Omero, Odissea, Libro XVII. Il cane Argo.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte

ulisse 5

Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio


RIASSUNTO LIBRO XVII

Il giorno successivo Telemaco torna alla reggia; partendo, ordina a Eumeo di accompagnare il mendico in città, in modo che possa chiedere l’elemosina nella casa di Odisseo fra i pretendenti. A casa Telemaco viene accolto con gioia dalla nutrice Euriclea e dalla madre, che invita a offrire un sacrificio agli dei per propiziare il ritorno del padre; in seguito si reca in città, ove il popolo si compiace nel vederlo bello, forte e sicuro, e ritrova Teoclimeno, che conduce con sé, a casa. Alla madre che lo interroga sul viaggio, racconta sommariamente i fatti e le notizie raccolte, ma tacendole il suo incontro con il padre nella casupola del porcaio. Teoclimeno, però, rassicura la donna dicendole che l’arrivo di Odisseo è ormai prossimo. Nel frattempo, il mendico Odisseo ed Eumeo, lungo il tragitto per scendere in città, incontrano Melanzio, il bovaro, che li oltraggia e colpisce Odisseo, rivelando così il suo malanimo e la sua infedeltà verso l’antico padrone, oltre al suo odio per Eumeo. Giunti davanti alla sua casa, Odisseo vede il suo cane, Argo, un tempo vivace e vigoroso, che giace su un mucchio di letame, abbandonato: il cane, nel vedere il padrone, lo riconosce, ma può solo debolmente manifestare la sua gioia; poi, sfinito, muore. Odisseo, anche se commosso, si impone di non mostrare le lacrime e si informa del cane, il cui stato di abbandono è un chiaro segno della trascuratezza della casa in assenza del padrone. Telemaco invita Odisseo a entrare in casa, e dopo avergli egli stesso dato del cibo, esorta i pretendenti a fare altrettanto; Antinoo lo offende pesantemente, nonostante Odisseo, con un discorso ingannatore, gli racconti di essere stato anch’egli, un tempo, un uomo ricco e nobile. La comparsa del mendico scatena l’ira dei Proci e, sebbene si insinui il sospetto che sia un dio che li voglia mettere alla prova, Antinoo lo ingiuria e lo colpisce con uno sgabello: Odisseo però non reagisce, sopportando tutto pazientemente per non scoprirsi. Eumeo dice a Penelope che il mendico sa raccontare storie affascinanti così la donna esprime il desiderio di interrogarlo nel caso sapesse qualcosa del marito: il mendicante però le manda a dire che teme l’ira dei pretendenti e che le parlerà solo quando se ne saranno andati. Eumeo intanto prende congedo da Telemaco, per andare in campagna a custodire le bestie, ma promette di tornare l’indomani, come Telemaco gli chiede.


TESTO LIBRO XVII

Tosto che aperse del mattin la figlia
Con rosea man l’eteree porte al Sole,
Telemaco, d’Ulisse il caro germe,
Che inurbarsi volea, sotto le piante
S’avvinse i bei calzari, e la nodosa 5
Lancia, che in man ben gli s’attava, tolse,
E queste al suo pastor drizzò parole:
Babbo, a cittade io vo, perchè la madre
Veggami, e cessi il doloroso pianto,
Che altramente cessar, credo, non puote. 10
Tu l’infelice forestier la vita
Guidavi a mendicar: d’un pan, d’un colmo
Nappo non mancherà chi lo consoli.
Nello stato, in ch’io sono, a me non lice
Sostener tutti. Monteranne in ira? 15
Non farà, che il suo male. Io dal mio lato
Parlerò sempre con diletto il vero.
     Amico, disse allora il saggio Ulisse,
Partire intendo anch’io. Più, che ne’ campi,
Nella cittade accattar giova: un frusto 20
Chi vorrà, porgerammi. Io più d’etade
Non sono a rimaner presso le stalle,
E obbedire un padron, checchè m’imponga.
Tu vanne: a me quest’uom sarà per guida,
Come tu ingiungi, sol che prima il foco 25
Mi scaldi alquanto, e più s’innalzi il Sole.
Triste, qual vedi, ho vestimenta, e guardia
Prender degg’io dal mattutino freddo,
Che sul cammin, che alla città conduce,
Ed è, sento, non breve, offender puommi. 30
     Telemaco senz’altro in via si pose,
Mutando i passi con prestezza, e mali
Nella sua mente seminando ai Proci.
Come fu giunto al ben fondato albergo,
Portò l’asta, e appoggiolla a una lunga 35
Colonna, e in casa, la marmorea soglia
Varcando, penetrò. Primiera il vide
La nutrice Euricléa, che le polite
Pelli stendea su i varïati seggi,
E a lui diritta, lagrimando, accorse: 40
Poi tutte gli accorrean l’altre d’Ulisse
Fantesche intorno, e tra le braccia stretto
Su le spalle il baciavano, e sul capo.

