L'industria aeronautica nella prima metà del novecento.

Primi anni del novecento: artigianato e modernità

Nei primi anni del Novecento chi avesse voluto cimentarsi nella costruzione di una macchina volante avrebbe potuto acquistare facilmente quasi tutto il necessario: nell’ottobre del 1909, tra gli articoli del listino prezzi riservato ai soci della Cooperativa automobilisti italiani di Milano, erano infatti compresi sete per palloni, pattini, eliche speciali, corde d’acciaio e altri accessori aeronautici. Il catalogo comparve tra le pagine della rivista «Motori, cicli & sport», concepita «per l’industria e il commercio del ciclo, dell’automobile. Aeronautica e motonautica» e dedicata ai sempre più numerosi appassionati cultori dei veicoli meccanici, tra cui – è facile immaginare – alcuni improbabili emuli dei fratelli statunitensi Wilbur (1867-1912) e Orville (1871-1948) Wright, proprietari di un’officina di biciclette e costruttori nel 1903 del Flyer, la prima macchina volante a motore del mondo.

Nel circuito commerciale delle forniture aeronautiche erano anche disponibili i tessuti impermeabili dell’azienda brianzola di stoffe per ombrelli Gavazzi, con sede a Desio, che insieme all’industria milanese di pneumatici Pirelli si lanciò in quegli anni nella preparazione delle tele per gli involucri dei dirigibili. Nel 1907 fu proprio la produzione di mezzi volanti «più leggeri dell’aria» a costituire il volano per la nascita del primo nucleo industriale aeronautico italiano, legato strettamente agli ambienti e alle esigenze militari: è il caso della Società Leonardo da Vinci dell’ingegnere Enrico Forlanini (1848-1930), incaricata dal ministero della Guerra di realizzare aeronavi a motore con struttura semirigida (dotate di un’intelaiatura nella parte inferiore dell’involucro per sostenere la gondola e i motori), seguita dopo pochi mesi dalla Fabbrica italiana aerostati Milano (FIAM), nata per costruire dirigibili di tipo floscio (costituiti da un involucro per il gas privo di intelaiatura interna).

Al di là dello stupore suscitato per le grandi dimensioni, gli aerostati non riuscirono a creare un diffuso immaginario popolare legato al volo: seppur stentati, lontanissimi dall’incedere lento e imponente dei dirigibili, furono invece i primi voli delle macchine a motore «più pesanti dell’aria», come quelli compiuti nel 1908 a Roma, Milano e Torino dall’aeroplano Voisin di Léon Delagrange, a entusiasmare e avvicinare la gente comune al nuovo sport aeronautico. Le città festanti per i sempre più frequenti voli dimostrativi e i prati affollati che ospitavano le prime esibizioni aeree rivelavano il richiamo esercitato dalle macchine volanti a tutti i livelli sociali.

All’inizio del 20° sec. l’aeroplano poteva essere considerato un mezzo rivoluzionario, in grado di creare un inedito spazio di modernità dalle non trascurabili ricadute industriali e commerciali. Ai raduni aeronautici italiani – tra cui il noto circuito aereo del 1909 organizzato nella campagna bresciana di Montichiari – erano frequenti la partecipazione di eccentrici inventori-piloti e la presenza di prototipi che a stento riuscivano a staccarsi da terra, precariamente assemblati in officine domestiche: il volo rappresentava una forma di cimento sportivo, quasi circense, che consentiva ancora a iniziative individuali, destinate nella maggior parte dei casi all’insuccesso, di trovare spazio e perfino di ambire a qualche possibilità di riuscita. Si trattava di un ambito talmente innovativo da sfuggire, almeno agli esordi, a un’appropriazione elitaria, grazie anche al carattere artigianale che – paradossalmente – caratterizzava la più spettacolare esibizione di modernità e di progresso tecnologico.

A tale riguardo, la storia del conduttore di taxi genovese Ciro Cirri appare emblematica: affascinato dalle macchine volanti, affidò la sua vettura a un collaboratore per dedicarsi alla costruzione di un aereo nello scantinato di casa. Cirri iniziò così la carriera di sportman dell’aria e, dopo aver ottenuto il brevetto presso la scuola di Cameri (Novara), si cimentò in diversi voli prima di perdere la vita il 28 maggio 1911 in occasione delle giornate dell’aviazione di Voghera, a causa di un’avaria al suo Blériot.

La vicenda di Cirri e quelle di altri pionieri dell’aeronautica sfumano spesso dalla storia alla leggenda, arricchendosi di aneddoti e particolari difficilmente verificabili, mettendo in luce contaminazioni tra realtà e fantasia utili per comprendere il fascino esercitato dal nascente mondo aeronautico: non è probabilmente un caso che nel cortometraggio muto Robinet aviatore del 1911, diretto dal regista Luigi Maggi, l’eccentrico protagonista, dopo aver assistito a un’esibizione aerea, decida di progettare e costruire una macchina volante dalle fattezze di un grosso pesce. Il traballante sorvolo sui tetti di una città è destinato a causare non pochi danni e a concludersi con lo schianto e l’arresto dell’improvvisato pilota: «miei cari amici – scriverà malconcio dalla cella – ho fatto un viaggio formidabile senza il minimo incidente. Sono arrivato in piena forma in un posto tranquillo».

È lecito ipotizzare che il goffo volo di Robinet rappresentasse una dissacrante parodia della modernità e dei poco convincenti tentativi di volo compiuti durante le manifestazioni aviatorie. Tuttavia, il messaggio dell’ironica missiva millantava un esito che i reali pionieri dell’aviazione coltivavano seriamente: tra loro era diffusa l’opinione che l’aereo avrebbe rivoluzionato la mobilità umana sfidando lo spazio e il tempo, consentendo di spostarsi in sicurezza su lunghe tratte e in tempi ridotti. Le grandi potenzialità dell’aviazione nel campo del trasporto passeggeri apparvero immediatamente chiare agli osservatori d’inizio Novecento e questa precoce consapevolezza trovò riscontro nei numerosi articoli pubblicati a tale riguardo nei periodici e nei quotidiani del tempo.

Andando ben oltre la messa in scena di uno spettacolo sportivo, le esibizioni in volo e le mostre statiche dei velivoli rappresentavano la vetrina industriale di un nuovo mondo in piena espansione commerciale, alimentando una sempre maggiore attenzione mediatica: in Italia, dove dal 1904 svolgeva un’infaticabile opera di sensibilizzazione la Società aeronautica italiana, si può cogliere lo sviluppo dell’industria aeronautica nazionale sfogliando le pagine delle numerose riviste specializzate date alle stampe sulla scia delle prime manifestazioni aeree e soffermandosi sulle inserzioni pubblicitarie, che costituiscono un parziale, ma efficace strumento di rilevazione delle nuove imprese attive nel settore.

