggiatori sono così separati: Ferdinando, approdato sulla spiaggia, viene condotto alla grotta di Prospero; Antonio, Alonso, Sebastiano e Gonzalo finiscono in un'oscura foresta dall'altra parte dell'isola; Stefano e Trinculo, due marinai ubriaconi, esplorano l'isola alla ricerca di vino. Il resto della ciurma dorme all'interno della nave, che a dispetto di quanto Prospero ha fatto credere non è affondata ma è ancorata al largo dell'isola.
Ferdinando e Miranda si innamorano a prima vista, ma Prospero finge con entrambi di voler rendere il ragazzo suo schiavo per vendicarsi di Alonso: in realtà il suo piano è quello di incoraggiare la relazione tra i due. Intanto Gonzalo cerca di consolare Alonso, addolorato per la presunta morte di suo figlio; approfittando di un sonno magico fatto calare sui due da Ariel, Antonio cerca di convincere Sebastiano a uccidere il fratello per impadronirsi del regno, ma proprio in quel momento lo spirito li fa svegliare, smascherando la loro cospirazione. Dall'altra parte dell'isola Calibano incontra Stefano e Trinculo e li scambia per creature divine discese dalla luna: insieme cercano di ordire una ribellione contro Prospero che però, sempre grazie all'intervento di Ariel, fallisce.
L'amore di Ferdinando e Miranda resiste alle molte prove cui Prospero li sottopone, così l'uomo decide di abbandonare le resistenze e benedire la loro unione con una mascherata cui intervengono molti spiriti travestiti da dèi greci. Tutti i piani di Prospero hanno funzionato: Ferdinando e Miranda si sono innamorati, Alonso è devastato dal dolore, Antonio è stato smascherato e Calibano punito assieme ai due marinai furfanti: a questo punto il Duca rinuncia alle arti magiche e riunisce tutti i personaggi nella sua grotta.
Nella gioia e contentezza generale, ciascuno ha ciò che si merita: Prospero torna a essere Duca di Milano, e il suo ducato sarà unito al Regno di Napoli col matrimonio di Ferdinando e Miranda; dando la sua benedizione alla coppia, Alonso si guadagna il perdono. Anche Sebastiano e Antonio sono perdonati, ma sotto minaccia di esilio se dovessero nuovamente cospirare contro i legittimi sovrani. Stefano e Trinculo sono messi in ridicolo dalle loro stesse azioni, mentre Calibano, deluso da come i due lo hanno maltrattato e avendo compreso quanto Prospero sia nobile d'animo a loro confronto, si redime e gli giura fedeltà. Prospero chiede un ultimo favore ad Ariel, quello di assicurare mare calmo e vento propizio alla nave che l'indomani lascerà l'isola, dopodiché lo spirito sarà liberato dalla sua prigionia. A questo punto Prospero si rivolge al pubblico e, in un celebre monologo, chiede che anche gli attori siano lasciati liberi con un applauso.
ALCUNE POESIE
Sonetto 1
Alle meraviglie del creato noi chiediam progenie
perché mai si estingua la rosa di bellezza,
e quando ormai sfiorita un dì dovrà cadere,
possa un suo germoglio continuarne la memoria:
ma tu, solo devoto ai tuoi splendenti occhi,
bruci te stesso per nutrir la fiamma di tua luce
creando miseria là dove c’è ricchezza,
tu nemico tuo, troppo crudele verso il tuo dolce io.
Ora che del mondo sei tu il fresco fiore
e l’unico araldo di vibrante primavera,
nel tuo stesso germoglio soffochi il tuo seme
e, giovane spilorcio, nell’egoismo ti distruggi.
Abbi pietà del mondo o diverrai talmente ingordo
da divorar con la tua morte quanto a lui dovuto.
Sonetto 10
È infamia il tuo negare amore verso gli altri
tu che per te stesso sei così inaccorto.
Si può ammettere, se vuoi, che sei da molti amato
ma è molto più evidente che tu non ami alcuno:
sei tanto posseduto da odio distruttore
che neppur contro te stesso esiti a tramare,
portando alla rovina una splendida dimora
che per tuo desiderio dovresti rinsaldare.
Muta il tuo pensiero affinché io muti il mio sentire!
Dev’essere meglio accolto l’odio dell’amore?
Sii piacente e generoso come la tua persona
o prova a te stesso almeno il tuo nobil cuore:
fa’, per amor mio, che un altro te abbia vita
affinché la tua bellezza continui a rifiorire.
Sonetto 18
Posso paragonarti a un giorno d’estate?
Tu sei più amabile e più tranquillo.
Venti forti scuotono i teneri boccioli di Maggio,
e il corso dell’estate ha fin troppo presto una fine.
Talvolta troppo caldo splende l’occhio del cielo,
e spesso la sua pelle dorata s’oscura;
ed ogni cosa bella la bellezza talora declina,
spogliata per caso o per il mutevole corso della natura.