Euriclea

Ulisse riconosciuto da Euriclea, William-Adolphe Bouguereau (1849


Frattanto uscia della secreta stanza,
Pari a Diana, e all’aurea Vener pari, 45
La prudente Penelope, che al caro
Figlio gettò le man, piangendo, al collo,
E la fronte baciògli, ed ambo gli occhi
Stellanti; e, non restandosi dal pianto,
Telemaco, gli disse, amata luce, 50
Venisti adunque! Io non credea più i lumi
Fissare in te, dacchè una ratta nave,
Contra ogni mio desir, dietro alla fama
Del genitor furtivamente a Pilo
T’addusse. Parla: quale incontro avesti? 55
     Madre, del grave rischio, ond’io campai,
Replicava Telemaco, il dolore
Non rinnovarmi in petto, e lo spavento.
Ma in alto sali con le ancelle: quivi
Lavata, e cinta d’una pura veste 60
Le membra delicate, a tutti i Numi
Ecatombe legittime prometti,
Se mi consente il vendicarmi Giove.
Io per un degno forestier, che venne
Meco da Pilo, andrò alla piazza. Innanzi 65
Co’ miei fidi compagni io lo spedii,
E commisi a Piréo, che in sua magione
L’introducesse, e sino al mio ritorno
Con onore il trattasse, e con affetto.
     Non indarno ei parlò. Lavata, e cinta 70
Di veste pura il delicato corpo,
Penelope d’intégre a tutti i Numi
Ecatombe votavasi, ove al figlio
Il vendicarsi consentisse Giove.
Nè Telemaco a uscir fuor del palagio 75
Molto tardò: l’asta gli empiea la mano,
E due bianchi il seguian cani fedeli.
Stupia ciascun, mentr’ei mutava il passo:
Tal grazia sovra lui Palla diffuse.
Gli alteri Proci stavangli da questo 80
Lato, e da quel, voci parlando amiche,
Ma nel profondo cor fraudi covando.
Se non ch’ei tosto si sciogliea da essi;
E là, dove sedea Mentore, dove
Antífo, ed Aliterse, che paterni 85
Gli eran compagni dalla prima etade,
A posar s’avviò: quei d’ogni cosa
L’addimandaro. Sopraggiunse intanto
Piréo, lancia famosa, il qual nel foro
Per la cittade il forestier menava, 90
A cui s’alzò Telemaco, e s’offerse.
E così primo favellò Piréo:
Telemaco, farai, che al mio soggiorno
Vengan le donne tue per que’ superbi
Doni, onde Menelao ti fu cortese. 95
     E il prudente Telemaco: Piréo,
Ignoto è ancor di queste cose il fine.
Se i Proci, me secretamente anciso,
Tutto divideransi il mio retaggio,
Prima, che alcun di loro, io di que’ doni 100
Vo’ che tu goda. E dove io lor dia morte,
A me lieto recar li potrai lieto.
     Disse, e guidò nella sua bella casa
L’ospite sventurato. Ivi, deposte
Sovra i troni le clamidi vellute, 105
Sceser nel bagno, e come astersi, ed unti
Per le servili man furo, e di manto
Vago, e di vaga tunica vestiti,
Su i ricchi seggi a collocarsi andaro.
E qui l’ancella da bell’aureo vaso 110
Purissim’acqua nel bacil d’argento
Versava, e stendea loro un liscio desco,
Su cui la saggia dispensiera i bianchi
Pani venne a imporre, e non già poche
Delle dapi non fresche, ond’è custode. 115
Penelope sedea di fronte al caro
Figlio, e non lungi dalle porte; e fini
Velli purpurei, a una polita sede
Poggiandosi, torcea. Que’ due la destra
Stendeano ai cibi: nè fu pria repressa 120
La fame loro, e la lor sete spenta,
Che in tai voci la madre i labbri apriva:
Io, figlio, premerò, salita in alto,
Quel, che divenne a me lugubre letto,
Dappoi che Ulisse inalberò le vele 125
Co’ figliuoli d’Atréo, lugubre letto,
Ch’io da quel giorno del mio pianto aspergo.
Non vorrai dunque tu prima, che i Proci
Entrino alla magion, dirmi, se nulla
Del ritorno del padre udir t’avvenne? 130
     E il prudente Telemaco a rincontro:
Madre, il tutto io dirò. Pilo trovammo,
Ed il pastor de’ popoli Nestorre.
Qual padre accoglie con carezze un figlio
Dopo lunga stagion d’altronde giunto, 135
Tal me in sua reggia, e tra l’illustre prole,
La bianca testa di Nestorre accolse.
Ma diceami, che nulla udì d’Ulisse,
O vivo fosse, o fatto polve, e ombra.
Quindi al pugnace Menelao mandommi 140
Con buon cocchio, e destrieri; e io là vidi
L’argiva Eléna, per cui Teucri, e Greci,
Così piacque agli Dei, tanto sudaro.
Il bellicoso Menelao repente
Chiedeami, qual bisogno alla divina 145
Sparta m’avesse addotto. Io non gli tacqui
Nulla, e l’Atride: Ohimè! d’un eroe dunque
Volean giacer nel letto uomini imbelli?
Siccome allor che malaccorta cerva,
I cerbiatti suoi teneri e lattanti 150
Deposti in tana di leon feroce,
Cerca, pascendo, i gioghi erti, e l’erbose
Valli profonde; e quello alla sua cava
Riede frattanto, e cruda morte ai figli
Porta, e alla madre ancor: non altrimenti 155
Porterà cruda morte ai Proci Ulisse.
Ed oh piacesse a Giove, a Febo, e a Palla,
Che qual si levò un dì contra l’altero
Filomelíde nella forte Lesbo,
E tra le lodi degli Achivi a terra 160
Con mano invitta, lotteggiando, il pose,
Tal costoro affrontasse! Amare nozze
Foran le loro, e la lor vita un punto.
Quanto alla tua domanda, il Re soggiunse,
Ciò raccontarti senza fraude intendo, 165
Che un oracol verace, il marin vecchio
Proteo, svelommi. Asseverava il Nume,
Che molte e molte lagrime dagli occhi
Spargere il vide in solitario scoglio,
Soggiorno di Calipso, inclita Ninfa, 170
Che rimandarlo niega; ond’ei, cui solo
Non avanza un naviglio, e non compagni,
Che il careggin del mar su l’ampio dorso,
Star gli convien della sua patria in bando.
Ciò in Isparta raccolto, io ne partii; 175
E un vento in poppa m’inviaro i Numi,
Che rattissimo ad Itaca mi spinse.
     Con tai voci Telemaco alla madre
L’anima in petto scompigliava. Insorse
Teocliméno allora: O veneranda 180
Della gran prole di Laerte donna,
