Rilevazioni delle onde gravitazionali


“[…] la distinzione tra passato, presente e futuro è soltanto un’illusione, anche se ostinata”. Einstein

Dal 2015 rilevare onde gravitazionali è diventata ormai una routine: grazie agli interferometri LIGO, negli Stati Uniti, e Virgo, in Italia, negli ultimi sette anni sono state rilevate decine di increspature dello spazio-tempo, prodotte principalmente in processi di fusione tra coppie di buchi neri.

La capacità di osservare questi segnali – la cui possibile esistenza è stata teorizzata per la prima volta da Albert Einstein nel 1916, all’indomani della pubblicazione della sua teoria generale della relatività – è considerata una delle più importanti imprese scientifiche e tecnologiche del nuovo millennio, capace di aprire un canale di indagine dell’universo totalmente inedito. Tuttavia, le rilevazioni ottenute finora potrebbero costituire solo un piccolo antipasto di un menù potenzialmente molto più ricco: LIGO e Virgo, infatti, sono in grado di rilevare solo una ridotta porzione dell’insieme di onde gravitazionali prodotte nell’universo. Esattamente come accade per le onde elettromagnetiche, il cui spettro di frequenze è molto ampio e va dalle onde radio fino agli energetici raggi gamma, anche le onde gravitazionali possono presentare frequenze di oscillazione molto diverse, che vanno da minuscole frazioni di hertz fino alle decine di migliaia di hertz e oltre. E proprio come gli strumenti necessari per rivelare onde elettromagnetiche di frequenza diversa sono differenti (ci sono telescopi distinti per osservare raggi X, raggi gamma, luce visibile, onde radio e così via), anche per registrare increspature dello spazio-tempo che «pulsano» a ritmi diversi bisogna affidarsi necessariamente a metodi di rilevazione tra loro alternativi.
Gli esperimenti LIGO e Virgo, in particolare, sono in grado di rilevare unicamente onde gravitazionali di alta frequenza – compresa tra circa 10 hertz e alcune migliaia di hertz – prodotte in eventi di fusione tra coppie di stelle di neutroni o di buchi neri, che derivano cioè dall’evoluzione di stelle massicce. Sono tuttavia già in cantiere esperimenti futuri più avanzati, con l’obiettivo di avere accesso a segnali di frequenza più bassa: in particolare, nei prossimi decenni dovrebbero vedere la luce due grandi interferometri terrestri di nuova generazione, l’Einstein Telescope e il Cosmic Explorer (sorgeranno rispettivamente in Europa e negli Stati Uniti), che puntano ad abbassare a qualche hertz la soglia minima di rilevazione, aumentando così la capacità di osservare eventi di fusione. Lo scopo è soprattutto cercare di rilevare segnali emessi da buchi neri molto massicci (pesanti fino a mille masse solari), oltre a un numero maggiore di eventi di coalescenza tra stelle di neutroni, che a differenza delle fusioni tra buchi neri possono essere osservati anche dai telescopi elettromagnetici, nell’ambito della cosiddetta astronomia «multimessaggera».

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Spettro delle onde gravitazionali

