Il denaro è come il concime: non serve se non è sparso.
Francis Bacon
Nel 2007 l’economia mondiale ha mantenuto un ritmo di crescita molto sostenuto, con la prosecuzione della fase di robusta espansione in corso da ormai un quadriennio. Nella seconda parte dell’anno, l’emergere di squilibri sui mercati finanziari – di cui tuttavia l’economia mondiale ha risentito in misura complessivamente limitata – e le tensioni sui prezzi delle materie prime hanno intaccato la robustezza della congiuntura internazionale.
I prodotti energetici hanno registrato un aumento pressoché continuo, accentuatosi ulteriormente nei primi mesi del 2008, seguendo l’evoluzione delle quotazioni del petrolio che hanno superato recentemente il limite di 130 dollari/barile. Analoga situazione si è registrata per le materie prime alimentari, e in particolare per i cereali. Questi rialzi hanno generato spinte inflazionistiche di rilievo, che si sono diffuse in tutte le economie. Per i paesi dell’Eurozona le pressioni sono state in parte attutite dal forte apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro.
Le economie dell’Eurozona (Uem) hanno mantenuto nella media del 2007 un ritmo di espansione piuttosto robusto (2,6 per cento), lievemente inferiore a quello dell’anno precedente ma, soprattutto, più discontinuo. In rallentamento nell’ultima parte del 2007, la crescita è tornata vivace nel primo scorcio del 2008, riflettendo così il forte aumento registrato in Germania.
Nel 2007 il prodotto interno lordo dell’Italia è cresciuto dell’1,5 per cento, con un risultato meno favorevole dell’anno precedente (1,8 per cento). Il differenziale negativo di crescita dell’Italia rispetto alla media Uem è rimasto nell’ordine di un punto percentuale.
Il Pil trimestrale mette in luce una secca caduta dell’attività nel quarto trimestre (-0,4 per cento in termini congiunturali) seguita, tuttavia, da un recupero di analoga ampiezza nel primo trimestre del 2008. Sulla base di questa evoluzione, la variazione del Pil nel 2008 acquisita al primo trimestre è positiva ma molto contenuta (+0,2 per cento).
Nel 2007 è proseguita, con un indebolimento nella parte finale dell’anno, la fase di moderata espansione dell’attività produttiva che aveva già caratterizzato l’anno precedente. Tutti i principali settori hanno realizzato incrementi del valore aggiunto, eccetto quello agricolo. Il settore dei servizi e quello delle costruzioni hanno continuato a espandersi a ritmi moderati ma regolari; la dinamica del valore aggiunto dell’industria in senso stretto è rimasta positiva seppure molto attenuata rispetto all’anno precedente.
Il maggiore contributo alla prosecuzione dell’espansione dell’economia italiana è giunto dal lieve rafforzamento della dinamica dai consumi delle famiglie, aumentati in termini reali dell’1,4 per cento.
Questa positiva evoluzione è stata favorita, oltre che da una lieve risalita della propensione al consumo, dal discreto aumento del reddito disponibile, cresciuto in termini reali dell’1 per cento, dovuto alla spinta dei redditi da lavoro indipendente e di quelli derivanti da attività finanziarie.
La componente di reddito associata al lavoro dipendente ha mantenuto una dinamica più contenuta, a causa del rallentamento delle retribuzioni lorde per unità di lavoro.
Il processo di accumulazione del capitale ha subito nel 2007 gli effetti del rallentamento del ciclo economico e del peggioramento delle aspettative, registrando una significativa decelerazione. La crescita è stata dell’1,2 per cento, sostenuta essenzialmente dal rafforzamento, pur moderato, della dinamica della componente delle costruzioni, in particolare di quelle residenziali. Per il comparto dei mezzi di trasporto e per quello dei beni immateriali vi è stato un rallentamento rispetto al 2006, mentre gli investimenti in macchine e attrezzature hanno registrato una lieve contrazione (-0,3 per cento) che ha interrotto la tendenza espansiva del triennio 2004-2006.
La domanda estera netta ha fornito un contributo quasi nullo alla crescita del Pil, derivante da un’espansione robusta, sebbene meno vivace che nel 2006, per entrambe le componenti dell’interscambio di beni e servizi. In volume, le esportazioni totali e le importazioni sono cresciute rispettivamente del 5,0 e del 4,4 per cento. Con specifico riferimento ai flussi di merci, il valore delle esportazioni è invece aumentato dell’8 per cento, in linea con la crescita registrata dall’insieme dell’area euro. La dinamica delle importazioni è stata assai più contenuta e in marcato rallentamento rispetto al 2006, a causa della brusca frenata dei valori medi unitari delle merci acquistate (4,4 per cento). Ciò ha comportato un ampio miglioramento della bilancia commerciale: il deficit complessivo si è infatti ridotto da 20,5 miliardi di euro nel 2006 a 9,4 nel 2007, mentre quello misurato al netto dei prodotti
energetici ha segnato un attivo di 37,1 miliardi di euro, assai maggiore di quello del 2006. La crescita delle esportazioni italiane è stata molto più marcata (+10 per cento) per la componente destinata ai paesi extra-Uem. In questi mercati la performance è stata migliore di quella media dei paesi dell’euro e può essere ricondotta sia al favorevole impatto della specializzazione settoriale, sia al miglioramento delle condizioni generali di competitività delle nostre esportazioni sui mercati extra-comunitari. La dinamica si è intensificata nei primi mesi del 2008. I prezzi alla produzione e quelli al consumo hanno risentito in misura consistente delle tensioni internazionali sui prezzi delle materie prime e del petrolio.
La crescita dei prezzi dell’output del complesso dell’economia (+2,4 per cento) è stata inferiore a quella dell’anno precedente. Il rallentamento ha riguardato sia i costi degli input, in risalita solo nella parte finale dell’anno, sia il costo del lavoro per unità di prodotto (incrementatosi dell’1,4 per cento), che ha beneficiato dell’andamento moderato del costo del lavoro per dipendente e di un modesto recupero della produttività del lavoro.
I prezzi alla produzione dei prodotti industriali sul mercato interno hanno registrato una rapida accelerazione a partire dall’autunno, con un tasso di crescita tendenziale che ha raggiunto il 4,5 per cento nel quarto trimestre e si è avvicinato al 6 per cento nei primi mesi del 2008.
Il 2007 è stato caratterizzato da una crescita dei prezzi al consumo contenuta nella media dell’anno, ma in netta accelerazione dopo l’estate. La risalita, comune alle altre economie dell’Uem, ha investito l’intera filiera dei prezzi e si è traslata sui consumatori nella parte finale dell’anno. L’accelerazione ha riguardato soprattutto i prezzi dei beni: nel primo trimestre del 2008 il tasso di incremento tendenziale si è avvicinato al 5 per cento per la componente alimentare e al 9 per cento per quella energetica. Con intensità minore le tensioni si sono estese anche al settore dei servizi e in particolare alla componente non regolamentata.
I forti rincari dei beni alimentari ed energetici hanno contribuito ad allargare il differenziale tra la dinamica dei prezzi dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto e quelli acquistati con frequenza media o bassa. Il tasso di crescita dei primi, vicino al 3 per cento nella media del 2007, ha raggiunto il 4 per cento nel quarto trimestre e si è portato al 5 nei primi mesi di quest’anno, analogamente a quanto manifestatosi per il complesso dell’Uem, come risulta da analisi ad hoc dell’Istat.