Tutto ei già non conobbe. Odi i miei detti:
Vero, e intégro sarà l’oracol mio.
Primo tra i Numi in testimonio Giove,
E la mensa ospital chiamo, e il sacro 185
Del grande Ulisse limitar, cui venni:
Lo sposo tuo nella sua patria terra
Siede, o cammina, le male opre ascolta,
E morte a tutti gli orgogliosi Proci
Nella sua mente semina. Mel disse 190
Chiaro dal cielo un volator, ch’io scorsi,
E al tuo figlio mostrai, sedendo in nave.
     E la saggia Penelope: Deh questo,
Ospite, accada! Tali, e tanti avresti
Del mio sincero amor pegni, che ognuno 195
Ti chiameria, scontrandoti, beato.
     Mentre così parlando, e rispondendo
Di dentro ivan la madre, il figlio, e il vate,
Gli alteri Proci alla magion davante
Dischi lanciavan per diletto, e dardi 200
Sul pavimento lavorato e terso,
Della baldanza lor solito arringo.
Ma giunta l’ora della mensa, e addotte
Le vittime da tutti intorno i campi,
Medonte, che nel genio ai Proci dava 205
Più, che altro in fra gli araldi, e ai lor banchetti
Sempre assistea, Giovani, disse, quando
Godeste omai de’ giochi, entrar v’aggradi,
Sì che il convivio s’imbandisca. Ingrata
Cosa non parmi il convivare al tempo.210
Sursero immantinente, ed alle voci
Del banditor non repugnaro. Entrati,
Deposer su le sedie i manti loro.
Pingui capre scannavansi, e più grandi
Montoni, e grossi porci, e una buessa215
Di branco; e il prandio s’apprestava. E intanto
Dai campi alla cittade andar d’un passo
Preparavansi Ulisse, ed il pastore.
     Pria favellava Euméo d’uomini Capo:
Stranier, se il mio piacere io far potessi,220
Tu delle stalle rimarresti a guardia.
Ma poichè partir brami, e ciò pur vuolsi
Dal mio signor, le cui rampogne io temo,
Però che gravi son l’ire de’ Grandi,
Moviam: già vedi, che scemato è il giorno,225
E infredderà più l’aere in ver la sera.
     Tai cose ad uom, che non le ignora, insegni,
Ripigliò il Laerziade. Ebben, moviamo:
Ma vammi innanzi, e dà, se da una pianta
Il recidesti, un forte legno, a cui230
Per la via, che malvagia odo, io mi regga.
Disse, e agli omeri suoi per una torta
Corda il suo rotto, e vil zaino sospese,
E il bramato baston porsegli Euméo.
Quindi le stalle abbandonâr, di cui235
Rimaneano i famigli a guardia, e i cani.
Così ver la città sotto le forme
D’un infelice mendicante, e vecchio,
E curvo sul bastone, e con le membra
Nelle vesti più turpi, il suo Re stesso240
L’amoroso pastore allor guidava.
     Già, vinto il sentiero aspro, alla cittade
Si fean vicini, ed apparia la bella,
Donde attignea ciascun, fonte artefatta,
Che una pura tra l’erbe onda volvea.245
Construsserla tre Regi: Itaco prima,
Poi Nerito, e Polittore. Rotondo
D’alni acquidosi la cerchiava un bosco,
Fredda cadea l’onda da un sasso, e sopra
Un altar vi sorgea sacro alle Ninfe,250
Dove offria preci il vïandante, e doni.
Qui di Dolio il figliuol, Melanzio, in loro
S’incontrò: conducea le capre, il fiore
Del gregge, ai Proci; e il seguian due pastori.
Li vide appena, che bravolli, e indegne255
Saettò in loro, e temerarie voci,
Che tutto commovean d’Ulisse il core.
Or sì, dicea, che un tristo a un tristo è guida.
Giove li forma, indi gli accoppia. Dove
Meni tu quel ghiottone, o buon porcajo,260
Quel mendico importuno, e delle mense
Peste, che a molte signorili porte
Logorerassi gli omeri, di pane
Frusti chiedendo, non treppiedi, o conche?
Se tu le stalle a custodir mel dessi,265
E a purgarmi la corte, e a’ miei capretti
La frasca molle ad arrecar, di solo
Bevuto siere ingrosseria ne’ fianchi.
Ma poichè solo alle tristi opre intese,
Travagliar non vorrà, vorrà più presto,270
Di porta in porta domandando, un ventre
Pascere insazïabile. Ma senti
Cosa, che certo avvenir dee. Se all’alta
Magion s’accosterà del grande Ulisse,
Molti sgabelli di man d’uom lanciati275
Alla sua testa voleranno intorno,
E le coste trarrannogli di loco.
     Ciò disse, ed appressollo, e nella coscia
Gli diè d’un calcio, come stolto ch’era,
Nè dalla via punto lo smosse: fermo280
Restava Ulisse, e in sè volgea, se l’alma
Col nodoso baston torgli dovesse,
O in alto sollevarlo, e su la nuda
Terra gettarlo capovolto. Ei l’ira
Contenne, e sopportò. Se non ch’Euméo285
Al caprar si converse, e improverollo,
E, levate le man, molto pregava:
O belle figlie dell’Egïoco, Ninfe
Najadi, se il mio Re v’arse giammai
D’agnelli, e di capretti i pingui lombi,290
Empiete il voto mio. Rieda, ed un Nume
La via gli mostri. Ti cadria, caprajo,
Quella superbia dalle ardite ciglia,
Con cui vieni oltraggioso, e sì frequente,
Dai campi alla città. Quindi per colpa295
De’ cattivi pastori a mal va il gregge.
     Oh oh, Melanzio ripigliò di botto,
Che mi latra oggi quello scaltro cane,
Che un giorno io spedirò sovra una bruna
Nave dalla serena Itaca lunge,300
Perchè a me in copia vettovaglia trovi?
Così il Dio dal sonante arco d’argento
Telemaco uccidesse oggi, o dai Proci
Domo fosse il garzon, come ad Ulisse
Non sorgerà della tornata il giorno!305
     Ciò detto, ivi lasciolli ambo, che lento
Moveano il piede, e, suo cammin seguendo,
D’Ulisse alla magion ratto pervenne.
Subito entrava, e s’assidea tra i Proci
Di rimpetto ad Eurimaco, che tutto310
Era il suo amore: nè i donzelli accorti,
E la solerte dispensiera, innanzi
Un solo istante s’indugiaro a porgli
Quei parte delle carni, e i pani questa.
     Ulisse, ed il pastore al regio albergo315
Giungeano intanto. S’arrestaro, udita
L’armonia dolce della cava cetra:
Chè l’usata canzon Femio intonava.
