«Umana cosa è aver compassione degli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto, li quali già hanno di conforto avuto mestiere, et hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli.»
(Giovanni Boccaccio, Decameron, Proemio)
GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità.
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Giovanmni Verga
Giovanni Verga, senatore del regno.
Giovanni Carmelo Verga di Fontanabianca (Catania, 2 settembre 1840 – Catania, 27 gennaio 1922) è stato uno scrittore, drammaturgo e senatore italiano, considerato il maggior esponente della corrente letteraria del Verismo. Di nobili natali, visse in un ambiente di tradizioni liberali. Si dedicò inizialmente alla scrittura di romanzi avventurosi su influsso delle opere di Dumas padre e in seguito ad altri di argomento passionale tra cui Storia di una capinera che riscosse un discreto successo. Si trasferì a Firenze nel 1869 e 3 anni dopo a Milano dove frequentò circoli letterari conoscendo Arrigo Boito e Giuseppe Giacosa. Con la novella Nedda si attuò la sua conversione al Verismo che lo condusse a scrivere nel 1881 la sua opera più completa I Malavoglia che con Mastro-don Gesualdo del 1889 costituiscono due fra i più notevoli romanzi della letteratura italiana.
La nuova concezione verista di Verga pose il cardine dell'opera letteraria sulla "sparizione" dell'autore, facendo in modo che nella narrazione i fatti si sviluppassero da soli, come per una necessità spontanea. Il linguaggio di Verga è rude e spoglio come un riflesso del mondo che rappresenta, fatto sia di povera gente come ne I Malavoglia, sia di ricchi come in Mastro-don Gesualdo, tutti comunque dei "vinti" nella lotta quotidiana della vita.
Lo scrittore si occupò anche di teatro, sceneggiando alcune sue novelle di cui la più famosa è Cavalleria rusticana musicata in seguito da Pietro Mascagni. Verga divenne Senatore del Regno d'Italia nel 1920 su nomina del re Vittorio Emanuele III. Al liceo, dei miei tempi, la lettura de I malavoglia e Storia di una capinera era d'obbligo asieme alla Commedia, all'Eneide, alle Georgiche, all'Orlando furioso, alla Gerusalemme liberata e ai Promessi sposi.
La famiglia Verga, di lontane ascendenze aragonesi, era giunta in Sicilia col nome di Vergas o Vargas, all’epoca dei Vespri. Tradizionalmente, il capostipite dei Verga di Vizzini è considerato Laian Gonzalo de Vergas – rispetto a studi più recenti, dove emergono nuovi membri della famiglia –, venuto in Sicilia dalla Spagna al seguito del re Pietro III d'Aragona nel 1282, il cui figlio Antonio nel 1318 sposò Margherita La Gurna, stabilendosi a Vizzini.
Il padre dello scrittore, Giovanni Battista Verga Catalano era nativo di Vizzini, dove la famiglia Verga aveva delle proprietà; la madre si chiamava Caterina Di Mauro Barbagallo e apparteneva a una famiglia borghese di Belpasso. Verga era il maggiore di cinque fratelli, Mario, Rosa, Pietro e Teresa.
Il nonno di Giovanni, Giovanni Verga Distefano, come testimonia il De Roberto in un articolo raccolto, insieme a molti altri, in un volume a cura di Carmelo Musumarra, era stato carbonaro e, nel 1812, eletto deputato per Vizzini al primo Parlamento siciliano. Quest'ultimo aveva ereditato dalla famiglia della madre, nel 1771, il feudo di Fontanabianca al quale pertineva il titolo di barone, riconfermato da Ferdinando III nel 1781 a D. Gaetano Verga, che dava quindi il diritto a Giovanni Verga di fregiarsi del predicato di Fontanabianca nonché del titolo di Nobile dei baroni di Fontanabianca, anche se non ne fece mai uso. La famiglia Verga era comunque già iscritta nella mastra nobile di Vizzini sino al 1813, quando in Sicilia furono aboliti il feudalesimo e le mastre nobili, i Verga potevano qualificarsi "nobili di Vizzini". Poiché successivamente il Regno d'Italia non riconobbe Vizzini tra le città aventi patriziato o nobiltà civica, i Verga non potevano vedersi riconosciuto il titolo di "nobili di Vizzini" dalla Consulta Araldica del Regno d'Italia.
Giovanni Carmelo Verga venne registrato presso l'ufficio nascite dello Stato Civile del comune di Catania, atto numero 284 (l'anagrafe sarebbe stata creata solamente nel 1871 in occasione del censimento dello stesso anno), allora parte del Regno delle Due Sicilie, il 2 settembre 1840; la data e il luogo di nascita non sono però universalmente accettati.
Vi è, tuttavia, una seconda tesi secondo cui Verga sarebbe nato in un podere di campagna di proprietà dello zio don Salvatore in contrada Tièpidi (una zona di campagna a pochi chilometri dal centro abitato di Vizzini). Questa tesi sarebbe supportata da diverse ipotesi: la prima riguarda l'epidemia di colera che nell'estate del 1840 si era abbattuta su Catania e che avrebbe potuto spingere la famiglia Verga ad abbandonare l'afosa Catania d'estate, per la frescura collinare di Vizzini e a scegliere il piccolo centro del Calatino per proteggere sia la madre sia il nascituro da ogni potenziale rischio. In realtà l’ondata di colera si era esaurita nel 1837.
La seconda ipotesi è che, nato prematuro, a sette mesi, il piccolo sarebbe poi stato riportato nel capoluogo dove il padre, Giovanni Battista Catalano Verga (originario di Vizzini ma residente nel capoluogo), registrò il figlio come nato a Catania, nell'abitazione di via Sant'Anna, è probabile, inoltre, che Giovanni Battista Verga avesse scelto Catania come città ufficiale di appartenenza anche per compiacere la moglie Caterina Di Mauro (o Mauro), catanese, e anche per comodità, visto che la futura eventuale richiesta di certificazioni non avrebbe così necessitato un viaggio nella distante Vizzini. Anche questa teoria è priva di prove scritte, senza contare che la madre e il bimbo, forse prematuro, sarebbero stati portati d'urgenza nel capoluogo, dove il Verga padre avrebbe commesso un reato, con la complicità dell'ufficiale di Stato Civile e due testimoni, quando per avere un certificato dal comune di Catania sarebbe stata sufficiente una legalissima e semplice trascrizione.
La terza ipotesi un'annotazione apposta sull'occhiello di una copia della prima edizione delle Novelle Rusticane, che Verga regalò all'amico scrittore Luigi Capuana, dove si legge: «A Luigi Capuana "villano" di Mineo - Giovanni Verga "villano" di Vizzini» (l'uso del termine villano dimostrerebbe, quindi, come Verga fosse a conoscenza di essere nato in un piccolo paese di provincia come Capuana, a Vizzini o comunque in una contrada di campagna). O potrebbe solo essere stata - nell'ambito dell'amicizia verso il suo amico Capuana - una testimonianza di affetto verso un paese dove l'autore catanese aveva trascorso lunghi periodi della propria infanzia e fanciullezza: "villano di Vizzini", infatti, non vuol dire in alcun modo "nato a Vizzini". Negli archivi del Senato della Repubblica italiana, nel fascicolo personale del Senatore del Regno Giovanni Verga si trova l'estratto del suo atto di nascita che pone fine a ogni dubbio.
Sull'esatta data di nascita l'incertezza è altrettanto ampia, ma si pensa che sia il 2 settembre 1840. L'atto di nascita riporta la data del 2 settembre 1840. Il 1º marzo 1915 Verga scrive tuttavia in una sua missiva a Benedetto Croce quanto segue:
«Illustre amico, sono stato al Municipio per avere la data precisa che desidera conoscere: 31 agosto 1840, Catania. Io invece credevo fosse il 2, oppure l'8 settembre dello stesso anno. Eccomi dunque più vecchio di una settimana, ma sempre con grande stima e affetto per Lei.»
L'8 settembre è in realtà la data di battesimo, celebrato a Catania, presso la Chiesa dedicata a San Filippo, come risulta dall'allegato "ter", notamento restituito dal Parroco della stessa Chiesa a pochi passi dalla casa natale di via San'Anna, mentre quella di nascita è secondo alcuni antecedente e potrebbe risalire alla fine di agosto, se non addirittura il 29, giorno in cui a Vizzini si festeggia San Giovanni. Il trasferimento da Vizzini a Catania potrebbe spiegare, dunque, il ritardo nella registrazione e la posticipazione della data. Queste sono, comunque, solo delle ipotesi, non supportate da alcuna prova. L’unico punto certo è che la nascita è stata registrata a Catania da Giovanbattista Verga che dichiara che Giovanni Carmelo è nato alle ore 5 dello stesso giorno, nella casa posta in Catania, via Sant’Anna numero 8, presentando il bambino, alla presenza di due testimoni, al senatore del regno ed uffiziale di Stato Civile, don Francesco Bicocca. Sappiamo anche che gli venne dato il nome di Giovanni Carmelo in memoria del fratellino Giovanni morto in culla qualche anno prima e non per una supposta e fantasiosa nascita il 29 agosto, festa di San Giovanni a Vizzini. L'amato nipote ed erede universale, Giovannino Verga, figlio di Pietro Verga, fratello dello scrittore, ebbe a dire al compianto studioso catanese di storia patria Lucio Sciacca che lo zio era nato a Catania. La stessa dichiarazione fu fatta allo studioso verghiano, lo scomparso Giovanni Garra Agosta, che, da vizzinese di origine, avrebbe voluto una testimonianza diversa.
Verga, compiuti gli studi primari presso la scuola di Francesco Carrara, venne inviato, per gli studi secondari, alla scuola di don Antonino Abate, scrittore, fervente patriota e repubblicano, dal quale assorbì il gusto letterario romantico e il patriottismo. Abate faceva leggere ai suoi allievi le opere di Dante, Petrarca, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Vincenzo Monti, Manzoni e pagine dell'Estetica di Hegel; inoltre proponeva anche il romanzo storico-patriottico I tre dell'assedio di Torino (scritto nel 1847) del poeta catanese Domenico Castorina, che era lontano parente di Verga e che a quei tempi era considerato dai contemporanei "il miglior poeta e scrittore catanese della prima metà dell'Ottocento".