Tra queste, le Officine dell’ingegnere siciliano Franz Miller, fondate nel 1908 a Torino, cui nell’agosto 1909 il mensile del Touring club italiano dedicò la copertina: nell’inserzione interna Miller garantiva l’«esecuzione di qualsiasi macchina per volare dietro semplice schizzo» e proponeva monoplani completi da 35-40 HP a 12.500 lire. Il mese successivo, Miller si presentò al campo di volo di Brescia con l’aeroplano Cobianchi I, costruito per Mario Cobianchi (1885-1944), e con l’Aerocurvo – così denominato per la particolare architettura alare – realizzato per Leonino da Zara (1888-1958): entrambi i modelli non riuscirono a decollare, ma nonostante l’insuccesso dei due prototipi, nei mesi successivi Miller continuò a pubblicizzare sulla stampa le sue officine.

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Un simile insuccesso toccò a un altro inserzionista piuttosto assiduo delle riviste aeronautiche, il costruttore di motori ed ex meccanico di biciclette e motocicli Alessandro Anzani (1877-1956), di origine italiana, ma da tempo stabilitosi in Francia, che a Brescia riuscì a far staccare il suo aereo da terra solo per pochi metri prima di rovinare al suolo. Lo sviluppo dell'aviazione offriva nuove opportunità per le aziende meccaniche che già potevano contare sull'esperienza nella progettazione di motori a combustione interna. Anzani, che poteva contare sull'esperienza acquisita nella costruzione di motociclette, verso la fine del 1908 ricevette la richiesta da Louis Blériot di sviluppare un nuovo propulsore con il quale motorizzare il proprio velivolo e tentare la prima trasvolata sul Canale della Manica. L'architettura adottata prevedeva che i tre cilindri, con le canne dotate di alettatura per il raffreddamento ad aria, fossero posti in schema a "W" con doppio angolo di 60º. Pochi mesi più tardi il motore era pronto per essere installato sul monoplano e dopo qualche volo sperimentale, l'aeromobile venne iscritto alla Cup Prix du voyage messa in palio dall'Aéro-Club de France con una dote aggiuntiva di 4.500 FRF. La gara, svoltasi nell'aerodromo di Orléans il 13 luglio 1909, fu vinta da Blériot. Il 25 luglio dello stesso anno Bleriot compì la prima trasvolata della Manica con aereo dotato di motore Anzani.

In occasione della manifestazione lombarda presentò le prime creazioni aeronautiche un’impresa locale, AVIS (Ateliers Voisin Italie Septentrionale), di Clovis Thouvenot e Gino Galli, costruttori su licenza dell’apprezzato aeroplano francese Voisin. Nella lista degli aeroplani partecipanti compariva anche il biplano Spa-Faccioli progettato dall’ingegner Aristide Faccioli e affidato al figlio Mario, probabilmente il primo velivolo di concezione e fabbricazione completamente italiane. L’ingegner Faccioli e la Società ligure piemontese automobili di Torino (Spa) non erano peraltro nuovi alle realizzazioni aeronautiche, avendo messo a punto nel 1908 un affidabile motore per l’aeronave militare Italia.

È quindi probabile che tra gli hangar del campo di volo bresciano Faccioli avesse incontrato qualche conoscente tra gli specialisti dell’esercito al seguito dell’ufficiale della regia marina Mario Calderara (1879-1944), progettista aeronautico e primo italiano a conseguire il brevetto di volo nel 1909: la squadra militare schierò sul campo di Montichiari un biplano Wright motorizzato dalle officine meccaniche milanesi Rebus e tale presenza anticipò lo stretto rapporto fra ambienti militari e mondo aviatorio destinato a caratterizzare, non senza criticità, la storia dell’industria aeronautica nazionale.

A neppure un mese dalla conclusione del circuito aereo bresciano, il 15 novembre 1909 venne inaugurata a Milano la prima esposizione di aviazione italiana: numerosi gli aeroplani presenti e particolarmente nutrita la sezione motoristica, in cui spiccavano i propulsori realizzati dalle case automobilistiche entrate nel ramo aeronautico per differenziare gli investimenti e i mercati, come la Fiat di Torino, oltre alle fabbriche milanesi Edoardo Bianchi & C. e Isotta Fraschini. Non mancavano espositori di componentistica come la Maffei di Torino, rappresentante italiana delle eliche integrali francesi Chauvière, e piccolissime imprese artigianali del nuovo indotto aeronautico, compreso quello ludico dei modellini d’aeroplano. Edoardo Bianchi, come molti altri capitani dell'industria dell'epoca, all'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale, partecipò con le sue fabbriche allo sforzo bellico, realizzando biciclette pieghevoli e ammortizzate da destinare ai vari reparti del Regio Esercito Italiano; accanto alla fornitura di: autolettighe, autoblindo, camion per il trasporto delle truppe, motori aeronautici e ogni tipo di materiale debitamente richiesto dello stato italiano; facendo della Bianchi una delle più importanti società metalmeccaniche impegnate nel conflitto.

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Il motore Isotta Fraschini V6 che equipaggiava i Caproni Ca.45.

In questa fase, seppure in un vitale quadro caratterizzato da nuove collaborazioni industriali nonché da prospettive di sviluppo del settore, il sistema produttivo aeronautico nazionale rivelò un’estrema frantumazione, essendo formato da una rete di imprese dalle capacità imprenditoriali assai eterogenee: un tale e diffuso sottodimensionamento industriale, insieme alla preoccupante impreparazione tecnica e gestionale, sarebbero diventati presto limiti evidenti.

Dare ali alla patria: prove di volo dal deserto alle trincee

Nel 1911 l’Italia affrontò la guerra italo-turca con una dotazione di velivoli in grandissima parte francesi o assemblati in Italia su licenza delle case-madri transalpine Blériot e Farman. All’epoca l’unica azienda italiana piuttosto affermata era la Caproni: in quello stesso anno l’ingegnere Giovanni Battista (Gianni) Caproni (1886-1957), dopo la costruzione del primo biplano, iniziò la sua attività imprenditoriale insieme al collega Agostino De Agostini costituendo la società Ingg. De Agostini & Caproni Aviazione con sede a Vizzola Ticino (Varese), presto diventata Caproni & C. a causa del ritiro di De Agostini, cui subentrò Carlo Comitti, facoltoso appassionato di aeronautica.

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Il bimotore Caproni CA 311

Nei campi di volo militari italiani, oltre a quelli schierati in Libia, erano disponibili circa una novantina di velivoli, tra cui una quarantina di Blériot, una quindicina di Nieuport, dieci Henry Farman, tre Breguet, due Maurice Farman, due Deperdussin e un ormai superato Voisin, tutti dotati di propulsori francesi Gnôme, Renault e Labor. L’eterogenea linea di volo schierava, inoltre, tre aeroplani inglesi Bristol Coanda, un paio di Etrich Taube di produzione austriaca e un Albatros tedesco. La rappresentanza italiana era davvero esigua, con cinque monoplani Caproni motorizzati Gnôme e Anzani, oltre a due biplani Filiasi e Asteria dotati di motori Gnôme.

