Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "". Mi spiace che nella traduzione Pindemonte abbia usato nomi latini e non greci pur avendo una grande padronanza del greco antico.
Ippolito Pindemonte
Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio
RIASSUNTO LIBRO XXIV
Il libro si apre con la scena (forse dovuta a un’interpolazione posteriore del testo) in cui Hermes guida le anime dei Proci uccisi all’Ade; là essi giungono mentre l’anima di Agamennone sta narrando a quella di Achille il suo splendido funerale. Agamennone si rivolge a uno dei pretendenti, che gli racconta il ritorno di Odisseo e la sua terribile vendetta: allora l’Atride ricorda commosso l’antico compagno di battaglia, elogia il comportamento di Penelope, che sarà ricordata nel canto dei posteri e, amaramente, rievoca il cattivo esempio di sua moglie Clitennestra.
Nel frattempo Odisseo, con Eumeo, Telemaco e Filezio, si reca da Laerte, che trova a lavorare nel suo campo, poveramente vestito. Prima di farsi riconoscere Odisseo inganna il padre con un lungo discorso, e solo quando è sicuro del suo affetto, gli si rivela, mostrandogli la cicatrice. Il vecchio lo abbraccia, ma subito si preoccupa delle reazioni dei parenti dei pretendenti. Dopo che la sua vecchia fedele serva lo ha lavato e rivestito, Atena lo rinvigorisce e, sopraggiunto il fedele servo Dolio con i suoi figli, pranzano sereni. Intanto però i parenti delle vittime si sono armati e si sono radunati davanti alla reggia minacciosi. Zeus concede ad Atena di frenare la loro ansia di vendetta, e solo il padre di Antinoo, Eupite, viene ucciso negli scontri, bloccati sul nascere dalla dea, apparsa sotto le spoglie di Mentore. Si concludono allora i patti di pace, propiziati e garantiti dalla presenza divina.
Nausicaa incontra Ulisse
TESTO LIBRO XXIV - EPILOGO
Mercurio intanto, di Cillene il Dio,
L’alme de’ Proci estinti a sè chiamava.
Tenea la bella in man verga dell’oro,
Onde i mortali dolcemente assonna,
Sempre che il vuole, e li dissonna ancora.5
Con questa conducea l’alme chiamate,
Che stridendo il seguiano. E come appunto
Vipistrelli nottivaghi nel cupo
Fondo talor d’una solenne grotta,
Se avvien che alcun dal sasso, ove congiunti10
L’uno appo l’altro s’atteneano, caschi,
Tutti stridendo allor volano in folla:
Così movean gli spirti, e per la fosca
Via precedeali il mansueto Ermete.
L’Oceàn trapassavano, e la bianca15
Pietra, e del Sole le lucenti porte,
Ed il popol de’ sogni: indi ai vestiti
D’asfodelo immortale Inferni prati
Giunser, dove soggiorno han degli estinti
Le aeree forme, e i simulacri ignudi.20
L’alma trovaro del Peliade Achille,
Di Patroclo, d’Antiloco e d’Ajace,
Che i Danai tutti, salvo il gran Pelíde,
Di corpo superava, e di sembiante.
Corona fean di Peleo al figlio; ed ecco25
Dolente presentarsegli lo spirto
Dell’Atride Agamennone, cui tutti
Seguian coloro, che d’Egisto un giorno
Nella casa infedel con lui periro.
Primo gli volse le parole Achille:30
Noi credevamti sovra tutti, Atride
Della Grecia gli eroi diletto al vago
Del fulmin Giove, poichè a molta, e forte
Gente imperavi sotto l’alte mura
Di Troja, lungo degli Achivi affanno.35
Pur te assalir dovea, primo tra quelli,
Che ritornaro, la severa Parca,
Da cui scampar non lice ad uom, che nacque.
Che non moristi almeno in quell’eccelso
Grado, di cui godevi, ad Ilio innanzi?40
Qual tomba i Greci, che al tuo figlio ancora
Somma gloria saria ne’ dì futuri,
Non t’avriano innalzata? Oh miseranda
Fine, che in vece ti prescrisse il fato!
Ulisse alla corte di Alcinoo
Felice te, gli rispondea l’Atride,45
Figlio di Peleo, Achille ai Numi eguale,
Te, che a Troja cadesti, e lunge d’Argo,
E a cui de’ Greci, e de’ Troiani i primi,
Che pugnavan per te, cadeano intorno!
Tu de’ cavalli immemore, e de’ cocchi,50
Cadaver grande sovra un grande spazio,
Giacevi in mezzo a un vortice di polve;
E noi combattevam da mane a sera,
Nè cessava col dì, credo, l’atroce
Pugna ostinata, se da Giove mosso55
Gli uni non dividea dagli altri un turbo.