L’evoluzione di questa componente influenza verosimilmente il giudizio dei consumatori sulla perdita di potere d’acquisto derivante dall’inflazione, con ulteriori impatti negativi sui comportamenti di spesa. Inoltre, la fase di rapida accelerazione dell’inflazione – pur interessando tutto il territorio nazionale – si è manifestata con maggiore intensità nel Mezzogiorno, con un differenziale dell’ordine di un punto percentuale rispetto alle regioni del Nord. Questo andamento conferma una tendenza che ha visto, nell’ultimo quinquennio, una più forte dinamica dei prezzi al consumo nel Sud e nelle Isole e che può essere ricondotta ai più bassi livelli di partenza, alle inefficienze del sistema distributivo e ai comportamenti di spesa (si vedano le elaborazioni recentemente effettuate sui livelli dei prezzi in venti
capoluoghi).
In merito al conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche, nella versione provvisoria relativa all’anno 2007, si è registrato un miglioramento significativo: l’incidenza dell’indebitamento netto sul Pil è scesa all’1,9 per cento, dal 3,4 dell’anno precedente. Il saldo primario (indebitamento al netto della spesa per interessi) è risultato positivo e pari al 3,1 per cento del Pil, in forte risalita rispetto allo 0,3 del 2005 e all’1,3 per cento del 2006. Grazie a questi risultati lo stock di debito pubblico italiano in rapporto al Pil è passato dal 106,5 per cento dell’anno precedente al 104,0 per cento.
Le risposte delle imprese alla globalizzazione
Oltre ai vincoli di carattere macroeconomico che l’evoluzione ciclica recente ha riproposto, continuano a operare quelli legati alle caratteristiche e alla performance delle strutture produttive.
L’economia italiana nell’ultimo decennio è cresciuta meno delle altre maggiori economie dell’Unione (la variazione del Pil è stata in media dell’1,4 all’anno rispetto al 2,5 dell’Ue27). Inoltre, in Italia la crescita del prodotto è spiegata soprattutto dall’aumento dell’occupazione, mentre la produttività del lavoro ha avuto una dinamica particolarmente debole e in alcuni anni addirittura negativa.
Questa combinazione ha determinato un peggioramento della nostra capacità competitiva nel confronto con i principali partner europei.
Del resto, l’andamento della produttività è stato negativo in tutti i settori fuorché nell’agricoltura, e peggiore proprio in quelli – come le attività finanziarie e i servizi alle imprese – cresciuti maggiormente negli ultimi anni (2001- 2006) e che spiegano oltre metà (53 per cento) della crescita del Pil.
Un’analisi di lungo periodo della crisi di produttività dell’economia italiana mostra come negli anni Novanta abbiano influito negativamente i processi di ricomposizione della struttura produttiva nella direzione della deindustrializzazione, ma mostra anche come gli effetti di riallocazione settoriale dell’occupazione siano ormai sostanzialmente esauriti e non possano essere invocati, se non in minima parte, a spiegazione della perdurante stasi della produttività.
Tra il 2001 e il 2005 (che è stato peraltro l’anno terminale di una fase di stagnazione), analizzando i conti economici delle imprese nel loro complesso e in termini unitari (cioè per addetto), il valore dell’input è aumentato più di quello dell’output. Dunque vi sono segnali in atto di riorganizzazione diversi dalla ricomposizione settoriale della struttura produttiva, che intervengono all’interno delle imprese, negli stessi processi produttivi, nell’esternalizzazione (anche all’estero) di fasi della produzione. L’effetto sulla produttività è comunque negativo, poiché comporta il ridimensionamento del valore aggiunto per addetto (cioè della produttività apparente del lavoro), soprattutto nelle piccole e medie imprese e nella manifattura. Sempre nello stesso periodo e con riferimento all’aggregato delle imprese, altri indicatori sono negativi: la competitività di costo è caduta del 4 per cento circa; la redditività, peraltro tra le più alte d’Europa, è in calo di circa due punti percentuali in termini di fatturato; anche l’incidenza degli investimenti sul valore aggiunto fa registrare un calo di 2 punti percentuali.
D’altro canto, sul fronte delle esportazioni, come si è già accennato, il quadro è confortante se si osservano le tendenze successive al 2005 e tuttora in corso, con particolare riferimento ai mercati extra-comunitari. L’Italia continua a registrare un’erosione della propria quota del commercio mondiale, ma solo in virtù del peso crescente delle economie emergenti, e in particolare della Cina. In termini di quote le economie avanzate hanno tutte perso terreno. In questo contesto, l’arretramento fatto registrare dall’Italia (0,9 punti percentuali in meno tra il 1997 e il 2006) è inferiore a quello sperimentato da Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone. Nonostante il differenziale negativo di produttività, la capacità di penetrazione degli esportatori italiani è dunque stabile o in crescita, soprattutto verso i mercati più dinamici e ricettivi (ad esempio la Russia). Tra l’altro, tra il 2005 e il 2007 il grado di diversificazione geografica e merceologica delle esportazioni è aumentato: il 15,5 per cento degli operatori è stato presente su oltre dieci mercati e il 7,7 per cento ha esportato più di dieci tipologie di prodotti.
Tra le strategie e i comportamenti virtuosi adottati dalle imprese più dinamiche assume una rilevanza crescente il fenomeno dell’internazionalizzazione produttiva, ossia il trasferimento strategico di funzioni aziendali in paesi che offrono condizioni più favorevoli al loro svolgimento. Un’analisi del fenomeno è stata svolta prendendo in considerazione sia cause ed effetti del trasferimento all’estero di attività produttive nazionali (international sourcing), sia caratteristiche e tendenze evolutive delle unità produttive nazionali controllate da imprese estere.
Circa la metà delle grandi imprese industriali italiane ha ormai trasferito all’estero parte dei propri processi. L’impatto sulle performance generali di impresa è positivo anche per l’aumento della capacità di vendita dei nostri prodotti sui mercati esteri. L’effetto netto sull’occupazione invece è negativo in termini quantitativi (i posti di lavoro soppressi sono più di quelli creati), sebbene in termini qualitativi si assista a un processo favorevole di mutamento nella composizione occupazionale delle imprese coinvolte, con un aumento del peso dei profili professionali più specializzati (skill upgrading).
La presenza di multinazionali estere in Italia resta invece piuttosto contenuta, specialmente se la si confronta con la situazione degli altri paesi avanzati. È tuttavia in forte crescita in alcuni comparti produttivi (petrolifero, mezzi di trasporto e telecomunicazioni). Si attua secondo modelli diversi per le attività manifatturiere (in cui prevale l’acquisizione di imprese esistenti) e per quelle dei servizi (in cui è relativamente più frequente la costituzione di nuove unità produttive – investimenti greenfield).