Nonostante i risultati operativi poco significativi raggiunti in Libia, dove per prima l’Italia impiegò gli aerei in operazioni militari di ricognizione e bombardamento, la nascita dell’originario nucleo di aviazione del regio esercito suscitò un certo interesse e ciò convinse l’Aero club d’Italia a lanciare la sottoscrizione ‘Date ali alla patria’: l’iniziativa, partita all’inizio di marzo 1912 e conclusasi nel 1913 dopo un’intensa attività di voli propagandistici, consentì di raccogliere oltre tre milioni di lire da impiegare per il potenziamento dell’aviazione militare, a partire dalle centomila lire donate dal re Vittorio Emanuele III. Contemporaneamente, la riorganizzazione della componente aeronautica rese possibile la predisposizione di un programma di costruzioni da attuarsi entro la primavera del 1913 per allestire una quindicina di squadriglie dotate di circa 150 aerei (una cinquantina di Blériot, una quarantina di Maurice Farman, una trentina di Nieuport, quindici Henri Farman, sette Caproni, oltre a un paio di idrovolanti Henri Farman e Bristol) di cui circa settanta da far costruire in stabilimenti italiani, al fine di indurre positive ricadute occupazionali e ottenere una sensibile riduzione dei costi di produzione.

Per motivi di bilancio Giulio Douhet (1869-1930), trasferito al Battaglione aviatori dal luglio 1912 e all’epoca maggior teorico dell’impiego dell’arma aerea a livello internazionale, in una relazione risalente al mese di novembre evidenziò la necessità di costituire solo dodici squadriglie e di ordinare una cinquantina di aerei, compresi una ventina di apparecchi da addestramento. Nonostante tali contrazioni, si trattava comunque di una commessa in grado di dare un impulso determinante allo sviluppo dell’industria aeronautica nazionale. Le modalità per l’attribuzione degli ordini furono studiate per favorire la nascita di nuove imprese italiane o con sede in Italia, anche attraverso l’unione fra aziende nazionali e straniere in grado di attirare capitali esteri: nell’aprile 1912 Louis Blériot aveva creato a Torino la Società italiana transaerea (SIT), mentre la Società anonima fratelli Macchi, nata nel 1905 come ruotificio e carrozzeria, decise di lanciarsi nel settore aeronautico. Dopo i primi incoraggianti risultati, il 1° maggio 1913 la Macchi diede vita, insieme alla Société anonyme des établissements Nieuport, alla Società anonima Nieuport-Macchi con sede a Varese, seguita dopo quattro giorni dalla costituzione a Milano della Società anonima costruzioni aeronautiche Savoia, titolare dei brevetti francesi Farman.

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Un Bleriot XI

Louis Blériot (Cambrai, 1º luglio 1872 – Parigi, 2 agosto 1936) è stato il primo trasvolatore del Canale de La Manica (25 luglio 1909). Compì l'impresa a bordo di un monoplano Blériot XI di sua costruzione, dotato di motore tricilindrico radiale a W appositamente progettato e costruito da Alessandro Anzani, volando da Calais a Dover in 32 minuti, a una quota di circa 100m slm. Vinse così il primo premio di mille sterline messo in palio dal quotidiano londinese Daily Mail. Si racconta che i doganieri di Dover, essendo ovviamente sprovvisti di moduli attinenti all'arrivo di aeromobili, usarono quelli per i piroscafi: dal che risultò che quel giorno arrivò a Dover un piroscafo con un solo passeggero a bordo. Dopo la trasvolata della Manica fondò un'azienda aeronautica per la costruzione di aeroplani in Inghilterra, un'altra, la Blériot Aéronautique, in Francia, che diedero un grande contributo, prima e durante la prima guerra mondiale, allo sviluppo dell'aviazione francese ed inglese e la SIT in Italia, che produsse diversi velivoli per il Regio Esercito. Nel 1929, celebrandosi il ventennio della sua impresa, Blériot sorvolò nuovamente La Manica con lo stesso apparecchio, ormai diventato un esemplare da museo.

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Il Macchi M C 205 prima serie 360-3 (MM9291)

Nella corsa alla produzione di aeroplani si gettò anche la Wolsit & C. di Legnano, industria satellite della Macchi fino al 1909 impegnata nella costruzione delle automobili inglesi Wolseley e, dopo l’infruttuosa avventura industriale aeronautica, nella produzione di rinomate biciclette. A Torino si insediò invece la Fabbrica italiana motori Gnôme et Rhône, controllata dalla sede francese, produttrice dei più diffusi e pubblicizzati motori avio.

La crescita dell’industria aeronautica italiana, fin dal 1913 rappresentata dal Sindacato industriale aeronautico per lo studio e la difesa degli interessi economici degli industriali e commercianti italiani di apparecchi di locomozione aerea, fu tuttavia tanto veloce quanto disordinata: numerose aziende non possedevano i necessari requisiti tecnico-organizzativi per far fronte a produzioni così complesse, situazione che determinò notevoli ritardi nelle consegne. Douhet confidava nel fatto che, nonostante i problemi, l’industria aeronautica italiana grazie alle commesse militari avrebbe potuto accumulare l’esperienza necessaria per affrancare il Paese e il settore dalla dipendenza estera: tali considerazioni inducevano ottimismo riguardo l’esito dei concorsi banditi tra il marzo e l’aprile del 1912 per aeroplani da guerra e motori d’aviazione militare, ma i risultati – dopo le prove condotte nella primavera del 1913 sul campo di Mirafiori – tradirono le attese. Nonostante i tre motori finalisti (Fiat, Spa tipo Anzani e il rotativo della Luct) rispettassero le specifiche tecniche e le prestazioni richieste, non risultarono sufficientemente innovativi da meritare il premio in denaro previsto per lo sviluppo del progetto e la messa in produzione delle unità.

Per quanto riguarda gli aerei, il concorso perse di interesse a causa delle contestuali commesse di aerei già sul mercato varate dal ministero della Guerra, circostanza che evidentemente scoraggiò gli investimenti su velivoli di nuova concezione. Ben più significativo si rivelò il concorso bandito nell’ottobre del 1912 per monoplani e biplani sperimentali con cui dotare due squadriglie: a Mirafiori, dopo le selezioni rimasero in lizza l’anfibio della Società anonima meccanica lombarda (SAML), un paio di monoplani Bobba costruiti su licenza francese e un monoplano Sia. Tuttavia anche in questo caso il premio non venne assegnato. L’esito dei concorsi rappresentò insomma la presa d’atto che l’industria italiana era ancora incapace di progettare prodotti competitivi e tecnicamente all’avanguardia.