Un ulteriore salto di qualità arriverà poi con l’osservatorio LISA, che sarà il primo rivelatore di onde gravitazionali spaziale. Con LISA sarà possibile avere accesso a una banda di frequenze del tutto inesplorata, che si spingerà fino ai millihertz, aprendo alla possibilità di rilevare segnali prodotti da fenomeni cosmici ancora più estremi. Tuttavia nemmeno LISA potrà andare oltre, lasciando così scoperta una grossa fetta dello spettro di frequenze che può caratterizzare le onde gravitazionali di origine astrofisica: si tratta di frequenze estremamente basse (fino ai nanohertz), associate a segnali emessi negli eventi cosmici più violenti che possono verificarsi nell’universo, come la fusione tra galassie. «È ormai noto che al centro di quasi tutte le galassie si formano buchi neri supermassicci, le cui masse possono arrivare a milioni o miliardi di masse solari», sottolinea Alberto Vecchio, docente di fisica gravitazionale all’Università di Birmingham. «Quando due galassie si fondono, “portano con sé” i rispettivi buchi neri, che formano così un sistema binario e possono dare luogo a loro volta a spettacolari eventi di fusione, producendo una grande quantità di onde gravitazionali di bassa frequenza». È convinzione ormai comune tra gli scienziati che la quantità di questi sistemi binari di buchi neri supermassicci sia incredibilmente elevata, cosicché l’insieme delle onde gravitazionali prodotte in questi eventi costituirebbe un vero e proprio «fondo», in cui sarebbe quasi impossibile distinguere le singole componenti. «È utile fare un paragone con un’orchestra composta da un gran numero di strumenti musicali: quando suonano tutti insieme, noi non percepiamo i suoni dei singoli strumenti, ma una melodia complessiva. Accade la stessa cosa con le onde gravitazionali emesse dai sistemi binari di buchi neri supermassicci: sono talmente tante da formare un fondo, una “melodia gravitazionale”», prosegue Vecchio.
Increspature dai primordi
Questo fondo astrofisico di onde gravitazionali a bassissima frequenza non è però l’unico. Spostando molto più indietro nel tempo le lancette dell’evoluzione del cosmo, fino ai primi istanti successivi al big bang, si entra infatti in un’epoca che è stata probabilmente molto generosa dal punto di vista della produzione di increspature dello spazio-tempo, definite in questo caso di natura «cosmologica»: ma anche la rilevazione diretta di questi segnali – la cui frequenza può spingersi fino a valori ancora più bassi, dell’ordine anche dei milionesimi di nanohertz – è fuori dalla portata dei rivelatori terrestri e spaziali presenti e futuri. In particolare le cosiddette «onde gravitazionali primordiali», che sarebbero state prodotte in grande quantità durante la cosiddetta fase di «inflazione cosmica», un’espansione rapidissima che sarebbe avvenuta agli albori del cosmo, capace di aumentare di un fattore enorme le dimensioni dell’universo, costituiscono da tempo un filone di ricerca indipendente. Da circa 15 anni l’esperimento Background Imaging of Cosmic Extragalactic Polarization (BICEP), in Antartide, cerca di trovarne una traccia indiretta (finora invano) analizzando la polarizzazione della radiazione cosmica di fondo, la prima luce dell’universo, emessa circa 370.000 anni dopo il big bang, tuttora osservabile nello spettro delle microonde. Più in generale, gli scienziati sono ormai concordi sul fatto che l’insieme delle onde gravitazionali prodotte nelle prime fasi dell’universo costituisca un fondo primordiale, per certi versi analogo alla radiazione di fondo elettromagnetica: un fondo definito anche «stocastico», per la natura casuale della distribuzione delle sue singole componenti. «Parallelamente al fondo cosmico a microonde, è ormai chiaro che esiste un equivalente costituito dalle onde gravitazionali emesse dall’universo agli albori», spiega Vecchio. «C’è però una differenza sostanziale tra il fondo elettromagnetico e quello gravitazionale: la radiazione cosmica di fondo ci dà un’importante fotografia dell’universo primordiale, ma non può spingersi a periodi più remoti di 370.000 anni dopo il big bang, che è il momento in cui l’universo è diventato trasparente alla radiazione elettromagnetica. È come se ci fosse una sorta di “sipario cosmologico” che ci impedisce di vedere oltre, almeno in modo diretto. Con le onde gravitazionali la situazione è invece molto diversa: indipendentemente dal fenomeno cosmologico che le ha originate, le onde gravitazionali si sono disaccoppiate dal plasma primordiale in un intervallo di tempo infinitesimo, pari a una frazione minuscola di secondo», precisa Vecchio. «Ciò significa che se riuscissimo a osservare questo fondo cosmologico di onde gravitazionali avremmo accesso a uno stato dell’universo completamente diverso rispetto a ciò che possiamo osservare con la radiazione di fondo. Si tratta di un regime totalmente fuori dalla portata anche degli esperimenti terrestri, come i più potenti acceleratori di particelle, in cui le energie in gioco erano molto più alte, le interazioni fondamentali erano probabilmente unificate e avevano sicuramente rilevanza anche effetti quantistici della gravità. Poter indagare questo regime estremo costituisce una motivazione fortissima per cercare di osservare onde gravitazionali primordiali di natura cosmologica».
Rilevare questo fondo gravitazionale cosmologico permetterebbe anche di fare luce sull’origine stessa dei fenomeni che l’avrebbero generato, su cui c’è ancora molto da capire. «Ci sono molte ipotesi “esotiche” su quello che potrebbe essere accaduto nei primissimi istanti di vita del cosmo», spiega ancora Vecchio.

