Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
“La visione politica di Dante”
di Egidio Zacheo
1. – "Perfino nelle attuali numerose e lodevoli celebrazioni dantesche, nel 700o anniversario della morte del grande italiano, non riesce ancora a venir fuori del tutto la straordinaria modernità di Dante. Egli continua ad essere presentato sostanzialmente come figura che conclude il medioevo più che come l'autentico iniziatore della civiltà italiana come civiltà moderna, basata sulla tendenziale separazione tra sfera laica e sfera religiosa. Dante è infatti, per così dire, il codificatore di questa modernità, non solo sotto il profilo poetico e linguistico, ma anche sotto quello filosofico ed etico-politico" (U. Cerroni).
Invece, la sua posizione nella storia del pensiero politico è stata del tutto sottovalutata e marginalizzata. Dante è per noi quasi esclusivamente il “sommo poeta”, il grande letterato studiato prevalentemente appunto dai letterati con la esclusiva chiave interpretativa letteraria. Le pubblicazioni e i commenti di questo anniversario stanno fornendo l’ulteriore prova di ciò. Ma anche la sua visione politica è poderosa, moderna, rivoluzionaria quanto la sua concezione letteraria.
L’opera in cui ci consegna la sua visione rinnovata della politica, la “Monarchia”, è stata del tutto trascurata e, quando ciò non è accaduto, è stata semplicemente immessa nel circuito della cultura letteraria. Sarebbe stato auspicabile, forse, fare quello che consigliava Benedetto Croce, cioè di levare Dante dalle mani dei dantisti, e quello che suggeriva Antonio Gramsci: di liberare la dottrina politica di Dante da tutte le superstrutture posteriori. I temi presenti nel “Monarchia” sono di una modernità e capacità anticipatrice sorprendenti. Separazione tra politica e religione; tra ragione e fede; piena mondanità del potere politico; funzione regolatrice del diritto; socialità dell’uomo; superiorità dell’ humanitas rispetto alla christianitas: tutto questo, ed altro ancora, è condensato in quelle poche pagine.
Ma se gli studiosi laici, in generale, hanno sottovalutato la modernità della visione politica di Dante, nella stessa sottovalutazione non è incorsa la Chiesa, che, infatti, nel 1329 condanna al rogo il libro, proprio per la sua pericolosità eretica, per ordine del cardinale Destraud du Pujiet (italianizzato in Bertando del Poggetto). Il cardinale, come scrive Boccaccio, nel suo Trattatello, avuto il soprascritto libro, quello in pubblico, sì come cose eretiche contenente dannò al fuoco. E addirittura, prosegue, il simigliante si sforzava di fare dell’ossa dell’autore a eterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa. Il “Monarchia” resta all’Indice fino al 1881 e la sua prima edizione a stampa potrà vedere la luce solo nel 1559 a Basilea in virtù dell’affermazione in quel territorio della Riforma protestante.
La casa di Dante a Firenze
2. – L’epoca di Dante è di profonda crisi della società medievale. Innanzitutto, vi è la frantumazione dell’unità da lungo tempo assicurata dall’Impero. Il ruolo dell’Impero si affievolisce, fino a spegnersi del tutto, dopo la sconfitta ghibellina del 1266 quando Carlo d’Angiò, chiamato da papa Clemente IV e finanziato dai banchieri fiorentini e senesi, batte in battaglie campali prima Manfredi e poi Corradino impadronendosi del regno di Sicilia e annullando, così, ogni progetto imperiale perseguito da Federico II. I tentativi successivi, infatti, di Enrico VII di Lussemburgo nel 1312 e di Ludovico il Bavaro nel 1327-1328 di ripristinare l’autorità imperiale non sortirono alcun effetto concreto. Come scrive Giuliano Procacci, quello di Enrico VII si risolse in un inutile e umiliante pellegrinaggio attraverso le città italiane, e quello di Ludovico il Bavaro in una cerimonia che per le circostanze in cui ebbe luogo, consacrò la conclusione del mito imperiale.