Nel 1854, a causa di un'epidemia di colera, la famiglia si rifugiò nella campagna di Tèbidi e vi ritornerà nel 1855 per lo stesso motivo. I ricordi di questo periodo, legati alle sue prime esperienze adolescenziali e alla campagna, ispireranno molte delle sue novelle, come Cavalleria rusticana e Jeli il pastore, oltre al romanzo Mastro-don Gesualdo. A soli 16 anni, tra il 1856 e il 1857, Verga scrisse il suo primo romanzo d'ispirazione risorgimentale Amore e patria rimasto inedito. Il romanzo infatti ottenne giudizio positivo da parte di Abate, ma venne considerato immaturo dall'insegnante di latino, don Mario Torrisi, che lo convinse a non pubblicarlo. Iscrittosi nel 1858 alla facoltà di legge all'Università di Catania, non dimostrò però grande interesse per le materie giuridiche e nel 1861 abbandonò i corsi, preferendo dedicarsi all'attività letteraria e al giornalismo politico. Con il denaro datogli dal padre per concludere gli studi, il giovane pubblicò a sue spese il romanzo I carbonari della montagna (1861- 1862), un romanzo storico che si ispira alle imprese della Carboneria calabrese contro il dispotismo napoleonico di Murat. La sua fu dunque una formazione irregolare che, come scrive Guido Baldi,[19] "... segna inconfondibilmente la sua fisionomia di scrittore, che si discosta dalla tradizione di scrittori letteratissimi e di profonda cultura umanistica che caratterizza la nostra letteratura, anche quella moderna: i testi su cui si forma il suo gusto in questi anni, più che i classici italiani e latini sono gli scrittori francesi moderni di vasta popolarità, ai limiti con la letteratura di consumo, come Alexandre Dumas padre (I tre moschettieri) e figlio (La signora delle camelie), Sue (I misteri di Parigi), Feuillet (Il romanzo di un giovane povero)". Oltre a questo genere di romanzi egli prediligeva i romanzi storici italiani, soprattutto quelli a carattere fortemente romantico, come quelli di Guerrazzi la cui influenza si coglie anche nel suo terzo romanzo intitolato Sulle lagune, pubblicato tra il 1862 e il 1863, dapprima a puntate sulle appendici della rivista fiorentina "La nuova Europa", nel periodo in cui, una volta che l'Italia aveva ormai ottenuto l'indipendenza, Venezia è ancora sotto la malvista potenza austriaca. Il romanzo narra la vicenda sentimentale di un ufficiale ungherese con una giovane veneta di Oderzo in uno stile severo e privo di retorica. Entrambi innamorati della vita finiranno per morire insieme. Verga lavorò in questo periodo frequentemente anche ad Acitrezza ed Acicastello.
In Sicilia si verificò un periodo di violente sommosse popolari per l'abolizione del dazio sul macinato e, soprattutto nella provincia catanese, si assistette alla reazione dei contadini che, esasperati, arrivarono ad uccidere e a saccheggiare le terre. Sarà Nino Bixio che, con la forza, riuscirà a riportare l'ordine. Nella novella Libertà, il Verga rivive con forza drammatica una di queste rivolte, quella di Bronte.
«Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: "Viva la libertà!". Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche, le scuri e le falci che luccicavano.»
Con l'arrivo di Garibaldi a Catania venne istituita la Guardia Nazionale e Verga, nel 1860, si arruolò in essa prestando servizio per circa quattro anni ma, non avendo inclinazioni per la disciplina militare, se ne liberò con un versamento di 3.100 lire alla Tesoreria Provinciale. Nel frattempo, insieme a Nicolò Niceforo, conosciuto con lo pseudonimo di Emilio Del Cerro, fondò il settimanale Roma degli Italiani, che si basava su un programma anti-regionale, e lo diresse per tre mesi oltre a collaborare alla rivista L'Italia contemporanea. Il settimanale passerà in seguito sotto la direzione di Antonino Abate.
Nel 1862, Verga e Niceforo ritentano l'esperienza con la rivista letteraria L'Italia contemporanea sulla quale il Verga pubblica la sua prima novella verista, Casa da thè. La rivista però ha breve durata e, dopo il primo numero, viene assimilata da Enrico Montazio alla rivista fiorentina Italia, veglie letterarie.
Anche il giornale l'Indipendente, fondato e diretto da Verga nel 1864, venne, dopo dieci numeri, lasciato alla direzione dell'Abate. In quello stesso anno Verga pubblicò sulla Nuova Europa le prime due puntate del romanzo Sulle lagune che verranno sospese per un anno e infine riprese dall'inizio e terminate il 15 marzo 1863 dopo 22 puntate.
Verso la fine di aprile o agli inizi di maggio 1865 si recò per la prima volta a Firenze, dopo aver abbandonato gli studi di legge presso l'Università di Catania. In questo periodo scrisse una commedia, che è stata pubblicata solo nel 1980, dal titolo I nuovi tartufi, che venne inviata, sotto forma anonima, al Concorso Drammatico bandito dalla Società d'incoraggiamento all'arte teatrale ma senza successo. Nello stesso periodo scrisse il romanzo Una peccatrice.
Firenze era a quei tempi la capitale del Regno e rappresentava il punto d'incontro degli intellettuali italiani. Il giovane Verga avrà modo di conoscere, in questo primo breve periodo, Luigi Capuana, allora critico della Nazione, i pittori Michele Rapisardi e Antonino Gandolfo, il maestro Giuseppe Perrotta e il poeta Mario Rapisardi.
A Firenze ritornerà nell'aprile 1869 dopo che la nuova epidemia di colera diffusasi nel 1867 l'aveva costretto, insieme alla famiglia, a trovare rifugio dapprima nelle proprietà di Sant'Agata li Battiati e poi a Trecastagni.
A Firenze, dove rimarrà fino al 1871, decise quindi di stabilirsi, avendo compreso che la sua cultura provinciale era troppo restrittiva e gli impediva di realizzarsi come scrittore.
Nel 1866 l'editore torinese Negro gli aveva intanto pubblicato Una peccatrice, un romanzo di carattere autobiografico e fortemente melodrammatico, che narra la vicenda di un piccolo borghese catanese, Pietro Brosio, che, pur avendo ottenuto la ricchezza e il successo ed essere riuscito a conquistare la donna dei suoi sogni, Narcisa, ritornerà alla sua mediocrità dopo che Narcisa, impazzita per amore, si toglierà la vita.
Gli anni fiorentini saranno fondamentali per la formazione del giovane scrittore che avrà modo di conoscere artisti, musicisti, letterati e uomini politici oltre che di frequentare i salotti più conosciuti del momento.
Con una lettera di presentazione di Mario Rapisardi si introdusse facilmente in casa dello scrittore e patriota Francesco Dall'Ongaro dove incontrò Giovanni Prati, Aleardo Aleardi, Andrea Maffei e Arnaldo Fusinato.
Introdotto dal Dall'Ongaro presso i salotti culturali di Ludmilla Assing e delle signore Swanzberg, madre e figlia entrambe pittrici, conobbe Vittorio Imbriani e altri letterati. Iniziò quindi a condurre una vita mondana frequentando il Caffè Doney, dove conobbe letterati e attori, il Caffè Michelangelo, luogo d'incontro dei pittori macchiaioli più noti dell'epoca e recandosi spesso alla sera a teatro.
Risale a questo periodo la stesura del romanzo epistolare Storia di una capinera che apparve nel 1870 sul giornale di moda Il Corriere delle Dame e che l'anno seguente verrà pubblicato, per interessamento del Dall'Ongaro, dalla tipografia Lampugnani di Milano. La prefazione al romanzo venne scritta dal Dall'Ongaro che riportava la lettera da lui scritta a Caterina Percoto per presentarle il libro. Il romanzo ebbe un gran successo e Verga incominciò ad ottenere i suoi primi guadagni.
Una fotografia scattata da Verga: La Sicilia rurale
Periodo milanese.
Il 20 novembre 1872 Verga si trasferì a Milano dove si fermerà, pur con diversi e lunghi ritorni a Catania, fino al 1893. Lo presenteranno l'amico Capuana con una lettera per il romanziere Salvatore Farina direttore della Rivista minima e il Dall'Ongaro con una al pittore e scrittore Tullo Massarani.
A Milano frequenterà in modo assiduo il salotto Maffei dove conoscerà i maggiori rappresentanti del secondo romanticismo lombardo e si incontrerà con l'ambiente degli scapigliati, legando soprattutto con Arrigo Boito, Emilio Praga e Luigi Gualdo.
Frequentando i ristoranti, come il Cova e il Savini, ritrovo di scrittori e artisti, conosce Gerolamo Rovetta, Giuseppe Giacosa, Emilio Treves e il Felice Cameroni con il quale intreccerà una fitta corrispondenza epistolare molto interessante sia per le opinioni sul verismo e sul naturalismo espresse, sia per i giudizi dati sulla narrativa contemporanea, da Zola a Flaubert, a D'Annunzio. Conoscerà inoltre il De Roberto con il quale sarà amico per tutta la vita.
Gli anni milanesi saranno ricchi di esperienze e favoriranno la nuova poetica dello scrittore. Risalgono a questi anni Eva (1873), Nedda (1874), Eros e Tigre reale (1875). Sono opere che si iscrivono nella poetica tardoromantica del primo Verga, ad eccezione di Nedda, anticipo verista, corrente di cui lo scrittore catanese sarà il massimo esponente dalle novelle di Vita dei campi in poi.
Lo scrittore intanto si era avvicinato ad autori nuovi per tematiche e forme, come Zola, Flaubert, Balzac, Maupassant, Daudet, Bourget, e aveva iniziato un abbozzo del romanzo I Malavoglia.
Nel 1877 verrà pubblicata dall'editore Brigola una raccolta di novelle, Primavera e altri racconti, che erano precedentemente apparsi sulle riviste Illustrazione italiana e Strenna italiana, che presentano stile e soggetto diversi dai precedenti scritti.
Nel 1878 apparve sulla rivista Il Fanfulla la novella Rosso Malpelo e nel frattempo egli iniziò a scrivere Fantasticheria. Lo stesso anno morì sua madre.
Risale a questi anni il progetto, annunciato in una lettera del 21 aprile all'amico Salvatore Paolo Verdura, di scrivere un ciclo di cinque romanzi, Padron 'Ntoni, Mastro-don Gesualdo, La Duchessa delle Gargantas, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso, che in origine avrebbero dovuto essere titolati la Marea per poi essere cambiati in I vinti, che, nell'intenzione del Verga, dovevano rappresentare ogni strato sociale, da quello più umile a quello più aristocratico. Sarà questo "l'inizio della più felice e fervida stagione narrativa dello scrittore catanese".
