Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte
Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio
RIASSUNTO LIBRO VII
Nausicaa giunge alla città, e alla reggia, e Ulisse poco dopo, a cui Minerva sotto umana forma presentasi, e cui di più cose informa, che saper gli conviene. Stupor di lui alla vista del palagio d’Alcinoo, e descrizione così di questo, come del famoso giardino. Entrato nel palagio, supplica la Regina Arete, dalla quale, come pur dal Re, e dagli altri Capi, è con benignità ricevuto. Interrogato dalla Regina, che riconobbe le vesti, ch’egli avea indosso, narra in qual modo capitò, lasciata Calipso, all’isola de’ Feaci. Il settimo non è canto di grande poesia, specie se paragonato al precedente, e non Io sarà neppure l’ottavo. Ma è canto che si legge volentieri, per il suo tono fiabesco, per la descrizione di luoghi e cose d’incanto, davanti alle quali anche il poeta, che le ha create con la sua fantasia, resta ammirato.
II palazzo di Alcinoo, l’opulenta magnificenza dell’oro e dei metalli preziosi, la lussureggiante e miracolosa vegetazione dell’orto, la vita tranquilla e serena dei Feacesi, la calda intimità della reggia, la gentile ospitalità del re, le ancelle industri e affaccendate, l’umile e venerata regina: in tutto questo è la poesia del libro settimo.
Dove è rappresentato un paese e un ambiente di pace idillica, di tranquilla serenità per il lettore, per Ulisse, per il poeta stesso.
Pace idillica e tranquilla serenità che fanno pregustare quasi ad Ulisse quella pace ch’egli si ripromette di ritrovare nella sua Itaca, ben più modesta e meno sontuosa di Scheria, ma egualmente cara al suo cuore, anche se altre traversie lo attendono, come egli ha saputo nell’Ade dal vate Tiresia.
Dopo aver dominato nella scena precedente Nausicaa in questo canto non appare. Il suo sogno di nozze con Io straniero è appena accennato nella saggia proposta di Alcinoo all’ospite; ma già è sogno svanito nella nostalgia che circonda tutte le cose belle, che non sono realtà. Ritornerà la divina fanciulla nel canto seguente, e sarà solo un’apparizione fugace per pochi versi, in brevi parole. Basteranno tuttavia perché Nausica, personaggio “minore” del poema, mai più si cancelli dal nostro ricordo.
Ulisse chiede ospitalità ad Alcinoo
TESTO LIBRO VII
Mentre così pregava il pazïente
Divino Ulisse, dal vigor de’ muli
Portata era Nausicaa alla cittade.
Giunta d’Alcinoo alla magion sublime,
S’arrestò nel vestibolo; e i germani, 5
Belli al par degli Eterni, intorno a lei
D’ogni parte venian: sciolsero i muli,
E le vesti recaro entro la reggia.
Ma la fanciulla il piede alla secreta
Movea sua stanza, e raccendeale il foco 10
Eurimedusa, una sua vecchia fante,
Nata in Epiro, e su le negre navi
Condotta, e al prode Alcinoo offerta in dono,
Perchè ai Feaci ei comandava, e lui,
Qual se un Dio favellasse, udian le genti. 15
Costei Nausicaa dal braccio di neve
Rallevò nel palagio; ed ora il foco
Raccendeale, e mettea la cena in punto.
Ulisse intanto sorse, e il cammin prese
Della città. Ma l’Atenéa Minerva, 20
Che da lui non torcea l’occhio giammai,
Di molta il cinse impenetrabil nebbia,
Onde nessun Feace o di parole,
Scontrandolo, il mordesse, o il domandasse
Del nome e della patria. Ei già già entrava 25
Nell’amena città, quando la Diva
Gli occhi cerulea gli fece incontro,
Non dissimile a vergine, che piena
Sul giovinetto capo urna sostenti.