Il policentrismo che da questo fallimento derivò nella vita italiana si accentua fino a raggiungere livelli di vera e propria patologia politica, dopo la lunga guerra del Vespro scatenata dal trasferimento da parte di Carlo d’Angiò della sede della corte da Palermo a Napoli. La guerra del Vespro suscitò così attraverso tutto lo scacchiere del guelfismo e del ghibellinismo italiano una serie di reazioni a catena. Non solo Aragonesi di Sicilia contro Angioini di Napoli, ma Genova contro Pisa e contro Venezia; Firenze contro Pisa; a Milano, Torriani contro Visconti; a Roma, Orsini contro Colonna. "Lo spettacolo che la penisola presenta nell’ultimo quarto del secolo XIII è quello del bellum omnium contra omnes. Le cronache di quest’età di ferro sono piene di episodi in cui lo spirito di fazione giunge fino alla più efferata crudeltà" (Procacci). Quello ricordato da Dante, nel XXXIII canto dell’Inferno, del Conte Ugolino condannato perché sospettato di voler consegnare Pisa ai fiorentini, anche se è il più conosciuto, è solo uno dei tanti.
Non solo quello dell’Impero, ma anche quello della Chiesa, è ormai un prestigio profondamente compromesso. Anche la Chiesa attraversa una fase di caduta del suo ruolo e della sua credibilità. Ora filoangioino con Clemente IV, ora antifrancese con Gregorio X e Niccolò III, al papato non è più riconosciuta la funzione di arbitro affidabile delle contese interne e internazionali. Il grado del suo declino è emblematicamente rappresentato dallo “schiaffo di Anagni” di Filippo il Bello a Bonifacio VIII e dal trasferimento della sede del papato ad Avignone per più di settanta anni.
L’Italia di Dante è dunque una terra abbandonata a se stessa: senza imperatore e senza papa, in preda all’anarchia dei comuni sempre in conflitto tra loro. Un paese terribile che rende difficile l’indulgere in un qualche giudizio elogiativo dell’età comunale, come invece tendono a fare, per esempio, Putnam e Procacci. Molti studiosi ne danno però un giudizio severo.. Gramsci considera quella del comune, col suo primato del momento “economico-corporativo”. Per G. Volpe, i comuni più che come uno sbocco ricostruttivo si configurano come espressioni di un vuoto politico (Prospero). Per C. Vivanti il comune non solo non va oltre il sistema feudale, ma addirittura ne diventa l’artefice. Anche la bella e opulenta Firenze di Dante, pur con i suoi aspetti di modernità, non si sottrae a un processo disgregativo. Tra il XIII e il XIV secolo la vita fiorentina non è affatto tranquilla. Dante stigmatizza la gente nuova, e i subiti guadagni,/orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già piagni (Inferno, XVI, 73-75). e ha nostalgia della Fiorenza, dentro dalla cerchia antica, sobria e pudica, dove era nato. "A così riposato, a così bello/viver di cittadini, a così fida/ cittadinanza, a così dolce ostello,/Maria mi diè", (Paradiso, XV, 97 segg).
Lacerata prima dalle antiche divisioni e rivalità tra guelfi i ghibellini, dopo la battaglia di Benevento e la morte di Manfredi le lacerazioni diventarono tutte interne alla parte guelfa divisa fra Bianchi e Neri. La parte momentaneamente vittoriosa consumava vendette crudeli nei confronti dei vinti. Vincitori i Neri nel 1302, il guelfo bianco Dante Alighieri è condannato in contumacia al pagamento di cinquemila fiorini, a due anni di confino e all’interdizione dai pubblici uffici. L’imputazione è di “baratteria” (quella che oggi si chiama peculato), "lucri illeciti ed estorsioni…., turbamento della pace cittadina e congiure contro Pistoia" (E. Malato). E subito dopo, non essendosi presentato a pagare, sempre in contumacia viene condannato al rogo o alla decapitazione. In aggiunta gli viene distrutta anche la casa "perché la distruzione della casa faceva parte del castigo" (I. Montanelli). Morto, la Chiesa si impegnò perchè di lui non rimanesse traccia alcuna e, sempre tramite il cardinale Bertando del Poggetto, chiese ad Ostasio da Polenta, signore di Ravenna, di disseppellire i resti e bruciarli. La Chiesa, insomma, non riusciva a perdonare a Dante il fatto di aver sostenuto l’autonomia del potere temporale dell’Imperatore da quello ecclesiastico.