«Stringhe cosmiche, transizioni di fase, turbolenze nel campo magnetico primordiale: sono tutti fenomeni ipotetici che potrebbero aver prodotto una grande quantità di onde gravitazionali. Oltre a questi, un’ipotesi particolarmente in voga al momento è quella secondo cui nell’universo appena nato si sarebbero formati tantissimi piccoli buchi neri, detti “primordiali”, che accoppiandosi avrebbero generato un fondo di onde gravitazionali». Un osservatorio naturale Insomma, con ogni probabilità i fondi gravitazionali, sia quello astrofisico a basse frequenze sia quello cosmologico, permeano l’intero universo e attendono solo di essere osservati. Ma quali sono le possibilità concrete di riuscire a rilevarli, dal momento che gli osservatori artificiali non sono in grado di farlo? La risposta è in qualche modo sorprendente: il cosmo stesso è dotato di un potenziale «osservatorio naturale» di onde gravitazionali, che ha tutte le carte in regola per riuscire a scovare questi segnali così sfuggenti. Gli elementi costitutivi di questo osservatorio naturale sono alcuni tra gli oggetti più affascinanti dell’universo: le pulsar. Si tratta di stelle di neutroni – oggetti molto densi che possono costituire lo stadio finale dell’evoluzione di stelle massicce – fortemente magnetizzate e in grado di ruotare molto rapidamente. La loro caratteristica principale è la capacità di emettere fasci di onde radio che, come fari sulla costa, appaiono a un osservatore sotto forma di impulsi estremamente regolari, ripetendosi con periodi molto stabili, variabili da circa 1,5 millisecondi ad alcuni secondi. Sebbene i meccanismi di funzionamento delle pulsar non siano ancora ben compresi, questi oggetti sono da tempo sfruttati dagli astronomi per la loro capacità di essere eccezionali orologi di precisione, una caratteristica che deriva proprio dalla straordinaria regolarità della loro rotazione. «Poiché la rotazione di una pulsar è altamente stabile, una volta che ne misuriamo il periodo saremo in grado di prevedere con precisione estrema il tempo di arrivo di qualunque impulso da quella stessa pulsar. Questa precisione è tanto maggiore per le pulsar che ruotano più velocemente, con periodi dell’ordine del millisecondo», sottolinea Marta Burgay, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) all’Osservatorio astronomico di Cagliari. Tutto ciò ha una conseguenza fondamentale: se il segnale radio emesso dalla pulsar incontra qualche ostacolo nel suo percorso verso i telescopi terrestri, gli astronomi misureranno una discrepanza tra il tempo di arrivo previsto e quello effettivo, la cui natura potrà fornire informazioni preziose sul fenomeno che l’ha prodotta. E tra i molti ostacoli che possono frapporsi tra una pulsar e i telescopi c’è anche il passaggio di onde gravitazionali. «Se tra noi e una pulsar passa un’onda gravitazionale, lo spazio tempo si comprime e si allunga, producendo a sua volta una compressione e un allungamento dei tempi di arrivo degli impulsi successivi», riprende Burgay. «Parliamo di differenze molto piccole e difficili da rilevare, ma che sono comunque misurabili, almeno in linea di principio, grazie alla natura estremamente precisa di questi orologi cosmici».
Stelle nella rete
Tuttavia, proprio a causa della debolezza dell’effetto, che può facilmente confondersi con piccole discrepanze prodotte da altri fenomeni astrofisici o anche da rumore strumentale, osservare una sola pulsar non può essere sufficiente a rilevare il passaggio di un’onda gravitazionale, né tantomeno del fondo cosmico di onde gravitazionali. Per avere qualche possibilità è quindi necessario seguire due strade: la prima è usare più di un telescopio, per verificare l’esistenza di uno stesso effetto con strumenti diversi. La seconda, ancora più importante, è osservare più pulsar. «Se numerose pulsar sono investite dalla stessa onda gravitazionale, è possibile stabilire in modo molto più preciso se quello che stiamo osservando è lo stesso fenomeno globale. Monitorando una rete di pulsar, quindi, possiamo riuscire a intercettare questi segnali gravitazionali», spiega Burgay. Già da tempo, a questo scopo, esistono diverse collaborazioni scientifiche nazionali e continentali che hanno l’obiettivo di monitorare reti di pulsar. Sul fronte europeo c’è la rete European Pulsar Timing Array (EPTA), che ha in dote cinque radiotelescopi: tra questi è incluso anche il Sardinia Radio Telescope (SRT), telescopio da 64 metri di diametro inaugurato nel 2013 nel sud della Sardegna. In Nord America c’è poi il consorzio NanoGrav, con tre radiotelescopi dislocati tra gli Stati Uniti e il Canada, mentre l’Australia ha il Parkes Pulsar Timing Array (PPTA), con il radiotelescopio Parkes nel Nuovo Galles del Sud. Di recente si sono aggiunti alla partita anche l’India, con la rete Indian Pulsar Timing Array (InPTA), il Sudafrica con il telescopio MeerKAT e la Cina con la rete Chinese Pulsar Timing Array (CPTA). L’insieme di queste collaborazioni costituisce il consorzio International Pulsar Timing Array (IPTA): una rete globale che monitora decine di pulsar al millisecondo, con l’obiettivo principale di andare a caccia di onde gravitazionali a bassissima frequenza di origine astrofisica o cosmologica.
I ricercatori delle varie collaborazioni che compongono la rete IPTA sono al lavoro già da diversi anni per cercare di cogliere ogni minima variazione al «ticchettio» regolare delle pulsar sotto osservazione. Tuttavia, mai come in questo caso è necessaria una gran dose di pazienza, per almeno due motivi: anzitutto, le onde gravitazionali di cui stiamo parlando sono caratterizzate da periodi di oscillazione dell’ordine di anni (la frequenza è infatti una grandezza fisica inversamente proporzionale al periodo), quindi il monitoraggio delle pulsar va effettuato necessariamente su una scala di tempi pari ad almeno un decennio. Ma c’è un altro aspetto cruciale da considerare, come ricorda ancora Burgay: «C’è una differenza sostanziale tra gli esperimenti artificiali terrestri, come LIGO e Virgo, e l’IPTA: nel primo caso, per aumentare la sensibilità dell’esperimento è sufficiente aggiornare gli strumenti di rilevazione, ossia gli interferometri. Nel caso di IPTA invece non basta migliorare la qualità dell’osservazione, bisogna al tempo stesso anche aumentare continuamente la copertura temporale dei dati, cioè osservare eventuali segnali promettenti per diversi anni, per poterne confermare la genuinità. Per capirci, LIGO e Virgo o vedono un’onda gravitazionale, con una certa significatività, o non la vedono; noi inizialmente “intravediamo” un segnale, ma poi dobbiamo monitorarlo nel tempo per vedere se si rafforza. Inoltre, è importante anche avere un numero sempre crescente di pulsar da osservare: più ne abbiamo, maggiore sarà la significatività di un’eventuale correlazione».