Stettegli a fronte in tal sembianza, e Ulisse 30
Così la interrogava: O figlia, al tetto
D’Alcinoo, che tra questi uomini impera,
Vuoi tu condurmi? Io forestier di lunge,
E dopo molti guai venni, nè alcuno
Della città conobbi, o del contorno. 35
Ospite padre, rispondea la Diva
Dai glauchi lumi, il tetto desiato
Mostrar ti posso di leggier: chè quello
Del mio buon genitor per poco il tocca.
Ma in silenzio tu seguimi, e lo sguardo 40
Non drizzare ad alcun, non che la voce.
Render costoro agli stranieri onore
Non sanno punto, nè accoglienze amiche
Trova, o carezze qui, chi altronde giunga.
Essi, fidando nelle ratte navi, 45
Per favor di Nettuno il vasto mare
In un istante varcano: veloci
Come l’ale, o il pensier, sono i lor legni.
Dette tai cose, frettolosa Palla
Gli entrava innanzi, e l’orme ei ne calcava. 50
Nè i Feaci scorgeanlo andar tra loro:
Così volendo la possente Diva,
Pallade, che al suo ben sempre intendea,
E di sacra l’avvolse oscura nube.
Ulisse i porti, e i ben costrutti legni 55
Maravigliava, e le superbe piazze,
Ove i Prenci s’assembrano, e le lunghe,
Spettacolo ammirando, eccelse mura
Di steccati munite e di ripari.
Ma non prima d’Alcinoo alle regali 60
Case appressaro, che Minerva disse:
Eccoti, ospite padre, in faccia il tetto,
Che mi richiedi: là vedrai gli alunni
Di Giove, i Prenci, a lauta mensa assisi.
Cácciati dentro, e non temer: l’uom franco 65
D’ogni difficoltate, a cui s’incontri,
Meglio si trae, benchè di lunge arrivi.
Pria la Regina, che si noma Arete,
E comun con Alcinoo il sangue vanta,
Ti s’offrirà alla vista. Il Dio, che scuote 70
Del suo tridente la terrena mole,
Un bambin ricevè dalla più bella
Donna di quell’età, da Peribéa,
Figlia minor d’Eurimedonte, a cui
De’ Giganti obbedia l’oltracotata 75
Progenie rea, che per le lunghe guerre
Tutta col suo Re stesso al fin s’estinse.
Nettun di lei s’accese, e n’ebbe un figlio,
Nausitoo generoso, il qual fu padre
Di Ressenore, e Alcinoo; e sul Feace 80
Popol regnava. Il primo, a cui fallia
Prole del miglior sesso, avea di poco
Nella sua reggia la consorte addotta,
Che Apollo dall’argenteo arco il trafisse;
Nè rimase di lui, che una figliuola, 85
Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse,
E venerolla fieramente: donna
Non vive in nodi maritali stretta,
Che sì alto al suo sposo in mente sieda.
E in gran pregio non men l’hanno, ed amore 90
Portanle i figli, e i cittadini ancora,
Che a lei, quandunque va per la cittade,
Gli occhi alzan, come a Diva, e con accenti
Festivi la ricevono: chè senno
Nè a lei pur manca ver chi più tien caro, 95
E le liti non rado ella compone.
Se un loco prender nel suo cor tu sai,
La terra, dove i lumi apristi al giorno,
La magion de’ tuoi padri, e degli amici
I noti volti riveder confida. 100
Staua di Arete (moglie di Alcinoo) ad Efeso
Detto, la Dea, ch’è nelle luci azzurra,
Su pel mare infruttifero lanciossi,
Lasciò la bella Scheria, e Maratona
Trovò, ed Atene dalle larghe vie,
E nel suo tempio entrò, che d’Erettéo105
Fu rocca inespugnabile. Ma Ulisse
All’ostello reale il piè movea,
E molte cose rivolgea per l’alma,
Pria ch’ei toccasse della soglia il bronzo:
Chè d’Alcinoo magnanimo l’augusto 110
Palagio chiara, qual di Sole, o Luna,
Mandava luce. Dalla prima soglia
Sino al fondo correan due di massiccio
Rame pareti risplendenti, e un fregio
Di ceruleo metal girava intorno. 115
Porte d’òr tutte la inconcussa casa
Chiudean: s’ergean dal limitar di bronzo
Saldi stipiti argentei, e un argenteo
Sosteneano architrave, e anello d’oro
Le porte ornava; d’ambo i lati a cui 120
Stavan d’argento, e d’òr vigili cani,
Fattura di Vulcan, che in lor ripose
Viscere dotte, e da vecchiezza immuni
Temperolli, e da morte, onde guardato
Fosse d’Alcinoo il glorïoso albergo. 125
E quanto si stendean le due pareti,
Eranvi sedie quinci e quindi affisse
Con fini pepli sovrapposti, lunga
Delle donne di Scheria opra solerte.