Tosto che fuor della battaglia tratto,
E alle navi per noi condotto fosti,
Asterso prima il tuo formoso corpo
Con tepid’acque, e con fragranti essenze,60
Ti deponemmo in su funébre letto;
E molte sovra te lagrime calde
Spargeano i Danai, e recideansi il crine.
Ma la tua madre, il grave annunzio udito,
Del mare uscì con le Nereidi eterne,65
E un immenso clamor corse per l’onde,
Tal che tremarsi le ginocchia sotto
Gli Achei tutti sentiro. E già salite
Precipitosi avrian le ratte navi,
S’uom non li ritenea la lingua, e il petto70
Pien d’antico saver, Nestor, di cui
Ottimo sempre il consigliar tornava.
Arrestatevi, Argivi, non fuggite,
Disse il profondo del Nelíde senno,
O figli degli Achei: questa è la madre,75
Ch’esce dall’onda con l’equoree Dive,
E al figliuol morto viene. A tai parole
Ciascun ristè. Ti circondaro allora
Del vecchio Nereo le cerulee figlie,
Lúgubri lai mettendo, e a te divine80
Vesti vestiro. Il coro anche plorava
Delle nove sorelle, alternamente
Sciogliendo il canto or l’una, or l’altra; e tale
Il poter fu delle canore Muse,
Che un sol Greco le lagrime non tenne.85
Dieci dì e sette, ed altrettante notti,
Uomini, e Dei ti piangevam del pari:
Ma il giorno, che seguì, ti demmo al foco,
E agnelle di pinguedine fiorite
Sgozzammo, e buoi dalla lunata fronte.90
Tu nelle vesti degli Dei, nel dolce
Mele fosti arso, e nel soave unguento;
E, mentre ardevi, degli Acaichi eroi
Molti corser con l’arme intorno al rogo,
Chi sul cocchio, chi a piedi, ed un rimbombo95
Destossi, che salì fino alle stelle.
Ulisse e Polifemo
Come consunto la Vulcania fiamma,
Achille, t’ebbe, noi le candide ossa,
Del più puro tra i vini, e del più molle
Tra gli unguenti irrigandole, su l’Alba100
Raccoglievamo; e la tua madre intanto
Portò lucida d’oro urna, che dono
Dicea di Bacco, e di Vulcan fattura.
Entro quest’urna le tue candide ossa
Con quelle di Patróclo, illustre Achille,105
Giacciono; ed ivi pur, benchè disgiunte,
L’ossa posan d’Antiloco, cui tanto
Sovra tutti i compagni onor rendevi,
Spento di vita il Meneziade. Quindi
Massima ergemmo, e sontuosa tomba110
Noi, de’ pugnaci Achivi oste temuta,
Su l’Ellesponto, ove più sporge il lido:
Perchè chi vive, e chi non nacque ancora,
Solcando il mar, la dimostrasse a dito.
La madre tua, che interrogonne i Numi,115
Splendidi in mezzo il campo al fior dell’oste
Giuochi propose. Io molte esequie illustri,
Dove all’urna d’un Re la gioventude
Si cinge i fianchi, e a lotteggiar s’appresta,
Vidi al mio tempo: ma più assai, che gli altri120
Certami tutti, con le ciglia in arco
Quelle giostre io mirai, che per te diede
Sì belle allor la piediargentea Teti.
Così caro vivevi agl’Immortali!
Però il tuo nome non si spense teco:125
Anzi la gloria tua pel Mondo tutto
Rifiorirà, Pelíde, ognor più bella.
Ma io qual pro di così lunga guerra
Da me finita, se cotal ruina
Per man d’Egisto, e d’una moglie infame,130
Pronta mi tenea Giove al mio ritorno?
Cotesti avean ragionamenti, quando
Lor s’accostò l’interprete Argicida,
Che de’ Proci testè da Ulisse vinti
L’alme guidava. Agamennóne, e Achille135
Non prima li sguardâr, che ad incontrarli
Maravigliando mossero. L’Atride
Ratto conobbe Anfimedonte, il caro
Figlio di quel Melanio, onde ospizio ebbe
In Itaca, e così primo gli disse:140
Anfimedonte, per qual caso indegno
Scendeste voi sotterra, eletta gente,
E tutti d’una età? Scerre i migliori
Meglio non si potria nella cittade.
Nettuno forse vi annojò sul mare,145
Fieri venti eccitando, e immani flutti?
O v’offesero in terra uomini ostili,
Mentre buoi predavate, e pingui agnelle?