Il 5 dicembre 1878 Verga ritornò a Catania in seguito alla morte della madre e trascorse un lungo periodo di depressione. In luglio lasciò Catania e, dopo essere stato a Firenze, ritornò a Milano dove ricomincerà, con maggior fervore, a scrivere. Nell'agosto 1879 uscirà Fantasticherie sul Fanfulla della domenica e, nello stesso anno, scriverà Jeli il pastore oltre a pubblicare, su diverse riviste, alcune novelle di Vita dei campi che vedrà la luce presso l'editore Treves nel 1880.
Nel 1881 apparve sul numero di gennaio della Nuova Antologia l'episodio tratto da I Malavoglia che narra della tempesta con il titolo Poveri pescatori e, nello stesso anno, verrà pubblicato da Treves l'intero romanzo, che sarà però accolto molto freddamente dalla critica come confesserà il Verga stesso all'amico Capuana in una lettera dell'11 aprile da Milano: "I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo. Tranne Boito e Gualdo, che ne hanno detto bene, molti, Treves il primo, me ne hanno detto male".
Nel 1882, oppresso da bisogni economici, pubblicò presso l'editore Treves il romanzo Il marito di Elena dove verranno ripresi i temi erotico-mondani della prima maniera anche se con una più accurata indagine psicologica.
Risale a questo periodo la stesura delle future "Novelle rusticane" che verranno pubblicate man mano su alcune riviste.
Durante la primavera lo scrittore si recò a Parigi dove incontrerà lo scrittore svizzero di lingua francese Louis Édouard Rod, conosciuto l'anno precedente, che nel 1887 pubblicherà I Malavoglia nella traduzione francese. Dopo Parigi compì un altro viaggio a Médan per vedere Zola e a giugno si recò a Londra. Alla fine dell'anno, ma con data 1883, pubblicò la raccolta di dodici novelle con il titolo Novelle rusticane dove si fa predominante il tema della "roba". Lavorava intanto intensamente ai racconti Per le vie, iniziati l'anno precedente, che saranno pubblicati sul Fanfulla della domenica, nella Domenica letteraria e sulla Cronaca bizantina e da Treves nello stesso anno.
Il 1884 sarà caratterizzato dall'esordio teatrale dello scrittore che, adattando la novella omonima apparsa in Vita dei campi, mise in scena Cavalleria rusticana che verrà rappresentata il 14 gennaio 1884 dalla compagnia di Cesare Rossi al Teatro Carignano di Torino e avrà come attori Eleonora Duse nella parte di Santuzza e Flavio Andò nella parte di Turiddu. Il dramma, come già aveva intuito il Giacosa che aveva seguito il lavoro del Verga, ottenne un grande successo.
Confortato da ciò, Verga preparò un'altra commedia adattando una novella di Per le vie, Il canarino del n. 15, e il 16 maggio 1885, con il titolo In portineria, essa venne rappresentata a Milano al Teatro Manzoni, senza però ottenere il successo di quella precedente.
Il ritorno a Catania
Affetto da una grave crisi psicologica dovuta alle preoccupazioni di carattere finanziario e dal fatto che non riusciva a portare avanti come voleva il Ciclo dei Vinti, decise di ritornare in Sicilia. Nel 1887 uscì, presso l'editore Barbèra di Firenze, la raccolta Vagabondaggio.
Gli anni tra il 1886 e il 1887 li trascorse lavorando, ampliando le novelle pubblicate dal 1884 in poi per la raccolta Vagabondaggio che uscirà nel 1887 presso l'editore Barbèra.
Nel 1890 soggiornò per un periodo di alcuni mesi a Roma e all'inizio dell'estate ritornò in Sicilia e, tranne alcuni soggiorni a Roma, vi rimase fino al novembre del 1890. Terminata nel frattempo la prima stesura del romanzo Mastro-don Gesualdo, esso venne pubblicato a puntate sulla rivista La Nuova Antologia.
Durante il 1889 si dedicò completamente alla revisione del Mastro-don Gesualdo che venne dato alle stampe, da Treves, a fine anno ottenendo una buona accoglienza sia dal pubblico sia dalla critica.
Lo scrittore, rincuorato dal buon successo del romanzo, progettò di continuare il Ciclo dei Vinti con La duchessa di Leyra e L'Onorevole Scipioni mentre continuò la pubblicazione delle novelle che faranno poi parte delle due ultime raccolte.
L'8 aprile 1890, al Teatro Costanzi di Roma, venne intanto messa in scena Mala Pasqua tratta dalla novella dello scrittore che però non ottenne un gran successo. Solo un mese dopo venne rappresentata, nello stesso teatro, l'opera Cavalleria rusticana, musicata da Pietro Mascagni, che riscosse grande successo di pubblico e di critica.
L'opera continuò ad essere rappresentata con sempre maggior successo e Verga chiese al musicista e all'editore Sonzogno, come da accordi pattuiti, la parte di guadagno per i diritti d'autore. Gli verrà offerta una modesta cifra, 1.000 lire, che il Verga non volle accettare. Rivoltosi alla Società degli Autori, che si dimostrò solidale con lo scrittore, egli sarà però costretto ad agire attraverso vie legali. Ha inizio così nel 1891 una complessa vicenda giudiziaria che sembra concludersi, il 22 gennaio 1893, allorché Verga accetta, una tantum, la considerevole somma di 143.000 lire come "compensazione finale".
Nel 1891 erano intanto usciti presso l'editore Treves I ricordi del capitano d'Arce e nel 1894 Don Candeloro e C.i.
Nel 1893 lo scrittore si trasferì definitivamente a Catania dove rimase, a parte qualche breve viaggio a Milano e a Roma, fino alla morte. Sebbene continuasse a scrivere, si dedicò anche alla fotografia.
Ebbe inizio tuttavia la sua crisi creativa, che gli impedì di proseguire sulla strada del Verismo, per riaccostarsi allo stile post-romantico. Non smise mai, tuttavia, di tentare il completamento del Ciclo dei Vinti: nel 1895 iniziò minuziose indagini di costume che affermava necessarie per il terzo romanzo dei Cicli dei vinti, La duchessa di Leyra, che però non terminò mai (ci rimangono solamente il primo capitolo e un frammento del secondo), a causa della difficoltà di mantenere la poetica dell'impersonalità verso le classi agiate che disprezza, e che aveva già descritto efficacemente nei romanzi milanesi.
Da alcuni anni lo scrittore aveva intanto intrapreso una relazione con la pianista Francesca Giovanna Annunziata "Dina" Castellazzi, contessa di Sordevolo che durò tutta la vita, anche se la riluttanza del Verga al matrimonio ridusse la relazione amorosa a un'affettuosa amicizia. Un'altra relazione sentimentale conosciuta fu con la contessa milanese Paolina Greppi Lester, che durò dal 1878 al 1905. La Greppi è l'amica del Verga che compare, in forma romanzata, come interlocutrice in Fantasticheria, la novella che racconta il soggiorno della coppia ad Aci Trezza, e che è considerata il preludio a I Malavoglia.
Presso Treves, vennero pubblicati nel 1896 i drammi La lupa, In portineria, Cavalleria rusticana, tutti ricavati da novelle. La Lupa venne rappresentata con successo sulle scene del Teatro Gerbino di Torino e a metà dell'anno lo scrittore ricominciò a lavorare a La duchessa di Leyra.
Sulla rivista di Catania Le Grazie, il 1º gennaio 1897, venne pubblicata la novella intitolata La caccia al lupo e l'editore Treves pubblicò una nuova versione di Vita dei campi, con le illustrazioni di Arnaldo Ferraguti che presentava notevoli cambiamenti se confrontata all'edizione del 1880.
Nel 1896, lo scrittore, che non era mai stato un progressista, ma comunque di idee liberali, approvò la repressione delle proteste sindacali dei Fasci siciliani attuata dal governo di Francesco Crispi, segno della sua rivoluzione politica, e del suo distacco totale dalle idee politiche dei naturalisti francesi come Émile Zola. Essi infatti credevano nel socialismo, mentre il pessimismo verghiano lo porta a negare ogni riscatto degli umili che si distaccano dalla tradizione, verso cui prova comunque simpatia, e nei suoi ultimi anni Verga adottò idee conservatrici, anche se continuava comunque a provare disgusto verso le classi ricche. Egli giustificò anche la sanguinosa repressione dei moti di Milano ad opera di Fiorenzo Bava-Beccaris, esprimendo anche una certa insofferenza verso la democrazia parlamentare, e appoggiò il colonialismo italiano. Queste posizioni furono dovute anche ad alcune leggi economiche che avevano, a suo dire, danneggiato la produzione dei suoi agrumeti, e, durante la vecchiaia, la sua chiusura contro il resto del mondo e la sua riservatezza aumentarono sempre di più. Nonostante questo, mantiene comunque una certa benevolenza per le classi umili. Sembra intanto proseguire assiduamente la stesura de La duchessa di Leyra, come si apprende da una lettera scritta all'amico Édouard Rod nel 1898, notizia confermata da La Nuova Antologia che ne annuncia la prossima pubblicazione.
Nel 1901 furono rappresentati i bozzetti La caccia al lupo e La caccia alla volpe al teatro Manzoni di Milano e gli stessi saranno pubblicati nel 1902 dall'editore Treves.
Alla morte del fratello Pietro, avvenuta nel 1903, Verga ebbe in affido i nipoti, Giovanni Verga Patriarca, Caterina e Marco, che poi adottò facendone i suoi figli adottivi.
Nel novembre dello stesso anno venne rappresentato, sempre al teatro Manzoni, il dramma Dal tuo al mio che uscirà solamente nel 1905 a puntate su La Nuova Antologia e vedrà le stampe, ancora da Treves, nel 1906.
Lontano ormai dalla scena letteraria, Verga rallentò notevolmente la sua attività di scrittore per dedicarsi in modo assiduo alla cura delle sue terre anche se, come abbiamo notizia da una lettera all'amico Rod del 1º gennaio 1907, egli continuava a lavorare a La duchessa di Leyra del quale vedrà la luce un solo capitolo pubblicato postumo in La Letteratura a cura di De Roberto il 1º giugno 1922. A De Roberto lo scrittore affidò, tra il 1912 e il 1914, la sceneggiatura cinematografica di alcune delle sue opere ed egli stesso provvide alla riduzione della Storia di una capinera e de La caccia al lupo allo scopo di farne una versione per il teatro.
Nel 1915, alla prima guerra mondiale, prese posizione a fianco degli interventisti, entrando a far parte dell'Associazione Nazionalista Italiana, a fianco di Enrico Corradini e Gabriele D'Annunzio, del quale apprezzava l'azione politica. Nel dopoguerra si avvicinò al movimento fascista, mostrando simpatia per la figura politica in ascesa di Benito Mussolini, anche se non si iscrisse mai ai Fasci di combattimento.