In conclusione, anche se sono molte le imprese italiane capaci di comprendere le trasformazioni in atto su scala globale e di cogliere le opportunità di espansione sui mercati interni e internazionali, il modesto ritmo di sviluppo complessivo dell’attività testimonia il perdurare delle difficoltà del sistema: vincoli, inefficienze e ritardi allontanano le prospettive di crescita e di innovazione, e fanno anzi perdere terreno, quanto meno in termini relativi. L’approfondimento di questi aspetti è essenziale per la formulazione di possibili politiche d’intervento.
Un sistema produttivo in evoluzione
L’analisi dinamica della competitività del sistema è stata approfondita per il periodo 1999-2005 utilizzando i dati individuali sulle imprese, che consentono di prendere in considerazione sottopopolazioni di imprese omogenee per settore e dimensione.
Nella manifattura si registrano buone performance – in termini di incremento e di livelli di competitività – nel settore delle medie e grandi imprese petrolifere e nell’industria siderurgica. In declino, invece, la competitività di alcuni settori di imprese di medie e grandi dimensioni, quali cuoio e calzature, lavorazione dei minerali e chimica. Nei servizi, le performance peggiori in termini di perdita di competitività si registrano per le microimprese dell’informatica e della ricerca e sviluppo, per i servizi alle imprese di grandi dimensioni e per le piccole imprese d’autotrasporto.
I livelli medi e gli andamenti degli indicatori di performance, anche a un dettaglio settoriale e dimensionale molto disaggregato, nascondono ampi differenziali tra singole imprese, anche in relazione agli obiettivi che esse perseguono. Un’immagine esauriente dei comportamenti imprenditoriali è possibile utilizzando i dati individuali delle indagini strutturali dell’Istat sulle imprese. Nella precedente edizione del Rapporto annuale si erano offerti alcuni primi risultati riferiti a tutte le imprese, classificandole sulla base di indicatori che forniscono una misura approssimata della redditività e della produttività. In questa edizione, l’analisi è aggiornata al 2005 e approfondita scendendo nel dettaglio settoriale e dimensionale.
I confronti fanno riferimento a medie omogenee di imprese simili per settore (39 divisioni di attività economica, con l’esclusione dei comparti estrattivo, energetico e dei servizi pubblici e alle persone) e dimensione (4 classi).
Il segmento delle imprese con il comportamento più virtuoso, con livelli di produttività e di redditività superiori a quelli medi, raggiunge il 22 per cento del totale.
Si tratta di imprese relativamente più presenti nel Nord-est, nelle produzioni a medio- bassa tecnologia e nei servizi tecnologici, caratterizzate da un costo del lavoro per dipendente e una spesa per la formazione del personale più elevati della media.
Quelle con produttività sensibilmente al di sopra della media, ma bassa redditività, sono poco meno dell’8 per cento del totale. Esse sono imprese più orientate ai mercati internazionali, relativamente più presenti nel Nord, che (come le precedenti) sopportano un costo del lavoro per dipendente e una spesa per la formazione del personale più elevati.
Per contro, poco meno di un’impresa su due, pur con una produttività del lavoro inferiore alla media, consegue livelli di redditività superiori. Queste imprese, di piccolissime dimensioni (2,4 addetti in media), sono relativamente più presentinelle regioni del Centro, nel settore delle costruzioni e mostrano livelli di costo del lavoro per dipendente, di investimenti e di spese per servizi inferiori a quelli medi.
Infine, circa un’impresa su quattro consegue livelli di redditività e di produttività inferiori a quelli medi. Queste imprese sono relativamente più presenti nel Mezzogiorno e mostrano un indice di competitività particolarmente basso.
Nel valutare questi risultati, è tuttavia opportuna qualche cautela. L’esistenza di imprese con bassa redditività che tuttavia continuano a operare (sono circa un terzo del totale) non è necessariamente indice di scarsa efficienza dei mercati; si vedrà tra breve, infatti, che la demografia d’impresa, attraverso meccanismi di selezione, contribuisce anche nel nostro Paese ad accrescere la performance del sistema. D’altro canto, soprattutto nel segmento delle imprese fino a 10 addetti – particolarmente rilevante in Italia – in molti settori manifatturieri e dei servizi la remunerazione delle attività imprenditoriali e lavorative degli addetti indipendenti risulta eguale o inferiore a quella dei lavoratori dipendenti dei medesimi settori di appartenenza.
Tra i fattori che, soprattutto nel nostro Paese, spiegano l’evoluzione della competitività, della produttività e della capacità di esportare vi sono la localizzazione delle imprese e il contesto di riferimento. I risvolti territoriali della distribuzione dei profili delle imprese mettono in luce aspetti relativamente meno esplorati del divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno.
Il tessuto produttivo meridionale è meno denso di quello delle altre ripartizioni:per mille residenti in età di lavoro (15-64 anni), si contano rispettivamente oltre 125 imprese al Centro-Nord a fronte di 88 nel Mezzogiorno. Anche il numero di posti di lavoro nel settore privato al Nord (545) è due volte quello del Mezzogiorno (274), anche se in questa ripartizione le dinamiche delle imprese mettono in evidenza una netta espansione. Alla luce degli indicatori strutturali più recenti, il sistema produttivo meridionale, infatti, presenta alcuni comportamenti virtuosi, anche se a partire da livelli iniziali molto bassi e in un quadro di grande fragilità. Tra il 1999 e il 2005, la crescita delle imprese e soprattutto degli addetti è stata nel Mezzogiorno più vivace che nel resto del Paese. Nel quadro di un bilancio demografico delle imprese nettamente in attivo, il sistema produttivo meridionale appare però particolarmente instabile, con bassi valori del tasso di sopravvivenza a cinque anni ed elevati valori di natalità e mortalità. All’opposto nel Nord-est la popolazione di imprese, anche qui in crescita, si caratterizza per una maggiore regolarità dei flussi demografici.
La distribuzione territoriale delle variazioni del fatturato per addetto disegna, invece, una separazione più netta tra Mezzogiorno e resto del Paese. Nella ripartizione meridionale, infatti, le imprese sono cresciute molto più in termini di occupazione che non di dimensione economica, soprattutto per effetto della specializzazione in settori a bassa produttività.
A livello territoriale più dettagliato, quello dei sistemi locali del lavoro raggruppati per specializzazione prevalente, l’aumento del fatturato per addetto realizzato tra il 1999 e il 2005 può essere ricondotto a tre meccanismi principali.
La crescita interna a ogni impresa e il guadagno di quote di mercato delle imprese più efficienti a scapito di quelle meno produttive contribuiscono per poco meno del 60 per cento dell’aumento complessivo. Il contributo del turnover demografico è meno rilevante perché, anche se sono positivi gli effetti delle uscite dal mercato delle imprese più inefficienti, quelle che nascono hanno ancora una bassa produttività. La componente di crescita individuale è molto forte in alcuni sistemi come quelli urbani a bassa specializzazione, agroalimentari, della meccanica, dei materiali da costruzione e del tessile.
Il ruolo delle nuove imprese è relativamente più importante nei sistemi dell’occhialeria, dell’abbigliamento e della meccanica, nonché in altri comparti a crescita più lenta, come quelli turistici, del cuoio e del legno.