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Virgo è, sostanzialmente, un interferometro di Michelson, con bracci lunghi 3 km, situato nel comune di Cascina (PI), in località Santo Stefano a Macerata. Schematicamente Virgo consiste in due bracci lunghi 3 km e disposti a L. Il fascio di una sorgente laser viene diviso in due da un divisore di fascio al vertice della L. La luce viene inviata lungo ognuno dei due bracci, riflessa indietro da uno specchio sospeso e si ricombina poi al vertice ove viene misurata da un fotodiodo. Quando un'onda gravitazionale passa attraverso l'interferometro, la perturbazione dello spazio-tempo si manifesta come un cambiamento della lunghezza relativa dei due bracci. Questo a sua volta determina che i fasci ricombinantisi, che sono in perfetta antifase se i bracci hanno la stessa lunghezza (originando interferenza distruttiva), sono lievemente in fase. Questo comporta un segnale misurabile al fotodiodo. Per le onde gravitazionali di origine cosmica attese per Virgo la variazione della lunghezza dei bracci (lunghi 3 km) è molto piccola, dell'ordine di 10esp-18 m. Ogni specchio di Virgo è sospeso, sotto vuoto, a una struttura meccanica che attenua enormemente le vibrazioni sismiche. Un 'Superattenuatore' è costituito da una catena di pendoli sospesa da una piattaforma, sorretta da tre lunghe gambe flessibili, incastrate alla base: tecnicamente un pendolo invertito. In questo modo le vibrazioni sismiche a frequenze maggiori di 10 Hz vengono ridotte di oltre 1012 volte e viene molto accuratamente controllata la posizione dello specchio.