O per la patria, e per le care donne
Combattendo cadeste? A un tuo paterno150
Ospite, che tel chiede, il manifesta.
Non ti ricorda di quel tempo, ch’io
Col divin Menelao venni al tuo tetto,
Ulisse a persuader, che su le armate
Di saldi banchi, e ben velate navi155
Ci accompagnasse a Troja? Un mese intero
Durò il passaggio per l’immenso mare,
Poichè svolto da noi fu a stento il prode
Rovesciator delle cittadi Ulisse.
E di rincontro Anfimedonte: O figlio160
Glorïoso d’Atréo, Re delle genti,
Serbo in mente ciò tutto; e qual reo modo
Ci toccasse di morte, ora io ti narro.
D’Ulisse, ch’era di molt’anni assente,
La consorte ambivamo. Ella nel core165
Morte a noi macchinava, e, non volendo
Nè rifiutar, nè trarre a fin le nozze,
Un compenso inventò. Mettea la trama
In sottile, ampia, immensa tela ordita
Da lei nel suo palagio; e, noi chiamati,170
Giovinetti, dicea, miei Proci, Ulisse
Sensa dubbio morì. Tanto a voi dunque
Piaccia indugiar le nozze mie, ch’io questo
Lúgubre ammanto per l’eroe Laerte,
Onde a mal non mi vada il vano stame,175
Pria fornir possa, che la negra il colga
D’eterno sonno apportatrice Parca.
Volete voi, che mordanmi le Achée,
Se ad uom, che tanto avea d’arredi vivo,
Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto?180
Con sì fatte parole il core in petto
Ci tranquillò. Tessea di giorno intanto
L’insigne tela, e la stessea di notte,
Di mute faci al consapevol raggio.
Un triennio così nella sua frode185
Celavasi, e tenea gli Achivi a bada.
Ma sorgiunto il quart’anno, e le stagioni,
Uscendo i mesi, nuovamente apparse,
E compiuta de’ giorni ogni rivolta,
Noi, da un' ancella non ignara instrutti,190
Penelope trovammo al suo notturno
Retrogrado lavoro, e ripugnante
Pur di condurlo la sforzammo a riva.
Quando ci mostrò al fin l’inclito ammanto,
Che risplendea, come fu asterso tutto,195
Del Sole al pari, o di Selene, allora
Ulisse, non so donde, un Genio avverso
Menò al confin del campo, ove abitava
Il custode de’ verri, ed ove giunse
D’Ulisse il figlio, che ritorno fea200
Dall’arenosa Pilo in negra nave.
Morte a noi divisando, alla cittade
Vennero: innanzi il figlio, e il padre dopo.
Questi in lacero arnese, e somigliante
A un infelice paltoniere annoso,205
Che sul bastone incurvasi, condotto
Fu dal pastor de’ verri: i più meschini
Vestiti appena il ricoprian, nè alcuno,
Tra i più attempati ancor, seppe di noi,
Com’ei s’offerse, ravvisarlo. Quindi210
Motteggi, e colpi le accoglienze furo.
Colpi egli pazïente in sua magione
Per un tempo soffria, non che motteggi.
Ma, come spinto dall’Egïoco Giove
Sentissi, l’armi dalla sala tolse,215
E con l’aita del figliuol nell’alto
Le serrò del palagio. Indi con molto
Prevedimento alla Reina ingiunse,
Che l’arco proponesse, e il ferro ai Proci,
Funesto gioco, che finì col sangue.220
Nessun di noi del valid’arco il nervo
Tender potea: chè opra da noi non era.
Ma dell’eroe va in man l’arma. Il pastore
Noi tutti sgridavam, perché all’eroe
Non la recasse. Indarno fu. Telemaco225
Comandògli recarla; e Ulisse l’ebbe.
Ei, preso in man l’arco famoso, il tese
Così, e il tirò, che ambo le corna estreme
Si vennero ad unir: poi la saetta
Per fra tutti gli anei sospinse a volo.230
Ciò fatto, stette in su la soglia, e i ratti
Strali versossi ai piedi, orrendamente
Guardando intorno. Antinoo colse il primo,
E dopo lui, sempre di contra or l’uno
Tolto, e or l’altro di mira, i sospirosi235
Dardi scoccava, e cadea l’un su l’altro.
Certo un Nume l’aitava. I suoi compagni,
Seguendo qua e là l’impeto suo,
A gara trucidavanci: lugubri
Sorgean lamenti, rimbombar s’udia240
Delle teste percosse ogni parete,
E correa sangue il pavimento tutto.