Le esportazioni delle imprese manifatturiere, tra il 1995 e il 2006, sono aumentate in termini nominali del 34 per cento, ma si deve sottolineare come il Mezzogiorno nel suo complesso registri una performance quasi doppia (63,6 per cento) grazie soprattutto all’Abruzzo e alla Sicilia (dove però il dato è influenzato dalla presenza delle attività petrolchimiche). Gran parte della crescita delle esportazioni è comunque attribuibile alle ripartizioni settentrionali, che spiegano circa l’80 per cento della variazione complessiva, con incrementi superiori al 40 per cento in Lombardia ed Emilia-Romagna. Molto buona la performance dei sistemi locali della meccanica, i quali incidono per poco meno del 20 per cento sulla crescita complessiva dell’export nazionale.
L’analisi del sistema produttivo condotta per sistema locale restituisce quindi un quadro di grande ricchezza e complessità, in cui il tradizionale divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno trova conferme, ma anche qualificazioni: nella ripartizione meridionale si concentrano le situazioni più difficili quanto ai livelli, ma anche le più dinamiche. Sotto il profilo delle configurazioni produttive prevalenti, trova ulteriore conferma la constatazione che i modelli di specializzazione del “made in Italy” seguono in realtà percorsi evolutivi differenti, a seconda che si tratti delle produzioni più tradizionali e meno dinamiche (tessile e abbigliamento, pelli e calzature), o di quelle a contenuto tecnologico relativamente più elevato (il comparto della meccanica in primis). Emergono inoltre alcuni segnali (ad esempio, nella performance all’esportazione) che una ristrutturazione organizzativa e produttiva è stata portata a compimento con risultati apprezzabili, e coinvolge gli stessi settori più tradizionali (ad esempio, il tessile).
In realtà, lo sviluppo spaziale delle attività economiche continua a operare secondo le modalità e nelle direzioni in atto dall’inizio degli anni Settanta: nella maggior parte dei settori manifatturieri la crescita trova origine in poli di sviluppo e si diffonde nelle aree contermini per contiguità o per contagio, grazie alla presenza di legami economici sul versante dei fattori della produzione o delle componenti della domanda intermedia e finale. I percorsi di localizzazione trasformano con gradualità la geografia produttiva del Paese, generando vincoli ma anche nuove opportunità.
A seguire queste traiettorie di sviluppo sono i settori della manifattura leggera che caratterizzano il “modello distrettuale” italiano (le industrie alimentari, quelle editoriali, il vasto comparto dei prodotti in metallo e della meccanica, incluse le macchine per ufficio e gli strumenti ottici), ma anche alcune industrie “pesanti” in cui prevalgono impianti di maggiori dimensioni e forti investimenti in capitale (industrie della raffinazione, della chimica e dei mezzi di trasporto).
Il permanere di queste disparità – quella tra Centro-Nord e Mezzogiorno, che continua a essere determinante, ma soprattutto quella tra sistemi locali e vocazioni territoriali differenti, più frazionata ma non meno importante – condiziona i comportamenti sul mercato del lavoro, le condizioni economiche delle famiglie e le abitudini di consumo. D’altro canto, il persistere delle tendenze di lungo periodo offre un segnale chiaro per gli individui e le famiglie, anche di immigrati: tra le molte ragioni che motivano gli spostamenti di residenza tra sistemi locali, quelli legati alla vivacità economica dei sistemi territoriali, e dunque alle prospettive occupazionali, hanno un peso importante, soprattutto negli spostamenti a lungo e a medio raggio.
I confini del mercato del lavoro
Nel 2007 il mercato del lavoro mostra alcuni segnali di difficoltà. L’occupazione continua a salire, ma con un ritmo dimezzato rispetto al 2006. Inoltre, questa crescita, concentrata nelle regioni settentrionali e centrali, è dovuta per i due terzi alla perdurante espansione della forza lavoro straniera.
Permangono per l’Italia le difficoltà a centrare gli obiettivi fissati a Lisbona, relativamente ai livelli di partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto nelle regioni meridionali, e all’incapacità del sistema economico di valorizzare il capitale umano.
Il tasso di attività si attesta nel 2007 al 62,5 per cento, rispetto al 70,5 per cento dell’Ue27. I divari territoriali e di genere sono ancora molto accentuati: si va dal 69 per cento del Nord al 52 per cento del Mezzogiorno, e dal 74 per cento degli uomini al 51 per cento delle donne. Nel 2007 le non forze di lavoro tra 15 e 64 anni hanno registrato un aumento dell’1,1 per cento (157 mila persone in più). Il risultato sintetizza la diminuzione registrata nelle regioni settentrionali e l’aumento in quelle centrali e, soprattutto, meridionali. Nel Mezzogiorno sono inattive più di sei donne ogni dieci, tra i 15 e i 64 anni.
L’aumento dell’inattività nel Mezzogiorno è un fenomeno con motivazioni sia cicliche sia strutturali: da un lato, il rallentamento della domanda di lavoro è stato più forte nelle regioni meridionali; dall’altro il dato strutturale delle minori opportunità occupazionali (regolari) che caratterizzano il Mezzogiorno scoraggia la partecipazione.
Lo stesso calo della disoccupazione, che perdura dal 1999, può essere letto in questa prospettiva. Nel 2007 i disoccupati ammontano a poco più di un milione e mezzo – circa un milione in meno rispetto a dieci anni prima. Tuttavia, negli anni più recenti la diminuzione non si è accompagnata a un significativo aumento del tasso di occupazione, ma a un allargamento dell’area dell’inattività, prevalentemente per la rinuncia a cercare attivamente un’occupazione.
La crescita dell’inattività ha interessato sia i giovani fino a 29 anni, che ritardano l’ingresso nel mercato del lavoro proseguendo gli studi, sia gli adulti delle regioni meridionali, soprattutto donne, che non cercano un’occupazione ma sarebbero disponibili a lavorare qualora se ne presentasse l’opportunità.
Tra gli inattivi si possono distinguere due aree: una distante dal mercato del lavoro, costituita da chi non è né interessato né disponibile a lavorare (casalinghe, studenti, ritirati dal lavoro eccetera) e una “zona grigia”, composta invece da soggetti che a vario titolo si mostrano interessati a lavorare. Tra questi, le “forze di lavoro potenziali” costituiscono un segmento degli inattivi più contiguo alle forze di lavoro. Si tratta di persone che dichiarano di essere alla ricerca di lavoro e disponibili a lavorare, anche se non hanno compiuto azioni di ricerca nelle quattro settimane che precedono l’intervista, e dunque non rientrano nei criteri stabiliti a livello internazionale per essere classificati come disoccupati. Le forze di lavoro potenziali
contano nel 2007 1,2 milioni di individui.
Le forze di lavoro potenziali sono un gruppo vicino ai disoccupati, anche nelle loro caratteristiche, ed entrambi questi gruppi si intersecano con il lavoro sommerso.