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I bracci di Virgo


Qualcosa di promettente
Su tutti questi fronti (miglioramento della qualità degli strumenti di osservazione, aumento della quantità e qualità dei dati disponibili e del numero di pulsar monitorate), i progressi sono stati molto importanti negli ultimi anni, da parte di tutte le collaborazioni incluse nel consorzio IPTA. E qualcosa di promettente si comincia a vedere: nel gennaio 2022 la collaborazione internazionale ha pubblicato sulla rivista «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» la seconda analisi completa dei dati raccolti negli anni dalle varie reti continentali, la prima era stata pubblicata nel 2016. Lo studio, condotto su un campione di 65 pulsar al millisecondo, ha confermato e rafforzato qualcosa che era già stato evidenziato in lavori di poco precedenti, pubblicati separatamente dalle tre collaborazioni principali (europea, nordamericana e australiana): le tre reti stanno osservando simultaneamente un «rumore di fondo» comune a tutte le pulsar sotto osservazione, che potrebbe essere compatibile con il fondo cosmico di onde gravitazionali a bassa frequenza. L’esistenza di questo effetto non è però sufficiente a trarre conclusioni definitive: per poter parlare di una scoperta non basta, infatti, osservare un segnale comune a tutte le pulsar, è necessario anche che il segnale stesso segua una legge di correlazione specifica. Nel caso di un rumore prodotto da un fondo di onde gravitazionali, questa legge è la cosiddetta «curva di Hellings-Downs», che prevede una correlazione massima per due pulsar che si trovano nella stessa direzione, minima quando sono a circa 90 gradi, e un nuovo aumento della correlazione quando le pulsar sono in direzione opposta. «Al momento non siamo ancora in grado di osservare questa correlazione, perché non abbiamo un numero sufficiente di pulsar nel nostro insieme di dati e le barre di errore associate a questo rumore di fondo sono ancora piuttosto grandi. Ovviamente, finché non la osserveremo restano in piedi anche altre ipotesi sull’origine del rumore, sia di natura astrofisica sia strumentale», spiega Burgay. Tuttavia, un’indicazione più chiara potrebbe arrivare in tempi relativamente brevi. «In questo momento tutte le collaborazioni sono impegnate a migliorare l’analisi dei dati, mentre è in continua crescita il campione di pulsar a disposizione. In particolare noi di EPTA, nella precedente pubblicazione, ci eravamo concentrati su sei pulsar, ma nella prossima ne includeremo quattro volte tanto. La rete americana NanoGrav invece sta analizzando i dati raccolti negli ultimi due anni e mezzo, che non aveva incluso nel lavoro precedente. In generale l’obiettivo è pubblicare entro uno o massimo due anni un lavoro simile a quello pubblicato nel 2022, ma con dati molto più precisi: se tutto va come prevediamo, questa nuova analisi dovrebbe permetterci di riuscire a osservare l’eventuale correlazione attesa, e quindi confermare o smentire che la causa del rumore rilevato sia proprio un fondo cosmico di onde gravitazionali».
Dalle onde radio ai raggi gamma
L’eventuale conferma dell’osservazione del fondo cosmico gravitazionale costituirebbe più un punto di partenza che un punto di arrivo, aprendo nuove prospettive di ricerca molto interessanti dal punto di vista sperimentale e teorico. Sul fronte osservativo, un aspetto importante sarà la capacità di ottenere conferme indipendenti alle osservazioni della rete IPTA. In quest’ottica, un filone molto promettente è rappresentato dalle pulsar a raggi gamma, il cui monitoraggio costituisce un settore di ricerca relativamente nuovo. La larga maggioranza delle pulsar