Come altrove, e forse di più, a Firenze il sentimento della vendetta e della ritorsione era trabocchevole. Mondo laico e mondo ecclesiastico non seppero risparmiarsi crudeltà orrende. Gli esempi storici di Farinata degli Uberti e di Bonifacio VIII restano emblematici:il cadavere del primo, che era stato capo ghibellino fiorentino, fu dalla fazione di Dante riesumato per gettarne le ossa nell’Arno; il secondo, appena eletto papa, imprigionò il predecessore, Celestino V, fino alla morte. La “Divina Commedia”, soprattutto, è piena di invettive sia contro gli imperatori, per aver abbandonato Roma "vedova e sola"; sia contro i pontefici, che da pastori si erano trasformati in "lupi rapaci"; sia contro i comuni, in cui "guelfismo e ghibellinismo si erano ormai ridotti, secondo l’espressione dantesca, a meri “segnacoli in vessillo”, "bandiere all’ombra delle quali ognuno perseguiva i suoi gretti interessi di parte" ( Procacci).
L’esilio per Dante costituisce la privazione e il dolore più grande. Il suo, infatti, è il tempo in cui un uomo si definiva più "per la sua appartenenza a una città che per quella a una classe o a un rango sociale… e nessuna condizione apparirà peggiore di quella del “bandito” e del “fuoriuscito”, di colui che non ha patria ed è ridotto al livello di un déracinè ( Procacci). Passerin d’Entreves nella figura dantesca dell’exul immeritus rintraccia "un tipico atteggiamento da fuoriuscito, tanto comune nella storia d’Italia di tutti i secoli", con la precisazione significativa, però, che con Dante questa figura è oltre quella fino allora dominante del cristiano che è in ogni tempo refrattario a diventare civis e si sente perciò "peregrinus; straniero e viaggiatore, essere senza fissa dimora" (R. Bodei).
Il bisogno di cittadinanza è alla base della riflessione politica di Dante. Ma di una cittadinanza nuova, capace di superare le angustie della realtà comunale in atto. Dante è costretto a registrare la presenza in ogni comune della lotta cruenta e spietata delle fazioni, che porta poi inevitabilmente all’affermazione della figura del tiranno "Le terre d’Italia tutte piene sono di tiranni", e la contestuale impotenza dell’Impero a rimediare a tutto questo ("O Alberto tedesco, che abbandoni/costei ch’è fatta indomita e selvaggia") lasciando così l’Italia nella condizione di una "nave senza nocchiero in gran tempesta".
Anche la Chiesa, a sua volta, è parte attiva nella determinazione della crisi. Dante, nell’immediato, non vede la soluzione, che si prospettava invece in gran parte dell’Europa, nella costruzione dello Stato-nazione, della monarchia assoluta. Molti paesi, infatti, stanno risolvendo il problema della sicurezza e della sovranità affidandosi proprio a un monarca, a un re. Dante non risparmia critiche non solo alla monarchia di Francia e di Filippo il Bello, che ritiene responsabile di "una vita viziata e lorda" e causa principale "del mal di Francia" (Purg. VII, 109), ma anche ai sovrani di Scozia, Spagna e Inghilterra.