Ma la tua eterna estate non dovrà svanire,
né perder la bellezza che possiedi,
né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra,
quando in eterni versi nel tempo tu crescerai:
finché uomini respireranno o occhi potran vedere,
queste parole vivranno, e daranno vita a te.
Sonetto 22
Lo specchio non mi convincerà che sono vecchio,
finché tu e giovinezza avrete la stessa età;
ma quando in te io scorgerò i solchi del tempo
attenderò che morte dia pace ai giorni miei.
Poiché tutta la bellezza che ti inonda
altro non è che degna veste del mio cuore
che vive nel tuo petto, come il tuo nel mio:
come potrei dunque esser io più vecchio?
Perciò, amore, abbi cura di te stesso
così come io farò, non per me, ma per te
custodendo il tuo cuore che terrò così prezioso
qual tenera nutrice il suo bimbo da mal protegga.
Non sperare nel tuo cuore quando il mio sarà distrutto:
tu mi hai donato il tuo non per averlo indietro.
Sonetto 29
Quando, inviso alla fortuna e agli uomini,
in solitudine piango il mio reietto stato
ed ossessiono il sordo cielo con futili lamenti
e valuto me stesso e maledico il mio destino:
volendo esser simile a chi è più ricco di speranze,
simile a lui nel tratto, come lui con molti amici
e bramo l’arte di questo e l’abilità di quello,
per nulla soddisfatto di quanto mi è più caro:
se quasi detestandomi in queste congetture
mi accade di pensarti, ecco che il mio spirito,
quale allodola che s’alzi al rompere del giorno
dalla cupa terra, eleva canti alle porte del cielo;
quel ricordo del tuo dolce amor tanto m’appaga
ch’io più non muto l’aver mio con alcun regno.
Sonetto 46
I miei occhi e il cuore sono in conflitto estremo
per contendersi l’immagine della tua persona:
gli occhi al cuor vorrebbero celare la tua effigie,
agli occhi il cuor contesta la libertà di tal diritto.
Il cuore a difesa adduce che tu dimori in lui
– un tempio mai violato da sguardi penetranti –
ma gli accusati negano tal dissertazione,
dicendo che in loro giace il tuo bel sembiante.
Per attribuir questo diritto si convoca in giuria
un esame dei pensieri che al cuore son fedeli,
e per verdetto loro viene aggiudicata
la parte dei puri occhi e quella del caro cuore:
così: agli occhi spetta la tua esteriorità,
e diritto del mio cuore è il tuo profondo amore.
Sonetto 47
I miei occhi e il cuore son venuti a patti
ed or ciascuno all’altro il suo ben riversa:
se i miei occhi son desiosi di uno sguardo,
o il cuore innamorato si distrugge di sospiri,
gli occhi allor festeggian l’effigie del mio amore
e al fantastico banchetto invitano il mio cuore;
un’altra volta gli occhi son ospiti del cuore
che a lor partecipa il suo pensier d’amore.
Così, per la tua immagine o per il mio amore,
anche se lontano sei sempre in me presente;
perché non puoi andare oltre i miei pensieri
e sempre io son con loro ed essi son con te;
o se essi dormono, in me la tua visione
desta il cuore mio a delizia sua e degli occhi.
Sonetto 57
Essendo schiavo tuo, che altro potrei fare
se non servir ore e momenti di ogni tuo volere?
Non è prezioso il tempo che io ho da spendere,
né servigi da rendere finché tu non li chieda.
Né oso io dolermi di quei momenti senza fine
mentre, mio signore, guardo l’ora in tua attesa,
né giudico esasperante l’amarezza dell’assenza
quando al tuo servitore tu hai detto addio.
Né oso domandare al mio pensier geloso
ove tu possa essere o supporre cosa stia facendo,
ma in triste schiavitù io aspetto e solo penso
quanto tu renda felice chi ti sta vicino.
L’amore è così sciocco che in ogni tuo piacere,
qualunque sia il tuo agire, non crede in alcun male.
Sonetto 73
In me tu vedi quel periodo dell’anno
quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.
In me tu vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto svanisce all’occidente
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,
ombra di quella vita che tutto confina in pace.
In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua gioventù
come in un letto di morte su cui dovrà spirare,
consunto da ciò che fu il suo nutrimento.
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amor si accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.
Sonetto 88
Quando avrai deciso di non stimarmi più
ed esporrai i miei meriti al pubblico disprezzo,
contro me stesso combatterò al tuo fianco
e proverò che sei sincero pur sapendoti spergiuro.
Conoscendo a fondo ogni mia mancanza,
a tuo sostegno potrei portare a conoscenza
colpe nascoste di cui mi son macchiato,
affinché perdendomi tu possa averne gloria:
e in tal modo anch’io ne sarei gratificato:
perché volgendo a te ogni mio pensier d’amore,
le gravi accuse che imputerò a me stesso,
dando a te un vantaggio, doppio per me sarà.
Il mio amore è così grande, talmente ti appartengo,
che per la tua ragione sopporterò ogni torto.