Così, Atride, perimmo, e i nostri corpi
Giaccion negletti nel cortil d’Ulisse:
Poichè nulla ne san gli amici ancora,245
Che dalla tabe a tergerci, e dal sangue
Non tarderiano, e a piangerci deposti,
De’ morti onor, sovra un funébre letto.
L'eccidio dei Proci
O fortunato, gridò allor l’Atride,
Di Laerte figliuol, con qual valore250
La donna tua riconquistasti! E quanto
Saggia, o memore ognor dell’uomo, a cui
Nel pudico suo fiore unita s’era,
Visse d’Icario la figliuola illustre!
La rimembranza della sua virtude255
Durerà sempre, e amabile ne’ canti
Ne sonerà per l’Universo il nome.
Non così la Tindaride, che, osando
Scellerata opra, con la man, che data
Vergine aveagli, il suo marito uccise.260
Costei fia tra le genti un odïoso
Canto perenne: chè di macchia tale
Le donne tutte col suo fallo impresse,
Che le più oneste ancor tinte n’andranno.
Tal nell’oscure, dove alberga Pluto,265
Della terra caverne, ivan quell’alme
Di lor vicende ragionando insieme.
Ulisse, e il figlio intanto, e i due pastori,
Giunser, dalla città calando, in breve
Del buon Laerte al poder culto, e bello,270
De’ suoi molti pensier frutto, e de’ molti
Studj, e travagli suoi. Commoda casa
Gli sorgea quivi di capanne cinta,
Ove cibo, e riposo ai corpi, e sonno
Davan famigli, che, richiesti all’uopo275
Delle sue terre, per amor più ancora,
Che per dover, servianlo; ed una buona
Pur v’abitava Siciliana fante,
Che in quella muta solitudin verde
De’ canuti anni suoi cura prendea.280
Ulisse ai due pastori, e al caro pegno,
Entrate, disse, nella ben construtta
Casa, e per cena un de’ più grassi porci
Subito apparecchiate. Io voglio il padre
Tentar, s’ei dopo una sì lunga assenza285
Mi ravvisa con gli occhi, o estinta in mente
Gli abbia di me la conoscenza il tempo.
Detto, consegnò lor l’armi; e Telemaco,
E i due pastor rapidi entraro. Ulisse
Del grande orto pomifero alla volta290
Mosse, nè Dolio, discendendo in quello,
Trovò, nè alcun de’ figli, o degli schiavi,
Che tutti a raccor pruni, onde il bell’orto
D’ispido circondar muro campestre,
S’eran rivolti; e precedeali Dolio.295
Sol trovò il genitor, che ad una pianta
Curvo zappava intorno. Il ricopria
Tunica sozza, ricucita, e turpe:
Dalle punture degli acuti rovi
Le gambe difendevangli schinieri300
Di rattoppato cuojo, e le man guanti:
Ma berretton di capra in su la testa
Portava il vecchio; e così ei la doglia
Nutriva, ed accrescea nel caro petto.
Tosto che Ulisse l’avvisò dagli anni305
Suoi molti, siccom’era, e da’ suoi molti
Mali più ancor, che dall’età, consunto,
Lagrime, stando sotto un alto pero,
Dalle ciglia spandea. Poi nella mente
Volse, e nel cor, qual de’ due fosse il meglio,310
Se con amplessi a lui farsi, e con baci,
E narrar del ritorno il quando, e il come,
O interrogarlo prima, e punzecchiarlo
Con detti forti, risvegliando il duolo,
Per raddoppiar la gioja; e a ciò s’attenne.315
Si drizzò dunque a lui, che basso il capo
Tenea, zappando ad una pianta intorno,
E, Vecchio, disse, della cura ignaro,
Cui domanda il verzier, certo non sei.
Arbor non v’ha, non fico, vite, oliva,320
Che l’abil mano del cultor non mostri,
Nè sfuggì all’occhio tuo di terra un palmo.
Altro, e non adirartene, io dirotti:
Nulla è negletto qui, fuorchè tu stesso.
Coverto di squallor veggioti, e avvolto325
In panni rei, non che dagli anni infranto.
Se mal ti tratta il tuo signor, per colpa
Della pigrizia tua non è ciò, penso:
Anzi tu nulla di servil nel corpo
Tieni, o nel volto, chi ti guarda fisso.330
Somigli ad un Re nato; ad uom somigli,
Che dopo il bagno, e la gioconda mensa
Mollemente dormir debba su i letti,
Com’è l’usanza de’ vegliardi. Or dimmi
Preciso, e netto chi tu servi, e a cui335
L’orto governi, e fa ch’io sappia in oltre,
Se questa è veramente Itaca, dove
Son giunto, qual testè colui narrommi,
Che in me scontrossi, uom di non molto senno,
Quando nè il tutto raccontar, nè volle340
Me udir, che il richiedea, se in qualche parte
D’Itaca un certo vive ospite mio,
O morto il chiude la magion di Dite.