La sua ultima novella, intitolata Una capanna e il tuo cuore, risale al 1919 e fu pubblicata anch'essa postuma, il 12 febbraio 1922 sull'Illustrazione italiana, mentre nel 1920 verrà pubblicata un'edizione riveduta delle Novelle rusticane a Roma sulla rivista La Voce. Nel luglio di quell'anno, per gli ottanta anni dello scrittore, si tennero a Catania le onoranze presso il Teatro Massimo Vincenzo Bellini alla presenza dell'allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce e il discorso ufficiale fu tenuto da Luigi Pirandello. Sempre in quell'anno Verga ricevette, a Roma, la nomina di senatore del Regno, per decisione del Re Vittorio Emanuele III. Furono tra le poche apparizioni pubbliche dello scrittore dopo il ritiro a Catania.
Il 24 gennaio 1922, colto da ictus, non riprese conoscenza e il 27 gennaio morì per emorragia cerebrale a Catania nella casa di via Sant'Anna, assistito dai nipoti e dall'amico De Roberto, e dopo aver ricevuto l'estrema unzione, richiesta dai familiari nonostante durante tutta la vita fosse stato dichiaratamente scettico, se non ateo e materialista. Il patrimonio di Verga passò, in maggioranza, al nipote primogenito Giovanni Verga Patriarca.
Giovanni Verga riposa oggi nel "viale degli uomini illustri" del cimitero monumentale di Catania.
In occasione del primo centenario della morte di Verga, l'Accademia della Crusca e la Fondazione Verga hanno organizzato lunedì 9 Maggio 2022 a Firenze un convegno dal titolo I vocabolari del vero per evidenziare il rapporto fra Verismo e vocabolario Italiano. Presentato nel convegno il progetto VIVer-Vocabolario dell' Italiano verista al quale lavorano un gruppo di lessicografi, informatici, autori coordinati da Gabriella Alfieri, Marco Biffi, Antonio di Silvestro, Giovanni Salucci e Rosaria Sardo.
Immagine caricaturale di Verga
La poetica e le idee
L'ideologia che sta alla base della sua letteratura migliore è una personale ripresa della scientificità, dell'impersonalità e del positivismo dei naturalisti, declinati in senso pessimistico, senza alcuna speranza di miglioramento sociale. Forte è l'influsso di alcune teorie dell'epoca, come quella del darwinismo sociale. Agli umili delle sue novelle e romanzi è negata quasi ogni speranza, sia provvidenziale rifacendosi allo stile del Manzoni, sia laica e sociale di ispirazione zoliana. Verga nega che una vera felicità sia presente o raggiungibile anche da parte degli appartenenti alle classi ricche, data la rappresentazione che egli ne fa sia nei romanzi non veristi, sia in alcune parti del Ciclo dei Vinti e delle novelle. Solo alcuni valori, come la famiglia, il proprio ambiente e il lavoro ("ideale dell'ostrica") possono dare un po' di serenità.
Opere Romanzi
- Amore e Patria (1856-1857) [inedito di 672 ff. ms. parzialmente riportati in Lina Perroni, Studi verghiani, II, Ricordi di D'Artagnan. La prima giovinezza di Giovanni Verga e due suoi romanzi sconosciuti: Amore e patria; I carbonari della montagna, Palermo, Ed. del sud, 1929].
- I carbonari della montagna, 4 volumi, Catania, Galatola, 1861-1862.
- Sulle lagune, in "La Nuova Europa", 5 e 9 agosto 1862-13 gennaio e 15 marzo 1863.
- Una peccatrice, Torino, Negro, 1866.
- Soria di una capinera, Milano, Lampugnani, 1871. (VEDI SOTTO)
- Eva, Milano, Treves, 1873.
- Eos, Milano, Brigola, 1875. V
- Tigre reale, Milano, Brigola, 1875.
- I Malavoglia, Milano, Treves, 1881 (VEDI SOTTO)
- Il marito di Elena, Milano, Treves, 1882
- Mastro-don Gesualdo, Milano, Treves, 1889 (VEDI SOTTO)
- Dal tuo al mio, Milano, Treves, 1906.
- La duchessa di Leyra, incompiuto in Federico De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, Firenze, Le Monnier, 1964.
- Romanzi giovanili, a cura e con postfazione di Giuseppe Leonelli, Milano, Frassinelli, 1996.
Il verismo. La principale caratteristica del Verismo, che si discosta da altre tecniche narrative, è l'utilizzo del "principio dell'impersonalità", tecnica che, come mostrato da Verga, consente all'autore di porsi in un'ottica di distacco (collegandosi al principio sia di lontananza che di rimpicciolimento) nei confronti dei personaggi e dell'intreccio del racconto. L'impersonalità narrativa è propria di una narrazione distaccata, rigorosamente in terza persona e, ovviamente, in chiave oggettiva, priva, cioè, di commenti o intrusioni d'autore che potrebbero, in qualche maniera, influenzare il pensiero che il lettore si crea a proposito di un determinato personaggio o di una determinata situazione. Il Verismo, come si vede in Verga, si interessa molto delle questioni socio-culturali dell'epoca in cui vive e si sviluppa. In Giovanni Verga, per esempio, ritroviamo in molte opere la questione della situazione meridionale, dei costumi e delle usanze, del modo di vivere assai diverso rispetto a quelli del nord Italia. Secondo Verga, non è possibile che un personaggio di umili origini riesca in qualche modo, per quanto esso valga, a riemergere da quella condizione in cui è nato. Non è possibile che un povero diventi ricco. In questo caso vi è la consueta eccezione narrativa nella novella La roba, in cui il povero e umile contadino Mazzarò riesce a divenire ricco, grazie al suo impegno. Ma anche giunto a una condizione relativamente benestante, o quanto meno comoda, il personaggio non riuscirà mai a vivere tranquillamente, non potrà mai integrarsi in quello che si definisce l'ambiente alto-borghese, proprio perché egli non vi appartiene di nascita. Questo principio triste e sconsolante ha come soggetto narratori popolari, quasi sempre contadini o artigiani, che spiegano a modo loro la vicenda, talvolta usando espressioni gergali. Gli autori veristi, in particolare Verga, tendono a usare un linguaggio non colto, che si caratterizza per l'assenza di segni grammaticali, celebre è anche l'artificio della regressione. È da citare, da ultimo, il principio della concatenazione e della concatenazione opposta; il primo consiste nel porre a poca distanza parole di significato analogo, il secondo di mettere una parola e subito dopo il suo contrario. Si termina con la ripetizione narrativa, la quale, come si capisce, privilegia le ripetizioni. Il Ciclo dei Vinti narra le vicende dovute alla miseria umana, sembrerebbero storie di pura fantasia, ma alla mia età posso affermare che questa miseria esiste, in tutte le classi sociali, è diffusa nel genere umano più di quanto si possa immaginare: avarizia mascherata da generosità, gelosia mascherata da compassione, violenza mascherata da amore, malvagità mascherata da umanità, pettegolezzo mascherato da interesse, aggressività mascherata da ragionevolezza .... caratteristiche che sono in dote a persone che non sanno di averle.
Luigi Capuuana, con Verga padre del Verismo.
Storia di una capinera
Protagonista del romanzo è Maria, una diciannovenne rimasta orfana di madre in tenera età e rinchiusa all'età di sette anni in un convento di Catania, costretta a diventare monaca di clausura per motivi di indigenza economica famigliare (il padre è un «modestissimo impiegato»). A causa dell'epidemia di colera che nel 1854 colpì la città siciliana Maria ha l'occasione di trasferirsi nella casetta del padre a Monte Ilice e vivere così con la famiglia per il periodo dal 3 settembre 1854 al 7 gennaio 1855. Della famiglia fanno parte il padre, la matrigna (Maria, in una delle prime lettere, parla della difficoltà che a volte incontra nel chiamarla madre), la sorellastra Giuditta e il fratellastro Gigi. A Monte Ilice Maria incomincia un lungo scambio epistolare con Marianna, anche lei educanda del convento, nonché sua migliore amica e confidente, come lei tornata a casa dai genitori (a Mascalucia) a causa del colera.
Il primo periodo viene vissuto da Maria con grande spensieratezza e gaiezza. Monte Ilice rappresenta tutto l'opposto dell'ambiente claustrale da lei conosciuto: al grigiore dei «muri anneriti», di spazi angusti e severe regole di condotta, si oppone «una bella casetta posta sul pendìo della collina» dove «per andare all'abitazione più vicina bisogna correre per le vigne, saltar fossati, scavalcar muricciuoli». Allo straordinario senso di libertà, fino ad allora sconosciuto, si aggiunge poi la felicità di vivere in mezzo a quell'amore che solo una famiglia può dare (anche se il suo bisogno di essere amata le fa scambiare per sincero affetto sia l'atteggiamento severo della matrigna - che la tratta non al pari dei suoi figli naturali, ma piuttosto come un'ospite sgradita - che quello freddo e distaccato della sorellastra Giuditta). In quest'atmosfera solare la sola ombra che offusca il cuore di Maria è il pensiero di dover tornare alla vita di clausura, ora che sa cosa offre il mondo esterno: «vorrei esser soltanto come tutti gli altri, nulla di più, e godere codeste benedizioni che il Signore ha date a tutti: l'aria, la luce, la libertà!». Invidia, perciò, l'amica Marianna per la sua decisione di non fare più rientro in convento.
A poca distanza dalla casa di Maria, in fondo alla valle, abita la famiglia Valentini (anche loro trasferitisi a Monte Ilice per sfuggire al colera), molto amici della sua famiglia e con i quali trascorrono parecchio tempo. Maria diventa così amica intima di Annetta, figlia dei Valentini e sua coetanea. Conosce anche il figlio maggiore, Antonio, che tutti chiamano Nino. Nei giorni trascorsi insieme, nelle feste famigliari, nei balli e nelle trafelate corse che coinvolgono i figli delle due rispettive famiglie, Maria e Nino hanno l'occasione di avvicinarsi, insinuando via via nel cuore della giovane educanda un sentimento del tutto nuovo per lei: l'amore. Essendone completamente estranea, Maria scambia il sentimento per una strana e pesante malinconia, che non sa spiegarsi e che adduce a una probabile malattia. Grazie all'esame introspettivo a cui la spinge la corrispondente Marianna, Maria riesce finalmente a svelare la natura del proprio malessere, ma questo la spaventa ancor di più, poiché il suo destino era quello di diventare suora e di amare solo Dio. La situazione peggiora quando Nino le fa capire di ricambiare gli stessi sentimenti d'amore e la invita a lasciare il convento.
