«scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van pensieri
fare el suo tristo tempo più suave,
perch'altrove non have
dove voltare el viso;
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.»
Machiavelli
GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.
ITALIANI
Ariosto - Boccaccio - Carducci - D'Annunzio - Dante - Leopardi - Machiavelli - Manzoni - Pascoli - Petrarca - Pirandello - Tasso - Verga -Virgilio
Niccolò di Bernardo dei Machiavelli, noto semplicemente come Niccolò Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze, 21 giugno 1527), è stato uno scrittore, filosofo, storico, drammaturgo, politico e diplomatico italiano, segretario della seconda cancelleria della Repubblica Fiorentina dal 1498 al 1512.
Considerato, come Leonardo da Vinci, un uomo universale, nonché figura controversa nella Firenze dei Medici, è noto come il fondatore della scienza politica moderna, i cui princìpi base emergono dalla sua opera più famosa, Il Principe, nella quale, tra l'altro, è esposto il concetto di ragion di stato nonché è presente la concezione ciclica della storia. Questa definizione, secondo molti, descrive in maniera compiuta sia l'uomo sia il letterato più del termine machiavellico, entrato peraltro nel linguaggio corrente a indicare un'intelligenza acuta e sottile, ma anche spregiudicata e, proprio per questa connotazione negativa del termine, negli ambiti letterari viene preferito il termine "machiavelliano". L'ortografia del cognome è ambigua; lo stesso filosofo, nel firmarsi, utilizzava la "ch" sia per il nome, sia per il cognome.
Niccolò Machiavelli (scritto anche Macchiavelli sulla statua a lui dedicata all'ingresso degli Uffizi) nacque a Firenze, terzo figlio, dopo le sorelle Primavera (1465) e Margherita (1468) e prima del fratello Totto (1475-1522); figlio di Bernardo, dottore in legge (1432-1500) e di Bartolomea Nelli (1441-1496). Anticamente originari della Val di Pesa, i Machiavelli sono attestati popolani guelfi residenti almeno dal XIII secolo a Firenze, dove occuparono uffici pubblici ed esercitarono il commercio. Il padre Bernardo era tuttavia di così poca fortuna da esser considerato, non si sa quanto veritieramente, figlio illegittimo: dottore in legge, risparmiatore per carattere o per necessità, ebbe interesse agli studi di umanità, come risulta da un suo Libro di Ricordi che è anche la principale fonte di notizie sull'infanzia di Niccolò. La madre, secondo un suo lontano pronipote, avrebbe composto laudi sacre, rimaste peraltro sconosciute, dedicate proprio al figlio Niccolò.
Niccolò Machiavelli nello studio, tela di Stefano Ussi, 1894.
Nel 1476 Niccolò cominciò a studiare latino con un certo Paolo, l'anno dopo si dedicò allo studio della grammatica con Battista da Poppi, all'aritmetica nel 1480 e l'anno seguente affrontava le prove scritte di componimento in latino. Opere in questa lingua esistevano nella biblioteca paterna: la I Deca di Tito Livio e quelle di Flavio Biondo, opere di Cicerone, Macrobio, Prisciano e Marco Giuniano Giustino. Adulto, maneggerà anche Lucrezio e la Historia persecutionis vandalicae di Vittore Uticense. Non conobbe invece il greco antico, ma poté leggere le traduzioni latine di alcuni degli storici più importanti, soprattutto Tucidide, Polibio e Plutarco, da cui trasse importantissimi spunti per la sua riflessione sulla Storia. S'interessò alla politica anche prima di avere degli incarichi istituzionali, come dimostra una sua lettera del 9 marzo 1498, la seconda che di lui ci è pervenuta - la prima è una richiesta al cardinale Giovanni Lopez, del 2 dicembre 1497, affinché si adoperi a riconoscere alla sua famiglia un terreno contestato dalla famiglia dei Pazzi - indirizzata probabilmente all'amico Ricciardo Becchi, ambasciatore fiorentino presso la corte papale, nella quale egli si esprime in modo critico contro Girolamo Savonarola.
Due sono le fasi che scandiscono la vita di Niccolò Machiavelli: nella prima parte della sua esistenza egli è impegnato soprattutto negli affari pubblici; nella successiva nella scrittura di testi di portata teorica e speculativa. A partire dal 1512 si apre la seconda fase segnata dal forzato allontanamento dello storico e filosofo toscano dalla politica attiva.
«Della persona fu ben proporzionato, di mezzana statura, di corporatura magro, eretto nel portamento con piglio ardito. I capelli ebbe neri, la carnagione bianca ma pendente all'ulivigno; piccolo il capo, il volto ossuto, la fronte alta. Gli occhi vividissimi e la bocca sottile, serrata, parevano sempre un poco ghignare. Di lui più ritratti ci rimangono, di buona fattura, ma soltanto Leonardo, col quale ebbe pur che fare ai suoi prosperi giorni, avrebbe potuto ritradurre in pensiero, col disegno e i colori, quel fine ambiguo sorriso»
(Roberto Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, p. 22)
Niccolò aveva già presentato al Consiglio dei Richiesti, il 18 febbraio 1498, la propria candidatura a segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica di Firenze, ma gli fu preferito un candidato savonaroliano. Pochi giorni però dopo la fine dell'avventura politica e religiosa del frate ferrarese, il 28 maggio Machiavelli fu nuovamente designato ed eletto il 15 giugno dal Consiglio degli Ottanta, elezione ratificata dal Consiglio maggiore il 20 giugno 1498, probabilmente grazie all'autorevole raccomandazione del Primo segretario della Repubblica, Marcello Virgilio Adriani, che il Giovio asserisce essere stato suo maestro.
Per quanto i compiti delle due Cancellerie siano stati spesso confusi, generalmente alla prima si attribuivano gli affari esterni, e alla seconda quelli interni e la guerra: ma i compiti della seconda Cancelleria, presto unificati con quelli della Cancelleria dei Dieci di libertà e pace, consistevano nel tenere i rapporti con gli ambasciatori della Repubblica, cosicché, essendogli stata affidata, il 14 luglio, anche questa ulteriore responsabilità, Machiavelli finì per doversi occupare di una tale somma di compiti da essere storicamente considerato, senza ulteriori distinzioni, il «Segretario fiorentino».
Era il tempo nel quale, conclusa l'avventura italiana di Carlo VIII, la maggiore preoccupazione di Firenze era volta alla riconquista di Pisa - resasi indipendente dopo che Piero de' Medici l'aveva data in pegno al re di Francia- e alleata di Venezia che, intendendo impedire l'espansione fiorentina, aveva invaso il Casentino, occupandolo a nome dei Medici. Il pericolo venne fronteggiato dal capitano di ventura Paolo Vitelli, e la mediazione del duca di Ferrara Ercole I, il 6 aprile 1499, riconsegnò il Casentino a Firenze, autorizzandola altresì a riprendersi Pisa. In marzo venne inviato a Pontedera, dove erano acquartierate le milizie del signore di Piombino, Jacopo d'Appiano, alleato di Firenze.
In maggio scrisse il Discorso della guerra di Pisa per il magistrato dei Dieci: poiché «Pisa bisogna averla o per assedio o per fame o per espugnazione, con andare con artiglieria alle mura», esaminate diverse soluzioni, si esprime favorevole a un assedio di «un quaranta o cinquanta dì ed in questo mezzo trarne tutti gli uomini da guerra potete, e non solamente cavarne chi vuole uscire, ma premiare chi non ne volesse uscire, perché se ne esca. Dipoi, passato detto tempo, fare in un subito quanti fanti si può; fare due batterie, e quanto altro è necessario per accostarsi alle mura; dare libera licenza che se ne esca chiunque vuole, donne, fanciulli, vecchi ed ognuno, perché ognuno a difenderla è buono; e così trovandosi i Pisani voti di difensori dentro, battuti dai tre lati, a tre o quattro assalti sarìa impossibile che reggessero».