Qui de’ Feaci s’assideano i primi, 130
La mano ai cibi, ed ai licor porgendo,
Che lor metteansi ciascun giorno avante:
E la notte garzoni in oro sculti
Su piedistalli a grande arte construtti
Spargean lume con faci in su le mense. 135
Cinquanta il Re servono ancelle: l’une
Sotto pietra ritonda il biondo grano
Frangono; e l’altre o tesson panni, o fusi
Con la rapida man rotano assise,
Movendosi ad ognor, quali agitate 140
Dal vento foglie di sublime pioppo.
Splendono i drappi a maraviglia intesti,
Come se un olio d’òr su vi scorresse.
Poichè quanto i Feaci a regger navi
Gente non han, che li pareggi, tanto 145
Valgon tele in oprar le Feacesi,
Cui mano industre più, che all’altre donne,
Diede Minerva, e più sottile ingegno.
Ma di fianco alla reggia un orto grande,
Quanto ponno in dì quattro arar due tori, 150
Stendesi, e viva siepe il cinge tutto.
Alte vi crescon verdeggianti piante,
Il pero, e il melagrano, e di vermigli
Pomi carico il melo, e col soave
Fico nettareo la canuta oliva. 155
Nè il frutto qui, regni l'estate, o il verno,
Pere, o non esce fuor: quando sì dolce
D’ogni stagione un zeffiretto spira,
Che mentre spunta l’un, l’altro matura.
Sovra la pera giovane, e su l’uva 160
L’uva, e la pera invecchia, e i pomi, e i fichi
Presso ai fichi, ed ai pomi. Abbarbicata
Vi lussureggia una feconda vigna,
De’ cui grappoli il Sol parte dissecca
Nel più aereo, ed aprico, e parte altrove 165
La man dispicca dai fogliosi tralci,
O calca il piè ne’ larghi tini: acerbe
Qua buttan l’uve i ridolenti fiori,
E di porpora là tingonsi, e d’oro.
Ma del giardino in sul confin tu vedi 170
D’ogni erba, e d’ogni fior sempre vestirsi
Ben culte ajuole, e scaturir due fonti,
Che non taccion giammai: l’una per tutto
Si dirama il giardino, e l’altra corre,
Passando del cortil sotto alla soglia, 175
Sin davanti al palagio; e a questa vanno
Gli abitanti ad attignere. Sì bella
Sede ad Alcinoo destinaro i Numi.
Di maraviglia tacito, e sospeso
Ulisse colà stava; e visto ch’ebbe 180
Tutto, e rivisto con secreta lode,
Nell’eccelsa magion ratto si mise,
Trovò i Feaci Condottieri, e Prenci,
Che libavan co’ nappi all’Argicida
Mercurio, a cui libar solean da sezzo, 185
Come del letto gli assalia la brama;
E innanzi trapassò dentro alla folta
Nube, che Palla gli avea sparsa intorno,
Finchè ad Arete, e al suo marito giunse.
Circondò con le braccia alla Reina 190
Le ginocchia; e in quel da lui staccossi
La nube sacra, e in vento si disciolse.