Sonetto 91
Vi è chi vanta la propria nascita, chi l’ingegno,
chi la ricchezza, chi la forza fisica,
chi il vestire alla moda anche se stravagante,
chi vanta falchi e cani e chi i cavalli.
E ogni temperamento ha una sua tendenza innata
in cui trova una gioia superiore al resto;
ma queste piccolezze non s’addicon al mio metro:
io tutte le miglioro in un solo immenso bene.
Per me il tuo amore è meglio di nobili natali,
più ricco della ricchezza, più fiero dell’eleganza,
di maggior diletto dei falchi o dei cavalli
e avendo te, di ogni vanto umano io mi glorio:
sfortunato solo in questo, che tu puoi togliermi
ogni cosa e far di me l’essere più misero.
Sonetto 109
No, non dire mai che il mio cuore è stato falso
anche se l’assenza sembrò ridurre la mia fiamma;
come non è facil ch’io mi stacchi da me stesso,
così è della mia anima che vive nel tuo petto:
quello è il rifugio mio d’amore; se ho vagato
come chi viaggia, io di nuovo lì ritorno
fedelmente puntuale, non mutato dagli eventi,
tanto ch’io stesso porto acqua alle mie colpe.
Non credere mai, pur se in me regnassero
tutte le debolezze che insidiano la carne,
ch’io mi possa macchiare in modo tanto assurdo
da perdere per niente la somma dei tuoi pregi:
perché niente io chiamo questo immenso universo
tranne te, mia rosa; in esso tu sei il mio tutto.
Sonetto 116
Non sia mai ch’io ponga impedimenti
all’unione di anime fedeli; Amore non è Amore
se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote
dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio:
se questo è errore e mi sarà provato,
io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.
Sonetto 130
Gli occhi della mia donna non sono come il sole;
il corallo è molto più rosso delle sue labbra:
se la neve è bianca, allora perché i suoi seni sono grigi?
Se i capelli devono essere filamenti, fili neri crescono sulla sua testa
Ho visto rose variegate, rosse e bianche,
ma non ho visto alcuna rosa sulle sue guance;
e c’è più delizia in altri profumi
che nell’alito che il mio amore esala.
mi piace sentirla parlare, perché so
che la sua voce, per me, è come musica;
quando la vidi non mi sembrò una dea:
la mia donna, quando cammina, non ha grazia.
E nonostante ciò, il mio amore è cosi raro
come se lei fosse stata elogiata da falsi paragoni.
Sonetto 142
Amore è il mio peccato e odio la tua miglior virtù:
odio del mio peccato, fondato su amor colpevole.
Oh ma confronta il mio stato al tuo
e scoprirai che il mio non merita rimprovero;
o se lo merita, non da quelle labbra tue
che hanno profanato il carminio che le adorna
e al pari delle mie suggellato falso amore,
sottraendo a letti altrui i lor legittimi piaceri.
Sia mio diritto amarti, come tu ami quelli
che i tuoi occhi anelano quanto i miei ti tediano:
radica nel tuo cuor pietà, affinché crescendo,
possa la tua pietà meritare d’essere pietita.
Se cercherai di avere quanto tu or rifiuti
dal tuo stesso esempio potrà esserti negato.
Sonetto 145
Quelle labbra che Amor creò con le sue mani
bisbigliarono un suono che diceva “Io odio”
a me, che per amor suo languivo:
ma quando ella avvertì il mio penoso stato,
subito nel suo cuore scese la pietà
a rimproverar la lingua che sempre dolce
soleva esprimersi nel dar miti condanne;
e le insegnò a parlarmi in altro modo,
“Io odio” ella emendò con un finale,
che le seguì come un sereno giorno
segue la notte che, simile a un demonio,
dal cielo azzurro sprofonda nell’inferno.
Dalle parole “Io odio” ella scacciò ogni odio
e mi salvò la vita dicendomi “non te”.
Non ti amo con i miei occhi
Per la verità, io non ti amo coi miei occhi,
perché essi vedono in te un mucchio di difetti;
ma è il mio cuore che ama quel che loro disprezzano
e, apparenze a parte, ne gode alla follia.
Né i miei orecchi delizia il timbro della tua voce,
né la mia sensibilità è incline a vili toccamenti,
né il mio gusto e l’olfatto bramano l’invito
al banchetto dei sensi con te soltanto.
Ma né i miei cinque spiriti, né i miei cinque sensi
possono dissuadere questo mio sciocco cuore dal tuo servizio,
avendo ormai perso ogni sembianza umana,
ridotto a schiavo e misero vassallo del tuo superbo cuore.
Solo in questo io considero la mia peste un bene:
che chi mi fa peccare, m’infligge pure la penitenza.
All’amata
Se leggi questi versi,
dimentica la mano che li scrisse:
t’amo a tal punto
che non vorrei restar
nei tuoi dolci pensieri,
se il pensare a me
ti facesse soffrire.
Eugenio Caruso - 08 - 01 - 2022