Esaltata e allo stesso tempo stordita dalla rivelazione, Maria cade in un nuovo stato depressivo. La matrigna, intuendo la natura di quel malessere, inizia a temere in una sua rinuncia al ritorno in convento al termine dell'epidemia; decide così di parlarle con franchezza, ribadendole la necessità di diventare suora e proibendole qualunque contatto con persone estranee alla famiglia, compresi i signori Valentini e, soprattutto, Nino. Il profondo stato depressivo in cui cade Maria diventa una vera e propria malattia che fa temere la famiglia addirittura per la sua vita.
Cessato l'allarme dell'epidemia la famiglia Valentini decide di fare ritorno a Catania. La notte precedente la partenza, Nino si presenta alla finestra di Maria per salutarla, ma la giovane, ancora in convalescenza e fortemente a disagio, cade in preda di un pesante attacco di tosse che le fa perdere i sensi. L'indomani mattina troverà sul davanzale una rosa lasciata da Nino durante la fugace visita e che la pioggia notturna aveva infradiciato.
Dopo una settimana dalla partenza dei Valentini, l'8 gennaio 1855 anche la famiglia di Maria fa ritorno a Catania. La giovane, non ancora del tutto guarita, acconsente al rientro con la morte nel cuore, sia perché lascia - e per sempre - un luogo a lei divenuto molto caro, sia perché tornare a Catania significava tornare alla vita di clausura. Dalle anguste mura del convento, seppur con minor frequenza rispetto a prima, Maria continua a scrivere all'amica Marianna, ora suo unico conforto. Le lettere vengono consegnate a suor Filomena, suora laica molto legata a Maria e per la quale si incarica di recapitare la corrispondenza.
L'isolamento del luogo conventuale, invece di darle serenità, non fa che acuire la sofferenza interiore e quindi il suo già cagionevole stato di salute, tanto da costringerla a passare buona parte dell'anno in infermeria, a causa di ripetuti attacchi di febbre. Il corpo soffre, perché la mente ritorna sempre al breve periodo di gioia vissuto a Monte Ilice e, ancor più, a Nino. Questi pensieri del tutto inopportuni per una suora le straziano l'anima e allora si confessa, prega intensamente e si punisce digiunando e mortificando la propria carne per giungere ad uno sfinimento del corpo e dello spirito. Gli esercizi spirituali si intensificano ancor più quando riceve la terribile notizia del matrimonio tra Nino e la sorellastra Giuditta.
Il 6 aprile 1856 Maria prende finalmente i voti. Alla cerimonia (che lei paragona a un funerale) assistono tutti i suoi famigliari, compreso un pallido Nino che la guarda «cogli occhi spalancati». L'essere diventata suora a tutti gli effetti non produce alcun balsamo alle sue sofferenze: anzi, più cerca di reprimere i suoi sentimenti, più questi la tormentano, accrescendo il suo senso di colpa e di dannazione eterna, combattuta tra l'amore per il suo peccato e i suoi doveri di suora. Teme di impazzire e racconta a Marianna della presenza in convento di una suora pazza, suor Agata, che da quindici anni è rinchiusa nella «cella dei matti». Racconta anche di una macabra tradizione del convento, secondo la quale la cella dei matti non deve mai rimanere vuota. Maria è atterrita al pensiero di poter essere lei la prossima, poiché sente che sta perdendo la ragione e, del resto, i momenti di delirio febbrile vissuti sono oramai molto più frequenti dei momenti di apparente quiete interiore.
Una mattina sale sul belvedere del convento e scopre che da lì può vedere la casa di Nino e Giuditta: da una finestra arriva perfino a distinguere nitidamente i due sposi. Da allora, ogni giorno e ogni notte si reca sul belvedere per scorgere Nino, magari «per vederlo un solo istante passare da una stanza all'altra e nulla più!». Saperlo a pochi passi dal convento esacerba tutti i suoi supplizi interiori, facendola impazzire. Il bisogno di vedere Nino le fa tentare di fuggire dal convento, ma viene trattenuta dalle converse e, mentre lei si dibatte violentemente, viene trascinata all'interno della cella di suor Agata, la suora pazza, ma a quel punto Maria sviene. Viene portata quindi in infermeria dove, dopo tre giorni, muore.
Il libro si chiude con la lettera che suor Filomena, la suora laica, scrive a Marianna e con la quale le fa pervenire (dietro espresso desiderio di Maria) gli effetti personali della defunta trovati sul suo letto di morte: un crocefisso d'argento, alcuni fogli manoscritti (le ultime lettere senza data che Maria scrisse in pieno delirio), una ciocca di capelli e alcuni petali di rosa, di quella stessa rosa che Nino le aveva appoggiato sul davanzale la notte prima della partenza da Monte Ilice, e che furono trovate sopra le labbra senza vita di Maria. Viene raccontata la storia drammatica che ha visto, nel passato, come protagoniste molte ragazze delle aree più povere del paese; molte di queste eraqno destinate o alla clausura o alla prostiotuzione, come sarà per Lia Malavoglia.
Verga introduce il romanzo spiegando il motivo che lo ha portato ad intitolarlo proprio Storia di una capinera:
«Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiva in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione.
Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c'era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.
Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la storia di un'infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l'amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l'ala ed era morta.
Ecco perché l'ho intitolata: Storia di una capinera.»
Una capinera libera
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I Malavoglia
Prefazione
"Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell'Onorevole Scipioni, per arrivare all'Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell'azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, e anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all'idea, in un'epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un'uniformità di sentimenti e d'idee.
Perché la produzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell'argomento generale. Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. ... Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada quest'immensa corrente dell'attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvenenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l'Onorevole Scipioni, l'Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del proprio peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l'esistenza, pel benessere, per l'ambizione - dall'umile pescatore al nuovo arricchito - all'intrusa nelle alte classi - all'uomo dall'ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini, di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge - all'artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un'altra forma dell'ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere."
Sempre nella prefazione de I Malavoglia l'artista è ancora più esplicito e preciso:
«Ritorna il monito a non giudicare, ma a capire e riflettere.»
Quasi il punto di vista di un antropologo che deve soltanto osservare, registrare e studiare. Studiare per comprendere e conoscere le culture diverse ma mai intervenire con il giudizio del diverso dall'altro.
Trama
Presso il paese di Aci Trezza, nel catanese, vive la laboriosa famiglia di pescatori Toscano, soprannominata Malavoglia per antifrasi secondo la tradizione della 'ngiuria (una particolare forma di appellativo). Il patriarca della famiglia è l'anziano Padron 'Ntoni, vedovo, che vive presso la "Casa del Nespolo" insieme al figlio Bastiano, detto Bastianazzo, il quale è sposato con Maruzza, detta la Longa. Bastiano e Maruzza hanno cinque figli, in ordine di età: 'Ntoni, Luca, Filomena detta Mena o Sant'Agata, Alessio detto Alessi e Rosalia detta Lia. Il loro principale mezzo di sostentamento è la "Provvidenza", nome dato alla piccola imbarcazione che utilizzano per la pesca.
Nel 1863 'Ntoni, il maggiore dei figli, parte per la leva militare. È la prima volta che un membro della famiglia dei Malavoglia parte per la leva, e sarà questo evento (che rappresenta simbolicamente l'irruzione del mondo moderno in quello rurale della Sicilia contemporanea) a segnare l'inizio della rovina della famiglia. 'Ntoni, lavorando, aiutava economicamente, come era usuale all'epoca, e a causa della sua partenza come soldato questi guadagni vengono a mancare. Inoltre, l’annata è cattiva e occorre provvedere alla dote di Mena, giunta ormai all’età da matrimonio. Per superare questo momento di difficoltà, Padron 'Ntoni tenta un affare comprando una grossa partita di lupini, peraltro avariati, da un compaesano usuraio, chiamato Zio Crocifisso (oppure Campana di legno) per via delle sue continue lamentele e del suo perenne pessimismo. Il carico viene affidato a Bastianazzo perché si rechi con la Prov, videnza a Riposto per venderlo, ma durante il viaggio via mare la barca subisce un naufragio, Bastianazzo e il suo garzone muoiono e i lupini vanno persi. A seguito di questa sventura, la famiglia si ritrova con una triplice disgrazia: è morto Bastianazzo, principale fonte di sostentamento della famiglia, la Provvidenza va riparata e occorre pagare il debito dei lupini. "Ntoni finisce il servizio militare prima del previsto; se fosse rimasto per altri sei mesi a Napoli, luogo in cui svolgeva la sua funzione, suo fratello Luca sarebbe stato esonerato dal servizio di leva obbligatoria, ma doveva per forza tornare per aiutare la sua famiglia". Ntoni torna malvolentieri al paese e alla dura vita di pescatore e finisce per non dare alcun sostegno alla già precaria situazione economica del nucleo familiare.
La Provvidenza viene ritrovata e, seppur malandata, ritorna in funzione. Le sfortune per la famiglia, però, non terminano: Luca, uno dei nipoti, muore nella battaglia di Lissa (1866), e ciò determina anche la rottura del fidanzamento di Mena con Brasi Cipolla. Il risanamento del debito contratto con Zio Crocifisso costa alla famiglia anche la perdita dell'amata Casa del Nespolo e la reputazione e l'onore della famiglia peggiorano fino a raggiungere livelli umilianti (N.B. i Malavoglia andarono dall'avvocato Scipioni, per discutere di questo prestito "a credenza" di lupini, fatto con zio Crocifisso, che gli sconsigliò di ripagare il debito perché avrebbe comportato la loro caduta e anche perché non era mai stato un atto ufficiale. Inoltre potevano anche evitare di pagarlo poiché la casa del Nespolo, che era l'unica cosa che poteva ripagare il debito, era un bene relativo alla dote, quindi intoccabile per le leggi del tempo. Ma i Malavoglia, rimanendo vincolati alla loro storia di uomini d'onore, decidono di pagarlo comunque). Un nuovo naufragio della "Provvidenza" porta Padron 'Ntoni ad un passo dalla morte; Maruzza, la nuora, muore invece di colera. Il primogenito, 'Ntoni, decide di andare via dal paese per tentare di fare fortuna, visto che aveva sentito dei forestieri parlare di una nuova società dove c'erano persone che non erano costrette più a lavorare e vivevano nell'ozio, 'Ntoni, infatti si era stancato di lavorare sempre senza ottenere risultati. Tuttavia, una volta tornato, ancora più impoverito, perde ogni desiderio di lavorare, dandosi all'ozio e all'alcolismo.