Tutti repente ammutoliro, e forte
Stupian, guardando l’uom, che alla Reina
Supplicava in tal forma: O del divino 195
Ressenore figliuola, illustre Arete,
Alle ginocchia tue, dopo infiniti
Disastri io vegno, vegno al tuo consorte,
E a questi Grandi ancor, cui dì felici
Menar gli Dei concedano, e ne’ figli 200
Le ricchezze domestiche, e gli onori,
Che s’acquistaro, tramandare. Or voi
Scorta m’apparecchiate, acciocchè in breve
Alla patria io mi renda, ed agli amici,
Da cui vivo lontan tra i guai gran tempo. 205
Disse, e andò al focolare, e innanzi al foco
Sovra l’immonda cenere sedette:
Nè alcun fra tanti apria le labbra. Al fine
Parlò l’eroe vecchio Etenéo, che in pronto
Molte avea cose trapassate, e tutti 210
Di facondia vincea non men, che d’anni.
Alcinoo, disse con amico petto,
Poco ti torna onor, che su l’immonda
Cenere il forestier sieda; e se nullo
Muovesi, egli è, perchè un tuo cenno aspetta. 215
Su via, leval di terra, e in sedia il poni
Borchiettata d’argento; e ai banditori
Mescer comanda, onde al gran Giove ancora,
Che del fulmine gode, e s’accompagna
Co’ venerandi supplici, libiamo. 220
La dispensiera poi di quel, che in serbo
Tiene, presenti al forestier per cena.
Alcinoo, udito ciò, lo scaltro Ulisse
Prese per man, dal focolare alzollo,
E l’adagiò sovra un lucente seggio, 225
Fatto sorgerne prima il più diletto
De’ suoi figliuoli, che sedeagli accanto,
L’amico di virtù Laodamante.
Tosto l’ancella da bel vaso d’oro
Purissim’acqua nel bacil d’argento 230
Gli versava, e stendea desco polito,
Su cui l’onesta dispensiera bianchi
Pani venne a imporre, e di serbate
Dapi gran copia. Ma la sacra possa
Di Alcinoo al banditor: Pontonoo, il rosso 235
Licore infondi nelle tazze, e in giro
Recalo a tutti, onde al gran Giove ancora,
Che del fulmine gode, e s’accompagna
Co’ venerandi supplici, libiamo.
Disse; e Pontonoo il buon licore infuse, 240
E il recò, propinando, a tutti in giro.
Ma il Re, come libato ebbero, e a piena
Voglia bevuto, in tai parole uscío:
O Condottieri de’ Feaci, o Capi,
Ciò, che il cor dirvi mi consiglia, udite. 245
Già banchettati foste: i vostri alberghi
Cercate adunque, e riposate. Al primo
Raggio del Sole in numero più spessi
Ci adunerem, perchè da noi s’onori
L’ospite nel palagio, e più superbe 250
Vittime immoleransi: indi con quale
Scorta al suol patrio, per lontan che giaccia,
Possa, non pur senza fatica, o noja,
Ma lieto, e rapidissimo condursi,
Diviseremo. Esser dee nostra cura, 255
Che danno non l’incolga in sin ch’ei tocco
Non abbia il suol natio. Colà poi giunto,
Quel soffrirà, che le severe Parche
Nel dì del suo natale a lui filaro.
E se un Dio fosse dall’Olimpo sceso? 260
Altro s’avvolgeria disegno in mente
De’ Numi allora. Spesso a noi mostrarsi
Nell’ecatombe più solenni, e nosco
Starsi degnaro ad una mensa. Dove
Un qualche vïandante in lor s’avvegna, 265
Non l’occultano a noi, che per vetusta
Origine lor siam molto vicini,
Non altrimenti che i Ciclopi antichi,
E de’ Giganti la selvaggia stirpe.
Alcinoo, gli rispose il saggio Ulisse, 270
Muta questo pensiero. Io dell’immenso
Cielo ai felici abitatori eterni
Né d’indole somiglio, né d’aspetto.
Somiglio ai figli de’ mortali, e a quanti
Voi conoscete in più angoscioso stato. 275
Né ad alcuno di lor cedo ne’ mali:
Tanti, e sì gravi men crearo i Numi.
Or cenar mi lasciate, ancor che afflitto:
Però che nulla io so di più molesto
Che il digiun ventre, di cui l’uom mal puote 280
Dimenticarsi per gravezze, o doglie.