Il 16 luglio 1499 si presentò a Forlì alla contessa Caterina Sforza Riario, nipote di Ludovico il Moro e madre di Ottaviano Riario, che era stato al soldo dei fiorentini, per rinnovare l'alleanza e ottenere uomini e munizioni per la guerra pisana. Ottenne solo vaghe promesse dalla contessa che era già impegnata a sostenere lo zio nella difficile difesa del Ducato milanese dalle mire di Luigi XII e dovette ripartire senza aver nulla ottenuto. Era nuovamente a Firenze in agosto, quando le artiglierie fiorentine, provocata una breccia nelle mura pisane, aprivano la via alla conquista della città, ma il Vitelli non seppe sfruttare l'occasione e temporeggiò finché la malaria non ebbe ragione delle sue truppe, costringendolo a togliere l'assedio il 14 settembre. Invano ritentò l'impresa: sospettato di tradimento, quello che «era il più reputato capitano d'Italia» fu decapitato.
Caterina Sforza Riario, ritratta da Lorenzo di Credi
Nessuna prova vi era che il Vitelli fosse stato corrotto dai Pisani ma la giustificazione di Machiavelli, a nome della Repubblica, in risposta alle critiche di un cancelliere di Lucca, fu che «o per non havere voluto, sendo corropto, o per non havere potuto, non avendo la compagnia, ne sono nati per sua colpa infiniti mali ad la nostra impresa, et merita l'uno o l'altro errore, o tuct'a due insieme che possono stare, infinito castigo». Conquistato il Ducato di Milano, in risposta alla richieste fiorentine Luigi XII mandò suoi soldati a risolvere l'impresa di Pisa le cui mura furono bensì abbattute nel luglio del 1500 ma né gli svizzeri né i francesi entrarono in città anzi, lamentando che Firenze non li pagasse, levarono l'assedio e sequestrarono il commissario fiorentino Luca degli Albizzi, che fu rilasciato solo dietro riscatto. A Machiavelli, presente ai fatti, non restava che informare la Repubblica, che decise di mandarlo in Francia, insieme con Francesco della Casa, per cercare nuovi accordi che risolvessero finalmente la guerra di Pisa.
Il 6 agosto 1500 raggiunsero la corte francese a Nevers, presentando al re e al ministro, cardinale di Rouen, le rimostranze per il cattivo comportamento dei loro soldati; sapendo che Firenze non aveva al momento denari sufficienti a finanziare l'impresa, invitarono Luigi a intervenire direttamente nella guerra, al termine della quale la Repubblica avrebbe ripagato la Francia di tutte le spese. Il rifiuto dei francesi - che richiedevano a Firenze il mantenimento degli svizzeri rimasti accampati in Lunigiana e minacciavano la rottura dell'alleanza - mise i legati fiorentini, privi di istruzioni dalla Repubblica, in difficoltà, acuite dalla ribellione di Pistoia e dalle iniziative che frattanto aveva preso in Romagna Cesare Borgia, i cui ambiziosi e oscuri piani potevano anche indirizzarsi contro gli interessi fiorentini.
Presunto ritratto di Cesare Borgia, di Altobello Melone.
Occorreva, pagando, mantenere buoni rapporti con la Francia - scriveva da Tours il 21 novembre - e guardarsi dalle macchinazioni del papa: così, ottenuto dalla Signoria il denaro richiesto dalla Francia, Machiavelli poteva finalmente ritornare a Firenze il 14 gennaio 1501. Quella lunga permanenza nella corte francese verrà dislocata negli opuscoli (entrambi del 1510) De natura Gallorum, dove i francesi verranno descritti come «humilissimi nella captiva fortuna; nella buona insolenti [ ... ] più cupidi de' danari che del sangue [ ... ] vani et leggieri [ ... ] più tosto tachagni che prudenti», con una bassa opinione degli Italiani, e nel successivo Ritratto delle cose di Francia, dove, spostandosi su un piano d'analisi prettamente politica, finisce col fare della Francia l'esemplare dello stato moderno. Soprattutto egli insiste sul nesso fra la prosperità della monarchia e il raggiunto processo di unificazione nazionale, sentito come la lezione peculiare delle "cose di Francia".
«Questo signore è molto splendido e magnifico, e nelle armi è tanto animoso che non è sì gran cosa che non gli paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai si riposa né conosce fatica o periculo: giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a' suoi soldati; ha cappati e' migliori uomini d'Italia: le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunte con una perpetua fortuna»
(Machiavelli, Lettera ai Dieci del 26 giugno 1502)
La minaccia del Borgia si fece presto concreta: fermato dalle minacce della Francia quando tentava d'impadronirsi di Bologna, si volse contro Piombino, entrando nel territorio della Repubblica e cercando di imporle tributi, dai quali Firenze fu nuovamente fatta salva dall'intervento di Luigi. Fra una missione a Pistoia e un'altra a Siena, Niccolò ebbe tempo di sposare, nell'autunno del 1501, Marietta Corsini, donna di modesta origine, dalla quale avrà sette figli: Primerana, Bernardo, Lodovico, Guido, Piero, Baccina e Totto. Padrone di Piombino il 3 settembre 1501, il Borgia, per mezzo del suo sodale Vitellozzo Vitelli s'impadronì di Arezzo, dove si stabilì Piero de' Medici, poi delle terre di Valdichiana, di Cortona, di Anghiari e di Borgo San Sepolcro e di lì passò a investire Camerino e Urbino, chiedendo nel contempo di intavolare trattative con Firenze che, nel frattempo, vistasi stretta dai due Borgia, padre e figlio, aveva rinnovato gli accordi con la Francia.
Il 22 giugno 1502, lo stesso giorno della caduta della città nelle mani di Cesare, partirono per Urbino Machiavelli e il vescovo di Volterra, Francesco Soderini, fratello di Piero: ricevuti il 24 giugno, si sentirono ordinare di cambiare il governo della Repubblica, pena la sua inimicizia. La crisi fu superata grazie all'intervento delle armi francesi: avvicinandosi queste ad Arezzo, la città fu sgomberata e restituita, insieme con le altre terre, ai Fiorentini. Riferimento a questi casi è il breve scritto dell'anno successivo, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, nel quale, preso esempio dal comportamento tenuto dagli antichi Romani in caso di ribellioni, rimprovera il governo fiorentino di non aver trattato severamente la ribelle città di Arezzo. Pensa che come i Romani
«fecero giudizio differente per esser differente il peccato di quelli popoli, così dovevi fare voi, trovando ancora nei vostri ribellati differenza di peccati [ ... ] giudico ben giudicato che a Cortona, Castiglione, il Borgo, Foiano, si siano mantenuti i capitoli, siano vezzeggiati e vi siate ingegnati riguadagnarli con i beneficii [ ... ] ma io non approvo che gli Aretini, simili ai Veliterni ed Anziani non siano stati trattati come loro. [ ... ] I Romani pensarono una volta che i popoli ribellati si debbano o beneficare o spegnere e che ogni altra via sia pericolosissima.»
Di fronte a quelli che apparivano tempi nuovi e tempestosi, nei quali occorreva che uomini capaci prendessero pronte risoluzioni, come prima riforma nell'organizzazione dello Stato fiorentino fu resa vitalizia la carica di gonfaloniere, affidata, il 15 settembre 1502, a Pier Soderini, che appariva uomo accetto tanto agli ottimati che ai popolani. La prima missione che egli affidò a Machiavelli fu quella di prendere nuovamente contatto col Borgia il quale, formalmente capitano delle truppe pontificie e finanziato da quello Stato, intendeva tuttavia agire nel proprio interesse e in quello della sua famiglia, stringendo un nuovo patto con Luigi XII e ottenendone libertà d'azione nei suoi piani di espansione, non solo nei confronti di signorotti quali gli Orsini, i Baglioni e il Vitelli, già suoi alleati, ma anche contro lo stesso Bentivoglio di Bologna. Seguendo la tradizionale politica di alleanza con la Francia, Firenze - pur diffidando del Valentino - intendeva confermargli la sua amicizia, per non essere investita dai suoi aggressivi disegni.