Dunque, Dante ne ha per tutti i protagonisti del suo tempo: per la Chiesa, per i comuni, per i “regni”, per l’Impero. Per questo il suo “Monarchia”, l’opera alla quale consegna il suo pensiero politico, ha molto poco a che fare con la indicazione di una utilizzazione per così dire automatica del modello di “regni” esistenti e con la realtà imperiale del suo tempo. La sua “monarchia” è l’ideale della restaurazione della monarchia universale dell’impero. Sin dall’inizio chiarisce molto bene. Come scrive Enrico Malato, il titolo “Monarchia” "non è generico, in relazione a qualunque Stato retto da un monarca, cioè da un re, ma specifico, riferito particolarmente a quella “Monarchia temporale” che si chiama “Impero” inteso come principato unico che sta al di sopra di tutti gli altri. Dante salta ogni confinazione territoriale e si pone in un’ottica globale. La sua dimensione politica diventa il mondo: "il mondo intero è patria, come ai pesci il mare" (De vulgari eloquentia, I, 6).
Considerate le dinamiche storiche che si sono accelerate nel XIV secolo con la nascita degli Stati-nazione, non c’è dubbio che l’opera possa essere letta come un ritorno indietro, apparire passatista, una nostalgia per tempi ormai improbabili, addirittura come un "modo di pensare reazionario" (Kelsen). Ulmann vede nella (apparente) sottovalutazione dantesca della portata dirompente dello Stato territoriale sia una regressione politica sia un "prematuro tentativo di soffocare sul nascere la concezione della sovranità nazionale ".
4. – L’opera, la cui datazione è incerta (probabilmente, 1313), riprende e sviluppa temi sinteticamente affrontati nei capitoli 4° e 5° del quarto trattato del “ Convivio”. Essa si apre con l’affermazione della necessità di considerare la politica centrale nella vita di una comunità e che alla comunità ognuno deve rendersi utile. Dante così scrive: "Sembra che tutti gli uomini in cui la natura superiore ha impresso un amore per la verità interessi massimamente questo: che quanto essi si sono arricchiti grazie alla fatica degli antichi tanto si adoperino essi stessi per i posteri al punto tale che la posterità abbia ad arricchirsi grazie a loro. E non dubiti di aver trascurato il proprio dovere chi, pur avendo dimestichezza con gli insegnamenti inerenti alla pubblica utilità, non si preoccupa di dare un contributo alla Stato" (Monarchia, I,1).
Chiarito che la “Monarchia temporale”, "quella che chiamano “Impero”, è il principato unico che è posto sopra tutti gli uomini nel tempo in quelle azioni e sopra quelle azioni che si misurano col tempo", Dante indica le tre questioni principali oggetto della sua indagine: nel primo libro, "se la Monarchia sia necessaria al benessere del mondo"; nel secondo, "se il popolo romano si sia attribuito di buon diritto la funzione di Monarca" ("an romanus populus de iure Monarche offitium sibi asciverit"); nel terzo, infine, "se l’autorità del Monarca dipenda direttamente da Dio o da un altro, cioè, da un ministero o vicario di Dio" (Mon., I,2).
Per Dante, solo il potere unificatore della Monarchia universale può garantire il bene supremo della pace: solo il monarca che dispone di ogni potere, infatti, può risolvere pacificamente le discordie. Così argomenta la necessità di un potere assoluto: "Se consideriamo un singolo villaggio, il cui fine è costituire un soccorso facile tanto per le persone quanto per le cose, occorre che uno fra loro imponga regole, sia perché imposto da un altro, sia perchè è riuscito ad emergere sopra gli altri con il loro consenso. Altrimenti non solo non si riesce a raggiungere quel famoso sostegno reciproco, ma qualche volta se tanti vogliono emergere contemporaneamente, si distrugge tutto il villaggio". Per cui, conclude, "occorre che vi sia un unico governo,…un unico re che regni e governi; altrimenti, non solo coloro che abitano nel regno non riescono a conseguire il fine, ma nel frattempo anche il regno stesso cade". (Mon.,I,5).