La partenza di 'Ntoni costringe nel frattempo la famiglia a vendere la Provvidenza per accumulare denaro al fine di riacquistare la Casa del Nespolo, mai dimenticata. La padrona dell'osteria Santuzza, già oggetto di interesse amoroso da parte del poliziotto Don Michele, si invaghisce invece di 'Ntoni (che intanto entra nel giro del contrabbando), mantenendolo gratuitamente all'interno del suo locale. La condotta di 'Ntoni e le lamentele del padre la convincono a distogliere le sue aspirazioni dal ragazzo e a richiamare Don Michele all'osteria. Ciò diventa origine di una rissa tra i due pretendenti, alla fine della quale 'Ntoni arriva a dare una coltellata al petto di Don Michele, nel corso di una retata anti-contrabbando. 'Ntoni viene condannato a 5 anni di carcere, dopo un processo dove i Malavoglia spenderanno quasi tutti i loro risparmi, che servivano per ricomprare la casa del nespolo, ancora in mano a zio Crocifisso, per pagare un avvocato. Inoltre, Padron 'Ntoni, accorso al processo e, sentite le voci circa la relazione tra Don Michele e sua nipote Lia, sviene esanime. 'Ntoni riesce a evitare una forte condanna per motivi "d'onore": l'avvocato lascia intendere che la rissa fosse scoppiata perché 'Ntoni voleva difendere la reputazione della sorella Lia, della quale Don Michele si era invaghito, e che Lia aveva respinto.
Il salmodiare di Padron 'Ntoni, ormai molto anziano, si fa sconnesso, e i suoi proverbi (che accompagnano tutta la narrazione) iniziano a venire pronunciati senza cognizione di causa; per motivi anche di sopravvivenza (non è più in grado di lavorare), si decide di ricoverarlo in ospedale. Intanto Lia, la sorella minore, vittima delle malelingue e del disonore, decide di lasciare il paese e finisce a prostituirsi a Catania. Mena, a causa della vergognosa situazione della sorella, sceglie di rinunciare a sposarsi con il carrettiere Alfio Mosca, di cui è stata innamorata per tutto il romanzo, e rimane ad accudire i nipoti, figli di Alessi, il minore dei fratelli, che nel frattempo si è sposato con Nunziata e, continuando a fare il pescatore, è riuscito a guadagnare abbastanza per poter ricostruire il nucleo familiare e ricomprare la Casa del Nespolo, dove si è stabilito a vivere.
A questo punto ciò che resta della famiglia fa visita all'ospedale a Padron 'Ntoni, per informarlo che la Casa del Nespolo è di nuovo nelle loro mani e annunciargli un suo imminente ritorno a casa. È questa l'ultima gioia per il vecchio pescatore, che muore proprio nel giorno del suo agognato ritorno a casa: neanche il desiderio di morire nella casa dov'era nato viene dunque esaudito. Alla fine 'Ntoni, uscito di prigione, ritorna al paese, ma si rende conto di non potervi restare a causa del suo passato, per quanto il fratello Alessi lo inviti a farlo: con il suo comportamento egli si è auto-escluso dal nucleo familiare, rinnegando sistematicamente i suoi valori, ed è costretto ad abbandonare la sua casa proprio quando ha preso consapevolezza che essa era l'unico luogo in cui era possibile vivere degnamente.
L'opera
Tutta la narrazione si svolge alla fine dell'Ottocento ad Aci Trezza, piccolo paese della Sicilia orientale.
Si può dividere l'intera opera fondamentalmente in tre parti:
- La prima parte (capitoli I-IV) inizia con la presentazione dei membri della famiglia Toscano, in ordine di età, alla quale seguono la partenza di 'Ntoni per il servizio militare, lo sfortunato affare dei lupini e la morte di Bastianazzo. È questo elemento scatenante a rompere l'"equilibrio" pre-esistente e dare inizio alla vicenda. I funerali di Bastianazzo sono l'occasione, per Verga, di presentare i personaggi del romanzo e l'ambiente popolare contestualmente ai fatti narrati, secondo la tecnica della regressione teorizzata dell'autore.
- Nella seconda parte (capitoli V-X) assistiamo al continuo declino della famiglia, dovuto principalmente alle conseguenze dello sfortunato affare dei lupini e al tentativo dei Malavoglia di saldarlo senza rinunciare alla casa e all'onore della famiglia; questo non impedisce la perdita della Casa del Nespolo e il trasferimento nella casa del beccaio.
- La terza ed ultima parte inizia dopo un capitolo di transizione (il XI), in cui 'Ntoni si trasferisce temporaneamente in città a cercare di far fortuna, dopo la morte della madre Longa (contraria alla sua partenza). Quindi inizia la terza parte (capitoli XII-XV), che narra la vendita della barca da parte di Padron 'Ntoni, che inizierà a lavorare a giornata da Padron Cipolla, e il ritorno di 'Ntoni che, ancora più povero che alla partenza, si dà al contrabbando. 'Ntoni accoltella don Michele, l'avvocato di 'Ntoni getta discredito sulla famiglia rivelando una presunta relazione tra Don Michele e Lia, che fugge verso la città. Il nonno cade in uno stato di depressione e 'Ntoni finisce in prigione. La conclusione vede la ricomposizione del nucleo familiare ad opera di Alessi e la partenza di 'Ntoni, che, ritornato al paese, ormai sente che non può più fare parte del mondo che ha rinnegato. Alla "riconsacrazione" della Casa del Nespolo segue però la consapevolezza che ormai nulla potrà essere come prima: la partenza di 'Ntoni segna infatti un distacco definitivo, provocato dall'irrompere dei "tempi nuovi" (la modernità) nel mondo contadino siciliano.
Uno scorcio del mare di Aci Trezza, dal film La terra trema di Luchino Visconti
AUDIO
Mastro Don Gesualdo
Parte prima
Cap I. Un incendio scoppia nel palazzo di proprietà dei Trao, una famiglia nobile decaduta, composta da tre fratelli: don Diego (malato di tisi), don Ferdinando e donna Bianca. La gente che accorre la critica per le condizioni in cui si è ridotta; i suoi componenti infatti non hanno voluto cambiare stile di vita e iniziare a lavorare, attività estranea alla loro classe sociale.
I fratelli preferiscono vivere dell'elemosina dei parenti, che peraltro forniscono i viveri e gli abiti per Bianca. Quando scoppia l'incendio, Bianca si trova nella sua camera da letto con Ninì Rubiera, suo cugino e amante. I due vengono scoperti da don Diego.
Cap II. Don Diego, il giorno seguente, si reca al palazzo della cugina Rubiera per raccontarle ciò che ha scoperto, con l'intenzione di combinare un matrimonio. La baronessa Rubiera però non vuole proprio saperne di ammogliare l'abbiente figlio con Bianca, poiché priva di dote, e promette che si impegnerà a trovarle un marito alla sua altezza. Don Ferdinando è considerato più stupido di don Diego; quest'ultimo è ossessionato dalle carte della lite, ossia la documentazione di una contesa giudiziaria secolare che oppone i nobili Trao alla corona di Spagna. Quando quella lite sarà vinta, frutterà un'immensa ricchezza alla loro famiglia. Intanto il protagonista, Don Gesualdo Motta, si è messo in testa di concorrere all'asta per la gabella delle terre comunali, fatto che fa infuriare il barone Zacco, perché tali terre da generazioni sono assegnate alla sua famiglia.
Cap. III. Ha luogo la festa di San Gregorio Magno; la cugina Marianna Sganci ha organizzato un ricevimento a casa sua, al quale è accorso il fior fiore della nobiltà. Alla festa va anche mastro-don Gesualdo, che viene fatto accomodare sul balcone del vicoletto, riservato agli invitati meno prestigiosi e ai parenti poveri, dove appunto erano seduti anche don Ferdinando e donna Bianca. Alla festa, gli invitati parlottano del matrimonio di Bianca e Gesualdo e criticano la cosa per l'inferiore condizione sociale di lui, indignandosi per non essere stati informati di nulla, pur essendo parenti di Bianca. Oltre al matrimonio di Bianca si sta programmando anche quello di Ninì Rubiera con Fifì Margarone. Gesualdo e la baronessa Rubiera sono diventati soci in affari per potersi accaparrare le terre del comune: lui mette a disposizione il capitale, lei il nome prestigioso. A un certo punto Bianca e Ninì si incontrano e riescono a discutere da soli sul balcone. Bianca gli chiede chiarezza sulle prospettive future, ma lui non intende opporsi alla madre, che non acconsente al loro matrimonio. Chiarisce allora quali matrimoni avverranno, invece: lui sposerà Fifì Margarone, lei mastro-don Gesualdo (ma il secondo non è ancora stato combinato ufficialmente). Bianca si dispera; lui accetta il volere della madre e si rassegna a sposare una donna che non ama, nonostante che le ritorsioni che essa potrebbe adottare contro di lui non sarebbero molte (è figlio unico e l'eredità gli spetterebbe integralmente): teme solo che possa negargli il denaro, fintanto che è in vita. La zia Sganci chiede a Gesualdo di accompagnare a casa i Trao così che lui abbia la prima occasione per conoscere sua nipote Bianca. Il marchese Limoli, zio della ragazza, cerca di convincerla che è un buon partito perché ha molto denaro; il canonico Lupi fa lo stesso con Gesualdo, dicendo che il matrimonio con la donna lo introdurrà nella buona società e conseguirà così il titolo nobiliare.
Cap. IV Viene descritta la solerzia di Gesualdo nello svolgere il proprio lavoro e nel controllare quello altrui. Gesualdo non si ferma di fronte a nessuna difficoltà e lavora strenuamente in ogni condizione climatica. Tutti i pasticci dei parenti ricadono sulle sue spalle, è lui l'unico che fatica e mantiene tutti quanti. Gesualdo controlla costantemente le sue proprietà e che i braccianti lavorino la terra, ma spesso e volentieri li trova oziosi, sdraiati al riposo dal sole. Gesualdo abita con l'umile servetta Diodata, compiacente e servizievole, segretamente innamorata dell'uomo. Si racconta come Gesualdo sia partito dal nulla e con alacrità sia riuscito a crearsi la sua fortuna e ad accumulare la sua “roba”; egli infatti è un uomo che si è fatto da sé (Homo faber fortunae suae). Si narrano poi i primi dissidi con il padre, quando per voler aiutare economicamente la famiglia va a lavorare come manovale. Tutte le sue fatiche e i sacrifici vengono ricompensati perché Gesualdo ha il cervello per gli affari e riesce perciò a diventare padrone lui stesso di molteplici terreni. Un giorno Gesualdo comunica a Diodata che presto prenderà moglie; ella è sconvolta dalla notizia anche perché teme per la sorte che avranno i figli avuti da lui e abbandonati all'orfanotrofio.