Machiavelli giunse a Imola dal Borgia il 7 ottobre, confidandogli che Firenze non aveva aderito all'offerta di amicizia propostale dagli Orsini e dai Vitelli, congiurati a Magione contro il duca Valentino, e ne ricevette in cambio un'offerta di alleanza, alla quale Niccolò, affascinato dalla figura di Cesare Borgia, guardava con favore più di quanto non facesse il governo fiorentino. Fu al seguito del Valentino per tutta la durata di quei tre mesi di campagna militare e, il 1º gennaio 1503, due ore dopo l'uccisione a tradimento di Vitellozzo e di Oliverotto da Fermo, ne raccolse le parole «savie e affezionatissime» per i Fiorentini, invitati nuovamente a unirsi a lui per avventarsi contro Perugia e Città di Castello. Firenze, a questo punto, decise di mandare presso il Borgia un ambasciatore accreditato, Jacopo Salviati, così che il nostro Segretario il 20 gennaio lasciò il campo di Città della Pieve per fare ritorno a Firenze.
«Vitellozo, Pagolo et duca di Gravina in su muletti ne andorno incontro al duca, accompagnati da pochi cavagli; et Vitellozo disarmato, con una cappa foderata di verde, tucto aflicto se fussi conscio della sua futura morte, dava di sé, conosciuta la virtù dello huomo et la passata sua fortuna, qualche ammiratione [ ... ] Arrivati adunque questi tre davanti al duca, et salutatolo humanamente, furno da quello ricevuti con buono volto [ ... ] Ma, veduto il duca come Liverotto vi mancava [ ... ] adciennò con l'occhio a don Michele, al quale la cura di Leverotto era demandata, che provedessi in modo che Liverotto non schapassi [ ... ] Liverotto havendo facto riverenza, si adcompagnò con gli altri; et entrati in Senigagla, et scavalcati tutti ad lo alloggiamento del duca, et entrati seco in una stanza secreta, furno dal duca fatti prigioni [ ... ] venuta la nocte [ ... ] al duca parve di fare admazare Vitellozzo e Liverotto; et conductogli in uno luogo insieme, gli fe' strangolare [ ... ] Pagolo et el duca di Gravina Orsini furno lasciati vivi per infino che il duca intese che a Roma el papa haveva preso el cardinale Orsino, l'arcivescovo di Firenze et messer Jacopo da Santa Croce; dopo la quale nuova, a dì 18 di giennaio, ad Castel della Pieve furno anchora loro nel medesimo modo strangolati»
(Machiavelli, Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, giugno-agosto 1503)
La morte di Alessandro VI privò Cesare Borgia delle risorse finanziarie e politiche che gli occorrevano per mantenere il ducato di Romagna, che si dissolse tornando a frammentarsi nelle vecchie signorie, mentre Venezia s'impadronì di Imola e di Rimini. Dopo il brevissimo pontificato di Pio III, Machiavelli fu inviato a Roma il 24 ottobre 1503 per il conclave che il 1º novembre elesse Giulio II. Raccolse le ultime confidenze del Valentino, del quale pronosticò la rovina imminente, e cercò di comprendere le intenzioni politiche del nuovo Papa, che egli sperava s'impegnasse contro i Veneziani, le cui mire espansionistiche erano temute da Firenze: «O la sarà una porta che aprirà loro tutta Italia, o fia la rovina loro», scrive il 24 novembre.
A Roma gli giunse la notizia della nascita del secondogenito Bernardo: «Somiglia voi, è bianco come la neve, ma gli ha il capo che pare velluto nero, et è peloso come voi, e da che somiglia voi parmi bello», gli scrive la moglie Marietta il 24 novembre. E Machiavelli, che lungamente in questo scorcio di tempo aveva frequentato la casa del cardinal Soderini, al quale forse prospettò già il suo progetto di costituire una milizia nazionale che sostituisse l'infida soldatesca mercenaria, il 18 dicembre s'avviò per Firenze.
Raffaello Sanzio, Ritratto di Giulio II (1512)
Le fortune della Francia in Italia sembrarono declinare dopo la cacciata dal Napoletano a opera dell'armata spagnola di Gonzalo Fernández de Córdoba. Firenze, alleata di Luigi XII, e timorosa delle prossime iniziative della Spagna, del papa e della nemica tradizionale, la Siena di Pandolfo Petrucci, era interessata a conoscere i progetti del re e a questo scopo alla sua corte mandò Machiavelli «a vedere in viso le provvisioni che si fanno e scrivercene immediate, e aggiungervi la coniettura e iudizio tuo». Il 22 gennaio 1504 Machiavelli era a Milano per conferire con il luogotenente Charles II d'Amboise, che non credeva in un attacco spagnolo in Lombardia e rassicurò Niccolò sull'amicizia francese per Firenze.
Raggiunse la corte e l'ambasciatore Niccolò Valori a Lione il 27 gennaio, ricevendo uguali rassicurazioni dal cardinale di Rouen e da Luigi stesso. In marzo ripartiva per Firenze e di qui si recava per pochi giorni a Piombino da Jacopo d'Appiano, per sondare la posizione di quel signorotto. È di questo tempo la stesura del suo primo Decennale, una storia dei fatti notevoli occorsi degli ultimi dieci anni volta in terzine: Machiavelli non è poeta, anche se invoca Apollo nell'esordio del poemetto, ma a noi interessa il suo giudizio sull'attualità della vicenda politica italiana e su quel che attende Firenze:
«L'imperador, con l'unica sua prole
vuol presentarsi al successor di Pietro
al Gallo il colpo ricevuto duole;
e Spagna che di Puglia tien lo scetro
va tendendo a' vicin laccioli e rete,
per non tornar con le sue imprese a retro;
Marco, pien di paura e pien di sete,
fra la pace e la guerra tutto pende;
e voi di Pisa troppa voglia avete [ .... ]
Onde l'animo mio tutto s'infiamma
or di speranza, or di timor si carca
tanto che si consuma a dramma a dramma,
perché saper vorrebbe dove, carca
di tanti incarchi debbe, o in qual porto,
con questi venti, andar la vostra barca.
Pur si confida nel nocchier accorto
ne' remi, nelle vele e nelle sarte;
ma sarebbe il cammin facile e corto
se voi el tempio riapriste a Marte»
(Decennale primo, vv 529-549)
I tentativi d'impadronirsi di Pisa fallirono ancora: battuta a Ponte a Cappellese il 27 marzo 1505, Firenze doveva anche guardarsi dalle manovre dei signori ai loro confini. Machiavelli andò a Perugia l'11 aprile per conferire col Baglioni, ora alleato con gli Orsini, con Lucca e con Siena, poi a Mantova, per cercare invano accordi con il marchese Giovan Francesco Gonzaga e il 17 luglio a Siena. In settembre, fallì un nuovo assalto a Pisa e Machiavelli ne trasse spunto per presentare la proposta della creazione di un esercito cittadino. Rimasti diffidenti i maggiorenti della città - che temevano che un esercito popolare potesse costituire una minaccia per i loro interessi - ma appoggiato dal Soderini, Machiavelli si mosse per mesi nei borghi toscani a far leva di soldati, istruiti «alla tedesca», e finalmente, il 15 febbraio 1506, Firenze poté vedere la prima parata di una milizia «nazionale» che peraltro non avrà nessun ruolo nella successiva conquista di Pisa e si rivelerà di scarso affidamento nella difesa di Prato del 1512.
Con la pace concordata con la Francia nell'ottobre 1505, la Spagna, con Ferdinando II d'Aragona, aveva preso definitivamente possesso del Regno di Napoli. I piccoli stati della penisola attendevano ora le mosse di Giulio II, deciso a imporre la sua egemonia nell'Italia centrale: nel luglio, il papa chiese a Firenze di partecipare alla guerra che egli intendeva muovere al signore di Bologna, Giovanni Bentivoglio, che era alleato, come Firenze, dei francesi, e perciò teoricamente amico, oltre che confinante, dei Fiorentini. Si trattava di temporeggiare, osservando gli sviluppi dell'impresa del papa al quale fu mandato Machiavelli, che lo incontrò a Nepi il 27 agosto 1506.