Un mondo pacificato, per Dante, si è storicamente avuto solo durante l’impero di Augusto. E, nel secondo libro, cerca di dimostrare proprio questo: la capacità avuta dalla Roma augustea di costruire l’impero non sulla sopraffazione ma sulla giustizia e sul diritto. Confessa anche che un tempo aveva creduto che il primato del popolo romano nel mondo fosse stato ottenuto "non per diritto ma esclusivamente con la forza delle armi" (Mon., II, 1), e di aver compreso solo dopo che Roma "non produsse il diritto, perché dominò il mondo, ma invece dominò il mondo perché produsse il diritto, che è felicità, pace, concordia" (Cerroni) e del quale la stessa figura dell’Imperatore era una sua articolazione politica.
Dopo aver affrontato il tema della natura della politica (primo libro) e quello della natura dell’impero romano (secondo libro), Dante affronta nel terzo libro il problema epocale del rapporto tra Impero e Chiesa. Maneggia l’argomento con molta cura, anche se senza incertezze, perché è consapevole del fatto che esso si presta a dispute e scontri ideologici. Impero e Chiesa, dice, sono entrambi due grandi lumi (duo luminaria magna), entrambi necessari ma distinti nelle finalità perché l’uno si occupa delle cose terrene e dell’agire umano in società e l’altro della rivelazione di Cristo e dunque della sfera spirituale. Anche nel “Purgatorio”, così si esprime: "Soleva Roma, che il buon mondo feo,/due soli aver, che l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo" (XVI, 106-108). Così: come la Chiesa non può dipendere dal potere temporale, a sua volta anche il potere politico è autonomo dalla Chiesa, derivando la sua autorità direttamente da Dio. Il fondamento vero dell’Impero non è dunque la religione, ma il diritto, tanto è vero che "quando la Chiesa non esisteva ancora o quando, comunque, non era ancora in grado di esercitare alcuna influenza, l’Impero ha mantenuto intatta tutta la sua virtù" (Mon., III,13). Uomini virtuosi ("gente di molto valore") che hanno saputo fare grandi cose, sono vissuti infatti anche prima dell’avvento di Cristo e dunque sono stati tali senza il soccorso della fede. La virtù per Dante non ha bisogno della fede. E fa un rapido elenco di virtuosi senza fede: Omero, "poeta sovrano"; Democrito, "che il mondo a caos pone" ; Aristotele, "maestro e duca della ragione umana in quanto intende alla sua finale operazione". Catone, pagano e suicida, raggiunge ugualmente la salvezza eterna in quanto esempio straordinario "di una virtù mondana che non accetta di essere ridimensionata neppure da dettagli di natura teologica" (Prospero). E nel “Convivio”, perfino con una certa enfasi, Dante scrive: "Quale uomo, terreno più degno fu di significare Dio che Catone? Certo nullo" (IV, XXVIII). E, a Chiesa trionfante, Averroè, "che ‘l gran comento feo" e l’averroista Sigieri di Brabante, autorevole esponente di una "filosofia senza teologia" (E. Gilson). Insomma, Dante ritiene meritevoli del paradiso molte figure pagane e di non credenti che in vita hanno ben meritato.
5. – Non c’è dubbio che la teoria del “due lumi” sembri qualcosa di ancora arcaico e che l’affermazione di un persistente condominio fra Chiesa ed Impero sembri legare Dante ancora alla unità politico-culturale propria di un Medioevo antico e che, però, ora sta conoscendo la nascita degli Stati nazionali. Ma nelle opere di Dante in generale e nel “Monarchia” in particolare bisogna andare oltre la lettera dei testi se si vuole coglierne la novità rivoluzionaria, perché, come dice Gramsci, Dante proprio con un linguaggio "ancora medievale" afferma un laicismo che chiude il Medioevo. Per Francesco De Sanctis, la “Monarchia” "contiene in germe tutto l’avvenire". Secondo Umberto Cerroni, essa "è proprio lo stato laico che sta nascendo nel quale la figura dell’imperatore conta assai meno della natura laica della sovranità". Dante abbatte le colonne d’Ercole della visione medievale e sostiene la piena autarchia e autolegittimazione della politica rispetto alla religione e ad ogni autorità precostituita. In molti momenti della sua riflessione è possibile rintracciare una modernità davvero anticipatrice: come, per esempio,quando scrive che "i cittadini non sono liberi grazie ai consoli, né è libero il popolo grazie al re, ma al contrario, i consoli sono liberi grazie ai cittadini e il re è libero grazie al popolo", parole di una modernità sconcertante ( Mon., I, 12).