A te parlerò in vece, e tu l’orecchio
Non ricusar di darmi. Ospite un tale345
Nella mia patria io ricevei, di cui
Non venne di lontano al tetto mio
Forestier mai, che più nel cor m’entrasse.
Nato ei diceasi in Itaca, e Laerte,
D’Arcesio il figlio, a genitor vantava.350
Il trattai, l’onorai, l’accarezzai
Nel mio di beni ridondante albergo,
E degni in sul partir doni io gli porsi:
Sette di lavorato oro talenti,
Urna d’argento tutta, e a fiori sculta,355
Dodici vesti, tutte scempie, e tanto
Di tappeti, di tuniche, e di manti;
E quattro belle, oneste, e di lavori
Femmine sperte, ch’egli stesso elesse.
Stranier, rispose lagrimando il padre,360
Sei nella terra, di cui chiedi, ed ove
Una pessima gente, ed oltraggiosa
Regna oggidì. Que’ molti doni, a cui
Ei con misura eguale avria risposto,
Come degno era bene, or, che qui vivo365
Nol trovi più, tu gli spargesti al vento.
Ma schiettamente mi favella: quanti
Passaro anni dal dì, che ricevesti
Questo nelle tue case ospite gramo,
Che, s’ei vivesse ancor, saria il mio figlio?370
Misero! in qualche parte, e dalla patria
Lungi, o fu in mar pasto de’ pesci, o in terra
De’ volatori preda, e delle fere:
Nè ricoperto la sua madre il pianse,
Nè il pianse il genitor; nè la dotata375
Di virtù, come d’òr, Penelopéa
Con lagrime onorò l’estinto sposo
Sopra funebre letto, e gli occhi prima
Non gli compose con mal ferma destra.
Ciò palesami ancor: chi sei tu? e donde?380
Dove a te la città? la madre? il padre?
A qual piaggia s’attiene il ratto legno,
Che te condusse, e i tuoi compagni illustri?
O passeggier venisti in nave altrui,
E, te sbarcato, i giovani partiro?385
Tutto, riprese lo scaltrito eroe,
Narrerò acconciamente. Io figlio sono
Del Re Polipemonide Afidante,
In Alibante nacqui, ove ho un eccelso
Tetto, e mi chiamo Eperito. Me svolse390
Dalla Sicilia un Genio avverso, e a queste
Piagge sospinse; ed or vicino ai campi,
Lungi della città, stassi il mio legno.
Volge il quint’anno omai, che Ulisse sciolse
Dalla mia patria. Sventurato! a destra395
Gli volavano allor gli augelli, ed io
Lui, che lieto partì, congedai lieto:
Quando ambi speravam, che rinnovato
L’ospizio avremmo, e ricambiati i doni.
Disse, e fosca di duol nube coverse400
La fronte al padre, che la fulva polve
Prese ad ambo le mani, e il venerando
Capo canuto se ne sparse, mentre
Nel petto spesseggiavangli i sospiri.
Ulisse tutto commoveasi dentro,405
E un acre si sentia pungente spirto
Correre alle narici, il caro padre
Mirando attento: al fin su lui gittossi,
E stretto il si recava in fra le braccia,
E il baciava più volte, e gli dicea:410
Quell’io, padre, quell’io, che tu sospiri,
Ecco nel ventesmo anno in patria venni.
Cessa dai pianti, dai lamenti cessa,
E sappi in breve, perchè il tempo stringe,
Ch’io tutti i Proci uccisi, e vendicai415
Tanti, e sì gravi torti in un dì solo.
Ulisse tu? così Laerte tosto,
Tu il figlio mio? Dammene un segno, e tale,
Che in forse io non rimanga un solo istante.
E Ulisse: Pria la cicatrice mira420
Della ferita, che cinghial sannuto
M’aperse un dì sovra il Parnaso, quando
Ad Autolico io fui per quei, che in Itaca
M’avea doni promessi, accompagnando
Col moto della testa i detti suoi.425
Gli arbori in oltre io ti dirò, di cui
Nell’ameno verzier dono mi festi.
Fanciullo io ti seguia con ineguali
Passi per l’orto, e or questo arbore, or quello
Chiedeati; e tu, come andavam tra loro,430
Mi dicevi di lor l’indole, e il nome.