Giulio II gli dimostrò di godere dell'appoggio della Francia, che aveva promesso di inviare truppe in suo aiuto, cosicché fu agevole a Machiavelli promettere aiuti a sua volta - dopo però che fossero arrivati quelli di re Luigi - e seguì papa Giulio che, con la sua corte curiale e pochi armati se n'andava a Perugia, ottenendo, il 13 settembre, la resa senza combattimento di Giampaolo Baglioni che, con stupore e rimprovero del Machiavelli e, un giorno, anche del Guicciardini, non ebbe il coraggio di opporsi alle poche forze allora a disposizione del Papa. La corte papale, dopo aver atteso a Cesena fino a ottobre l'arrivo dei francesi e, dopo questi, dei Fiorentini di Marcantonio Colonna, entrò trionfante a Bologna l'11 novembre. Machiavelli, tornato a Firenze già alla fine d'ottobre, s'occupò ancora dell'istituzione delle milizie fiorentine: il 6 dicembre furono creati i Nove ufficiali dell'Ordinanza e Milizia fiorentina, eletti dal popolo, responsabili militari della Repubblica.
Il nuovo anno 1507 si aprì con le minacce del passaggio in Italia del «Re dei Romani» Massimiliano, intenzionato a ribadire le proprie pretese di dominio sulla penisola, a espellere i francesi e a farsi incoronare a Roma «imperatore del Sacro Romano Impero». Si valutò a Firenze la possibilità di finanziargli l'impresa in cambio della sua amicizia e del riconoscimento dell'indipendenza della Repubblica: il 27 giugno fu inviato a questo scopo l'ambasciatore Francesco Vettori e, il 17 dicembre, lo stesso Machiavelli. Giunse a Bolzano, dove Massimiliano teneva corte, l'11 gennaio 1508 e le lunghe trattative sull'esborso preteso da Massimiliano s'interruppero quando i Veneziani, sconfiggendolo più volte, gli fecero comprendere la velleità dei suoi sogni di gloria.
Da questa esperienza Machiavelli trasse tre scritti, il Rapporto delle cose della Magna, composto il 17 giugno 1508, il giorno dopo il suo rientro a Firenze, il Discorso sopra le cose della Magna e sopra l'Imperatore, del settembre 1509, e il più tardo Ritratto delle cose della Magna, del 1512, una rielaborazione del primo Rapporto. Rileva la grande potenza della Germania, che
«abunda di uomini, di ricchezze e d'arme»; le popolazioni hanno «da mangiare e bere e ardere per uno anno: e così da lavorare le industrie loro, per potere in una obsidione [assedio] pascere la plebe e quelli che vivono delle braccia, per uno anno intero sanza perdita. In soldati non spendono perché tengono li uomini loro armati ed esercitati; e li giorni delle feste tali uomini, in cambio delli giuochi, chi si esercita collo scoppietto, chi colla picca e chi con una arme e chi con un'altra, giocando tra loro onori et similia, e quali tra loro poi si godono. In salari e in altre cose spendono poco: talmente che ogni comunità si truova ricca in publico».
Importano e consumano poco perché «le loro necessità sono assai minori delle nostre», ma esportano molte merci «di che quasi condiscono tutta la Italia [...] e così si godono questa loro rozza vita e libertà e per questa causa non vogliono ire alla guerra se non sono soprappagati e questo anche non basterebbe loro, se non fussino comandati dalle loro comunità. E però bisogna a uno imperadore molti più denari che a uno altro principe».
Tanta forza potenziale, che potrebbe fare la grandezza politica e militare dell'Imperatore, è limitata dalle divisioni delle comunità governate dai singoli principi, una realtà simile a quella italiana: nessun principe tedesco vuole favorire l'imperatore,
«perché, qualunque volta in proprietà lui avessi stati o fussi potente, è domerebbe e abbasserebbe e principi e ridurrebbeli a una obedienzia di sorte da potersene valere a posta sua e non quando pare a loro: come fa oggi il re di Francia, e come fece già il re Luigi, quale con l'arme e ammazzarne qualcuno li ridusse a quella obedienzia che ancora oggi si vede».[
Decisa a concludere le operazioni militari contro Pisa, Firenze mandò Machiavelli a far leve di soldati: in agosto condusse soldati prelevati da San Miniato e da Pescia all'assedio della città irriducibile. Riunite altre milizie, si incaricò di tagliare i rifornimenti bloccando l'Arno; poi, il 4 marzo del 1509, andò prima a Lucca a intimare a quella Repubblica di cessare ogni aiuto ai Pisani e, il 14, si recò a Piombino, incontrando gli ambasciatori di Pisa per cercare invano un accordo di resa. Raccolte nuove truppe, in maggio era presente all'assedio: Pisa, ormai stremata, trattava finalmente la pace. Machiavelli accompagnò i legati pisani a Firenze dove, il 4 giugno 1509 fu firmata la resa e l'8 giugno poté entrare in Pisa con i commissari Niccolò Capponi, Antonio Filicaia e Alamanno Salviati.
Un ben più vasto incendio era intanto divampato nell'Italia settentrionale: stipulata un'alleanza a Cambrai, Francia, Spagna, Impero e papato si avventavano contro la Repubblica di Venezia che a maggio cedeva i suoi possedimenti lombardi e romagnoli e, in giugno, anche Verona, Vicenza e Padova, consegnate a Massimiliano. Firenze, da parte sua, doveva finanziare la nuova impresa imperiale: consegnato un primo acconto in ottobre, il 21 novembre Machiavelli era a Verona per consegnare il saldo a Massimiliano, che era stato però costretto alla ritirata dalla controffensiva veneziana, resa possibile dalla rivolta popolare contro i nuovi padroni. E Machiavelli commentava dei «due re, che l'uno può fare la guerra e non vuol farla, l'altro ben vorrebbe farla e non può», riferendosi a Luigi e a Massimiliano che se n'era tornato in Germania a chiedere soldati e denari ai principi tedeschi.
Atteso inutilmente il ritorno dell'Imperatore, il 2 gennaio 1510 Machiavelli se ne tornò a Firenze. Venezia si salvò soprattutto grazie alle divisioni degli alleati: mentre Luigi XII aveva tutto l'interesse di ridurre all'impotenza Venezia per avere le mani libere nella pianura padana, Giulio II la voleva abbastanza forte da opporsi alla Francia senza averne contrasto alle proprie ambizioni di espansione. Per Firenze, amica della Francia ma non nemica del papa, era necessario spiegarsi con il re francese, e Machiavelli fu mandato a Blois, dove Luigi teneva la corte, incontrandolo il 17 giugno 1510.
Machiavelli confermò l'amicizia con la Francia ma disse di dubitare che la Repubblica potesse impegnarsi in una guerra contro Giulio II, in grado di volgere contro Firenze forze troppo superiori: meglio sarebbe stata una mediazione che evitasse il conflitto e sottraesse, oltre tutto, Firenze dalla responsabilità di un impegno nel quale era difficile trarre un guadagno. Dovette tornare a Firenze il 19 ottobre, convinto che la guerra fosse ineluttabile. Le vittorie militari non furono sfruttate da Luigi XII e la sua indizione di un concilio a Pisa, che condannasse il papa, provocò l'interdetto di Giulio II contro Firenze. Il 22 settembre 1511 Machiavelli era ancora in Francia, ottenendo dal re soltanto un breve rinvio del concilio: dalla Francia andò a Pisa e riuscì a ottenere il trasferimento del concilio a Milano.
Le fortune di Luigi XII volgevano al tramonto: sconfitto dalla nuova coalizione guidata dal papa, era costretto ad abbandonare la Lombardia, lasciando Firenze politicamente isolata e incapace di resistere alle armi spagnole. Il 31 agosto 1512 Pier Soderini fuggì a Siena, i Medici rientrarono a Firenze: disfatto il vecchio governo, il 7 novembre anche Machiavelli venne rimosso dal suo incarico, il successivo 10 novembre fu confinato e multato della grande somma di mille fiorini e il 17 gli fu interdetto l'ingresso a Palazzo Vecchio.