La positiva collaborazione fra imprese private e settore pubblico militare sperimentata in occasione della progettazione e della produzione di dirigibili non si ripeté; la politica ministeriale di frammentare le commesse per la costruzione di aerei su licenza fra tante piccole fabbriche non ripagò in termini di esperienza e non consentì alle industrie aeronautiche di svilupparsi per affrontare autonomamente il mercato: all’inizio del 1913 praticamente tutto il materiale aeronautico proveniva dall’estero e l’industria nazionale non seppe imporsi per l’inadeguatezza tecnologica e tecnica dovuta a una buona dose di inesperienza e improvvisazione. Basti pensare che la SAML, pur finalista del concorso per aerei sperimentali, venne fondata appena un decennio prima, nel 1901, per costruire impianti di mulini, pastifici, pompe meccaniche, macchine per laterizi e fonderie.

Un altro problema era rappresentato dalla precarietà finanziaria di molte aziende aeronautiche, attestata dai risicati capitali sociali, dai continui cambiamenti degli assetti societari e dalle riconversioni che coinvolsero anche costruttori in grado di produrre macchine di un certo interesse: è il caso della Fabbrica torinese velivoli Chiribiri & C., fondata nel 1911 con un capitale sociale di appena 48.000 lire, che si dedicò alla costruzione di automobili dopo aver presentato al concorso ministeriale per velivoli sperimentali un buon monoplano, e della Società Antoni di Pisa, presente al medesimo concorso con un altro monoplano, fallita alla fine del 1912 dopo aver battuto il record di traversata marittima detenuto da Luis Blériot.

Tra le ditte che incontrarono difficoltà a onorare gli impegni presi con il ministero anche la Caproni & Faccanoni, nata nel settembre 1912 dalle ceneri della Caproni & C., impossibilitata a rispettare le consegne dei velivoli Bristol in conseguenza del blocco della produzione deciso dalla casa madre inglese a causa di un grave difetto tecnico riscontrato alle ali. Grazie all’intervento di Douhet, finalizzato a non disperdere il patrimonio di esperienza di una delle più attive case aeronautiche italiane, le officine Caproni furono acquistate – non senza polemiche – dal ministero della Guerra, che assunse anche l’ingegner Caproni.

La Grande guerra: il decollo dell’industria aeronautica

Mentre si stava profilando la partecipazione dell’Italia al conflitto, nel maggio del 1915 l’aviazione militare era praticamente ancora tutta da organizzare e poteva contare su tre dirigibili e un’ottantina di aerei operativi divisi in una quindicina di squadriglie, oltre ai velivoli in dotazione alla regia marina. Si trattava di macchine (Blériot, Farman e Nieuport) in gran parte dotate di motori rotativi realizzati con processi costruttivi ancora artigianali, dalla manutenzione complessa e frequente, inadatti a un intensivo uso bellico: le articolate teorie di Douhet sul potere aereo e sul dominio dell’aria, ritenuto elemento decisivo nelle guerre moderne, non invertirono di fatto la sostanziale sfiducia dello Stato maggiore dell’esercito riguardo le potenzialità strategico-operative dell’aeronautica, anche alla luce dei non certo esaltanti risultati industriali del settore.

Nel periodo di neutralità italiana le aeronautiche degli altri Paesi coinvolti nel conflitto si rafforzarono notevolmente, costringendo l’Italia a un enorme sforzo organizzativo e produttivo per colmare tali ritardi in vista dell’entrata in guerra. Nel gennaio 1915 fu costituito il Corpo aeronautico, composto da una Direzione generale e due Comandi d’aeronautica, quattro battaglioni (dirigibilisti, aerostieri, squadriglie aviatori e scuole aviatori), oltre a uno stabilimento di costruzioni aeronautiche, una Direzione tecnica (DTAM, Direzione Tecnica Aviazione Militare) e un Istituto centrale aeronautico. Gli stanziamenti per il potenziamento dell’aeronautica, quadruplicati rispetto alle iniziali previsioni, furono portati a sedici milioni e mezzo di lire.

In particolare, l’analisi del funzionamento e delle dinamiche interne alla Direzione tecnica è di estremo interesse per capire i rapporti fra industria privata, politica e organismi militari: tra i compiti principali della Direzione, istituita a Torino – dove si concentrava la produzione di circa il 50% delle forniture aeronautiche – vi era la standardizzazione dei velivoli ispirata a principi di semplicità costruttiva e di pilotaggio, al fine di facilitare i tecnici e consentire corsi di volo più brevi agli allievi piloti. A tal fine la DTAM consentì il passaggio di propri tecnici all’industria, per immettere nel sistema produttivo personale preparato e consapevole delle esigenze operative militari: significativi i casi di Rodolfo Verduzio (1881-1958), incaricato dell’omologazione e del collaudo degli aerei, futuro progettista del noto velivolo Ansaldo SVA (acronimo di Savoia Verduzio Ansaldo) protagonista nel 1918 del volo su Vienna; dell’ingegnere Ottorino Pomilio (1887-1957), che lasciò la Direzione per dedicarsi alle costruzioni aeronautiche da imprenditore; e di un progettista come Corradino D’Ascanio (1891-1981), collocato in congedo provvisorio nel 1916 e assunto proprio dalla fabbrica Pomilio.

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SVA 1 Con motore SPA 6A 1918. Lo SPA 6A era un motore 6 cilindri in linea raffreddato ad acqua prodotto dall'azienda italiana Società Piemontese Automobili tra gli anni dieci e gli anni venti del XX secolo. Venne utilizzato da numerosi modelli di velivoli dello stesso periodo.

Una tale osmosi condusse a significativi risultati tecnici, ma espose anche a possibili conflitti di interesse, soprattutto da quando, nel 1917, le competenze gestionali della Direzione passarono alla Commissione centrale tecnico-amministrativa composta da membri civili e da esponenti politici: l’ordine di un numero spropositato di velivoli all’industria, neppure in grado di soddisfare tali richieste, rappresentò il segno evidente di un sistema esposto fortemente a dinamiche clientelari, caratterizzato dallo spreco di denaro pubblico a tutto vantaggio degli industriali del settore.

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Pomilio modello GAMMA

In base ai dati forniti nel 1919 dall’Ufficio produzione della Direzione tecnica, le otto fabbriche di costruzioni aeronautiche operanti nel 1915 nel corso della guerra erano salite a ventisette, in grado di produrre un totale di circa 12.000 aerei (dai circa 400 aerei prodotti nel 1915 si sarebbe arrivati a quasi 6500 nel 1918). Nello stesso periodo le officine specializzate nell’assemblaggio dei motori costruirono circa 24.000 propulsori, passando da sei a diciotto, mentre il ramo delle riparazioni e della componentistica, formato da decine di imprese, nacque praticamente da zero durante il conflitto. Poche centinaia di operai impiegati nel 1915 nel settore aeronautico alla fine della guerra diventarono decine di migliaia.