Al loro interno, vi sono soprattutto i residenti nelle regioni meridionali e gli individui con un grado di istruzione non superiore alla licenza media. Tra gli uomini prevalgono i giovani, mentre tra le donne sono ben presenti anche le classi di età più adulte. Sotto il profilo territoriale, si concentrano nelle aree di maggiore debolezza del mercato del lavoro. Su dieci individui che non hanno cercato lavoro in modo attivo, quattro dichiarano di essere scoraggiati circa la possibilità di trovare un’occupazione; cinque su dieci nel Mezzogiorno. L’incidenza degli scoraggiati aumenta al crescere dell’età (dal 37 per cento tra i 15 e i 24 anni al 57 per cento tra i 55 e i 64 anni) e nelle regioni meridionali (48 per cento), ove alle minori
opportunità d’impiego si affianca una maggiore sfiducia nella possibilità di trovare un’occupazione. Per altro verso, tra le forze di lavoro potenziali circa il 30 per cento degli uomini e il 20 per cento delle donne sono in attesa di conoscere l’esito di passate azioni di ricerca di lavoro. Nelle regioni settentrionali, caratterizzate da una maggiore vivacità, l’attesa dei risultati riguarda il 34 per cento della forza di lavoro potenziale maschile; tra i laureati, rappresenta il primo motivo della mancata ricerca di lavoro. Per le donne, come causa di mancata ricerca del lavoro si aggiungono gli impegni familiari: tra i 25 e i 44 anni una donna ogni tre indica difficoltà nella ricerca del lavoro dovute ai carichi familiari.
È pertanto necessario – al fine di definire le priorità delle policy e i criteri di allocazione delle risorse – arricchire la gamma di indicatori utilizzati per analizzare il mercato del lavoro. Il disequilibrio tra domanda e offerta si manifesta in una pluralità di forme e assumono rilevanza gli obiettivi dell’innalzamento della partecipazione, dell’utilizzazione del potenziale di lavoro e della valorizzazione del capitale umano, con riferimento a particolari gruppi di popolazione.
La diffusione del fenomeno dello scoraggiamento corrobora anche l’ipotesi dell’esistenza di perduranti difficoltà nell’ingresso nel mercato del lavoro, soprattutto per le donne e i giovani. D’altro canto, in Italia il canale informale continua a essere quello più utilizzato da chi cerca un’occupazione: la quota di lavoratori che vi ricorre è decisamente superiore a quella dell’Unione europea. Anche i datori di lavoro sembrano preferire i canali informali: la conoscenza diretta o la segnalazione costituiscono le principali modalità di selezione del personale per quasi un imprenditore su due. Del resto il ricorso a questo tipo di canale mostra comprovata efficacia, soprattutto laddove non vi siano barriere all’incontro tra domanda
e offerta, e non costituisce necessariamente un segno di arretratezza. Tuttavia, i soggetti più deboli sul mercato del lavoro hanno minori opportunità di accesso alle reti informali: i servizi di intermediazione pubblici e privati dovrebbero – cosa che attualmente non sempre avviene – correggere queste situazioni di svantaggio e assicurare a tutti il diritto al lavoro.
Redditi e consumi delle famiglie: disparità e convergenze
La geografia della disoccupazione e dell’inattività trova puntuale riscontro in quella della distribuzione del reddito familiare. Anche in questo caso il punto di partenza è rappresentato dal confronto con la situazione europea: dal punto di vista della disuguaglianza dei redditi l’Italia si caratterizza nel complesso per un grado di disparità leggermente superiore alla media europea, ma ancora una volta il riferimento alla media non è illuminante. In realtà, mentre il Centro-Nord presenta un grado di disuguaglianza pari a quello medio europeo, il Mezzogiorno è più simile ai paesi caratterizzati da maggiori disparità di reddito (Lettonia, Portogallo, Lituania e Grecia).
Il reddito netto delle famiglie residenti in Italia nel 2005 è pari in media a 2.300 euro mensili, inclusi gli effetti dei trasferimenti monetari – circa 700 euro al mese (se si includono i fitti imputati delle abitazioni – quasi 450 euro – il reddito netto mensile sale a 2.750 euro). Tuttavia, a causa della distribuzione disuguale dei redditi, se si fa riferimento al valore mediano, il 50 per cento delle famiglie ha guadagnato meno di 1.900 euro al mese. Le differenze dipendono, oltre che dal numero dei percettori presenti, anche dalle caratteristiche socio-demografiche dei componenti della famiglia, che il Rapporto analizza in dettaglio. Sono gli anziani soli a percepire i redditi più bassi, soprattutto nel caso delle donne con più di 65 anni che vivono da sole. La distribuzione del reddito equivalente offre un’ulteriore informazione sul livello di disuguaglianza: il venti per cento delle famiglie con i redditi più bassi percepisce circa l’8 per cento del reddito totale; come prevedibile, vi si concentra l’80 per cento delle famiglie in cui non sono presenti percettori di reddito da lavoro o da pensione. Per contro, il venti per cento delle famiglie con i redditi più elevati percepisce una quota pari a circa il 38 per cento e ha un reddito medio equivalente circa cinque volte superiore.
Le differenze riscontrate sul territorio permangono profonde: il reddito delle famiglie del Mezzogiorno è approssimativamente pari a tre quarti di quello delle famiglie del Centro-nord, se si escludono dal calcolo i fitti imputati. A livello regionale, il reddito netto familiare è inferiore alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, mentre è superiore in tutte le regioni centro-settentrionali a eccezione della Liguria, dove l’incidenza degli anziani è la più forte. La provincia autonoma di Bolzano e la Lombardia sono le aree con il reddito medio più elevato; il reddito medio familiare più basso si osserva invece in Sicilia. Se nel calcolo del reddito si tiene conto dei fitti imputati, le differenze territoriali risultano ancora maggiori. In questo caso, infatti, il divario fra il reddito familiare medio annuo del Nord e quello del Mezzogiorno è di 10 mila euro, mentre al netto dei fitti imputati la differenza è di circa 7 mila.
L’analisi dei dati derivanti dalla rilevazione sui consumi consente una lettura di più lungo periodo. Nel 2006 la spesa media mensile familiare in Italia ha raggiunto i 2.461 euro, con un incremento del 21,5 per cento in dieci anni.
Con riferimento alle spese per l’abitazione – problema segnalato più volte nel Rapporto annuale – i dati del 2006 confermano che le famiglie che vivono in affitto, il 18,2 per cento su scala nazionale, si concentrano nelle aree metropolitane e tra le famiglie con i redditi più bassi, con una spesa media mensile pari a 340 euro.
Nel 2006, il 13 per cento delle famiglie sopporta gli oneri di un mutuo per l’abitazione di proprietà (erano il 12 per cento nel 2004) e paga in una rata (comprensiva degli interessi e della quota di rimborso del capitale) di 559 euro al mese (la rata media era di 469 euro nel 2004), con un’incidenza sul reddito salita dal 16,5 al 19,2 per cento. Nel complesso, le spese per l’abitazione di queste famiglie ammontano a 811 euro al mese (da 702 nel 2004), con un incidenza sul redditopassata dal 24,7 al 27,9 per cento. Sono le coppie più giovani a sopportare più spesso i costi rilevanti (affitto o mutuo) per le abitazioni.