Il nuovo regime processò Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, accusati di aver complottato contro Giuliano de' Medici, condannandoli a morte. Anche Machiavelli è sospettato: arrestato il 12 febbraio 1513, fu anche torturato (gli fu somministrata la corda o, com'era chiamata allora a Firenze, la "colla"). Scrisse allora a Giuliano di Lorenzo de' Medici duca di Nemours due sonetti, per ricordargli, ma senza averne l'aria e in forma scherzosa, la sua condizione di carcerato:
«Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti
e sei tratti di fune in sulle spalle;
l'altre miserie mie non vo' contalle,
poiché così si trattano i poeti
(giova notare che si definisce innanzitutto poeta)
Menon pidocchi queste parieti
grossi e paffuti che paion farfalle,
né mai fu tanto puzzo in Roncisvalle
o in Sardigna fra quegli arboreti
quanto nel mio sì delicato ostello»
Giulio II moriva intanto proprio in quei giorni e dal conclave uscì eletto l'11 marzo il cardinale de' Medici con il nome di Leone X: era la fine dei pericoli di guerra per Firenze e anche il tempo dell'amnistia. Uscito dal carcere, Machiavelli cercò di ottenere favori dai Medici attraverso l'ambasciatore Francesco Vettori e lo stesso Giuliano, ma invano. Si ritirò allora nel suo podere dell'Albergaccio connesso a villa Mangiacane (tenuta della famiglia Machiavelli), a Sant'Andrea in Percussina, tra Firenze e San Casciano in Val di Pesa.
Qui, tra le giornate rese lunghe dall'ozio forzato, comincia a scrivere i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio che, forse nel luglio 1513, interrompe per metter mano al suo libro più famoso, il De Principatibus, dal solenne titolo latino ma scritto in volgare e perciò divenuto ben più noto come Il Principe. Lo dedica dapprima a Giuliano di Lorenzo de' Medici e, dopo la morte di questi nel 1516, a Lorenzo de' Medici, figlio di Piero il Fatuo; ma il libro uscì solo postumo, nel 1532. Certo, non doveva farsi illusioni che un Medici potesse mai essere quel «redentore» atteso dall'Italia contro «questo barbaro dominio», ma da un Medici si attendeva almeno la sua propria «redenzione» dall'inattività cui era stato relegato dal ritorno a Firenze di quella famiglia.
L'Albergaccio di Machiavelli a Sant'Andrea in Percussina
Sperava che l'amico Vettori, ambasciatore a Roma, si facesse interprete del suo «desiderio [...] che questi signori Medici mi cominciasseino adoperare», dal momento «che io sono stato a studio all'arte dello stato [...] e doverrebbe ciascheduno aver caro servirsi d'uno che alle spese d'altri fussi pieno d'esperienza. E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni che io ho, non debbe potere mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia». Delle ombre della sua povertà, ma anche delle sue luci, Machiavelli scrive al Vettori in quella che è la più famosa lettera della nostra letteratura:
«Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandargli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo de Principatibus»
(Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513)
Ritornato il 3 febbraio 1514 a Firenze, continuò a sperare a lungo che il Vettori, al quale spedì il manoscritto del Principe, lo facesse introdurre in qualche incarico nell'amministrazione cittadina, ma invano. Tutto dipendeva dalla volontà del papa, e Leonsieri delle cose grandi e gravi» e di non dilettarsi più di «leggere le cose antiche, né ragionare delle moderne: tutte si sono converse in ragionamenti dolci». Si era infatti innamorato di una «cre non era affatto intenzionato a favorire chi non si era mostrato, a suo tempo, favorevole agli interessi di Casa Medici. Machiavelli, da parte sua, scriveva al Vettori di aver «lasciato i peneatura tanto gentile, tanto delicata, tanto nobile e per natura e per accidente, che io non potrei né tanto laudarla né tanto amarla che la non meritasse più».
La guerra, ripresa in Italia dalla discesa del nuovo re di Francia Francesco I, si concluse nel settembre 1515 con la sua grande vittoria a Marignano (oggi Melegnano) contro la vecchia «Lega santa»: Leone X dovette accettare il dominio francese in Lombardia e la stipula a Bologna di un concordato che riconosceva il controllo reale sul clero francese. Si rifece impossessandosi, per conto del nipote Lorenzo, capitano generale dei Fiorentini, del Ducato di Urbino. A quest'ultimo invano dedicava Machiavelli il suo Principe: la sua esclusione dalla gestione degli affari di Firenze continuava.
Nel 1516 o 1517 si diede a frequentare gli «Orti Oricellari», latineggiamento che indica i giardini del Palazzo di Cosimo Rucellai, dove si riunivano letterati, giuristi ed eruditi come Luigi Alamanni, Jacopo da Diacceto, Jacopo Nardi, Zanobi Buondelmonti, Antonfrancesco degli Albizi, Filippo de' Nerli e Battista della Palla. Qui vi lesse probabilmente qualche capitolo di quell'Asino, poemetto in terzine che voleva essere una contaminazione fra l'Asino d'oro di Apuleio e la Divina Commedia dantesca, ma che lasciò presto interrotto: e al Rucellai e al Buondelmonti dedicò i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, scritti dal 1513 al 1519. Machiavelli si era già cimentato, quando ricopriva l'incarico di segretario della Repubblica, in composizioni teatrali: una imitazione dell'Aulularia di Plauto e una commedia, Le maschere, ispirata a Nebulae di Aristofane, sono tuttavia perdute. Al 1518 risale il suo capolavoro letterario, la commedia Mandragola, nel cui prologo egli inserisce un accenno autobiografico
«scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van pensieri
fare el suo tristo tempo più suave,
perch'altrove non have
dove voltare el viso;
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.»
Intorno a quest'anno vanno collocate la traduzione dell'Andria di Terenzio e stesura della novella di Belfagor arcidiavolo o Novella del demonio che pigliò moglie - il suo titolo preciso è attualmente stabilito in Favola - il cui tema di fondo è la visione pessimistica dei rapporti che legano gli esseri umani, tutti intesi al proprio interesse a danno, se necessario, di quello di ciascun altro.
Lorenzo de' Medici morì nel 1519, lasciando il governo di Firenze al cardinale Giulio. Costui, favorevole a Machiavelli, nel 1520, lo incaricò della stesura delle Istorie fiorentine sotto lauta retribuzione. Machiavelli, galvanizzato dall'incarico, diede alle stampe nel 1521 l'Arte della guerra, dedicandola allo stesso cardinale Giulio. Nello stesso anno fu inviato in missione diplomatica a Carpi presso il governatore Francesco Guicciardini di cui, pur avendo opposte visioni della Storia, divenne buon amico. Nel 1525 cercò di guadagnare il favore di papa Clemente VII offrendogli le Istorie fiorentine. Nel frattempo giunsero la revoca ufficiale dell'interdizione dalla vita pubblica e l'affidamento di missioni militari in Romagna in collaborazione col Guicciardini.
Nel 1527 i Medici furono cacciati da Firenze e venne instaurata nuovamente la repubblica. Machiavelli si propose come candidato alla carica di segretario della repubblica, ma venne respinto in quanto ritenuto colluso coi Medici e soprattutto con papa Clemente VII. La delusione per Machiavelli fu insopportabile. Ammalatosi repentinamente, cominciò a peggiorare vistosamente fino alla morte, sopraggiunta il 21 giugno 1527, nella sua casa in via Guicciardini. Abbandonato da tutti, fu sepolto nel corso di una modesta cerimonia funebre nella tomba di famiglia nella basilica di Santa Croce. Nel 1787 la città di Firenze fece costruire un monumento nella basilica stessa; esso raffigura la Diplomazia assisa su un sarcofago marmoreo. Sulla lastra frontale sono incise le parole Tanto nomini nullum par elogium (Nessun elogio sarà mai degno di tanto nome).