Tale ad Euméo, che per man prese, allora
Favellò il Laerziade: Euméo, d’Ulisse320
La bella casa ecco per certo. Fora,
Benchè tra molte, il ravvisarla lieve.
L’un pian su l’altro monta, è di muraglia
Cinto il cortile, e di steccati, doppie
Sono e salde le porte. Or chi espugnarla325
Potria? Gran prandio vi si tiene, io credo:
Poichè l’odor delle vivande sale,
E risuona la cetera, cui fida
Voller compagna de’ conviti i Numi.
     E tu così gli rispondesti, Euméo:330
Facile a te, che lunge mai dal segno
Non vai, fu il riconoscerla. Su via,
Ciò pensiam, che dee farsi. O tu primiero
Entra, e ai Proci ti mesci, ed io qui resto,
O tu rimani, e metterommi io dentro.335
Ma troppo a bada non istar: chè forse,
Te veggendo di fuor, potrebbe alcuno
Percuoterti, o scacciarti. Il tutto pesa.
     Quel veggio anch’io, che alla tua mente splende,
Gli replicava il pazïente Ulisse.340
Dentro mettiti adunque: io rimarrommi.
Nuovo ai colpi non sono, e alle ferite,
E la costanza m’insegnaro i molti
Tra l’armi, e in mar danni sofferti, a cui
Questo s’aggiungerà. Tanto comanda345
La forza invitta dell’ingordo ventre,
Per cui cotante l’uom dura fatiche,
E navi arma talor, che guerra altrui
Dell’infecondo mar portan su i campi.
     Così dicean tra lor, quando Argo, il cane,350
Ch’ivi giacea, del pazïente Ulisse,
La testa, ed ambo sollevò gli orecchi.
Nutrillo un giorno di sua man l’eroe,
Ma corne, spinto dal suo fato a Troja,
Poco frutto potè. Bensì condurlo355
Contra i lepri, ed i cervi, e le silvestri
Capre solea la gioventù robusta.
Negletto allor giacea nel molto fimo
Di muli, e buoi sparso alle porte innanzi,
Finchè, i poderi a fecondar d’Ulisse,360
Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,
Di turpi zecche pien, corcato stava.
Com’egli vide il suo signor più presso,
E, benchè tra que’ cenci, il riconobbe,
Squassò la coda festeggiando, ed ambe365
Le orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader lasciò: ma incontro al suo signore
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.
Ulisse, riguardatolo, s’asterse
Con man furtiva dalla guancia il pianto,370
Celandosi da Euméo, cui disse tosto:
Euméo, quale stupor! Nel fimo giace
Cotesto, che a me par cane sì bello.
Ma non so, se del pari ei fu veloce,
O nulla valse, come quei da mensa,375
Cui nutron per bellezza i lor padroni.
     E tu così gli rispondesti, Euméo:
Del mio Re lungi morto è questo il cane.
Se tal fosse di corpo, e d’atti, quale
Lasciollo, a Troja veleggiando, Ulisse,380
Sì veloce a vederlo, e sì gagliardo,
Gran maraviglia ne trarresti: fiera
Non adocchiava, che del folto bosco
Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia
Perdesse mai. Or l’infortunio ei sente.385
Perì d’Itaca lunge il suo padrone,
Nè più curan di lui le pigre ancelle:
Chè pochi dì stanno in cervello i servi,
Quando il padrone lor più non impera.
L’onniveggente di Saturno figlio390
Mezza toglie ad un uom la sua virtude,
Come sopra gli giunga il dì servile.
Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo
Mise, e avviossi drittamente ai Proci;
Ed Argo, il fido can, poscia che visto395
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,
Gli occhi nel sonno della morte chiuse.
     Ma l’egregio Telemaco fu il primo,
Che scorgesse il pastor nella superba
Sala passato; e a sè il chiamò d’un cenno.400
Ed ei, rivolto d’ogn’intorno il guardo,
Levò uno scanno ivi giacente, dove
Seder solea lo scalco, e le infinite
Carni partire ai banchettanti Proci.
Levollo, ed a Telemaco di contra405
Il piantò presso il desco, e vi s’assise;
E delle carni a lui pose davanti
Lo scalco, e pani dal canestro tolti.
     Ulisse ivi a non molto anch’egli entrava
Símil ne’ cenci, e nel baston nodoso,410
Su cui piegava il tergo, a un infelice
Paltonier d’anni carco. Entrato appena,
Sopra il frassineo limitar sedea,
Con le spalle appoggiandosi ad un saldo
Stipite cipressin, cui già perito415
Fabbro alzò a piombo, e ripolì con arte.
Telemaco il pastor chiama, e, togliendo
Quanto avea pane il bel canestro, e quanta
Carne nelle sue man capir potea,
Questo, gli dice, all’ospite tu reca,420
E gli comanda, che a ciascun de’ Proci
S’accosti mendicando. A cui nel fondo
Dell’inopia cascò, nuoce il pudore.
     Andò il pastor repente, e, allo straniero
Soffermandosi in faccia, Ospite, disse,425
Ciò ti manda Telemaco, e t’ingiunge,
Che mendicando ti presenti a ognuno
De’ Proci in giro. A cui nel fondo, ei dice,
Dell’inopia cascò, nuoce il pudore.
     E il Laerziade rispondea: Re Giove,430
Telemaco dal ciel con occhio guarda
Benigno sì, ch’ei nulla brami indarno.
     Detto ciò solo, prese ad ambe mani
Ulisse il tutto, e colà innanzi ai piedi
Su la bisaccia ignobile sel pose.435
Finchè il divin Demodoco cantava,
Cibavasi l’uom saggio: al tempo stesso
L’un dal cibo cessò, l’altro dal canto.
Strepitavano i Proci entro la sala:
Ma Palla, al figlio di Laerte apparsa,440
L’esortò i pani ad accattar dai Proci,
Tastando chi più asconda, o men tristezza,
Benchè a tutti la Dea scempio destini.
Ei volse a destra, e ad accattar da tutti
Gïo, stendendo la man, come se mai445
Esercitato non avesse altr’arte.
Mossi a pietade il soccorreano, e forte
Stupiano, e domandavansi a vicenda,
Chi fosse, e donde il forestier venisse.
     E qui Melanzio, Udite, o dell’illustre450
Penelope, dicea, vagheggiatori.
L’ospite io vidi, a cui la via mostrava
De’ porci il guardïan: ma da qual chiara
Stirpe disceso egli si vanti, ignoro.