Tredici peri a me donasti, e dieci
Meli, e fichi quaranta, e promettesti
Ben cinquanta filari anco di viti,
Che di bella vendemmia eran già carche:435
Poichè vi fan d’ogni sorta uve, e l’Ore,
Del gran Giove ministre, i lor tesori
Versano in copia su i fecondi tralci.
Quali dar gli potea segni più chiari?
Laerte, a cui si distemprava il core,440
E vacillavan le ginocchia, avvolse
Subito ambe le mani al collo intorno
Del figlio; e il figlio lui, ch’era di spirti
Spento affatto, a sè prese, ed il sostenne.
Ma come il fiato in seno, e nella mente445
I dispersi pensieri ebbe raccolti,
O Giove padre, sclamò egli, e voi,
Numi, voi certo su l’Olimpo ancora
Siete, e regnate ancor, se la dovuta
Pena portâr de’ lor misfatti i Proci.450
Ma un timore or m’assal, non gl’Itacesi
Vengan tra poco a queste parti in folla,
E messi qua e là mandino a un tempo
De’ Cefaleni alle città vicine.
Sta di buon core, gli rispose Ulisse,455
Nè ti prenda di ciò cura, o pensiero.
Alla magion, che non lontana siede,
Moviamo: io là Telemaco inviai
Con Filezio, ed Euméo, perchè allestita
Prestamente da lor fosse la cena.460
In via, ciò detto, entraro, e, come giunti
Furo al rural non disagiato albergo,
Telemaco trovâr co’ due pastori,
Che incidea molte carni, ed un possente
Vino mescea. La Siciliana fante465
Lavò Laerte, e di biond’olio l’unse,
E d’un bel manto il rivestì: ma Palla,
Scesa per lui di ciel, le membra crebbe
De’ popoli al pastore, e di persona
Più alto il rese, e più ritondo in faccia.470
Maravigliava Ulisse, allor che il vide
Simile in tutto agl’Immortali, e, Padre,
Disse, opra fu, cred’io, d’un qualche Nume
Cotesta tua statura, e la novella
Beltà, che in te dopo i lavacri io scorgo.475
Oh, riprese Laerte, al padre Giove
Stato fosse, e a Minerva, e a Febo in grado,
Che quale allora io fui, che su la terra
Continental, de’ Cefaleni Duce,
La ben construtta Nerico espugnai,480
Tal potuto avess’io con l’arme in dosso
Starmi al tuo fianco nella nostra casa,
E i Proci ributtar, quando per loro
Splendea l’ultimo Sol! Di loro a molti
Sciolte avrei le ginocchia, e a te sarebbe485
Infinito piacer corso per l’alma.
Così Laerte, e il figlio. E già, cessata
Dell’apparecchio la fatica, a mensa
Tutti sedeansi. Non aveano ai cibi
Stese l’avide man, che Dolio apparve,490
E seco i figli dal lavoro stanchi:
Poichè uscita a chiamarli era la buona
Sicula madre, che nodriali sempre,
E il vecchio Dolio dall’etade oppresso
Con amor grande governava. Ulisse495
Veduto, e ravvisatolo, restaro
Tutti in un piè di maraviglia colmi:
Ma ei con blande voci, O vecchio, disse,
Siedi alla mensa, e lo stupor deponi.
Buon tempo è già, che, desiando ai cibi500
Stender le nostre mani, e non volendo
Cominciar senza voi, cen rimanemmo.
Dolio a tai detti con aperte braccia
Mosse dirittamente incontro a Ulisse,
E la man, che afferrò, baciògli al polso.505
Poi così gli dicea: Signor mio dolce,
S’è ver, che a noi, che di vederti brama
Più assai, che speme, chiudevam nel petto,
Te rimenaro al fin gli stessi Numi,
Vivi, gioisci, d’ogni dolce cosa510
Ti consolino i Dei. Ma dimmi il vero:
Sa la Regina per indizio certo,
Che ritornasti, o vuoi, che a rallegrarla
Di sì prospero evento un nunzio corra?
Dolio, ripigliò Ulisse, la Regina515
Già il tutto sa. Perchè t’affanni tanto?
Il vecchio allor sovra un polito scanno
Prontamente sedè. Nè men di lui
Festa feano ad Ulisse i suoi figliuoli,
E or l’un le mani gli afferrava, or l’altro.520
Indi sedean di sotto al caro padre
Conforme all’età loro. Ed in tal guisa
Della mensa era quivi ogni pensiero.
La fama intanto il reo destin de’ Proci
Per tutta la città portava intorno.525
Tutti, sentite le funeste morti,
Chi di qua, chi di là, con urli, e pianti
Venian d’Ulisse al tetto, e i corpi vani
Fuor ne traeano, e li ponean sotterra.