I numeri, nonostante la produzione in cifre assolute sia molto inferiore a quella dei maggiori Paesi coinvolti nel conflitto, attestano efficacemente gli sforzi profusi per garantire un numero adeguato di aeroplani all’esercito italiano: tale mobilitazione produttiva si può cogliere nelle inserzioni pubblicitarie comparse sui giornali che attestano l’impegno dell’industria aeronautica per lo sforzo patriottico, anche attraverso il finanziamento di lauti premi in denaro destinati ai migliori piloti da caccia o da bombardamento elargiti dalle maggiori fabbriche di materiale bellico (Fiat, Michelin, Pirelli, ma anche le più piccole Officine di Savigliano). I concorsi promossi periodicamente dalla stampa e finanziati dalle imprese contribuirono a diffondere il mito dell’aviatore, spesso ritratto nelle riviste come un eroe-dandy, in posa accanto ad aerei con stemmi personalizzati (su tutti, l’inconfondibile cavallino rampante di Francesco Baracca o il teschio nero di Fulco Ruffo di Calabria).

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FIAT C R 25

Al termine del conflitto, nell’ambito della fisiologica contrazione delle spese belliche, fu inevitabile procedere al ridimensionamento delle dotazioni aeronautiche e degli organici: molti mezzi aerei dell’aviazione militare vennero dismessi, riacquistati dalle imprese produttrici a prezzo di saldo e rivenduti sui mercati esteri con ingenti margini di guadagno. Qualche aeroplano fu rilevato perfino da alcuni ex aviatori di guerra, anch’essi smobilitati in massa e ritornati in molti casi alle occupazioni prebelliche.

Nel dopoguerra la difficile riconversione al mercato civile della produzione aeronautica fu caratterizzata dalla mancanza di una chiara strategia di sviluppo del settore, nonché di realistici piani industriali per nuovi velivoli. I primi tentativi promozionali dell’aeronautica commerciale videro protagonisti uomini pochi mesi prima acclamati per le loro imprese belliche: i numerosi raid e circuiti aerei organizzati dai costruttori ebbero il compito di esaltare le prestazioni di velivoli e motori derivati da prodotti militari, come nel caso dei propulsori Isotta Fraschini che – si legge in una pubblicità diffusa sulla stampa dell’epoca – «tanto validamente contribuirono, nel periodo di guerra, al successo delle più gloriose imprese aeree» e quindi «saranno, durante la pace, mezzo potente nelle più feconde opere della nuova aviazione commerciale».

Il fascismo: dalle favole alate allo schianto

La forza evocativa del volo, accresciuta notevolmente durante il conflitto fino a diventare mito della guerra aerea e dei suoi ‘assi’, venne sfruttata dal fascismo per manifestare il moderno, volitivo e dinamico spirito del regime nell’ambito dell’esperimento totalitario mussoliniano: non è un caso che uno dei primi provvedimenti legislativi assunti dal governo fascista nel gennaio 1923 avesse riguardato la costituzione del Commissariato per l’aeronautica, incaricato di sovrintendere a tutte le questioni inerenti l’aviazione militare e civile. Un atto propedeutico alla creazione della regia aeronautica sancita appena un paio di mesi dopo (marzo 1923) e, nel 1925, all’istituzione del ministero dell’Aeronautica.

Quando, nel 1926, Italo Balbo (1896-1940) divenne sottosegretario del nuovo ministero, e poi ministro dal 1929, fu chiaro il ruolo attribuito all’aviazione sia militare sia civile: un compito di propaganda che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere sorretto da un eccellente livello tecnico-organizzativo. Si spiega così la scelta di collaboratori del ministero in grado di esaltare l’immagine e la sostanza dell’aviazione italiana, da Filippo Masoero (1894-1969), esponente del fotodinamismo futurista, nominato da Balbo direttore delle ricerche fotografiche e cinematografiche, ad Alessandro Guidoni (1880-1928), ex pilota di idrovolanti e dal 1923 comandante del genio aeronautico: nel 1925 l’abitudine delle industrie a disattendere i contratti fornendo aeroplani e materiali di qualità inferiore a quella concordata portarono alle sue dimissioni, facendo emergere una serie di problemi fra ministero e comparto industriale destinati a cronicizzare.

Guidoni, richiamato da Balbo al ministero nel 1927 per assumere la carica di direttore generale delle costruzioni e degli approvvigionamenti, si distinse per delle avveniristiche innovazioni tecniche, alcune delle quali perfezionate e adottate nei motori dei velivoli statunitensi solo nella Seconda guerra mondiale. Morì il 27 aprile 1928 in un incidente durante le prove di un paracadute, mentre era in corso la sfortunata spedizione al Polo Nord del dirigibile Italia comandato da Umberto Nobile (1885-1978), con cui Guidoni aveva sviluppato il progetto di un elicottero.

Dopo la tragedia del dirigibile Italia, schiantato sul pack artico alla fine di maggio, Nobile fu ritenuto responsabile dell’incidente: fra i principali accusatori proprio Balbo, intenzionato a sbarazzarsi di un ingombrante personaggio dotato di grande prestigio personale, le cui imprese avevano sempre attirato notevole interesse mediatico. Nel nuovo modello concettuale alla base della regia aeronautica non dovevano più trovare spazio eccessivi personalismi: il mondo dell’aviazione, e soprattutto il diffuso immaginario collettivo popolato da eroi solitari, fu ridisegnato in base al principio mussoliniano dell’«armonico collettivo», per il quale le azioni dei singoli, anche le più eroiche, acquisivano significato esclusivamente all’interno dello Stato e della collettività. In tale contesto, anche le trasvolate solitarie di Francesco De Pinedo (1890-1933) dall’Italia all’Australia (1925) e quella compiuta con Carlo Del Prete (1897-1928) verso le isole di Capo Verde, l’Argentina e l’Arizona (1927), pur inizialmente esaltate dal regime, cominciarono ad apparire legate a una desueta epopea aviatoria.

Nell’intento di dare centralità al concetto di squadra, nel 1928 Balbo fondò il Reparto alta velocità di Desenzano del Garda per preparare gli aerei e gli equipaggi destinati alle competizioni aeronautiche internazionali: una politica che in alcuni casi portò l’industria alla realizzazione di macchine eccezionalmente performanti, ma costruite in pochissimi esemplari, senza sostanziali benefici per la produzione di serie. La formula preferita per cementare lo spirito di gruppo e il senso di appartenenza fu quella del raid collettivo, collaudata tra il 1928 e il 1929 attraverso l’organizzazione delle crociere del Mediterraneo occidentale e orientale, cui parteciparono decine di idrovolanti della regia aeronautica. Tale indirizzo operativo trovò la massima espressione nelle trasvolate oceaniche del 1930-31 da Orbetello a Rio de Janeiro e del 1933 da Orbetello agli Stati Uniti, portate a termine da due pattuglie di idrovolanti Savoia-Marchetti S.55 comandate da Balbo.

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Savoia Marchetti S 55

Le imprese aviatorie di massa, ritenute da Balbo un’ottima pratica di addestramento, ebbero anche significative ricadute commerciali: nel 1929, dopo la seconda crociera mediterranea, l’Italia riuscì a vendere una trentina di idrovolanti all’Unione Sovietica e nel 1931 i trasvolatori atlantici ritornarono dal Brasile in Italia a bordo del piroscafo Conte Rosso, in quanto gli idrovolanti protagonisti della trasvolata furono acquistati dal Brasile.