oggi conosciute (se ne contano oltre 3000) è stata infatti scoperta grazie alla loro emissione periodica nella banda radio, tuttavia di recente ha iniziato a crescere in modo significativo anche il numero di pulsar osservate grazie all’emissione di raggi gamma, che costituiscono la radiazione più energetica dello spettro elettromagnetico. La svolta, in questo senso, è arrivata soprattutto grazie al lancio del telescopio spaziale Fermi, dedicato proprio allo studio della radiazione di altissima energia dell’universo. «Prima del lancio di Fermi, nel 2008, erano note meno di dieci pulsar a raggi gamma, oggi ne conosciamo quasi 300», sottolinea Matthew Kerr, astronomo allo statunitense Naval Research Laboratory e membro della collaborazione Fermi. «Di queste 300, oltre un terzo è costituito proprio da pulsar al millisecondo, cioè quelle caratterizzate dalla maggiore stabilità, ideali per essere usate come “orologi cosmici” di riferimento anche per la ricerca di onde gravitazionali. Così abbiamo pensato che, parallelamente ai vari Pulsar Timing Array basati su onde radio, è possibile cercare tracce del fondo cosmico gravitazionale anche mediante una rete di pulsar a raggi gamma». L’idea è stata messa nero su bianco in un articolo pubblicato ad aprile 2022 su «Science» dalla collaborazione Fermi (guidata in questo lavoro dallo stesso Kerr e dal collega Aditya Parthasarathy), dove i ricercatori hanno ottenuto un limite superiore all’intensità dell’eventuale fondo gravitazionale, basandosi proprio sul nuovo Pulsar Timing Array a raggi gamma. «Il vantaggio principale di usare i raggi gamma rispetto alle onde radio è che queste ultime, nel loro percorso tra le pulsar sorgenti e la Terra, interagiscono con il mezzo interstellare. Questa interazione produce ritardi di natura casuale nel segnale radio, un effetto che è necessario riconoscere e correggere per poter distinguere senza equivoci un eventuale segnale di onde gravitazionali: si tratta di un lavoro molto impegnativo e complesso», spiega Kerr. «I raggi gamma invece non sono influenzati dal mezzo interstellare, che attraversano senza alcuna interazione. Di conseguenza, se osserviamo un ritardo nel segnale di una pulsar a raggi gamma prodotto da un’onda gravitazionale, è molto più semplice riconoscerla». La sensibilità del metodo di rilevazione basato sui raggi gamma è attualmente ancora molto inferiore rispetto alla controparte radio, ma secondo i ricercatori, con la raccolta di molti più dati e il raffinamento dell’analisi, già nel giro di cinque anni le sensibilità potrebbero diventare paragonabili, offrendo così un eccellente test di conferma indipendente.
In attesa di SKA
Nel frattempo, se sarà confermata l’osservazione del fondo gravitazionale da parte di IPTA, è facile attendersi un dibattito tra i teorici per dare la corretta interpretazione al fenomeno. «Il problema è che, al momento, esperimenti come IPTA possono osservare un fondo cosmico di onde gravitazionali in un intervallo ristretto di frequenze, ma non sono in grado di trarre informazioni che ci aiutino a capire quale sia l’esatto fenomeno che genera il fondo: come già sottolineato, segnali con queste frequenze possono essere prodotti sia da sorgenti astrofisiche, come buchi neri supermassicci, sia da fenomeni cosmologici avvenuti nell’universo primordiale», sottolinea Vecchio. «Per restare alla metafora musicale, diciamo che ora possiamo riuscire a sentire una “nota” di una certa intensità, ossia il fondo gravitazionale, ma non siamo ancora capaci di distinguere se questa nota è stata emessa dall’insieme dei “sassofoni” dei buchi neri supermassicci al centro delle galassie, o dai “contrabbassi” del cosmo primordiale».