Nel fondo io son de’ guai: pur questo interno
Signor, che mai di domandar non resta,
Vuol, ch’io più non rammenti i danni miei,
E ai cibi stenda, ed ai licor la mano. 285
Ma voi, comparso in Orïente il giorno,
Rimandarmi vi piaccia. Io non ricuso,
Visti i miei servi, l’alte case, e i campi,
Gli occhi al lume del Sol chiuder per sempre.
Disse; e tutti assentìano, e fean gran ressa, 290
Che lo stranier, che ragionò sì bene,
Buona scorta impetrasse. Al fin, libato
Ch’ebbero, e a pien bevuto, il proprio albergo
Ciascun cercava, per entrar nel sonno.
Sol nella reggia rimaneasi Ulisse, 295
E presso gli sedeano Alcinoo, e Arete,
Mentre le ancelle del convito i vasi
Dalla mensa toglieano. Arete prima
Gli favellò, come colei, che il manto
Riconobbe, e la tunica, leggiadre 300
Vesti, che di sua man tessute avea
Con le sue fanti; e che or vedeagli indosso.
Stranier, gli disse con alate voci,
Di questo io te cercar voglio la prima:
Chi sei tu? Donde sei? Da chi tai panni? 305
Non ci fai creder tu, che ai nostri lidi
Misero, errante, e naufrago approdasti?
Calipso mostra il suo sincero amore a Ulisse lasciandolo partite. Di Giuseppe Carlo Zucchi.
E il saggio Ulisse replicogli: Forte,
Regina, i mali raccontar, che molti
M’inviaro gli Dei. Quel, che più brami 310
Sapere, io toccherò. Lontana giace
Un’isola nel mar, che Ogigia è detta.
Quivi d’Atlante la fallace figlia
Dai ben torti capei, Calipso, alberga,
Terribil Dea, con cui nessun de’ Numi 315
Conversa, o de’ mortali. Un Genio iniquo,
Con lei me solo a dimorar costrinse,
Dappoi che Giove a me per l’onde oscure
La ratta nave folgorando sciolse.
Tutti morti ne furo i miei compagni: 320
Ma io, con ambe mani alla carena
Della nave abbracciatomi, per nove
Giorni fui trasportato, e nella fosca
Decima notte all’isoletta spinto
Della Dea, che m’accolse, e amicamente 325
Mi trattava, e nodriva, e promettea
Da morte assicurarmi, e da vecchiezza:
Nè però il cor mi piegò mai nel petto.
Sette anni interi io mi vedea con lei,
E di perenni lagrime i divini 330
Panni bagnava, che mi porse in dono.
Ma tosto che l’ottavo anno si volse,
La Diva, o fosse imperïal messaggio
Del figliuol di Saturno, o di lei stessa
Mutamento improvviso, alle mie case 335
Ritornar confortavami. Su travi
Da multiplici nodi in un congiunte
Con molti doni accommiatommi: pane
Candido, e dolce vin diemmi, e odorate
Vesti vestimmi, e, a incresparmi il mare, 340
Un placido mandò vento innocente.
Io dieci vïaggiava e sette giorni
Su le liquide strade. Al nuovo albore
Mi sorse incontro co’ suoi monti ombrosi
L’isola vostra, e a me infelice il core 345
Ridea, benchè altri guai m’apparecchiasse
Nettun, che incitò i venti, il mar commosse,
Mi precluse la via; nè più speranza
Già m’avanzava, che il naviglio frale
Me gemente portasse all’onde sopra. 350
Ruppelo al fine il turbo. A nuoto allora
Misurai questo mar, finchè alla vostra
Contrada il vento mi sospinse, e il flutto.