Cap. V. La sorella Speranza e il cognato Burgio speculano sugli affari; Burgio si occupa sempre di investimenti che non fruttano niente. Il fratello Santo vive sulle spalle di Gesualdo e il padre, non volendo essere defraudato del suo ruolo di capofamiglia, combina solo guai con gli affari del figlio, ai quali quest'ultimo è sempre costretto a rimediare. Il padre si sente depauperato della sua posizione all'interno della famiglia e quindi fa di testa sua, rovina gli affari del figlio, facendogli perdere soldi. A causa di una malversazione del padre un ponte è crollato e Gesualdo ha perso un affare. Sotto la spinta di questa disgrazia si decide al matrimonio con Bianca propostogli dal canonico Lupi.
Cap. VI. Bianca si reca in chiesa per confessarsi e lì il sagrestano Luca e il canonico Lupi esercitano su di lei pressione psicologica circa il matrimonio con Gesualdo. Nei giorni precedenti lui aveva presentato la proposta ufficiale ai suoi fratelli, che però non avevano acconsentito e per questo va in collera. Don Luca esorta donna Bianca a riproporre la questione del matrimonio ai suoi fratelli perché sarebbe un affarone per tutta la sua famiglia, un'occasione da non perdere. Donna Marianna a sua volta cerca di convincere Ferdinando e Diego che pure sono restii a dare in moglie la loro sorella a uno come Gesualdo. La loro nobiltà deriva dal sangue, per questo ripudiano l'idea di fare entrare nella loro famiglia il mastro. Alla fine tuttavia, rassegnati, dicono a Bianca di fare ciò che vuole. Ella decide di sposarsi non per il guaio combinato con il cugino, ma per uscire dalle ristrettezze economiche in cui versa la famiglia.
Cap. VII. Al loro matrimonio non viene nessun parente, né di lei perché non approvano, né di lui perché si vergognano della loro condizione di miserabili. I pochi invitati presenti alla successiva festa sembrano interessati solo ad arraffare cibo e a sparlare dell'atteggiamento dei fratelli di lei. Diodata è innamorata di Gesualdo ma lui le ha combinato un matrimonio riparatore con Nanni l'Orbo. Gesualdo si illude di poter trovare un possibile terreno d'intesa con la moglie (“i segni umili di privazione che l'avvicinavano a lei”). Viene consumata la prima notte di nozze. Lui è impacciato, ha quasi paura di toccarla anche perché lei rimane rigida. Tale atteggiamento preannuncia la loro futura incomunicabilità, il principio di un'unione triste.
Parte seconda
Cap. I. Nella sede del comune si svolge la gabella per l'affitto delle terre comunali; c'è un parapiglia generale: tutti si infervorano e si accapigliano, tranne Gesualdo, che resta impassibile perché sa di avere il coltello dalla parte del manico e di essere il più furbo di tutti. Per quanto lui faccia offerte alte, cercano di farlo desistere dall'impresa prima proponendogli la concessione del denaro perso nella cauzione del ponte crollato a patto che lui rinunci ad accaparrarsi delle terre comunali; viene proposto poi che le terre siano divise tra lui, la baronessa Rubiera e il barone Zacco, che ne ha il possesso da generazioni. Ma Gesualdo non accetta neanche questa proposta; non vuole scendere a compromessi perché vuole il monopolio sulle terre. Tiene così tanto ad aggiudicarsele anche per una rivalsa personale nei confronti dei nuovi parenti per l'affronto subito (matrimonio a sua insaputa riparatore). Il suo più acerrimo competitore è il baronello Rubiera, che è sia avido sia geloso nei confronti del marito di Bianca. Il matrimonio con la donna è stato un fallimento perché lui è tuttora solo contro tutti, non ha ottenuto l'appoggio dei nobili sposandola. Venendo a sapere dal canonico dei moti rivoluzionari carbonari di Palermo, Gesualdo decide di aderire lui stesso alla Carboneria e anzi di provare ad assumerne la guida per farla pagare a tutti i pezzi grossi. Il moto popolare nelle campagne sfocia nella rivendicazione delle terre da parte dei “villani”.
Cap. II. Si prospetta il tema della rivolta contadina; da una parte i “villani”, incapaci di organizzarsi e di darsi dei capi, dall'altra i “galantuomini”, impauriti dalla collera popolare. Ma il fermento popolare prodotto dalle notizie dei rivolgimenti politici palermitani non sfocia nella temuta jacquerie, anzi rinsalda la solidarietà tra i possidenti che dimenticano la loro rivalità di “cani e gatti” per fare fronte comune contro il nemico di classe. I rivoltosi infatti si riuniscono durante una notte ma al primo segnale di pericolo si disperdono e scappano. Secondo Gesualdo, il fervore politico dei “galantuomini” è solo un ennesimo tentativo di tagliarsi l'uno all'altro l'erba sotto i piedi e deriva dalla necessità di trovarsi dalla parte giusta, qualora la rivoluzione avesse successo. In Gesualdo e negli altri possidenti dunque prevale l'interesse a tutelare i propri profitti.
Cap. III. Si chiude con il parto prematuro di Bianca che dà alla luce Isabella, parto prematuro dovuto al colpo per la perdita del fratello Diego. La povera ragazza era stata tenuta all'oscuro del degenerare della sua malattia. Durante la notte don Diego morente è rimasto affidato soltanto alla carità del sagrestano poiché a causa dei tafferugli in paese, nessuno aveva avuto il coraggio di uscire di casa. Diego muore tra l'indifferenza dei parenti, nessuno dei quali vorrebbe accollarsi le spese del funerale.
Cap. IV. Tradito dal barbiere mastro Titta, Ninì Rubiera vede consegnata la lettera d'amore indirizzata ad Aglae, prima donna di una compagnia teatrale, alla fidanzata Fifì. Aglae, che recita dentro e fuori del teatro, è una donna scaltra che cerca di ricavare i maggiori vantaggi possibili dal fascino che esercita sui provinciali vizzinesi, apparentemente ignara dei guasti patrimoniali che la passione può arrecare. Le malignità mormorate a teatro da parenti e conoscenti sulla paternità di Isabella non hanno alcun fondamento reale e sono l'ennesimo gratuito atto di ostilità nei confronti del mastro. Dopo i familiari e Bianca, neanche Isabella infatti potrà colmare il vuoto di affetti nel quale si muove il protagonista. Il baronello Rubiera per conquistare Aglae, le manda leccornie di ogni tipo, che insieme al suo collega consuma nella taverna. I due sono dei ruffiani. Alla fine Ninì riesce a raggiungere il suo scopo, indebitandosi fino al collo; la baronessa essendo venuta a conoscenza di ciò, gli ha tagliato i viveri. Il canonico Lupi intercede per lui presso Gesualdo, cercando di persuaderlo a fargli un prestito per sanare i debiti. Una volta morta la madre, lui otterrà l'eredità e da galantuomo qual è, estinguerà il debito contratto con Gesualdo.
Cap. V. La baronessa Rubiera viene a sapere della nuova amante di suo figlio e di tutti i soldi che per lei sperpera, che per certo non sono suoi, perché la baronessa gli aveva proibito di disporre della sua eredità. Una mattina un conoscente detto il Ciolla viene a farle visita, mettendole la pulce nell'orecchio riguardo al coinvolgimento di Gesualdo nell'affare come prestatore di denaro. La baronessa insospettita decide di andare al battesimo di Isabella Trao, per saperne di più, ma quando chiede spiegazioni a Bianca prima e a Gesualdo poi, le vengono negate. Alla cerimonia i parenti di Gesualdo non si presentano perché non si sentono degni di partecipare.. La donna è ossessionata dal pensiero che la sua “roba” è in imminente pericolo. L'aver concesso il denaro a Ninì è per Gesualdo un modo per vendicarsi di lei. A causa di tutti gli affanni la baronessa viene colpita da un ictus cerebrale che la rende paralitica e incapace di parlare. Ninì allora abbandona l'amante, si ravvede e inizia a prendersi cura della madre senza sosta come per espiare la sua colpa. Ora è lui ad avere in mano l'amministrazione della casa e per la madre inerte e muta è un dolore ogni volta che il figlio prende le chiavi dei magazzini, contenenti i suoi averi. Per l'improvviso malore non ha fatto in tempo a diseredare il figlio come invece sarebbe stato nelle sue intenzioni. L'unica ragione per cui Ninì lascia Aglae è perché ha saputo che la madre aveva intenzione di chiamare il notaio e quindi per paura di perdere l'eredità. Col prendersi cura della madre il ragazzo deperisce e non si cura più.
Parte terza
Cap. I. Si parla della figlia di Gesualdo. Isabella prima dei cinque anni viene mandata in collegio. Bianca, dopo il parto, aveva iniziato a deperire di giorno in giorno, perché malata di tubercolosi come i fratelli, e non vorrebbe separarsi dalla figlia. Essendo Isabella l'unica figlia, Gesualdo desidera il meglio per lei: la migliore educazione, che possegga tutto ciò che a lui è mancato, che conduca una vita pari a quella della figlia di un nobile.
Le compagne di collegio vedono di malocchio la bambina, in quanto figlia di un arricchito, condizionate in questo dall'opinione dei parenti. Le lanciano continue frecciatine sulla sua condizione di inferiorità. Quando il padre va a trovarla, ella ha nei suoi confronti lo stesso atteggiamento della madre: restio al contatto fisico e quasi di repulsione nei suoi confronti. La ragazzina si sente solo Trao, rinnegando il cognome Motta.
Fifì Margarone, dopo il tradimento di Ninì, non intende più sposarlo, perciò lui per ragioni di interesse e di tutela del suo casato sposa Giuseppina Alosi; ella infatti garantisce il debito del marito ipotecando le proprie terre a favore di mastro don Gesualdo, non avendo Ninì la disponibilità di denaro che gli occorre. Quando Isabella è più grande passa al primo educatorio di Palermo. Quando si trova di fronte a lei, Gesualdo prova soggezione, tanto è la nobiltà della sua persona. Né il fratello di Bianca né i parenti di Gesualdo sentono legami con la ragazza, con la quale infatti mantengono una distanza. Anche quando imperversa l'epidemia di colera tutti i parenti rifiutano per orgoglio l'aiuto di Gesualdo, che offrirebbe volentieri la propria dimora in campagna, lontano dal paese appestato. Non vogliono mischiarsi a persone tanto diverse.