Ma quei, cui diede altra isola il natale,530
Mettean su ratte pescherecce barche,
E ai lor tetti mandavanli. Ciò fatto,
Nel Foro s’adunâr dolenti, e in folla.
Come adunati fur, surse tra gli altri
Eupite, a cui per Antinóo sua prole,535
Che primo cadde della man d’Ulisse,
Stava nell’alma un indelebil duolo.
Questi arringò, piangendo amaramente:
Amici, qual costui strana fortuna
Agli Achei fabbricò! Molti, ed egregi,540
Ne addusse prima su le navi a Troja,
E le navi perdette, ed i compagni
Seppellì in mar: poi nella propria casa,
Tornato, altri ne spense, e d’Aide ai regni
Mandò di Cefalenia i primi lumi.545
Su via, pria ch’egli a Pilo, e alla regnata
Dagli Epei divina Elide ricovri,
Vadasi; o infamia patiremo eterna.
Sì, l’onta nostra ne’ futuri tempi
Rimbombar s’udrà ognor, se gli uccisori550
De’ figli non puniamo, e de’ fratelli.
Io certo più viver non curo, e, dove
Subito non si vada, e la lor fuga
Non si prevenga, altro io non bramo, o voglio,
Salvo che riunirmi Ombra a quell’Ombre.555
Così ei, non restandosi dal pianto,
E la pietade in ogni petto entrava.
Giunsero allor dalla magion d’Ulisse
Medonte araldo, ed il cantor divino,
Dal sonno sviluppatisi, e nel mezzo560
Si collocaro. Alto stupore invase
Tutti, e il saggio Medonte i labbri aperse:
O Itacesi, uditemi. Credete
Voi, che Ulisse abbia tolto impresa tale
Contra il voler de’ Sempiterni? Un Dio565
Vidi io stesso al suo fianco, un Dio, che affatto
Mentore somigliava. Or gli apparia
Davanti, in atto d’animarlo, ed ora
Per l’atterrita sala impeto fea,
Sgominando gli Achei, che l’un su l’altro570
Traboccavano. Disse; e di tai detti
Inverdì a tutti per timor la guancia.
Favellò ancor nel Foro un vecchio eroe,
Aliterse Mastoride, che solo
Vedea gli andati, ed i venturi tempi,575
E che, sentendo rettamente, disse:
Or me udite, Itacesi. Egli è per colpa
Vostra, che ciò seguì: però che sordi
Agli avvisi di Mentore, ed a’ miei,
Lasciar le briglie sovra il collo ai vostri580
Figli vi piacque, che al mal far dirotti
La davano pel mezzo in ogni tempo,
Le sostanze rodendo, e ingiurïando
La casta moglie d’un signor preclaro,
Di cui sogno parea loro il ritorno.585
Obbeditemi al fin, mossa non fate:
Onde pur troppo alcun quella sventura,
Che sarà ito a ricercar, non trovi.
Tacque; e s’alzaro i più con grida, e plausi.
Gli altri uniti rimasero: chè loro590
Non gustò il detto, ma seguiano Eupíte.
Poscia, chi qua, chi là, correano all’armi.
Cinti, e splendenti del guerrier metallo
Si raccolser davanti alla cittade
Quasi in un globo; ed era incauto Duce595
Della stoltezza loro Eupite stesso.
Credea la morte vendicar del figlio,
E lui, che redituro indi non era,
Coglier dovea la immansueta Parca.
Pallade, il tutto visto, al Saturníde600
Si converse in tal guisa: O nostro padre,
Di Saturno figliuol, Re de’ Regnanti,
Mostrami ciò, che nel tuo cor s’asconde.
Prolungar vuoi la guerra, e i fieri sdegni?
O accordo tra le parti, e amistà porre?605
Perchè di questo mi richiedi, o figlia?
Il nembifero Giove a lei rispose.
Non fu consiglio tuo, che ritornato
Punisse i Proci di Laerte il figlio?
Fa, come più t’aggrada: io quel, che il meglio610
Parmi, dirò. Poichè l’illustre Ulisse
De’ Proci iniqui vendicossi, ei fermi
Patto eterno con gli altri, e sempre regni.
Noi la memoria delle morti acerbe
In ogni petto cancelliam: risorga615
Il mutuo amor nella città turbata,
E v’abbondin, qual pria, ricchezza, e pace.