Per fare un ulteriore salto di qualità, che porti non solo a osservare il fondo di onde gravitazionali, ma anche a capire in dettaglio le sue caratteristiche e i fenomeni che l’hanno generato, servirà tempo, necessario sia a mettere insieme ancora più dati e osservazioni sia a sviluppare telescopi ancora più potenti e sensibili. Per quanto riguarda il primo filone, un supporto importante arriverà dai dati raccolti dal satellite Gaia, dell’Agenzia spaziale europea, lanciato nel 2013 con l’obiettivo di realizzare un vero e proprio «censimento stellare» dei corpi celesti all’interno della nostra galassia (e oltre). Grazie a questi dati, di cui è stata pubblicata a giugno 2022 la terza raccolta, sarà possibile localizzare in modo ancora più dettagliato le pulsar, non solo in termini di posizione nel cielo, ma anche di distanza da noi. Sul fronte osservativo, una svolta fondamentale arriverà con lo Square Kilometre Array (SKA), un progetto internazionale che punta a realizzare la più grande rete di radiotelescopi del mondo (un migliaio in totale), tra Australia e Sudafrica. La fase di costruzione delle antenne di SKA è iniziata nel 2021: una volta operativo, presumibilmente dalla fine di questo decennio, l’esperimento permetterà di rilevare segnali radio provenienti dall’universo con un livello di dettaglio enormemente superiore ai migliori strumenti attuali, con obiettivi ambiziosi. Grazie a SKA, il monitoraggio di reti estese di pulsar permetterà di raccogliere dati molto più precisi e dettagliati: a quel punto, forse anche l’origine del fondo cosmico di onde gravitazionali non sarà più un mistero.

Matteo Serra - lescienze.it

 