Con il termine machiavellico si è spesso indicato un atteggiamento spregiudicato e disinvolto nell'uso del potere: un buon principe deve essere astuto per evitare le trappole tese dagli avversari, capace di usare la forza se ciò si rivela necessario, abile manovratore negli interessi propri e del suo popolo. Ciò si accompagna a un travaglio personale che Machiavelli sentiva nella sua attività quotidiana e di teorico, secondo una tradizione politica che già in Cicerone affermava: "un buon politico deve avere le giuste conoscenze, stringere mani, vestire in modo elegante, tessere amicizie clientelari per aver un'adeguata scorta di voti".
Con Machiavelli l'Italia ha conosciuto il più grande teorico della politica. Secondo Machiavelli la politica è il campo nel quale l'uomo può mostrare nel modo più evidente la propria capacità di iniziativa, il proprio ardimento, la capacità di costruire il proprio destino secondo il classico modello del faber fortunae suae. Nel suo pensiero si risolve il conflitto fra regole morali e ragion di Stato che impone talvolta di sacrificare i propri princìpi in nome del superiore interesse di un popolo. La politica deve essere autonoma da teologia e morale e non ammette ideali, è un gioco di forze finalizzate al bene della collettività e dello stato. La politica, svincolata da dogmatismi e princìpi teorici, guarda alla realtà effettuale, ai "fatti": "Mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa piuttosto che alla immaginazione di essa". Si tratta di una visione antropocentrica che si richiama all'Umanesimo quattrocentesco ed esprime gli ideali del Rinascimento.
Il giudizio su Dante
Nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, opera di non certa attribuzione e che non fu pubblicata, Machiavelli dà un giudizio severo su Dante Alighieri, col quale inscena un dialogo nell'opera. Dante è rimproverato di negare la matrice fiorentina della lingua della Commedia. Il passo assume i caratteri dell'invettiva contro il poeta concittadino, accusato di aver infangato la reputazione di Firenze:
«[...] Dante il quale in ogni parte mostrò d'esser per ingegno, per dottrina et per giuditio huomo eccellente, eccetto che dove egli hebbe a ragionare della patria sua, la quale, fuori d'ogni humanità et filosofico instituto, perseguitò con ogni spetie d'ingiuria. E non potendo altro fare che infamarla, accusò quella d'ogni vitio, dannò gli uomini, biasimò il sito, disse male de' costumi et delle leggi di lei; et questo fece non solo in una parte de la sua cantica, ma in tutta, et diversamente et in diversi modi: tanto l'offese l'ingiuria dell'exilio, tanta vendetta ne desiderava! [...] Ma la Fortuna, per farlo mendace et per ricoprire con la gloria sua la calunnia falsa di quello, l'ha continuamente prosperata et fatta celebre per tutte le province cristiane, et condotta al presente in tanta felicità et sì tranquillo stato, che se Dante la vedessi, o egli accuserebbe sé stesso, o ripercosso dai colpi di quella sua innata invidia, vorrebbe essendo risuscitato di nuovo morire.»
(Niccolò Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua)
Poi, durante un altro scambio immaginario con Dante, Machiavelli rimprovera il carattere "goffo", "osceno", addirittura "porco" del registro utilizzato nell'Inferno:
«N. Dante mio, io voglio che tu t'emendi, et che tu consideri meglio il parlare fiorentino et la tua opera; et vedrai che, se alcuno s'harà da vergognare, sarà più tosto Firenze che tu: perché, se considererai bene a quel che tu hai detto, tu vedrai come ne' tuoi versi non hai fuggito il goffo, come è quello:
"Poi ci partimmo et n'andavamo introcque";
non hai fuggito il porco, com'è quello:
"che merda fa di quel che si trangugia";
non hai fuggito l'osceno, com'è:
"le mani alzò con ambedue le fiche";
e non avendo fuggito questo, che disonora tutta l'opera tua, tu non puoi haver fuggito infiniti vocaboli patrii che non s'usano altrove che in quella [...]»
(Niccolò Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua)
Per Machiavelli la storia è il punto di riferimento verso il quale il politico deve sempre orientare la propria azione. La storia fornisce i dati oggettivi su cui basarsi, i modelli da imitare, ma indica anche le strade da non ripercorrere. Machiavelli si basa su una concezione ciclica della storia: "Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi". Ma ciò che allontana Machiavelli da una visione deterministica della storia è l'importanza che egli attribuisce alla virtù, ovvero alla capacità dell'uomo di dominare il corso degli eventi utilizzando opportunamente le esperienze degli errori compiuti nel passato, nonché servendosi di tutti i mezzi e di tutte le occasioni per la più alta finalità dello stato, facendo anche violenza, se necessario, alla legge morale.
Non a caso il Principe, nella conclusione, abbandona il suo taglio cinico e pragmatico per esortare i sovrani italiani, con una scrittura più solenne e venata di un certo idealismo, a riconquistare la sovranità perduta e a cacciare l'invasore straniero. Non c'è rassegnazione nel Principe, né tanto meno sfiducia nei confronti dell'uomo. La storia è il prodotto dell'attività politica dell'uomo per finalità terrene esclusivamente pratiche. Lo stato, oggetto di tale attività, nella situazione politica e nel pensiero del tempo si identifica con la persona del principe.
Di conseguenza l'attività politica è riservata solo ai grandi protagonisti, ai pochi capaci di agire, non al "vulgo" incapace di decisione e di coraggio. L'obiettivo è creare o conservare lo stato, una creazione individuale legata alle qualità e alla sorte del suo fondatore: la fine del principe può determinare la fine del suo stato, come capitò ad esempio a Cesare Borgia. Il Machiavelli ha dunque un'importanza fondamentale per la scoperta che la politica è una forma particolare autonoma di attività umana, il cui studio rende possibile la comprensione delle leggi da cui è perennemente retta la storia; da quella scoperta discende, come suo naturale fondamento, una vigorosa concezione della vita, incentrata unicamente sulla volontà e sulla responsabilità dell'uomo.
Una errata interpretazione del Novecento fece del Machiavelli un precursore del movimento unitario italiano, ma la parola nazione ha assunto l'attuale significato solo a partire dalla seconda metà del Settecento, mentre il Machiavelli la usò in senso particolaristico e cittadino (es. nazione fiorentina o, nel senso più generico di popolo, moltitudine). Tuttavia, Machiavelli propugnava un principato in grado di reggersi sull'unità etnica dell'Italia; così facendo, e denunciando in tal modo una chiara coscienza dell'esistenza di una civiltà italiana, Machiavelli predicava la liberazione dell'Italia sotto il patrocinio di un principe, criticando il dominio temporale dei Papi che spezzava in due la penisola.
Ma l'unità d'Italia resta in Machiavelli un problema solo intuito. Non si può dubitare che avesse concepito l'idea dell'unità italiana, ma tale idea restò indeterminata, poiché non trovò appigli concreti nella realtà, restando perciò a livello di utopia, cui solo dava forma la figura ideale del principe nuovo. Machiavelli dunque intraprese un viaggio che identificò come spirituale in giro per il mondo. In seguito, tornato in patria, ebbe una nuova visione sia del "popolo" che della "nazione" (di qui quello che oggi definiamo rinnovamento culturale).
Il principe o De Principatibus
Emblematico è il modo di trattare argomenti delicati, quali le mosse necessarie al Principe per organizzare uno stato e ottenerne uno stabile e duraturo consenso. Per esempio vi troviamo indicazioni programmatiche, quali l'utilità nello "spegnere" gli stati abituati a vivere liberi di modo da averli sotto il proprio diretto controllo (metodo preferito al creare un'amministrazione locale "filo-principesca" o al recarvisi e stabilirvisi personalmente, metodo però sempre tenuto da conto in modo da avere un occhio sempre presente sulle proprie terre, e stabilire una figura rispettata e conosciuta in loco).