La “Monarchia” a cui Dante pensa è un modello imperiale completamente nuovo, assai diverso da quello ereditato. L’affermazione di partenza della coesistenza fra Chiesa e Impero è solo il grimaldello per scardinare l’intero impianto medievale. La sua visione politica non è una semplice variante “progressista” del modello romano-bizantino (Costantino), né di quello cesaro-papista, né di quello guelfo-germanico del vescovo conte (Cerroni). È anche oltre Giustiniano, che per quanto esaltato nel “Paradiso” (canto VI), rappresentò solo "l’apice dell’idea e della funzione dell’imperatore romano in veste cristiana" (Ullmann).
Il primato dell’Impero è il risultato del primato della politica. La politica è sempre al primo posto e la stessa autorità imperiale deve muoversi entro le coordinate della politica e del diritto ed esercitare la sua volontà vincolante nel rispetto delle regole date. Al riguardo, Dante è chiaro ed esplicito: "Ogni giurisdizione – scrive- è anteriore al suo giudice: il giudice, infatti, viene costituito in base alla giurisdizione, non viceversa. Ma l’Impero è una giurisdizione che comprende nel proprio ambito ogni giurisdizione temporale, la quale, dunque, è anteriore al suo giudice, che è l’Imperatore, poiché è in base alla giurisdizione imperiale che l’Imperatore viene costituito, e non viceversa". E conclude: "Risulta chiaro che l’Imperatore, in quanto Imperatore, non può modificare radicalmente tale giurisdizione perché egli riceve da questa l’essenza di ciò che egli è" (Mon., III,10). La forza del diritto (e non il diritto della forza) è la cifra della piena civilizzazione umana e della completa mondanizzazione della vita collettiva. Il diritto, infatti, libera la politica dalle pretese della Chiesa di essere l’unica deputata ad immettervi un plusvalore ideale.
Dante, sostiene a ragione A.Vallone, "è il momento più completo e irripetibile di federicismo". Federico II più volte viene indicato come un modello di imperatore e di re. Le due figure per Dante devono, infatti, agire di concerto, all’interno del medesimo obiettivo. Per questo è sbagliato il giudizio dato da alcuni studiosi di una estraneità di Dante ai processi storici di costruzione di unità territoriali accentrate. L’impero è, invece, proprio "una costruzione che deve impedire le discordie tra gli Stati presidiando l’ambito di un diritto esterno" (Prospero). Ha ragione allora M. Batkin quando sostiene che in Dante "sotto il velo della teoria della monarchia universale fa capolino l’esigenza dell’unità nazionale.". Federico II è visto come l’Imperatore che ha tentato di svolgere il compito di re cercando di unificare l’Italia nonostante la presenza dello Stato temporale della Chiesa proprio nel cuore della Penisola.
Come Federico II, anche Dante indica la necessità storica del superamento della anomalia tutta italiana della presenza di un potere spirituale che è anche una potenza temporale capace di impedire l’approdo verso una tempestiva unificazione politica.
Egidio Zacheo
Luca Signorelli, Dante, affresco, 1499-1502, particolare tratto dalle Storie degli ultimi giorni, cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto
Mi piace mostrare il 15^ capitolo del terzo libro molto significativo per rappresentare il pensioero politico di Dante.