Nel 1933, l’ammaraggio in formazione degli S.55 nel lago Michigan, in occasione dell’Esposizione internazionale Century of progress di Chicago, rappresentò un’esibizione spettacolare dell’eccellenza aeronautica raggiunta dall’Italia, ma quell’impresa fu possibile anche grazie ad alcuni strumenti di navigazione di produzione inglese (come la bussola aperiodica Husun della Smith’s aircraft instruments) e ad altri congegni ideati dagli stessi aviatori, come l’indicatore di velocità messo a punto dal capitano Luigi Questa e il regolo calcolatore del capitano Alessandro Vercelloni, entrambi prodotti dalla Salmoiraghi di Milano: a ben vedere l’ingegno dimostrato dagli aviatori smascherava una certa incapacità dell’industria di progettare e produrre in serie equipaggiamenti di navigazione adeguati con cui dotare tutti i velivoli della regia aeronautica.

Le affermazioni degli anni Venti e Trenta vanno quindi considerate ponendosi dietro la ribalta mediatica, da dove è possibile rilevare i limiti di mezzi aerei efficienti, ma dai ridotti impieghi operativi. Si trattava insomma di imprese essenzialmente sportive, condotte con aeroplani di legno costruiti in modo semiartigianale e, nel complesso, superati. Tale quadro rispecchiava fedelmente la miopia degli ambienti politici e degli industriali, poco disposti a investire capitali per la realizzazione di prodotti di serie innovativi con cui conquistare in modo duraturo significative fette di mercato interno e internazionale.

Grazie alle commesse militari, nel corso degli anni trenta il comparto aeronautico italiano conobbe un grande sviluppo, ma, similmente a quanto accaduto durante la Grande guerra, si trattò di una crescita sregolata, non sostenuta da un’adeguata pianificazione tecnica. La necessità di una razionalizzazione della produzione fu subito chiara a Balbo che, in molte pagine del libro dedicato ai suoi Sette anni di politica aeronautica (1927-1933) a capo del ministero, pubblicato nel 1936, richiamò tale questione più nei termini di un obiettivo da raggiungere che in quelli di un risultato acquisito.

Nel 1934, quando Balbo lasciò il comando della regia aeronautica per assumere l’incarico di governatore della colonia libica, le industrie italiane di cellule e motori erano diciassette, altre dieci costruivano parti di ricambio ed effettuavano riparazioni. Fiat e Caproni controllavano insieme il 64% del mercato. Nel 1938 le fabbriche di velivoli e propulsori salirono a ventitré, quelle di manutenzione a diciotto, impiegando complessivamente 47.000 addetti: per apprezzare le potenzialità di tale settore, basti pensare che in quell’anno le costruzioni aeronautiche costituivano il 9% dell’intero settore meccanico, percentuale superiore perfino a quella della cantieristica navale.

La produzione si basava pressoché esclusivamente sulle commesse militari, mentre la progettazione di velivoli dedicati specificamente al trasporto civile fu trascurata: nel 1939, con la guerra alle porte, alle fabbriche aeronautiche furono ordinati oltre il 50% di tutti gli aerei commissionati a partire dal 1935. Alla fine degli anni Trenta risultavano impiegati nel settore 53.000 persone, quasi raddoppiate nel 1943. In totale, fra il 1935 e il 1943, l’industria ebbe ordinativi per 22.500 aerei e, tra il 1939 e il 1944, vennero prodotti oltre 14.500 aeromobili e 37.000 motori: di questi, quasi 1000 aeroplani e 2300 propulsori furono venduti all’estero. Le esportazioni avrebbero potuto rappresentare una grande possibilità, ma Alfa Romeo, Breda, CRDA (Cantieri Riuniti Dell’Adriatico), Caproni, Fiat, Isotta Fraschini, Piaggio, Macchi e Savoia-Marchetti, sebbene riunite in un apposito consorzio industriale istituito dal ministero, continuarono a farsi concorrenza. I CRDA furono una società operante nel settore delle costruzioni navali mercantili e militari, dei grossi motori Diesel, caldaie e turbine per la propulsione navale e per usi civili, degli aeroplani, di materiale rotabile ferroviario e di prodotti di elettromeccanica.

Gli industriali del settore aeronautico, interessati a ottimizzare i guadagni senza investire adeguatamente in nuovi progetti, preferirono lavorare su licenza o nel cono d’ombra tecnologico di prodotti già noti e affidabili, ma destinati a diventare velocemente desueti. Si trattava di una situazione di cui gli organi politici e militari erano perfettamente al corrente: la relazione che il gerarca Carlo Ravasio presentò a Benito Mussolini nel 1941 evidenziò in alcuni casi la mancanza di uffici tecnici funzionali all’interno delle fabbriche aeronautiche, mettendo a nudo le lacune di un processo produttivo arretrato, ben lontano dagli standard più moderni. Alla base del lassismo industriale vi erano evidenti responsabilità del ministero dell’Aeronautica che, pressato dalla necessità di ricevere nuovi materiali, fra il 1933 e il 1942 creò le condizioni affinché ben una quarantina di prototipi, ventitré dei quali presentati fra il 1934 e il 1938, fossero adottati dalla regia aeronautica e prodotti in serie limitate (venti modelli superarono la produzione di 200 esemplari, dodici quella di 500 esemplari e solo cinque arrivarono a 1000 esemplari).

Gran parte dei problemi riscontrati sui velivoli acquisiti dalla regia aeronautica era legata al difficile accoppiamento fra cellula e propulsore, oltre che a scelte progettuali conservatrici: una nefasta alchimia che causò fra i piloti-collaudatori perplessità destinate a trasferirsi inevitabilmente nelle stanze ministeriali e a tradursi in continue richieste di modifiche che rallentarono lo sviluppo e influirono negativamente sui tempi di produzione e consegna.

L’eccessivo ingombro dei motori radiali prodotti da Alfa Romeo (AR 126), Fiat (A 74) e Piaggio (P. XI), oltre alla loro scarsa potenza – ben al di sotto dei 1500 cavalli disponibili, per es., sulle coeve unità tedesche Daimler-Benz – obbligò i progettisti a realizzare aerei trimotori, con inevitabili controindicazioni aerodinamiche e limiti prestazionali delle cellule, fino al 1939 costruite totalmente o parzialmente in legno.

Trattandosi dell’unico acquirente, il ministero dell’Aeronautica avrebbe potuto agire con maggiore efficacia, ma in realtà si limitò a contrastare l’oligopolio dell’industria aeronautica concedendo commesse a pioggia, anche a realtà produttive di piccole dimensioni. Ciò perpetuò il circolo vizioso attraverso il quale le imprese, paventando il rischio di licenziamenti, riuscirono a garantirsi la sopravvivenza attraverso i puntuali pagamenti ministeriali.