Altro elemento caratteristico del trattato sta nella scelta dell'atteggiamento da tenere nei confronti dei sudditi, culminante nell'annosa questione del "s'elli è meglio essere amato che temuto o e converso" (Cap. XVII[27]). La risposta corretta si concretizzerebbe in un ipotetico principe amato e temuto, ma essendo difficile o quasi impossibile per una persona umana l'essere ambedue le cose, si conclude decretando che la posizione più utile viene ad essere quella del Principe temuto (pur ricordando che mai e poi mai il Principe dovrà rendersi odioso nei confronti del popolo, fatto che porrebbe i prodromi della propria caduta). Qua appare indubbiamente la concezione realistica e la concretezza del Machiavelli, il quale non viene a proporre un ipotetico Principe perfetto, ma irrealizzabile nel concreto, bensì una figura effettivamente possibile e soprattutto "umana".
Ulteriore atteggiamento principesco dovrà l'essere metaforicamente sia "volpe" che "leone", in modo da potersi difendere dalle avversità sia tramite l'astuzia (volpe) che tramite la violenza (leone). Mantenendo un solo atteggiamento dei due non ci si potrà difendere da una minaccia violenta o di astuzia. Spesso alla figura evocata dal Principe di Machiavelli viene associata la figura di un uomo privo di scrupoli, di un cinismo estremo, nemico della libertà. Inoltre gli viene erroneamente associata la frase "il fine giustifica i mezzi", che invece mai enunciò. Questo perché la parola "giustifica" evoca sempre un criterio morale, mentre Machiavelli non vuole "giustificare" nulla, vuole solo valutare, in base ad un altro metro di misura, se i mezzi utilizzati sono adatti a conseguire il fine politico, l'unico fine da perseguire è il mantenimento dello Stato.
Machiavelli nella stesura del Principe si rifà alla reale situazione che gli si presentava attorno, una situazione che necessitava essere risolta con un atto deciso, forte, violento. Machiavelli non vuole proporre dei mezzi giustificati da un fine, egli pone un programma politico che qualunque Principe che voglia portare alla liberazione dell'Italia, da troppo tempo schiava, dovrà seguire. Fuori dai suoi intenti una giustificazione morale dei punti suggeriti: egli stende un vademecum necessariamente utile a quel Principe che finalmente vorrà impugnare le armi. Alle accuse di sola illiberalità o autoritarismo, si può dare una risposta leggendo il capitolo IX, "De Principatu Civili", ritratto di un principe nascente dal e col consenso del popolo, figura ben più solida del Principe nato dal consenso dei "grandi", cioè dei grandi proprietari feudali. Non esiste un unico tipo di principato, ma per ognuno troviamo un'ampia trattazione di pregi e dei difetti.
«Quel grande / che temprando lo scettro a' regnatori
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue»
(Ugo Foscolo, Dei sepolcri)
La gelida obiettività e un certo cinismo con cui Machiavelli descriveva il comportamento freddo, razionale ed eventualmente spietato che un capo di Stato deve mettere in atto, colpì i critici. Così, da una parte vi è la linea di pensiero tradizionale, secondo la quale "Il Principe" è un trattato di scienza politica destinato al governante, che tramite esso saprà come affrontare i problemi, spesso drammatici, posti dal suo ruolo di garante della stabilità dello stato. Dall'altra, troviamo un'interpretazione secondo cui il trattato di Machiavelli, che era originariamente un repubblicano, ha come vero scopo quello di mettere a nudo, e quindi chiarire, le atrocità compiute dai principi dell'epoca, a vantaggio del popolo, che di conseguenza avrebbe le dovute conoscenze per attuare le precauzioni al fine di stare in guardia e difendersi quando si dimostra necessario. Il principe è visto anche come figura assai drammatica, la quale, per il bene dello stato stesso, non si può permettere di lasciare spazio al proprio carattere, diventando così quasi un uomo-macchina. Secondo alcuni, Machiavelli venne in realtà accusato da subito di nicodemismo, e:
«...di non aver mirato ad altro, in quel libro, che a condurre il tiranno a precipitosa rovina, allettandolo con precetti a lui graditi...»
(Attribuita a Niccolò Machiavelli)
Gli esponenti di questa seconda interpretazione (la cosiddetta "interpretazione obliqua", diffusa dal XVII secolo, e avanzata per la prima volta da Alberico Gentili nel 1585 ispirandosi a Reginald Pole, poi ripresa da Traiano Boccalini e in seguito Baruch Spinoza) , furono numerosi soprattutto in ambito illuminista (anche se venne rifiutata da Voltaire), che vedeva in Machiavelli un precursore della politica laica e del repubblicanesimo: la sostennero, dal Settecento, Jean-Jacques Rousseau[35], Vittorio Alfieri[36], Giuseppe Baretti[37], Giuseppe Maria Galanti[38], gli enciclopedisti[39] (in primis Denis Diderot[40] e Jean Baptiste d'Alembert), Ugo Foscolo e Giuseppe Parini[41], e ha avuto diffusione soprattutto nell'Ottocento, prima e durante il Risorgimento[28]; ne è un esempio quello che Foscolo scrive nei "Sepolcri":
«Io quando il monumento / vidi ove posa il corpo di quel grande / che temprando lo scettro a' regnatori / gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue».
Forse alcuni di essi - ad esempio, per quanto riguarda Foscolo, è un'ipotesi alternativa di Spongano e riportata anche da Mario Pazzaglia - ritenevano anche che, pur essendo Il principe un'opera fatta per i tiranni e i governanti, fosse utile lo stesso per svelare al popolo gli intrighi del potere, ritenendo valida l'interpretazione obliqua, qualunque fossero le intenzioni di Machiavelli.
In generale, per i sostenitori di questa lettura, Il principe avrebbe, come le satire (ad esempio Una modesta proposta di Jonathan Swift), uno scopo opposto a quello apparente, come avverrà anche per alcuni scritti di epoca romantica (Lettera semiseria di Grisostomo di Giovanni Berchet o alcune Operette Morali di Giacomo Leopardi).
In epoca più recente, tuttavia, nella maggioranza dei critici è prevalsa la prima interpretazione, quella tradizionale, dal quale risalta la libertà e concretezza, anche spregiudicata, del pensiero di Machiavelli, che non descrive mondi utopici, ma il mondo reale della politica dei suoi tempi, e la sua concezione anticipatrice del realismo politico.
Il modello linguistico prescelto da Machiavelli è fondato sull'uso vivo più che sui modelli letterari; lo scopo, esplicito soprattutto nel Principe, di scrivere qualcosa di utile e chiaramente espressivo lo induce a scegliere spesso modi di dire proverbiali di immediata evidenza. Il lessico impiegato dall'autore si rifà a quello boccacciano, è ricco di parole comuni e i latinismi, seppure abbondanti, provengono per lo più dal gergo cancelleresco. Nelle sue opere ricoprono un ruolo assai rilevante anche le metafore, i paragoni e le immagini. La concretezza è una delle caratteristiche salienti, l'esempio concreto ed essenziale, tratto dalla storia sia antica che recente, è sempre preferito al concetto astratto.
In generale si parla di uno stile "fresco", come lo ebbe a definire il filosofo Nietzsche in Al di là del bene e del male, con un riferimento particolare all'uso della paratassi, a una certa sentenziosità delle frasi, costruite secondo un criterio di chiarezza a scapito di un maggior rigore logico-sintattico. Machiavelli rende evidenti concetti che, se espressi con un linguaggio più elaborato, sarebbero molto difficili da decifrare, e riesce a esprimere le sue tesi con originale capacità espositiva.
Statua di Machiavelli, Galleria degli Uffizi a Firenze
OPERE
Discorso fatto al magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa (1499)
Parole da dirle sopra la provvisione del danaio (1503)
Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini (1503)
De natura Gallorum (1510)
Ritratto delle cose di Francia (1510)
Ritratto delle cose della Magna (1512)
Il Principe (1513)
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513 –1519)
Dell'arte della guerra (1519 – 1520)
La vita di Castruccio Castracani da Lucca (1520)
Istorie fiorentine (1520 – 1525) – Riedizione Istorie fiorentine, Venezia, 1546.
Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (pubblicato nel 1730)
Decennali
Mandragola (1518), commedia teatrale
Belfagor arcidiavolo (1518 - 1527), novella
L'asino (1517), poema satirico
Epistolario di Niccolò Machiavelli (1497 – 1527)
Edizioni critiche in pubblico dominio:
Legazioni, commissarie, scritti di governo. A cura di Fredi Chiappelli. Laterza, Roma-Bari.