[Monarchia, III, cap. 15] […] 7. Dunque l’ineffabile Provvidenza indicò all’uomo due fini da perseguire: e cioè la felicità di questa vita (come cita la costituzione styatunitense), che consiste nella realizzazione della potenzialità propria dell’uomo, ed è raffigurata nel paradiso terrestre; e la felicità della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio, cui la potenzialità propria dell’uomo non può arrivare se non è aiutata dalla luce divina, e che è raffigurata nel paradiso celeste. 8. A queste due forme di felicità, come a obiettivi diversi, è necessario giungere attraverso mezzi diversi. Infatti giungiamo alla prima per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li seguiamo operando secondo le virtù morali e intellettuali; e alla seconda giungiamo attraverso gli insegnamenti spirituali che trascendono l’umana ragione, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologali, cioè fede, speranza e carità. 9. A questi fini e a questi mezzi – benché ci siano stati mostrati, i primi dall’umana ragione che tutta ci è stata spiegata dai filosofi, e i secondi dallo Spirito Santo che rivelò la verità soprannaturale e a noi necessaria attraverso i profeti e gli agiografi, attraverso Gesù Cristo figlio di Dio a lui coeterno – la cupidigia umana volterebbe le spalle se gli uomini, simili a cavalli che vagano nella loro bestialità, non fossero trattenuti nel loro viaggio “con morso e briglie”. 10. Per cui fu necessaria all’uomo una duplice guida, in relazione al duplice fine; e cioè il Sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita eterna secondo la Rivelazione, e l’Imperatore, che dirigesse il genere umano alla felicità temporale secondo gli insegnamenti della filosofia. 11. E poiché a questo porto non può pervenire nessuno – o possono farlo in pochi, e questi pochi con estrema difficoltà – se il genere umano, calmati i flutti della seducente cupidigia, non riposa libero nella tranquillità della pace, ecco qual è lo scopo al quale sopra ogni altro deve tendere colui che ha cura del mondo, che è chiamato Principe romano: e cioè che in questa aiuola dei mortali si viva liberamente in pace. 12. E, poiché l’ordinamento di questo mondo segue l’ordinamento risultante dalla rotazione delle sfere celesti, è necessario, affinché gli utili insegnamenti della libertà e della pace siano applicati adeguatamente ai luoghi e ai tempi, che colui che deve averne cura sia ispirato da Colui che ha presente al suo sguardo l’intera disposizione dei cieli. E questi può essere solo Colui che preordinò tale disposizione, provvedendo Egli stesso affinché, attraverso di essa, ogni cosa fosse stabilmente collocata al posto che le spetta. 13. Perciò, se così stanno le cose, solo Dio elegge, solo Dio conferma, perché non c’è nessuno al di sopra di lui. Da ciò si può ancora dedurre che, né questi che ora sono detti “elettori”, né gli altri che in qualunque modo furono detti così, debbano essere chiamati in questo modo: che piuttosto devono esser considerati “annunciatori della divina provvidenza”. 14. Per cui avviene che ogni tanto abbia luogo un dissenso tra quanti sono stati investiti del compito di annunciarla, perché tutti, o alcuni di essi, ottenebrati dalla nebbia della cupidigia, non discernono l’aspetto della divina disposizione. 15. Così dunque è evidente che l’autorità del Monarca temporale discende, senza alcun intermediario, dal Fonte dell’autorità universale: il quale Fonte, indivisibile nella rocca della sua semplicità, scorre in molteplici fiumi per abbondanza di bontà.
16. E già ritengo di aver raggiunto la meta prefissata. Si è infatti giunti alla verità intorno all’interrogativo se l’ufficio del Monarca fosse necessario per il bene del mondo; intorno all’interrogativo se il popolo romano si sia attribuito l’impero a buon diritto; e infine intorno all’interrogativo se l’autorità del Monarca discenda direttamente da Dio o da un altro soggetto. 17. Ma questa verità sull’ultima questione non va intesa in modo forzato, concludendo che il Principe romano non sia in nulla soggetto al romano Pontefice, giacché questa felicità mortale è in qualche modo finalizzata alla felicità eterna. 18. Abbia dunque Cesare verso Pietro quella reverenza che il figlio primogenito deve avere verso il padre: affinché, illuminato dalla luce della paterna grazia, illumini con maggiore efficacia la terra, alla quale è stato preposto da Colui solo che è guida di tutte le cose spirituali e temporali.
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Eugenio Caruso - 13 - 01 - 2022