La regia aeronautica cercò di razionalizzare l’entrata in linea di nuovi mezzi con un piano di sviluppo coerente che, tuttavia, si scontrò con la cronica mancanza di finanziamenti, nonostante fosse la forza armata maggiormente utilizzata dal regime come strumento di propaganda. Il risultato fu il frazionamento degli ordini, politica che ebbe come conseguenza la necessità di dover perseguire obiettivi di breve termine, compromettendo la reale efficienza operativa dell’arma aerea. La situazione si tradusse operativamente in una linea di volo affollata da un eccessivo numero di modelli, con conseguenti problemi di gestione e manutenzione derivanti anche dal fatto che alcuni velivoli furono prodotti in vari lotti con motorizzazioni differenti.

Nel giugno del 1937 erano in produzione diciotto tipi di aeroplani, saliti a ventidue nel 1938; nel 1939 si cercò di limitare l’ipertrofica differenziazione di modelli e motorizzazioni, ma la guerra complicò tali tentativi. Un cospicuo nucleo di documentazione, anche fotografica, riguardante le specifiche tecniche dei mezzi aerei entrati in servizio o testati dalla regia aeronautica, nonché i rapporti con le industrie, è conservato in vari fondi dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’aeronautica di Roma, in gran parte non ancora oggetto di studi sistematici.

Al di là dei dati statistici e dei risultati operativi descritti in alcune relazioni tecniche già note e riprese in vari saggi, le conseguenze di questa fallimentare politica industriale possono essere colte attraverso gli indizi che trapelano dagli epistolari privati di alcuni protagonisti delle vicende aeronautiche dell’epoca. È il caso delle lettere conservate presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma, spedite al capo di gabinetto del ministro dell’Aeronautica Aldo Urbani dal generale Stefano Cagna, noto trasvolatore atlantico e stretto collaboratore di Balbo: sono missive che esprimono con illuminante immediatezza lo stato tecnico dell’aviazione militare alla prova della guerra, scritte da un aviatore preparato che nella sua carriera aveva volato come pilota collaudatore e mantenuto rapporti con i più importanti progettisti aeronautici italiani. Nella missiva del 17 giugno 1940 si legge:

Come certamente saprai, all’azione [su Biserta] hanno partecipato piloti appartenenti a stormi differenti, per l’impossibilità di trovare, nello stesso stormo, tutti i piloti necessari ad armare i dieci apparecchi che erano stati richiesti dall’ordine di operazione. Se a questo aggiungi le difficoltà derivanti dalla bestiale disposizione degli strumenti di navigazione sui cruscotti, sui quali non è stato nemmeno previsto un impianto d’illuminazione, ti sarà facile farti un quadro della desolante situazione in cui si trovano oggi gli stormi da bombardamento, per quanto riguarda il loro impiego notturno. Al primo inconveniente rimedieranno i comandanti di stormo, migliorando l’addestramento dei loro piloti; al secondo non c’è che l’autorità del Capo di Stato Maggiore che vi possa rimediare ordinando cioè di montare sui cruscotti gli strumenti di navigazione secondo la disposizione che fino ad oggi si è dimostrata la più razionale e migliore di tutte. Ti prego, caro Urbani, di volerti interessare di questo importante problema, la cui soluzione dovrebbe essere possibilmente rapida. Tu ne capisci tutta l’importanza e sono certo che non perderai tempo.

Cagna propose inoltre di dotare i bombardieri della strumentazione di bordo montata sui Savoia-Marchetti SM.83 in servizio sulla linea atlantica e ormai in uso su tutti gli apparecchi dell’aviazione civile americana. Nel diario conservato presso l’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’aeronautica, il 18 maggio 1940 lo stesso Cagna aveva peraltro già sottolineato come sull’aeroplano americano Douglas DC.3, destinato a un longevo successo operativo e commerciale nel trasporto passeggeri, la disposizione degli strumenti di navigazione sul cruscotto è la più razionale che ci possa essere. La stessa disposizione ho tentato di farla applicare sugli apparecchi della R.A. ma inutilmente perché non ho trovato nessuno che desse al problema l’importanza che merita.

Il generale Cagna venne abbattuto mortalmente il 1° agosto 1940 e fino a quella data la situazione tecnica non pare fosse mutata, riflettendo la debolezza dell’intero sistema industriale e militare.

A livello organizzativo, solo nel 1943 il ministero definì i gruppi aeronautici di riferimento per gli appalti, lasciando intravedere il tentativo di una razionalizzazione del comparto. I referenti per le commesse di cellule furono Breda, Caproni, Fiat, Macchi,Piaggio, SAI, Savoia-Marchetti e IRI, il colosso industriale pubblico dal 1934 principale azionista dell’intero comparto industriale bellico. Per i motori furono identificate come imprese capofila l’Alfa Romeo, la Caproni, la Fiat e la Piaggio. Queste industrie avrebbero dovuto gestire gli appalti con le aziende controllate, ma nel 1943 le sorti del conflitto erano già segnate per l’Italia e applicare il piano di razionalizzazione fu assai complicato.

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Piaggio P 180 dell'Aeropnautica Militare

Il dopoguerra: una difficile ripresa di quota

La situazione dell’industria aeronautica alla fine del conflitto rispecchiava fedelmente l’immagine dell’Italia in macerie, sia materiali sia morali: gran parte delle fabbriche di aeroplani, ubicate nel Nord Italia, subì pesanti bombardamenti dalle forze alleate che causarono un drastico ridimensionamento della capacità produttiva. L’intero settore, che dalla fine degli anni Trenta al 1942 aveva occupato circa 115.000 persone in una cinquantina di aziende (74.000 impiegati nella produzione di cellule, 41.000 nel comparto motoristico), nel 1945 contava a malapena 5000 addetti. La crisi dell’industria assunse anche un valore simbolico: testimoniava, infatti, lo sgretolamento dell’epopea aeronautica di regime in grado di affascinare gli italiani per un ventennio, di una favola alata fascista fondata sull’immagine di propaganda e non su solide basi industriali e tecnologiche.

La fine del conflitto non significò per il comparto aeronautico nazionale la possibilità di iniziare un percorso – per quanto accidentato – di ripresa: trattandosi di una produzione strategica subì infatti le limitazioni imposte dai Paesi vincitori. Occorre rilevare che al momento della Liberazione le industrie aeronautiche cercarono di far fronte alla situazione attraverso una profonda riorganizzazione interna: in alcuni casi le fabbriche rette dai Comitati di gestione a partecipazione operaia insediati dal Comitato di liberazione nazionale (CLN) ottennero risultati positivi, come attestano le esperienze della Siai-Marchetti (ex Savoia-Marchetti, dopo l’abbandono del richiamo monarchico nella denominazione), della Macchi e della Fiat. In particolare, la fabbrica torinese, tramite il commissario Antonio Cavinato, nominò amministratore delegato l’ingegnere Giuseppe Gabrielli (1903-1987), in azienda dal 1931 dopo un passato da progettista alla Piaggio: una scelta destinata a rivelarsi vincente per il rilancio della Fiat.