Con questi detti stimolò la Diva,
Ch’era per sè già pronta, e che dall’alte
D’Olimpo cime rapida discese.620
Ulisse e Tiresia
Ulisse intanto, che con gli altri avea
Sotto il campestre di Laerte tetto
Rinfrancati del cibo omai gli spirti,
Esca, disse, alcun fuori, e attento guardi,
Se alla volta di noi vengon gli Achei.625
Subitamente uscì di Dolio un figlio,
E su la soglia stette, e non lontani
Scorse i nemici. All’armi! All’armi! ei tosto
Gridò, vicini sono. Ulisse allora,
Ed il figlio sorgeano, e i due pastori,630
E l’armi rivestiano: i sei figliuoli
Rivestianle di Dolio, e poi gli stessi
Dolio, e Laerte. In così picciola oste
Anco i bianchi capei premer dee l’elmo.
Ratto che armati fur, le porte aperte,635
Tutti sboccaro: precedeali Ulisse.
Nè di muover con lor lasciò la figlia
Di Giove, Palla, a Mentore nel corpo
Tutta sembiante, e nella voce. Ulisse
Mirolla, e n’esultava, e volto al figlio,640
Telemaco, dicea, nella battaglia,
Ove l’imbelle si conosce, e il prode,
Deh non disonestar la stirpe nostra,
Che per forza, e valor fu sempre chiara.
E Telemaco a lui: Padre diletto,645
Vedrai, spero, se vuoi, ch’io non traligno.
Laerte, Penelope e Telemaco, da una miniatura francese quattrocentesca
Gioì Laerte, ed esclamò: Qual Sole
Oggi risplende in cielo, amati Numi!
Gareggian di virtù figlio, e nipote.
Giorno più bello non mi sorse mai.650
Qui l’appressò con tali accenti in bocca
La Diva, che ne’ begli occhi azzurreggia:
O d’Arcesio figliuol, che a me più caro
Sei d’ogni altro compagno, a Giove alzati
Prima, e alla figlia dal ceruleo sguardo,655
Devotamente i prieghi tuoi, palleggia
Cotesta di lunga ombra asta, e l’avventa.
Così dicendo, una gran forza infuse
In Laerte Minerva. Il vecchio, a Giove
Prima, e alla figlia dal ceruleo sguardo,660
Alzati i prieghi, palleggiò la lunga
Sua lancia ed avventolla, e in fronte a Eupíte,
Il forte trapassando elmo di rame,
La piantò, e immerse: con gran suono Eupíte
Cadde, e gli rimbombâr l’armi di sopra.665
Si scagliaro in quel punto Ulisse, e il figlio
Contra i primieri, e con le spade scempio
Ne feano, e con le lance a doppio filo.
E già nessuno alla sua dolce casa
Tornato fora degli Achei, se Palla,670
Dell’Egïoco la figlia, un grido messo,
Non mutava i lor cuori: Cittadini
D’Itaca, fine all’aspra guerra. Il campo
Lasciate tosto, e non più sangue. Disse;
Ed un verde pallor tinse ogni fronte.675
L’armi scappavan dalle man tremanti,
D’aste coverto il suolo era, e di brandi,
Levata che Minerva ebbe la voce;
E tutti avari della cara vita
Alla città si rivolgeano. Ulisse680
Con un urlo, che andò sino alle stelle,
Inseguia ratto i fuggitivi, a guisa
D’aquila tra le nubi altovolante.
Se non che Giove il fulmine contorse;
E alla Sguardoazzurrina innanzi ai piedi685
Cascò l’eterea fiamma. O generoso,
Così la Diva, di Laerte figlio,
Contienti, e frena il desiderio ardente
Della guerra, che a tutti è sempre grave,
Non contro a te di troppa ira s’accenda690
L’ampioveggente di Saturno prole.
Obbedì Ulisse, e s’allegrò nell’alma.
Ma eterno poi tra le due parti accordo
La figlia strinse dell’Egïoco Giove,
Che a Mentore nel corpo, e nella voce695
Rassomigliava, la gran Dea d’Atene.
AUDIO
A proposito del rapporto tra Odisseo e la fedelissima Penelope ricordo che:
- la guerra di Troia durò 10 anni,
- il viaggio di Odisseo da Troia a Itaca durò 10 anni, otto dei quali trascorsi con la ninfa Calipso e uno con la maga Circe, le più belle donne del Mediterraneo,
- presso i feaci Odisseo fece innamorare Nausicaa,
- appena tornato a casa doveva subito ripartire, secondo la profezia di Tiresia "prendi allora il maneggevole remo e va’, finché arrivi da uomini che non sanno
del mare, che non mangiano cibi conditi col sale, che non conoscono le navi, né i maneggevoli remi che sono le loro ali".
Forse Penelope era fedele ma non tanto "interessante"?.
Eugenio Caruso - 12 - 07 - 2022