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Virgo e LIGO hanno annunciato la rivelazione della fusione di uno straordinario sistema binario: due buchi neri di massa 66 e 85 masse solari, che hanno generato un buco nero finale di 142 masse solari. Il buco nero finale è il più massiccio mai rivelato con onde gravitazionali e si stima che si trovi a 17 miliardi di anni luce dalla Terra. L'evento di onda gravitazionale è stato osservato dagli interferometri della rete globale il 21 maggio 2019, e per tale motivo si chiama GW190521. L’evento è particolarmente interessante: le teorie di evoluzione stellare non prevedono l’esistenza di buchi neri in questo range di masse a causa di quella che viene chiamata la “Pair-instability”, un meccanismo che impedisce la formazione di buchi neri di massa maggiore di 60 masse solari da una singola stella. Inoltre è la prima volta che viene osservato, con un alto livello di confidenza, il segnale dell’assestamento del buco nero finale dopo la fusione (il cosiddetto ringdown) che offre la possibilità di determinarne le caratteristiche con un metodo alternativo rispetto a quello basato sulla forma d’onda nel periodo precedente alla coalescenza. L’evento è stato osservato sia dagli interferometri LIGO negli USA, sia da Virgo in Italia. Visto l’intervallo di frequenze del segnale (50-100 hz), la sensibilità degli strumenti si adatta meglio rispetto alle consuete osservazioni di coalescenze di buchi neri con massa inferiore che avvengono a frequenze più elevate. Il ruolo di Virgo nella localizzazione e nella stima dei parametri di GW190521 è stata particolarmente importante, dice Fabio Garufi, già responsabile del gruppo Virgo di Napoli. Secondo l’attuale coordinatore del gruppo Aniello Grado, la rivelazione di onde gravitazionali continua ad essere una fonte di nuove e rivoluzionarie scoperte per l’astrofisica e c’e’ molta attesa per il 2023 quando i rivelatori LIGO e Virgo rientreranno in funzione con una sensibilita’ ulteriormente aumentata e questo sicuramente portera’ a nuovi passi nella comprensione dell’Universo. Il gruppo di Napoli dell’INFN è presente nella collaborazione Virgo fin dalla nascita del progetto alla fine degli anni ’80 ed è quindi fra i gruppi fondatori. Le attività del gruppo sono rivolte al miglioramento della sensibilità dello strumento mediante tecniche di ottica quantistica, al monitoraggio e alla riduzione dei rumori ambientali ed all’analisi dati.

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Una pulsar, nome che stava originariamente per sorgente radio pulsante, è una stella di neutroni. Nelle prime fasi della sua formazione, in cui ruota molto velocemente, la sua radiazione elettromagnetica in coni ristretti è osservata come impulsi emessi a intervalli estremamente regolari. Nel caso di pulsar ordinarie, la loro massa è comparabile a quella del Sole, ma è compressa in un raggio di una decina di chilometri, quindi la loro densità è enorme. Il fascio di onde radio emesso dalla stella è causato dall'azione combinata del campo magnetico e della rotazione. Le pulsar si formano quando una stella esplode come supernova II, mentre le sue regioni interne collassano in una stella di neutroni congelando ed ingigantendo il campo magnetico originario. La velocità di rotazione alla superficie di una pulsar è variabile e dipende dal numero di rotazioni al secondo sul proprio asse e dal suo raggio. Nel caso di pulsar con emissioni a frequenze del kHz, la velocità superficiale può arrivare ad essere una frazione significativa della velocità della luce, a velocità di 70000 km/s.

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L' effetto faro nell'emissione di radiazione da parte di una pulsar.

SOMMARIO

L'onda gravitazionale è una perturbazione dello spaziotempo che si propaga con carattere ondulatorio. Fu prevista nel 1916 nell'ambito della teoria della relatività generale, nella quale l'equazione di campo di Einstein (linearizzata) ammette soluzioni ondulatorie per il tensore metrico, così come avviene per le equazioni di Maxwell riguardo al campo elettromagnetico. Si tratta quindi a tutti gli effetti di una forma di radiazione, al cui passaggio le distanze fra punti dello spazio tridimensionale curvo all'interno del campo gravitazionale si contraggono ed espandono ritmicamente. La teoria prevede che fronti d'onda di particolare intensità possono essere generati da fenomeni cosmici in cui enormi masse variano la loro distribuzione in modo repentino (e con un momento di quadrupolo non nullo), ad esempio nell'esplosione di supernove o nella collisione di oggetti quali stelle di neutroni e buchi neri. A partire dalla fine degli anni sessanta sono stati realizzati diversi rivelatori di onde gravitazionali. La prima rilevazione certa è stata annunciata l'11 febbraio 2016 dalla collaborazione LIGO/VIRGO, che nel settembre 2015 ha misurato onde gravitazionali causate dalla collisione di due buchi neri. La verifica sperimentale dell'esistenza delle onde gravitazionali ha fornito un'ennesima conferma della teoria della relatività generale e aperto nuove prospettive di studio in campo astrofisico.


IMPRESA OGGI - 23 febbraio 2023



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