     Guardïan famosissimo, Antinóo455
Così Euméo rimbrottò, perchè costui
Guidasti alla città? Ci mancan forse
Vagabondanti paltonieri infesti,
Delle mense flagello? O, che d’Ulisse
Qui si nutra ciascun, poco ti cale,460
Che questo ancor, donde io non so, chiamasti?
     E tal risposta tu gli festi, Euméo:
Prode, Antinoo, sei tu, ma ben non parli.
Chi un forestiero a invitar mai d’altronde
Va, dove tal non sia, che al mondo giovi,465
Come profeta, o sanator di morbi,
O fabbro industre in legno, o nobil vate,
Che le nostr’alme di dolcezza innondi?
Questi invitansi ognor, non un mendico,
Che ci consumi, e non diletti, o serva.470
Ma tu i ministri del mio Re lontano
Più, che ogni altro de’ Proci, e de’ ministri
Me più, che ogni altro, tormentar non cessi.
Non men curo io però, finchè la saggia
Penelope, e Telemaco deiforme,475
Vivono a me nella magion d’Ulisse.
     Ma Telemaco a lui: Taci, parole
Non cangiar molte con Antinoo. È usanza
Di costui l’assalir con aspri detti
Chi non l’offende, e incitar gli altri ancora.480
Poi, converso a quel tristo, In ver, soggiunse,
Cura di me, qual padre, Antinoo, prendi,
Tu, che l’ospite vuoi sì duramente
Quinci sbandire. Ah nol consenta Giove!
Dagline: io, non che oppormi, anzi l’esigo.485
La madre d’annojare, o alcun de’ servi
Del padre mio, tu non temer per questo.
Ma cosa tal non è da te, cui solo
La propria gola soddisfar talenta.
     O alto di favella, e d’alma indomo490
D’Eupite disse incontanente il figlio,
Che parlasti, Telemaco? Se i Proci
Quel don, ch’io serbo a lui, gli fesser tutti,
Starsi almeno ei dovria tre lune in casa
Da noi lontano; e, lo sgabello preso,495
Su cui tenea beendo i molli piedi,
Alto in aria il mostrò. Gli altri cortesi
Gli eran pur d’alcun che, sì ch’ei trovossi
Di carni, e pani la bisaccia colma.
Mentre alla soglia, degli Achivi i doni500
Per gustar, ritornava, ad Antinóo
Si fermò innanzi, e dìsse: Amico, nulla
Dunque mi porgi? Degli Achivi il primo
Mi sembri, come quei, che a Re somiglia.
Quindi più ancor, che agli altri, a te s’addice505
Largo mostrarti: io le tue lodi, il giuro,
Per tutta spargerò l’immensa terra.
Tempo già fu, ch’io di te al par felice
Belle case abitava, e ad un ramingo,
Qual fosse, e in quale stato a me venisse,510
Del mio largia: molti avea servi, e nulla
Di ciò falliami, onde gioiscon quelli,
Che ricchi, e fortunati il Mondo chiama.
Giove, il perchè ei ne sa, strugger mi volle,
Ei, che in Egitto per mio mal mi spinse515
Con ladroni moltivaghi: viaggio
Lungo, e funesto. Nell’Egitto fiume
Fermai le ratte navi, ed ai compagni
Restarne a guardia ingiunsi, e quell’ignota
Terra ire alcuni ad esplorar dall’alto.520
Ma questi da un ardir folle, e da un cieco
Desio portati, a saccheggiar le belle
Campagne degli Egizj, a via menarne
Le donne, e i figli non parlanti, i grami
Coltivatori a uccidere. Volonne525
Tosto il rumore alla città, nè prima
L’Alba s’imporporò, che i cittadini
Vennero, e pieno di cavalli, e fanti
Fu tutto il campo, e del fulgor dell’armi.
Cotale allora il Fulminante pose530
Desir di pugna de’ compagni in petto,
Che un sol far testa non osava: uccisi
Fur parte, e parte presi, e ad opre dure
Sforzati; e ovunque rivolgeansi gli occhi,
Un disastro apparia. Me consegnaro535
A Demetore Jaside, che in quelle
Parti era giunto, e dominava in Cipro,
Dond’io, carco di mali, al fin qua venni.
     E di nuovo così d’Eupite il figlio:
Qual Genio avverso una sì fatta lue,540
Le nostre mense a conturbar, ci addusse?
Tienti nel mezzo, e dal mio desco lunge,
Se un’altra Egitto amara, e un’altra Cipro
Trovar non brami in Itaca. Io mendico
Mai non conobbi più impudente e audace.545
T’offri a ciascun l’un dopo l’altro, e allarga
Ciascun per te la man senza consiglio:
Chè rotto cade ogni ritegno, dove
Regna la copia, e dell’altrui si dona.
     Poh! replicava il Laerziade, indietro550
Ritirandosi alquanto, alla sembianza
Poco l’animo adunque in te risponde.
Chi mai creder potria, che pur di sale
A supplicante tu daresti un grano
Dalla tua mensa, tu, che un frusto darmi555
Dall’altrui non sapesti, e così ricca?
     Montò Antinoo in più furia, e, torve in lui
Fissando le pupille, Ora io non penso,
Che uscirai quinci con le membra sane,
Poscia che all’onte ne venisti. Disse,560
E afferrò lo sgabello, ed avventollo,
E in sulla punta della destra spalla
Percosse il forestiero. Ulisse fermo
Stette, qual rupe, nè d’Antinoo il colpo
Smosselo: bensì tacito la testa565
Crollò, agitando la vendetta in core.
Indi sul limitar sedea di nuovo,
Deposto il zaino tutto pieno, e ai Proci
Favellava così: Competitori
Dell’illustre Reina, udir vi piaccia570
Ciò, che il cor dirvi mi comanda. Dove
Pe’ campi, per la greggia, o per l’armento
Pugnando è l’uom ferito, il porta in pace.
Me per la trista, ed importuna fame,
Gran fonte di disastri, Antinoo offese.575
Ma se ha propizj Dei, se ha Furie ultrici,
Chi non ha nulla, della morte il giorno
Pria, che quel delle nozze, Antinoo colga.
     E d’Eupite il figliuol: Tranquillo, e assiso,
Cíbati, o forestiere, o quinci sgombra,580
Acciò gli schiavi, poichè sì favelli,
Per li piedi, e le man te del palagio
Non traggan fuori, e tu ne vada in pezzi.
     Tutti d’ira s’accesero, ed alcuno,
Mal, disse, festi, Eupitide, un tapino585
Vïandante a ferir. Sciaurato! S’egli
Degli abitanti dell’Olimpo fosse?
Spesso d’estrano pellegrino in forma
Per le cittadi si raggira un Nume,