Nel periodo 1997-2006, per la variazione dei prezzi relativi e per il mutamento delle capacità e delle abitudini di acquisto, non solo si è modificato il livello della spesa per consumi, ma ne è anche variata la composizione. Le famiglie ne risentono in modo differente a seconda dei diversi livelli di spesa e delle abitudini di consumo. Tuttavia, in genere la spesa è cresciuta più rapidamente per le famiglie con i livelli di spesa equivalente più bassi, e più lentamente per quelle con i livelli di spesa più elevati: ad esempio, per il 20 per cento delle famiglie con i livelli di consumo più bassi, l’aumento nel corso del decennio è stato del 32 per cento,
mentre per il 20 per cento delle famiglie con i livelli di spesa più alti l’aumento è stato del 18 per cento. Si è dunque assistito, nel decennio, a una diminuzione delle disparità e a una convergenza dei modelli di consumo. Anche sotto il profilo qualitativo, la spesa delle famiglie tende a convergere, come è naturale, verso comportamenti di consumo e stili di vita più elevati. In generale, aumenta la quota di spesa destinata all’abitazione, ai trasporti e all’energia, mentre calano le spese per sanità, istruzione, tempo libero e cultura, oltre che – fisiologicamente – quelle destinate agli alimentari e agli altri beni di prima necessità.
La geografia delle migrazioni interne
Il Rapporto dello scorso anno aveva messo in luce come, dalla metà degli anni Novanta, abbiano ripreso vigore le migrazioni interne. Negli spostamenti a più lungo raggio entrano in gioco le condizioni del mercato del lavoro nella zona d’origine e in quella di destinazione e dunque, in ultima istanza, la forza relativa della struttura produttiva. Questo “gradiente” è alla base degli spostamenti di residenza, come risposta possibile (anche se non prevalente, come si è visto) alle difficoltà che affliggono in misura particolare i residenti nel Mezzogiorno.
Nel periodo 2002-2005 si contano in media circa 1,3 milioni di trasferimenti all’anno. Anche se negli spostamenti di lungo raggio prevalgono, come tradizione, quelli da sud a nord (in particolare da Campania e Puglia verso l’Emilia-Romagna e da Sicilia e Calabria verso la Lombardia), le “nuove” migrazioni seguono anche direttrici diverse da quelle del passato. L’analisi a livello di sistema locale del lavoro mette in luce l’esistenza di una rete particolarmente articolata che collega alcuni sistemi locali campani con nodi della Toscana e dell’Emilia-Romagna; anche alcuni sistemi delle Marche, inseriti in una rete di trasferimenti particolarmente densa, attraggono popolazione da sistemi del Sud.
La rete disegnata sul territorio italiano dagli spostamenti interni per trasferimenti di residenza è costituita da maglie fitte che collegano tra loro i 686 sistemi locali del lavoro. Per avere un’idea della densità della rete, si consideri che quella degli spostamenti con un raggio inferiore a 300 chilometri attiva l’11,7 per cento dei legami teoricamente possibili, mentre quella degli spostamenti a lungo raggio (sopra i 300 chilometri) è ancora più densa, attivando più del 15 per cento dei legami.
Anche la rete intessuta dagli spostamenti di residenza mette in luce una differenza sostanziale tra i comportamenti localizzativi prevalenti nel Centro-Nord e nel Mezzogiorno: nella prima macro-area, i trasferimenti di residenza fanno emergere un tessuto di connessioni tra sistemi locali del lavoro medio-piccoli in grado di determinare spostamenti di persone e di agire come polo di attrazione dei trasferimenti di lungo raggio; nel Sud e nelle Isole, invece, la rete di scambi a livello locale è meno densa di relazioni rispetto a quella di lungo raggio e segnala l’assenza di un tessuto connettivo tra i diversi sistemi locali dell’area. Laddove sussistono,
le reti tra sistemi locali possono essere ricondotte a quattro tipologie: le reti a scala regionale (ad esempio, intorno a Salò in Lombardia e ad Arzignano in Veneto),che includono numerosi sistemi locali a comune vocazione produttiva; le reti di piccoli sistemi locali collocate al centro di network di lunga distanza (è il caso di Reggio nell’Emilia e di Fano), che coinvolgono alcuni sistemi locali del Mezzogiorno, realizzando una divisione territoriale del lavoro; i network dei sistemi locali delle grandi città; i network attivati dai sistemi locali con forte disoccupazione (quali Crotone e Torre del Greco), che rappresentano soltanto l’origine di migrazioni dirette verso una pluralità di destinazioni.
È importante sottolineare che molti dei network migratori sono da ricondurre in larga parte a movimenti di stranieri. La popolazione italiana appare nel complesso meno propensa a trasferire la propria residenza.
Gli stranieri sono certo più mobili sul territorio rispetto agli italiani perché meno radicati, ma anche perché meno “protetti” dalle reti informali e soprattutto da quelle familiari che invece spesso portano i giovani meridionali a restare nella casa d’origine, preferendo l’attesa di un lavoro piuttosto che spostarsi per cercarlo altrove.
Molte sono le cause che concorrono a spiegare la minore mobilità degli italiani che, come si è detto, più spesso reagiscono alla scarsità di occasioni di lavoro rinunciando a porsi sul mercato. A scoraggiare i trasferimenti di residenza è anche la vasta diffusione della proprietà dell’abitazione (più di otto famiglie su dieci vivono in abitazioni di proprietà, in usufrutto o in uso gratuito), come pure i costi di transazione legati a un mercato immobiliare imperfetto e all’onere economico e organizzativo del trasloco.
Ciò non accade per i trasferimenti degli stranieri, che in alcuni casi sono largamente prevalenti. Se si considera il numero medio di movimenti nel periodo 2002- 2005, in valore assoluto, sono i sistemi locali di Milano, Bergamo, Roma, Torino e Verona a far registrare il numero più elevato di migrazioni. Se per Roma i movimenti di stranieri sono poco più del 7 per cento del totale interno al sistema, per Bergamo rappresentano oltre il 20 per cento e per Verona oltre il 18. Si possono individuare anche sistemi locali del lavoro di piccole dimensioni demografiche per i quali l’incidenza degli spostamenti degli stranieri è particolarmente elevata, come nel caso di Arzignano in Veneto, dove tocca il 43 per cento.
Inoltre si stabiliscono network, anche di lunga distanza, tra sistemi di minor ampiezza demografica. Si può quindi ipotizzare che gli stranieri in uscita dalle grandi città del Centro e del Mezzogiorno cerchino miglior fortuna in quelle del Nord, ma in un secondo momento – sia per problemi di alloggio sia per avvicinarsi al posto di lavoro – si spostino in centri del Nord di minor ampiezza. In altri casi, invece, emergono network alimentati da forme di catena migratoria che conducono i migranti da centri del Sud non urbani verso particolari sistemi locali del Centro-Nord.
Verosimilmente per gli stranieri l’offerta di servizi pubblici migliori (e tali sono senz’altro quelli offerti al Nord) è un incentivo allo spostamento, specie nel momento in cui il percorso migratorio del singolo comincia a prevedere una famiglia e un’integrazione stabile.
Infine, anche gli spostamenti degli stranieri sul territorio risentono della vivacità del contesto produttivo, ma non sempre essi trovano una collocazione lavorativa che risponda alla vocazione produttiva prevalente del sistema locale del lavoro ove risiedono. Alcuni network importanti nell’analisi generale dei movimenti migratori si ripropongono per gli stranieri, che anzi rappresentano un’ampia quota dei trasferimenti di residenza. Ad esempio, nello scambio tra Arzignano e San Bonifacio(in Veneto) gli stranieri rappresentano oltre il 62 per cento degli spostamenti.