Cap. II. In campagna a Mangalavite dà ricovero a mezzo paese a causa dell'incalzare del colera. Isabella, uscita dal collegio per il diffondersi dell'epidemia, vive in campagna un'esistenza infelice poiché si sente sola, in un ambiente privo di stimoli, eccezion fatta per il rapporto che si viene a creare con il cugino Corrado, di cui Gesualdo diffida in quanto letterato e quindi in grado di incantare la sua figliola con le sue belle parole.
Cap. III. Gesualdo si reca alla Salonia dopo aver appreso che anche il padre si è ammalato di colera; l'uomo arriva giusto in tempo per vederlo morire nella notte. La sorella Speranza, fintamente addolorata, si preoccupa unicamente della ripartizione dell'eredità e rifiuta ancora una volta l'aiuto di Gesualdo, che si offre di condurre con sé tutta la famiglia a Mangalavite. Amareggiato per l'ingratitudine della sorella se ne ritorna a casa, dove Nanni l'Orbo lo mette in guardia sulla tresca tra Isabella e Corrado. Gesualdo allora va su tutte le furie e impone a lui e alla zia Cirmena di andarsene. Gesualdo è cosciente del fatto che Cirmena vorrebbe far sposare al nipote la ragazza per migliorare la loro situazione economica ma lui a “rovinare il sangue” non ci sta, mettendo in secondo piano però la felicità della figlia.
Cap. IV. Gesualdo tenta in tutti i modi di scoraggiare la passione di Isabella per Corrado ma alla fine è costretto a ricondurla in convento. La madre difende a spada tratta la figlia; è uno strazio per lei doversene separare e questa rimarrà una ferita insanabile nel suo cuore. Vorrebbe tenerla con sé per quel poco che le resta da vivere ma il marito è irremovibile. Tuttavia amici e parenti gli remano contro e lo pugnalano alle spalle, facendo scappare la ragazza dal convento cosicché i due amanti hanno la possibilità di riunirsi. Ma la giovane ormai è compromessa e Cirmena auspica le nozze tra il figlio e Isabella. Tuttavia quando Gesualdo viene a conoscenza della situazione, fa intervenire la polizia e Corrado è mandato in esilio. Si paventa intanto la possibilità di un matrimonio riparatore, con un uomo maggiormente all'altezza di Isabella; costui sarà il duca di Leyra, nobile di Palermo, oberato di debiti, perché per niente avvezzo agli affari. Isabella andava a piangere dai parenti e a supplicarli di non sacrificarla. Gesualdo, conosciuta la reputazione dell'uomo, non è più convinto di concedergli in sposa la figlia, ma messo alle strette da tutti, in particolare dal marchese Limoli che vuol fargli capire che la ragazza è rimasta incinta di Corrado, alla fine acconsente. Il matrimonio viene celebrato in fretta, senza troppe cerimonie e i due coniugi partono per Palermo.
Parte quarta
Cap. I. Sei mesi più tardi nasce il figlio di Isabella e Corrado, della cui illegittimità Gesualdo tiene all'oscuro Bianca. A causa del parto di Isabella, Gesualdo è costretto a donare altre proprietà (oltre a quelle della dote) al genero per placare la sua ira. Il padre è addoloratissimo per il fatto che i terreni assegnati in dote vengono mal gestiti e coltivati dopo tutte le fatiche che aveva fatto a metterli insieme. Il genero continuava a contrarre debiti e lui era costretto a provvederci cosicché tutti i suoi risparmi cominciavano a essere dissipati. Bianca intanto continua a peggiorare con l'unico desiderio di poter rivedere la figlia un'ultima volta, evento che non si verificherà. La donna accusa Gesualdo di averle strappato la figlia contro la sua volontà. Bianca è in fin di vita e per l'occasione si presentano al suo capezzale i parenti più stretti: prima il barone Zacco e la sua famiglia; il barone più che mostrare dolore per la sua imminente fine parla imperturbabilmente d'affari, sparlando del canonico Lupi e di Ninì Rubiera, con la scusa di voler distrarre la povera Bianca. Si presentano poi Ninì e la consorte, con il pretesto di voler visitare la cugina malata, ma con il vero intento di chiedere l'ennesimo aiuto economico a Gesualdo. La visita a Bianca per entrambe le famiglie di parenti diviene una copertura per poter sancire un accordo economico con Gesualdo. Le sorelle Zacco pensano già a quale potrebbe essere una nuova moglie per l'uomo e per questo Bianca lo implora di non farle più venire. Vi è così da parte sua, per la prima volta, quasi la dimostrazione di un sentimento nei confronti del marito.
Cap. II. Tutte le serve abbandonano la casa dei coniugi Motta per paura di essere contagiati dalla tisi. Come ultima speranza Gesualdo manda a chiamare Diodata, il cui marito acconsente a farla lavorare solo su compenso economico. Tuttavia Bianca per gelosia la rifiuta e non vuole avere niente a che fare con lei. Gesualdo decide di far chiamare tutti i parenti di Bianca perché la poveretta sta per morire. La donna muore senza che la figlia sia potuta accorrere al suo capezzale, ignara della degenerazione della malattia materna, che il duca aveva voluto tenerle nascosta.
Cap. III. Dopo la morte di Bianca anche Gesualdo si ammala di un tumore allo stomaco a causa di tutti i dispiaceri e gli affanni. Si paventa infatti una rivoluzione da parte dei villani che vogliono che le terre comunali siano egualmente ripartite fra loro. La sua roba è minacciata e come se non bastasse tutti gli hanno voltato le spalle.
Cap. IV. Le pretese della povera gente sui possedimenti dei più ricchi, primo fra cui spicca Gesualdo, si fanno sempre più pressanti. Da tanto tempo mal visto dai poveri, è ora non solo diffamato da coloro che hanno debiti nei suoi confronti, ma anche dai signori, i quali cercano di dirottare l'ira popolare nei confronti del più potente e ricco di loro. Ormai stanco di Gesualdo, il popolo in rivolta assalta i suoi magazzini. Questo capitolo è ambientato in concomitanza durante gli inizi dei moti del 1848.
Capit. V. Intanto la malattia di Gesualdo, manifestatasi in concomitanza con la morte di Bianca, degenera a tal punto che il duca di Leyra decide di portarlo a Palermo con la falsa intenzione di farlo visitare dai migliori medici della città e assicurargli le cure più efficaci. La figlia gli fa visita nelle sue stanze tutte le mattine, più per un dovere morale, che per sua reale volontà. Il palazzone in cui vivono i duchi è un surplus di sfarzo e sprechi, popolato da uno stuolo di servi che ostentano una finta riverenza nei confronti del padrone ma che oziano per la maggior parte del tempo. I due coniugi sembrano andare d'amore e d'accordo ma lei in realtà conduce una vita carica di menzogne, di ipocrisia, coltivando altre relazioni. Il genero vuole impedire a Gesualdo di far testamento perché teme che egli possa lasciare ad altri parte della propria fortuna. Egli infatti ha degli scrupoli di coscienza nei confronti dei figli avuti con Diodata. Durante l'ultimo colloquio tra padre e figlia sembra crearsi un po' di tenerezza e complicità tra loro, che subito svanisce poiché i due non riescono a comunicare: lei rimane una Trao, una d'un'altra pasta e lui un Motta, lei trincerata nel suo rancore e lui attanagliato dal dubbio circa l'essere o meno il vero padre di Isabella. L'ultima richiesta che rivolge alla figlia è di concedere del denaro a Diodata e ai suoi figli (ma per opposizione del genero, questa richiesta non verrà eseguita). La sua tragica fine avviene pochi giorni dopo, durante la notte, in solitudine, tra l'indifferenza dei servi, che ignorano e anzi risultano infastiditi dai suoi lamenti di dolore, che credono essere solamente delle lagne di un povero vecchio. Un dovere come un altro servire chi realmente è nato meglio di loro; inaccettabile servire un arricchito ma loro pari dal punto di vista sociale. L'uomo ha le mani ancora segnate dalla calcina, primo particolare dell'aspetto fisico del mastro sottolineato dal Verga nel capitolo III, mani da cui i servi capiscono "com'era nato". Tutte le ricchezze accumulate da Gesualdo verranno dilapidate dal genero.
Temi
Mastro-don Gesualdo è uno dei capolavori di Giovanni Verga e appartiene al ciclo, incompiuto, dei Vinti. Il romanzo è infatti incentrato sulla figura di Gesualdo Motta, un uomo che nel corso della sua vita sacrifica ogni affetto a ragioni strettamente economiche ritrovandosi alla fine schiacciato e sconfitto dall'aridità di cui si è circondato.
Il tema del romanzo risulta evidente sin dal titolo: il personaggio principale, Gesualdo Motta è soprannominato dai suoi compaesani "mastro-don". Si tratta di un nomignolo dispregiativo che sottolinea la natura di parvenu di Gesualdo, una via di mezzo fra "Mastro" (appellativo riservato ai manovali che dirigono un gruppo di muratori) e "Don" (epiteto riservato a signori e proprietari terrieri).
Il protagonista, infatti, da semplice muratore diventa prima imprenditore, poi proprietario terriero e infine marito di una nobildonna della famiglia Trao; da qui il suo conseguente isolamento, poiché viene detestato sia dai paesani di basso ceto, che sono invidiosi della sua scalata sociale, sia dal ceto nobiliare, che lo considera solo un bifolco arricchito.
Il romanzo è costituito da ventuno capitoli suddivisi a loro volta in quattro parti, corrispondenti alle quattro più importanti fasi della vita del protagonista: il matrimonio con Bianca Trao, il successo economico, l'inizio del declino di Gesualdo e infine la sua morte. Si tratta quindi di un romanzo che ricorre a una tecnica per scorci: i fatti più importanti vengono isolati grazie ad ampi salti temporali.
Il romanzo, oltre a mostrare la decadenza dell'aristocrazia, presenta una contrapposizione tra successo economico-sociale e affetti familiari. Il protagonista è un arrampicatore sociale i cui tratti salienti sono l'intraprendenza borghese, l'individualismo, il materialismo e la fine degli ideali, tanto che l'affannosa aspirazione alla "roba" e all'ascesa sociale segnano una corsa verso l'alienazione e la solitudine senza speranza.
Enrico Guarneri in scena con Mastro Don Gesualdo Eventi a Ravenna
AUDIO
Eugenio Caruso - 7 agosto 2022