Vestendo ogni sembianza, e alle malvage590
De’ mortali opre, ed alle giuste guarda.
     Tai voci Antinoo dispregiava. Intanto
Della percossa rea gran duol nel petto
Telemaco nodria. Non però a terra
Dalle ciglia una lagrima gli cadde.595
Sol crollò anch’ei tacitamente il capo,
Ruminando nel cor l’alta vendetta.
Ma la saggia Penelope, cui giunse
L’annunzio in alto dell’indegno colpo,
Tra le ancelle proruppe in questi accenti:600
Deh così lui d’un de’ suoi dardi il Nume
Dal famoso d’argento arco ferisca!
Ed Eurinome a lei: Se gl’Immortali
Fesser pieni i miei voti, a un sol de’ Proci
Non mostreriasi la nuov’Alba in cielo.605
     Nutrice mia, Penelope riprese,
Mi spiaccion tutti, perchè tutti ingiusti:
Ma del par, che la morte, Antinoo abborro.
Move per casa un ospite infelice
Dalla sua fame a mendicar costretto.610
Ciascun gli dà, tal ch’ei n’ha il zaino colmo;
E d’Eupite il figliuol d’uno sgabello
Nella punta dell’omero il percuote.
     Cotesti accenti tra le ancelle assisa
Liberò dalle labbra; e in quella Ulisse615
il suo prandio compiea. Ma la Regina,
Euméo chiamato a sè, Va, gli dicea,
De’ pastori il più egregio, ed a me invia
Quel forestiere, onde in colloquio io seco
Mi restringa, e richiedagli, se mai620
D’Ulisse udì, se il vide mai con gli occhi,
Ei, che di gran viaggi uom mi rassembra.
     E tu così le rispondesti Euméo:
Oh volesser gli Achei per te, Regina,
Tacersi alcuni istanti! Ei tal favella,625
Che somma in cor ti verseria dolcezza.
Io tre giorni appo me l’ebbi, e tre notti,
Che fuggito era da un’odiata nave:
Nè però tutti mi narrò i suoi guai.
Qual racceso dai Numi illustre vate630
Voce sì grata agli ascoltanti innalza,
Che l’orecchio, fissando in lui le ciglia,
Se dal canto riman, tendono ancora:
Tal mi beava nella mia capanna.
Dissemi, che di padre in figlio a Ulisse635
Dell’ospitalità stringealo il nodo;
Che nativo di Creta era, del grande
Minosse culla; e che di là, cadendo
D’un mal sempre nell’altro, a’ tuoi ginocchi
Venia di gramo supplicante in atto.640
M’affermò, che d’Ulisse avea tra i ricchi
Tesproti udito, che vive anco, e molti
All’avita magion tesori adduce.
     La prudente Penelope a rincontro:
Vanne, ed a me l’invia, sì ch’io l’ascolti.645
Gli altri o fuor delle porte, o nel palagio
Trastullin pur, poscia che han lieto il core.
Crescono i monti delle lor sostanze,
Di cui solo una parte i servi loro
Toccano; ed essi qui l’intero giorno650
Banchettan lautamente, e il fior del gregge
Struggendo, e dell’armento, e le ricolme
Della miglior vendemmia urne votando,
Fanno una strage: ne’ v’ha un altro Ulisse,
Che atto a fermarla sia. Ma l’eroe giunga,655
E piena con Telemaco di tanti
Barbari oltraggi prenderà vendetta.
     Finito non avea, che il figlio ruppe
In un alto starnuto, onde la casa
Risonò tutta. La Regina rise,660
E, Va, disse ad Euméo, corri, e il mendico
Mandami. Starnutare alle mie voci
Non udisti Telemaco? Maturo
De’ Proci è il fato, nè alcun fia che scampi.
Ciò senti ancora, e in mente il serba. Quando665
Verace in tutto ei mi riesca, i cenci
Gli cangerò di botto in vesti belle.
     Corse il fido pastore, e allo straniero,
Standogli presso, Ospite padre, disse,
Te la saggia Penelope, la madre670
Di Telemaco, vuole: il cor la spinge
D’Ulisse a ricercar, benchè sol dato
Le abbian sin qui le sue ricerche duolo.
Quando verace ti conosca, i cenci
Ti cangerà di botto in vesti belle.675
Cibo non mancherà chi ti largisca,
Se tu l’andrai per la città chiedendo.
     Euméo, rispose il pazïente Ulisse,
Alla figlia d’Icario, alla prudente
Penelope, da me nulla del vero680
Si celerà. So le vicende appieno
D’Ulisse, con cui sorte io m’ebbi eguale:
Ma la turba difficile de’ Proci,
Di cui del ciel sino alla ferrea volta
Monta l’audace tracotanza, io temo.685
Pur testè, mentr’io gïa lungo la sala,
Nulla oprando di mal, percosso io fui;
E non prevenne il doloroso insulto
Telemaco, non che altri. Il Sol cadente
Ad aspettar nelle sue stanze adunque690
Tu la conforta. Mi domandi allora
Del ritorno d’Ulisse innanzi al foco:
Poichè il vestito mio mal mi difende.
Tu il sai, cui prima supplicante io venni.
     Diè volta, udito questo, il buon pastore;695
E Penelope a lui, che già la soglia
Col piè varcava: Non mel guidi, Euméo?
Che pensa il forestier? Tema de’ Proci,
O vergogna di sè, forse occupollo?
Guai quel mendico, cui ritien vergogna!700
     Ma tu così le rispondesti, Euméo:
Ei, come altri farebbe in pari stato,
De’ superbi schivar l’onte desia.
Bensì t’esorta sostener, Regina,
Finchè il dì cada. Così meglio voi705
Potrete ragionar sola con solo.
     Gran senno in lui, chiunque sia, dimora,
Ella riprese: chè sì audaci, e ingiusti
Non ha l’intero Mondo uomini altrove.
     Euméo ritornò ai Proci, e di Telemaco710
Parlando, onde altri non potesse udirlo,
All’orecchia vicin, Caro, gli disse,
Le mandre, tua ricchezza, e mio sostegno,
A custodire io vo. Tu su le cose
Qui veglia, e più sovra te stesso, e pensa,715
Che i giorni passi tra una gente ostile,
Cui prima, ch’ella noi, Giove disperda.
     Sì, babbo mio, Telemaco rispose.
Parti, ma dopo il cibo, e al dì novello
Torna, e vittime pingui adduci teco.720
     Tacque; ed Euméo sovra il polito scanno
Nuovamente sedea. Cibato, ai campi
Ire affrettossi, gli steccati addietro
Lasciando, e la magion d’uomini piena
Gozzoviglianti, cui piacere il ballo725
Era, e il canto piacer, mentre spiegava
L’ali sue nere sovra lor la Notte.