L’immigrazione tra nuovi flussi e stabilizzazioni
Le migrazioni internazionali sono, d’altronde, per dimensione e dinamica, il più importante cambiamento sociale degli ultimi anni. L’Italia è attualmente una delle destinazioni europee privilegiate dai flussi in entrata dall’estero. Secondo le stime riferite al primo gennaio 2008, i cittadini stranieri residenti in Italia sono 3,5 milioni (il 5,8 per cento del totale dei residenti).
Nel corso dell’ultimo anno, l’elemento di maggiore rilievo riguarda l’entità del saldo migratorio con l’estero; il saldo netto stimato per il 2007 è di oltre 454 mila unità (pari a un tasso migratorio del 7,7 per mille), più che doppio di quello osservato nel 2006. Si tratta del livello più alto in assenza di provvedimenti di regolarizzazione, ed è in gran parte il risultato dei consistenti ingressi di cittadini neocomunitari, in particolare rumeni (aumentati di quasi 300 mila unità, raggiungendo al primo gennaio 2008 i 640 mila residenti).
Negli ultimi due anni, inoltre, sono fortemente aumentati gli immigrati provenienti dai paesi est-europei divenuti Stati membri dell’Unione europea nel 2004; il gruppo principale in termini numerici è quello polacco, con una presenza, in base alle stime al primo gennaio 2008, prossima alle centomila unità. I residenti provenienti dai paesi dell’Est europeo sono ormai circa la metà di tutti gli stranieri residenti.
L’evoluzione più recente del fenomeno si innesta peraltro su un profilo dell’immigrazione che va via via assumendo caratteri strutturali e propri del nostro Paese. Una prima peculiarità risiede nella varietà dei paesi di provenienza degli immigrati.
In Italia, gli stranieri regolarmente presenti provengono da ogni area del mondo: dall’Est europeo in maggior misura; ma anche dall’Africa settentrionale, dall’Asia, dal Centro e dal Sud America. È un puzzle etnico e culturale che non ha precedenti né riscontro nella storia europea recente e, in particolare, nell’attuale panorama dell’immigrazione nell’Unione.
Un secondo aspetto riguarda i processi di progressiva stabilizzazione di numerose comunità immigrate, testimoniata dai comportamenti familiari e riproduttivi dei cittadini stranieri. Sulla base dei dati riferiti al primo gennaio 2007, le famiglie con almeno un componente straniero sono sempre più numerose. Al loro incremento contribuiscono sia i ricongiungimenti familiari, che permettono la riunificazione in Italia di famiglie già costituite nel paese di origine, sia i matrimoni celebrati nel nostro Paese. Accanto alle famiglie ricomposte aumentano i matrimoni celebrati in Italia in cui almeno uno sposo è straniero: oltre 34 mila nel 2006, il 14 per cento del totale dei matrimoni. I più numerosi sono quelli in cui uno soltanto dei due coniugi è straniero: la tipologia più frequente è quella in cui
a essere straniera è la sposa (oltre 19 mila nozze celebrate nel 2006). I casi in cui entrambi gli sposi sono stranieri (considerando quelli in cui almeno uno dei due sposi è residente in Italia) sono poco più di 5 mila.
Un terzo indicatore importante riguarda le nascite: le cittadine straniere residenti hanno avuto in media 2,5 figli per donna, il doppio di quelli avuti dalle italiane (1,26). Questa maggiore propensione delle cittadine straniere ad avere figli spiega buona parte della ripresa della fecondità osservata nel nostro Paese dal 1995 per il complesso della popolazione residente (da 1,19 a 1,33 figli per donna nel 2007).
I nati da coppie di genitori stranieri sono particolarmente numerosi: quasi 58 mila nel 2006, il 10,3 per cento del totale dei nati della popolazione residente. La proporzione sale al 14,3 per cento considerando i nati da coppie miste.
L’aumento dei nati stranieri e i ricongiungimenti familiari fanno crescere il numero dei minorenni stranieri residenti: al primo gennaio 2007 sono 666 mila, quasi 80 mila in più rispetto all’anno precedente. Parallelamente, gli studenti di cittadinanza straniera sono più che raddoppiati negli ultimi cinque anni; nell’anno scolastico 2006/2007 superano le 500 mila unità, il 5,6 per cento di tutti gli studenti. La presenza straniera è più elevata nei primi ordini scolastici: 5,7 alunni non italiani ogni 100 iscritti nelle scuole dell’infanzia, quasi 7 per cento nelle primarie e 6,5 nelle secondarie di primo grado. L’incidenza degli immigrati nelle
scuole secondarie di secondo grado, seppur contenuta (3,8 ogni 100 iscritti), è comunque in forte crescita, essendo triplicata negli ultimi cinque anni.
L’aumento di iscrizioni straniere nelle scuole superiori rappresenta uno dei numerosi segnali della sempre maggiore integrazione degli immigrati nella popolazione italiana. Con riferimento all’anno scolastico 2006/2007, gli alunni immigrati registrano quote decisamente più elevate di ripetenze, a testimonianza delle loro maggiori difficoltà rispetto agli italiani. Questo avviene in particolare nellesecondarie di primo grado, dove il tasso di ripetenza degli stranieri risulta più che doppio di quello degli italiani (5,8 e 2,4 per cento rispettivamente), soprattutto nelle ripartizioni settentrionali. Comportamenti diversi si riscontrano anche per quanto riguarda l’età alla frequenza dei vari anni di corso, misurata con il tasso di regolarità. Nelle scuole secondarie di primo grado il 53 per cento degli alunni stranieri è in ritardo rispetto all’età teorica di frequenza (gli studenti italiani nella stessa condizione sono meno del 7 per cento). Nelle secondarie di secondo grado l’incidenza dei ritardi è del 21 per cento per gli italiani e del 70 per cento per gli stranieri, per effetto non soltanto delle ripetenze più frequenti, ma anche delle iscrizioni tardive o posticipate. Non si può escludere che i percorsi scolastici accidentati degli studenti stranieri siano anche legati all’elevata mobilità sul territorio italiano, che comporta frequenti cambi di scuola.
È essenziale approfondire i processi di stabilizzazione degli immigrati, anche perché nel 2007, per il secondo anno consecutivo, si è registrato un elevato numero di domande presentate in occasione del “decreto flussi”: circa 700 mila a fronte di una quota massima programmata di 170 mila ingressi. Benché non sia ancora possibile valutare l’impatto del provvedimento sull’incremento della popolazione straniera regolare (al momento non sono state previste misure per l’ampliamento delle quote disponibili), occorre sottolineare il numero elevatissimo di richieste e – conseguentemente – il corrispondente potenziale di regolarizzazioni “attese”.
Le tappe del percorso verso la stabilizzazione possono essere analizzate attraverso i dati sui permessi di soggiorno, prendendo in considerazione un contingente particolare di cittadini immigrati, quelli che si sono avvalsi dei provvedimenti di regolarizzazione del 2002, in tutto quasi 650 mila stranieri che sono stati seguiti lungo il triennio 2004-2006.