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I primi due esemplari di Siai Marchetti S.211 in volo sopra Angera sul Lago Maggiore.

Le industrie aeronautiche sopravvissute al conflitto costituirono, nel settembre 1945, l’Unione fabbriche aeronautiche (UFA), poco dopo denominata Associazione industrie aeronautiche (AIA): tra le priorità fissate dai rappresentanti delle imprese aderenti, la riapertura degli impianti per consentire una temporanea riconversione produttiva e risollevare le sorti aziendali, potendo anche contare sulle adeguate misure di sostegno economico varate dal governo in favore del comparto meccanico.

Questa fase di trasformazione rappresenta uno tra gli snodi più interessanti della storia industriale nazionale, non solo del settore aeronautico: le scorte di legname immagazzinate per produrre le carlinghe degli aerei furono destinate alla costruzione di arredi e di componentistica per automobili, la Macchi realizzò lampade a petrolio – indispensabili nell’Italia postbellica ancora priva di funzionanti linee elettriche –, mentre la Caproni si dedicò alle riparazioni dei tram.

Alcuni prodotti come i motofurgoni Macchitre, usciti dalle linee di montaggio che in passato avevano sfornato pezzi del sogno alato andato in frantumi durante la Seconda guerra mondiale, diventarono protagonisti della ripresa italiana: fra tutte le realizzazioni della riconversione industriale lo scooter Vespa della Piaggio fu, a partire dal debutto nel 1946, quello maggiormente in grado di creare un inedito immaginario sociale e di depositarsi indelebilmente nella memoria collettiva nazionale, funzionando da mezzo per la ripartenza, metaforica e reale, di un intero popolo.

Rivoluzionario nella formula concettuale e nella concezione tecnica, il nuovo motociclo, dotato di una carrozzeria capace di riparare dalle intemperie le gambe del conducente e pensato per muoversi agilmente lungo le strade dissestate lasciate in eredità dalla guerra, manteneva un’inconfondibile impronta aeronautica nell’architettura della forcella anteriore monobraccio, tipica dei carrelli degli aeroplani. Il successo della Vespa rappresentò per il suo progettista Corradino D’Ascanio una sorta di riscatto dopo la realizzazione di un’innovativa macchina ad ala rotante portata per la prima volta in volo nel 1930 e sviluppata negli anni successivi durante il periodo trascorso alla Piaggio, ma abbandonata quando l’azienda ligure decise – nei primissimi anni Cinquanta – di interrompere definitivamente ogni attività relativa agli elicotteri.

Al momento della firma del trattato di pace, il 10 febbraio 1947, in Italia circolavano già più di 2500 Vespa: un’affermazione commerciale in piena espansione che almeno per la Piaggio rappresentò una valida alternativa alle limitazioni imposte alla produzione aeronautica. In base ad alcune clausole fissate dagli accordi internazionali, l’aviazione militare italiana avrebbe infatti potuto disporre al massimo di 350 velivoli, di cui 150 caccia, mentre era vietato l’impiego di aerei da bombardamento e di missili.

Nel 1949 l’adesione dell’Italia alla NATO (North Atlantic Treaty Organization) segnò una svolta, il superamento di un punitivo blocco della produzione che consentì di risollevare il comparto industriale aeronautico nazionale. Ciò avvenne nell’ambito di un’alleanza politica e militare che rese possibile la pianificazione di un vasto programma di ripotenziamento della linea di volo dell’aeronautica militare: se, da una parte, l’industria venne alimentata grazie a commesse su licenza, soprattutto americane e britanniche, dall’altra, le aziende nazionali, all’inizio degli anni Cinquanta, furono in grado di ritagliarsi un significativo spazio nella progettazione e nella costruzione di aeroplani da addestramento che conobbero in alcuni casi un notevole successo di esportazione. Particolarmente attiva in questa fase fu la Piaggio, capace di commercializzare negli Stati Uniti il bimotore anfibio a cinque posti P.136 (1948) e di esportare in Germania numerosi monomotori P.148 (1951) e P.149 (1953) destinati alle scuole di volo tedesche.

Dal 1953 in Italia iniziò la costruzione su licenza statunitense del caccia a reazione North American F.86 Sabre e nell’industria aeronautica gli addetti risalirono a circa 7000 unità: una rinascita sancita nel 1958 dal successo del Fiat G.91, ispirato alla formula costruttiva dell’F.86, dotato del propulsore a getto inglese Orpheus prodotto dalla Bristol Siddeley engines su licenza dalla Fiat. Quell’anno, il G.91 venne selezionato per ricoprire il ruolo di caccia leggero della NATO: il jet italiano portava la firma dell’ingegnere Gabrielli, che aveva già progettato i primi aviogetti Fiat G.80/82 realizzati solo in piccolissima serie per l’aeronautica militare italiana. Il G.91, nelle varie versioni, venne invece prodotto in circa 800 esemplari e destinato a una lunga carriera operativa nelle forze aeree italiane e nella Luftwaffe tedesca. Alla metà degli anni Cinquanta in Italia l’assetto industriale aeronautico si sviluppò quindi lungo tre proficui filoni legati ai programmi NATO, alla realizzazione di aerei da addestramento e allo sviluppo di un avanzato polo elicotteristico che consentirono nel decennio successivo l’acquisizione di una certa autonomia progettuale e significative affermazioni commerciali in ambito internazionale.

Opere

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I. Balbo, Stormi in volo sull’Oceano, Milano 1931.

I. Balbo, La centuria alata, Milano 1933, Montepulciano 20053.

Aviazione, idroaviazione: origine, storia, sviluppi, dagli albori alle traversate aeree dell’Atlantico. Note, documenti, disegni, progetti, studi, esperienze ideate ed effettuate dall’eroico generale Alessandro Guidoni, note e documenti ordinati da G. Mattioli, Roma 1935.

I. Balbo, Sette anni di politica aeronautica (1927-1933), Milano 1936.

G. Caproni, Gli aeroplani Caproni. Studi, progetti, realizzazioni dal 1908 al 1935, Milano 1937.

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L’industria aeronautica italiana a dieci anni dalla sua rinascita 1947-1957, Roma 1957.

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Le ali del ventennioL’aviazione italiana dal 1923 al 1945. Bilanci storiografici e prospettive di giudizio, a cura di M. Ferrari, Milano 2005 (in partic. R. Gentilli, L’aeronautica italiana nel primo dopoguerra, pp. 13-30).

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L’industria bellica nella storia d’Italia. Economia e tecnologia negli studi di Andrea Curami, a cura di P. Ferrari, «Italia contemporanea», 2010, 261, pp. 575-719 (con un’antologia di interventi di Andrea Curami).


IMPRESA OGGI - Eugenio Caruso - 02-07-2022
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