Il cane Argo (Maria Grazia Ciani)
Due temi fondamentali sorreggono l’impianto narrativo dell’Odissea, i racconti e i riconoscimenti. Entrambi hanno uno scopo, quello di rivelare gradatamente, e nello stesso tempo di celare, l’identità di Ulisse. Da un lato, nella prima metà del poema, Ulisse, ridotto a Nessuno, deve recuperare insieme al suo nome, dignità e fama. Nella seconda parte, Ulisse – nuovamente ridotto a nessuno – si muove sul filo del rasoio, nella lenta e rischiosa avanzata verso la reggia, e si inventa, di volta in volta, identità diverse e diverse peripezie che hanno un preciso punto di partenza, Creta (Ulisse ‘si fa’ cretese) e un approccio indiretto con l’Ulisse che tutti credono ormai scomparso per sempre nel viaggio di ritorno per mare.
Riconoscimenti. Escludiamo Tiresia e Anticlea che obbediscono a una precisa legge dell’immaginario dei Greci – il riconoscimento mediato dal sangue delle vittime immolate che ridà memoria e facoltà di parlare alle ombre che popolano l’Ade. E dunque: Telemaco si mostra incredulo davanti allo straccione che Atena ha debitamente "truccato" e che dice di essere suo padre. Cede però alle parole di rimprovero di Ulisse: è un riconoscimento sulla parola e sulla fiducia. D’altronde Telemaco non ha mai conosciuto il padre ed è in un momento di particolare incertezza circa la sua sorte e la sua posizione in Itaca. Perciò si affida. Diversa è la posizione di Penelope, famosa la sua prolungata diffidenza, il dubbio, l’incertezza anche davanti a indizi evidenti – se pur narrati (le vesti, la fibbia). A lei, sposa di Ulisse e da vent’anni divisa da lui, è necessaria una prova concreta, un segreto noto a loro due soli, qualcosa che li unisca fisicamente e spiritualmente. E che cosa è più significativo, reale e simbolico nello stesso tempo, del letto nuziale e del segreto condiviso? È il tronco d’olivo intorno al quale:
"Io eressi il talamo, che feci con pietre fittamente connesse e ricoprii con un solido tetto; e la porta applicai, forte e salda. Poi recisi la chioma dell’olivo dalle foglie sottili, il tronco sgrossai dalla radice, lo piallai tutt’intorno con l’ascia di bronzo […], lo livellai a filo di squadra e ricavai una base che lavorai tutta a traforo. Cominciando da questa levigavo anche il letto, ornandolo d’oro, d’argento, d’avorio. All’interno tesi cinghie di cuoio splendenti d porpora. Ecco, questo è il segreto."
“La radice dell’Odissea è un albero d’olivo”, ha scritto Paul Claudel. Un segno concreto, strettamente personale, è anche la cicatrice della ferita inferta a Ulisse nella caccia al cinghiale presso il nonno Autolico. Ed è questa che conferma alla nutrice Euriclea, a lei che ebbe cura di Ulisse fin dalla nascita, una verità che oscuramente aveva presentito (“nel corpo, nella voce e nei piedi, assomigli a Odisseo”), mentre per Eumeo e Filezio – i servi fedeli – è sufficiente un’affermazione “Eccomi, sono io, che dopo vent’anni e dopo molto soffrire, sono tornato alla terra dei padri”: e quasi per premiare questa fiducia spontanea Ulisse mostra loro anche la cicatrice, “un segno chiaro, perché mi riconosciate del tutto e siate sicuri nell’animo”. Anche al padre Laerte Ulisse, dopo averlo messo alla prova con un falso racconto, non resiste al suo dolore e dice “Sono io, padre mio, che dopo vent’anni giungo alla mia terra” – e tuttavia Laerte chiede un “segno sicuro”, ed è ancora una volta la cicatrice, il marchio esterno di Ulisse. Ma, come avviene con Penelope, la vera anagnorisis che riunisce padre e figlio è ancora una volta un segreto condiviso: concreto e insieme simbolico come il tronco d’olivo:
"I nomi degli alberi di questo frutteto io ti dirò: un tempo me li donasti e io, ancora bambino, te li chiedevo uno per uno venendoti dietro nell’orto; in mezzo ad essi andavamo e tu mi dicevi il nome di tutti; tredici peri mi desti, e dieci meli, e quaranta fichi, cinquanta filari di viti mi promettesti, che maturano in tempi diversi, e vi sono grappoli di ogni tipo nelle stagioni di Zeus".
Non un olivo trasformato in un letto e privato della sua funzione primaria, questi sono alberi fiorenti, ben curati, fruttiferi. Ma anche in questo caso testimoniano un radicamento tenace nella terra patria. “Aristotele è il primo esponente della cultura occidentale a elaborare una teoria del riconoscimento nelle opere letterarie… (teoria) basata sull’epica e la poesia tragica" (Boitani 2014, 34). Questa teoria, che ebbe grande influenza almeno fino al XVIII secolo è espressa nella Poetica, dove tra l’altro Aristotele afferma che “l’Odissea è complessa, perché dappertutto ci sono riconoscimenti” (1459b 14-16). È singolare il fatto che il filosofo, classificatore per eccellenza, non includa tra i riconoscimenti quello – tutto particolare – del cane Argo. A meno che l’esclusione sia dovuta proprio al fatto che l’animale non appartiene al consorzio umano. Sta di fatto che Aristotele non sembra aver dato peso a un riconoscimento “per mezzo dell’istinto” e invece:
"Il poema ci mostra come gli animali possano riconoscere gli uomini nel modo in cui gli uomini non potranno mai riconoscersi tra loro: attraverso un lampo d’istinto che non ha bisogno di segni esterni, di rivelazioni soprannaturali, di ragionamento e neppure di memoria" (Boitani 2014, 85).
Consideriamo dunque il riconoscimento di Argo, scena peraltro famosa soprattutto per il sentimento patetico che suscita, ma che, in buona sostanza, passa come una digressione tanto sentimentale quanto secondaria in un momento estremo quale è quello di Ulisse che sta per rientrare nella sua casa. È un episodio di 36 versi, una digressione che appare e scompare senza lasciare traccia nel seguito del poema. Ulisse – ancora nelle vesti di Nessuno, tranne che per Telemaco – insieme a Eumeo che non lo ha ancora riconosciuto, sta per varcare la soglia della reggia. Entrare in casa: è un passaggio decisivo per il suo piano di riconquista, il primo passo concreto. I due stanno parlando fra loro. E all’improvviso la scena vira verso un cane, mai nominato prima, un cane che giace presso la soglia pieno di zecche, immerso nel letame. È questione di un attimo: il cane alza la testa e le orecchie; gli sguardi di Ulisse e di Argo si incrociano? Non lo sappiamo: il cane abbassa le orecchie, muove un poco la coda; Ulisse, non visto, si asciuga un’unica lacrima, singolare e straordinaria proprio perché unica e segreta. Poi Ulisse varca la soglia – è il primo passo verso la sua nuova vita – e sulla stessa soglia, nello stesso istante, “la morte oscura scese su Argo non appena ebbe visto Odisseo, dopo vent’anni”. L’episodio è chiuso. Argo non verrà più ricordato.
Naturalmente non è l’unico caso di una digressione che non lascia tracce. Ma nulla di quanto si legge in un poema epico è inserito a caso ed è quindi lecito porsi delle domande, osare delle congetture. A volte certe considerazioni sono banali e superflue: come chiedersi perché Penelope o Telemaco non si sono presi cura di Argo, il cane di Ulisse, il più bello e forte e abile cane caccia: mentre l’arco più caro ad Ulisse è stato custodito gelosamente e così le cose che gli appartenevano, e le notti sono state spese vegliando per ingannare gli usurpatori. Domanda ingenua: la poesia ignora coerenza e logica, Aristotele può tranquillamente depennare Argo dai suoi ‘riconoscimenti’.
Ma vi sono dei particolari che possono avere qualche significato, ignoto forse agli antichi ma percepibile dai lettori moderni. Quali sono le vere ‘sentinelle’ di Itaca? Un animale e un arco. Chi ha vissuto per vent’anni, fidando in un istinto a noi sconosciuto, ed è venuto a morire sulla soglia per attendere il passaggio fatale, ‘sapeva’ che Ulisse sarebbe ritornato. La sua morte preannuncia la rinascita del padrone. E l’arco, oggetto inanimato, quando il padrone tocca le sue corde, a suo modo risponde, riconoscendo, come ogni strumento musicale, la mano antica, consueta e amata (“Toccò, con la mano destra, la corda, ed essa emise un suono bellisssimo, simile a voce di rondine”). L’arco sigla la vittoria di Ulisse emergendo da quella “stanza ultima, dov’erano i tesori del re”. Come il cane è il cane di Ulisse, così l’arco è 'l’arco del re' per 'le gare del re'. Sono tutt’uno con lui. Inseparabili.
Un poema ricco di vicende, di fatti straordinari come l’Odissea non poteva non avere riflesso nell’arte antica. I suoi racconti fuori dal comune furono infatti una grande fonte di ispirazione per gli artisti, a cominciare dall’accecamento di Polifemo, senz’altro l’episodio più dirompente fra quelli narrati alla corte di Alcinoo (appare nelle figurazioni già nel VII secolo, subito dopo l’”uscita” dell’Odissea) o l'amore di Calipso per Ulisse. Un altro tema molto amato nell’età arcaica è quello di Circe e della trasformazione degli uomini in animali. Immagini forti, drammatiche, ai limiti del reale, come sono quasi tutte quelle del ciclo avventuroso di Ulisse.
La seconda parte dell’Odissea è stata preferita dall’arte classica: il ritorno di Ulisse a Itaca, Penelope, Argo, Euriclea, la tessitura della tela, soprattutto la strage dei Proci – mentre l’età ellenistica torna a prediligere l’avventura, includendo però anche l’episodio di Argo. Poiché è quest’ultimo che ci interessa in modo particolare, proviamo a cercare il filo che lega il racconto dell’Odissea alla raffigurazioni a noi pervenute. Non sarà certo una rassegna completa, anzi si daranno solo quelle immagini che sembrano suggerire qualcosa di diverso, come un segreto messaggio. Nonostante il pathos del racconto, la scena non si presta facilmente alla trasposizione in figura, perciò le immagini relative al riconoscimento di Argo sono, nel complesso, abbastanza rare. Inoltre è molto facile che l’incontro forse più significativo tra i riconoscimenti odisseici perda la sua straordinaria efficacia trasformandosi in una raffigurazione tipica, quella del ‘cane e padrone’, immediatamente riconoscibili come Ulisse e Argo e quindi segno, per così dire, nobiliare. Questo vale tanto per certe testimonianze dell’arte antica (anelli, monete ecc.) quanto soprattutto per il Fortleben del motivo: vedi le splendide statue riprodotte nel volume di Piero Boitani Riconoscere è un dio, dove un Ulisse aitante e imponente si accompagna a una cane altrettanto forte e vivace. Questa stessa concezione dei due protagonisti denota la lontananza dal testo dell’Odissea e forse la trasformazione del suo più intimo significato. Ma vi sono alcune scene in cui il legame padrone-cane sembra posto sotto altra luce. Ne ricorderò solo tre.