Le regolarizzazioni del 2002 hanno sanato la posizione di 316 mila irregolari occupati presso le famiglie (in prevalenza donne) e di 330 mila occupati presso le imprese (in prevalenza uomini). Al primo gennaio 2007 il contingente iniziale dei regolarizzati si era ridotto al 78 per cento. Molti immigrati, infatti, si sono trovati nell’impossibilità di ottenere la proroga del permesso non essendo riusciti a mantenere una posizione lavorativa regolare. La “caduta” si è verificata prevalentemente nel 2004 (96 mila permessi in meno), anno del primo rinnovo del permesso di soggiorno per la maggior parte degli stranieri regolarizzati.
Dopo la regolarizzazione molti cittadini stranieri si sono sposati (oltre 88 mila, il 28 per cento dei non coniugati). Trova conferma anche in questa analisi l’elevata mobilità interna degli stranieri: al primo gennaio 2007, oltre il 60 per cento dei regolarizzati ancora in Italia si era trasferito in un’altra provincia rispetto a quella del 2004. La direzione degli spostamenti conferma l’elevata capacità di attrazione delle regioni del Nord rispetto alle altre aree del Paese.
I risultati dell’analisi confermano che i provvedimenti di regolarizzazione, originariamente progettati per risolvere situazioni di emergenza – alto numero di immigrati presenti nel Paese, irregolari sia per quanto riguarda il soggiorno sia per il rapporto di lavoro – rappresentano per molti degli individui coinvolti non solo la possibilità di uscire dall’illegalità, ma anche l’inizio di un percorso di stabilizzazione.
Considerazioni conclusive
Coniugando i segnali della congiuntura e quelli strutturali, non vi è dubbio che siamo in un momento di difficoltà economica, con investimenti e consumi delle famiglie che sono fermi o in regresso. Affinché gli uni e gli altri tornino a crescere e, in particolare, aumenti il reddito disponibile delle famiglie maggiormente in difficoltà, occorrono interventi energici.
Inoltre, data la rilevante dipendenza dall’estero della nostra economia per il petrolio e per i cereali, i consistenti aumenti dei prezzi di questi prodotti hanno un impatto forte sui margini delle imprese e sul potere di acquisto delle famiglie, rappresentando un vincolo strutturale allo sviluppo. È anche importante riuscire a migliorare i conti della pubblica amministrazione, riducendo come necessario la pressione fiscale.
Nonostante ciò siamo prudentemente ottimisti dal punto di vista economico. Le analisi mostrano che il sistema delle imprese ha saputo reagire al declino della competitività italiana indotto dalla globalizzazione. Sono infatti molte le imprese che si sono riorganizzate e che hanno colto le trasformazioni in atto, trasferendo funzioni aziendali in paesi che offrono condizioni più favorevoli e sfruttando le opportunità di espansione sui mercati internazionali, soprattutto verso quelli più ricettivi.
Tuttavia una larga parte delle imprese italiane adotta ancora strutture organizzative e modelli di comportamento che mirano a realizzare soltanto un reddito stabile e adeguato per l’imprenditore e la sua famiglia (oltre che per i lavoratori che vi operano), senza investire su prospettive di crescita di medio-lungo termine.
Sono imprese poco sensibili agli stimoli alla modernizzazione, all’investimento e all’aggiornamento del modello di specializzazione tradizionale. Si concentrano relativamente
in alcune parti del territorio, soprattutto al Sud.
Occorre spezzare le spirali del ritardo di sviluppo, favorire la diffusione dei comportamenti virtuosi soprattutto a livello di sistema locale del lavoro, accelerare i processi che stanno ridisegnando la geografia economica e sociale del Paese.
Questa “nuova geografia” sta segmentando anche territorialmente i comportamenti sul mercato del lavoro e, di conseguenza, le opportunità di reddito e gli stili di consumo. Oltre alle considerazioni sui livelli di reddito e sulla remunerazione del fattore lavoro, già richiamate, vale la pena soffermare ancora l’attenzione sul problema dell’elevata incidenza degli affitti e dei mutui sui bilanci delle famiglie giovani.
Questa diversa distribuzione territoriale delle imprese e delle occasioni di lavoro condiziona anche le migrazioni interne, soprattutto degli stranieri. Essi sono ovviamente più duttili e quindi più adatti a trovare lavoro in un mercato che richiede maggiore flessibilità anche dal punto di vista della disponibilità a spostarsi.
Sono le figure globali per eccellenza e quindi pronte a seguire le tendenze di un’economia che porta i segni della globalizzazione e a cogliere meglio degli italiani le opportunità che il Paese oggi offre.
La dimensione e le caratteristiche assunte dal fenomeno dell’immigrazione richiedono attenzione ai problemi dell’inserimento e, soprattutto, dell’istruzione per le seconde generazioni. L’offerta sul territorio di asili, scuole, mezzi di trasporto pubblici, ma anche di servizi sociosanitari, appare irrinunciabile per chi non può contare sulla rete della famiglia e degli amici. Pertanto, è necessario che essa si adegui ai nuovi bisogni e alla domanda del territorio.
L’esigenza di accompagnare l’integrazione emerge chiaramente dall’esame dei dati individuali sui regolarizzati del 2002. È rassicurante che l’80 per cento di questi abbia intrapreso un percorso di lavoro e di stabilizzazione. Non si possono, però, nascondere le preoccupazioni in tema di sicurezza. Tuttavia, l’aumento della devianza per reati quali furti, rapine, contrabbando è da ascriversi soprattutto alla componente irregolare, che verosimilmente non ha richiesto il permesso di soggiorno.
Potremmo dire – per concludere con una metafora – che i sintomi sono noti, ma la diagnosi è ancora incerta. Quanto alle terapie, non è questa la sede per proporne.
È comunque opportuno ricordare che cosa consiglierebbe un buon medico: più che puntare su una singola medicina miracolosa, è necessario intervenire sulle abitudini radicate e sugli stili di vita incompatibili con lo stato di salute. Poi prescriverebbe una batteria d’esami e, confrontando i principali indicatori disponibili con quelli di riferimento, disporrebbe prescrizioni ancora più precise. I risultati ci saranno soltanto se tutti, medici e pazienti, faranno correttamente la loro parte, senza tatticismi e rinvii.
È quanto abbiamo fatto noi misurando e analizzando i fenomeni – oltre che nel Rapporto, nella recente pubblicazione 100 statistiche per il Paese: indicatori per conoscere e valutare – avendo come benchmark l’Europa per quanto riguarda il Paese e la media nazionale per le regioni e per i livelli territoriali più fini.
Da parte nostra continueremo, perciò, ad assolvere con impegno al compito che ci spetta, che è quello di garantire informazioni statistiche e analisi adeguate per trasformarle in conoscenza e per fornire spunti interpretativi a chi deve decidere gli interventi e a chi deve valutarne l’attuazione, cioè i policy makers e i cittadini.
Per offrire cioè a tutti “misure” che devono essere un punto di riferimento per un dibattito serio e documentato.
Soltanto vedendo gli ostacoli e individuando gli strumenti per rimuoverli e superarli, si potrà percorrere con sicurezza la via accidentata che porta alla ripresa.
28 maggio 2008
ISTAT