Quivi alla terra, nell’uscir dell’acque,
Franto un’onda m’avría, che me in acute 355
Punte cacciava, e in disamabil riva:
Se non ch’io, ritirandomi dal lido,
Tanto notava, che a un bel fiume sceso
Da Giove io giunsi, ove opportuno il loco
Parvemi, e liscio; nè in balía de’ venti. 360
Scampai, le forze raccogliendo. Intanto
Spiegò i suoi veli la divina Notte,
Ed io, lasciato da una parte il fiume,
Sovra un letto di foglie, e tra gli arbusti
Giacqui, e m’infuse lungo sonno un Dio. 365
Dormii l’intera notte in sino all’Alba,
Dormii sino al meriggio; e già calava
Verso Occidente il Sole, allor che il dolce
Sonno m’abbandonò. Vidi le ancelle
Della tua figlia trastullar su l’erba, 370
E lei tra quelle, che una Dea mi parve,
E a cui preghiere io porsi; ed ella senno
Mostrava tal, qual non s’attende mai
L’uom da una età sì fresca, in cui s’abbatta,
Perchè la fresca età sempre folleggia. 375
Ella recente pan, vino possente,
Ella commodo bagno a me nel fiume,
Ed ella vesti. Me infelice il fato
Render potrà, ma non potrà bugiardo.
Ed Alcinoo repente: Ospite, in questo 380
La mia figlia sfallì, che non condusse
Te con le ancelle alla magion, quantunque
Tu a lei primiera supplicato avessi.
Eccelso eroe, non mi biasmar, rispose
Lo scaltro Ulisse, per cagion sì lieve 385
La incolpabil fanciulla. Ella m’ingiunse
Di seguitarla con le ancelle; e io
Men guardai per timor, che il tuo vedermi
T’infiammasse di sdegno. Umana, il sai,
Razza noi siamo al sospettare inchina. 390
E Alcinoo di nuovo: Ospite, un’alma
Già non s’annida in me, che fuoco prenda
Sì prontamente. Alla ragione io cedo,
E quel, che onesto è più, sempre io trascelgo.
E oh piacesse a Giove, a Palla, e a Febo, 395
Che, qual ti scorgo, e d’un parer con meco,
Sposa volessi a te far la mia figlia,
Genero mio chiamarti, e la tua stanza
Fermar tra noi! Case otterresti, e beni
Da me, dove il restar non ti sgradisse: 400
Chè ritenerti a forza, e l’ospitale
Giove oltraggiar, nullo qui fia che ardisca.
Però così su l’Alba il tuo viaggio
Noi disporrem, che abbandonarti al sonno
Nella nave potrai, mentre i Feaci 405
L’azzurra calma romperan co’ remi:
Nè cesseran, che nella patria messo
T’abbiano, e ovunque ti verrà desio,
Foss’anco oltre l’Eubéa, cui più lontana
D’ogni altra regïon, che alzi dal mare, 410
Dicon que’ nostri, che la vider, quando
A Tizio figlio della terra il biondo
Radamanto condussero. All’Eubéa
S’indrizzâr, l’afferrâr, ne ritornaro,
Tutto in un giorno; e non fu grave impresa. 415
Conoscerai, quanto sien bene inteste
Le nostre navi, e i giovani gagliardi
Nel voltar sottosopra il mar co’ remi.
Gioì a tai detti il pazïente Ulisse,
E, le braccia levando, O Giove padre, 420
Sclamò, tutte adempir le sue promesse
Possami Alcinoo! Ei gloria eterna avranne,
Ed io porrò nelle mie case il piede.
Queste correan tra lor parole alterne.
Ma la Reina candida le braccia, 425
Arete, intanto alle fantesche impose
Il letto collocar sotto la loggia,
Belle gittarvi porporine coltri,
E tappeti distendervi, e ai tappeti
Manti vellosi sovrapporre. Usciro 430
Quelle, tenendo in man lucide faci,
Il denso letto sprimacciaro in fretta,
E rientrate, Sorgi, ospite, or puoi,
Dissero a Ulisse, chiuder gli occhi al sonno:
Nè punto al forestier l’invito spiacque. 435
Così ei sotto il portico sonante
Là s’addormia ne’ traforati letti.
Alcinoo si corcò del tetto eccelso
Ne’ penetrali; e a lui da presso Arete,
La consorte real, che a sè, e a lui 440
Preparò di sua mano il letto, e i sonni.
Ulisse alla corte di Alcinoo di Francesco Hayez
Eugenio Caruso - 18- 02- 2022