 

argo 1

Il rilievo Campana (I sec. d.C.) è una composizione di rara bellezza ed efficacia: Euriclea tiene in mano il piede di Ulisse, ha riconosciuto la ferita e sta per gridare la sua scoperta. Ulisse, con un doppio drammatico movimento, le chiude la bocca e volge la testa verso Eumeo che si trova alle sue spalle. Sotto il sedile di Ulisse un cane – Argo? – giace tranquillamente addormentato. Sappiamo come l’arte figurativa applichi spesso questo metodo, di “riassumere” in un sola scena più di un evento per offrire una visione complessiva delle vicende affidate alla scrittura. Ma se la presenza di Eumeo ha senso perché egli entra nella reggia insieme a Ulisse, quella di Argo è solo evocativa perché Argo è già morto e vive solo nell’animo di Ulisse che ne ha colto il primo riconoscimento “per istinto”.
Il cratere apulo situato nel Museo di Lecce conferma – io credo – questa impressione.

argo 2

Qui la scena appare nettamente divisa. A sinistra Penelope e Telemaco, l’uno di fronte all’altra, parlano animatamente fra di loro. A destra, distaccato, come non visto, Ulisse piega la testa verso il basso e allunga la mano a toccare il muso di Argo, levato verso di lui. Argo, l’unico che conosce la verità ma non può testimoniare. Ulisse e Argo, muti e discosti, si oppongono al figlio e alla sposa che sembrano discutere, probabilmente sull’ostinata incertezza di Penelope, che, come tutti gli altri, non sa riconoscere “per istinto”.
Ma il segreto che riunisce per sempre e nel silenzio Ulisse e il suo cane prediletto è stato forse espresso nel modo più efficace dallo scalpellino che ha decorato il sarcofago romano situato a Napoli (Museo Nazionale di San Martino, 180 d.C. ca.). È l’unico rilievo rimasto integro sul sarcofago. Rappresenta in primo piano Ulisse seduto su un pezzo di colonna; il volto è deteriorato ma si intuisce che lo sguardo e tutta la persona sono rivolte verso Argo che gli si accosta come per fiutarlo e toccarlo. Anche in questo caso la corrispondenza con il racconto dell’Odissea non è totale, ma l’artista ha colto comunque il momento culminante e i tre particolari fondamentali: Ulisse, Argo che ‘riconosce’, la soglia che, ben inquadrata alle loro spalle, è ancora inesorabilmente chiusa.

 

ARGO 3

Non c’è Eumeo, perché in realtà non ha riconosciuto ancora Ulisse e lo accompagna alla reggia come mendicante. Ma Argo ‘sa’ come Ulisse che la soglia è un passaggio decisivo e fatale. Per rendere tutta la pregnanza della scena, l’artista non scolpisce un Argo prostrato, probabilmente per motivi tecnici, per rendere più evidente l’essenza più profonda della scena. Un muso che si leva esitante, una coda che si muove appena – una lacrima subito detersa. Così Ulisse e Argo sono riuniti per sempre in una sola persona, Ulisse, che chiude nel segreto del suo animo il primo vero riconoscimento. Un uomo della tribù m’aveva seguito come un cane fino all’ombra irregolare delle mura […] L’umiltà e la miseria del troglodita mi trassero alla memoria l’immagine di Argo, il vecchio cane moribondo dell’Odissea, e così gli misi nome Argo e cercai d’insegnarglielo. Ma ogni mio sforzo fallì […] Ma qualcosa simile alla felicità accadde una mattina […] Argo balbettò queste parole: Argo, il cane di Ulisse […] Questo cane gettato nello sterco […] Gli chiesi cosa sapeva dell’Odissea […] Molto poco, disse. Meno del rapsodo più povero. Saranno passati mille e cento anni da quando l’inventai.
L’immortale di Jorge Luis Borges è universalmente noto. Cercando la segreta Città degli Immortali, Marco Flaminio Rufo, tribuno romano, scopre che la città è abitata da una tribù di trogloditi che non parlano e si nutrono di serpenti. Inorridito e spaventato, cerca di fuggire, ma c’è uno della tribù che lo segue “come un cane” e che istintivamente egli battezza col nome di Argo, il cane di Ulisse. Alla fine è proprio il nome di Argo che risveglia la memoria del troglodita: il cane di Ulisse gettato nello sterco, un episodio dell’Odissea di cui ha ormai scordato quasi tutto. Perché i trogloditi sono gli Immortali che abitano la città segreta, immortali e immemori, e Omero è fra questi. Dall’abisso del nulla in cui è sprofondata anche l’Odissea, riemergono a fatica i due nomi: Argo e Ulisse. Perché alla fine “non restano più immagini nel ricordo; restano solo parole”. E Omero è Ulisse, Ulisse è Omero, Argo è Ulisse e Omero, Ulisse è Omero e Argo. E, insieme, sono tutti e nessuno.

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Eugenio Caruso - 25- 04- 2022

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