1, 1971.
2, 1973.
3, 1984.
4, 1985.
Drammaturgie minori
Clizia (1525)
Andria, traduzione-rifacimento dell'Andria di Terenzio
MANDRAGOLA
La Mandragola è una commedia considerata il capolavoro del teatro del Cinquecento e un classico della drammaturgia italiana. E' una potente satira sulla corruttibilità della società italiana dell'epoca. Prende il titolo dal nome di una pianta, la mandragola, alla cui radice vengono attribuite caratteristiche >afrodisiache e fecondative.
Trama
La storia si svolge a Firenze nel 1504. Callimaco è innamorato di Lucrezia, moglie dello sciocco dottore in legge messer Nicia, che si cruccia per la mancanza di figli. Con l'aiuto del servo Siro e dell'astuto amico Ligurio, Callimaco, in veste di famoso medico, riesce a convincere messer Nicia che l'unico modo per avere figli sia di somministrare a sua moglie una pozione di mandragola (da qui il titolo della commedia), ma il primo che avrà rapporti con lei morirà. Ligurio quindi propone a Nicia una geniale soluzione, cioè che a morire sia un semplice garzone: Nicia si tranquillizza in parte, ma rimane comunque perplesso, visto che qualcuno dovrà giacere con sua moglie, la quale però è l'unica a farsi scrupoli (non se li fanno né la madre né il frate).
Naturalmente Ligurio ha pensato all'amico Callimaco, che spasima per Lucrezia: infatti non vi sarà nessun garzone come vittima predestinata, bensì sarà lo stesso Callimaco a travestirsi da tale. In una famosa e molto divertente scena, il garzone-Callimaco viene colpito e portato a casa di Nicia, e poi infilato nel letto insieme a Lucrezia. Questa, che nel frattempo è stata convinta a consumare il rapporto adulterino da fra' Timoteo, accetta, e nel momento in cui scopre la vera identità di Callimaco, passa con lui una piacevolissima notte e decide di diventare sua amante. Dopo la notte degli inganni, assunte nuovamente le sembianze del medico, Callimaco ottiene dall'inconsapevole Nicia, contento della futura paternità, il permesso di abitare in casa sua e quindi di godere, non visto, delle grazie di Lucrezia.
Personaggi
- Callimaco: Machiavelli lo presenta nel prologo come un “amante meschino”. Già nella I scena è lui che si presenta. È nato a Firenze, ma essendo morti i genitori, viene mandato a Parigi dai tutori a dieci anni (“avevo dieci anni quando da e mia tutori, sendo mio padre e mia madre morti, io fui mandato a Parigi”). Lì resta per vent'anni, non solo perché vive con una “felicità grandissima”, ma anche per motivi di sicurezza. Infatti in quel periodo “cominciarono [...] le guerre d'Italia” e Callimaco giudica di “potere in quel luogo vivere più sicuro che qui” (Firenze). A Parigi si dedica “agli studi, parte a' piaceri e parte alle faccende” e vivendo “quietissimamente” gli pare “d'essere grato a' borghesi, a' gentiluomini, al forestiero, al terrazzano, al povero, al ricco” (riflette la condizione di Machiavelli: è gradito a tutti). Si innamora per sentito dire di Lucrezia e decide di tornare in Italia. Qui si rivolge a un parassita affinché questi lo aiuti a realizzare il suo desiderio. È preda della sua passione, ma è anche intelligente e dunque conosce il suo stato (“Meglio morire che vivere così. Se io potessi dormire la notte, se io potessi conversare…”). Ha timore che Ligurio lo inganni, o che non riesca ad aiutarlo, anche perché è convinto di avere ben poche possibilità e soltanto “la voglia e il desiderio che l'uomo ha di condurre la cosa” lo fa ancora sperare. Durante l'attuazione dell'inganno ha sempre paura che qualcosa possa andare storto (atto IV “in quanta angustia sono io stato e sto!”). E quando alla fine è quasi certo che tutto vada a buon fine quasi non ci crede, si ritiene indegno di così tanta fortuna (“per quali meriti io debba avere così tanti beni?”). Non riesce a governare la sua passione, che lo travolge moralmente (“se io potessi conversare…”) e fisicamente (“le viscere si commuovono…”). È continuamente in preda a sentimenti contrapposti come la speranza e il timore, la felicità e la disperazione… Da una parte ha paura che, ottenuto ciò che desidera, esso si riveli deludente (“non sai tu quanto poco bene si trova nelle cose che l'uomo desidera, rispetto a quelle che l'uomo ha presupposto trovarvi”), dall'altra ottenerlo lo considera una fortuna troppo grande per lui. È un po' furbetto.
- Nicia: Machiavelli lo presenta nel prologo come “un dottor poco astuto”. Nella I scena ci viene descritto da Callimaco, ma è solo nella II scena che compare di persona. È “ricchissimo”, “non è giovane…ma non al tutto vecchio” e si lascia governare dalla moglie (Lucrezia), molto bella e savia. Ma nonostante tutto a un certo punto, ripensando al fatto di non avere avuto figli, quasi rimpiange d'averla sposata (“s'io credevo non avere figliuoli, io avrei preso più tosto per moglie una contadina”). Vuole far sembrare ciò che non è (è molto sicuro di sé e alla sola insinuazione che sia lui impotente subito si definisce: “il più ferrigno e il più rubizzo uomo in Firenze”): fa il dottore, ma nonostante “‘imparò in sul Buezio legge assai”, “è il più semplice e el più sciocco omo di Firenze” (quando gli viene presentato Callimaco nelle vesti di dottore gli parla in latino per testare la sua scienza “Bona dies, domine magister”. Anche se poi di fronte alla superiore sapienza di questi lui stesso si considera inferiore “ho cacato le curatelle per imparare due hac”). Utilizza un linguaggio che vuole apparire sofisticato, ma in realtà riprende proverbi e modi di dire del fiorentino (“non sanno quello che si pescono”). Non si allontana volentieri da Firenze (“non ci vo' di buone gambe”), ma si vanta di aver viaggiato moltissimo da giovane (“quando io era più giovane io son stato molto randagio”), anche se in realtà i luoghi che nomina sono tutti all'interno della Toscana. Alla fine risulta essere l'unica vittima della beffa. E non ne ha nessun sospetto, anzi è talmente grato a Callimaco che lo invita a pranzo e ingenuamente gli offre pure la chiave della propria casa. Cerca di apparire quello che non è, anche perché è convinto di esserlo. È talmente ingenuo che di fronte alla resistenza della moglie si secca, (“Io vorrei ben vedere le donne schizzinose, ma non tanto; ché ci ha tolta la testa, cervello di gatta!”), mentre di fronte al cambiamento del comportamento della stessa, non più remissiva, si mostra compiaciuto. È dunque l'unica vittima della beffa, e non lo intuisce nemmeno lontanamente. Il suo linguaggio è volgare e basso, tenta di ornarlo e renderlo più elegante nel tentativo di adeguarsi ad una condizione sociale di cui non è un degno esponente: manca delle qualità intellettive e morali necessarie a integrarlo nella classe del potere. Nicia è un personaggio poco astuto (Prologo). Non c'è uomo più sciocco di costui (Ligurio-Timoteo-Lucrezia), è un pazzo (Ligurio), ha poca prudenza, ancor meno animo (Ligurio) ed è semplice (Callimaco).
- Ligurio: Machiavelli lo presenta nel prologo come “un parassita di malizia el cucco”(un parassita figlio prediletto della malizia). Nella I scena ci viene descritto da Callimaco (“fu già sensale di matrimoni, dipoi s'è dato a mendicare cene e desinari…piacevole uomo…”), ma è solo nella II scena che compare di persona. È un parassita, molto astuto, che utilizza questa qualità per guadagnarsi da vivere, che parla con linguaggio del ragionamento, dell'ironia e del doppio senso. Ma è anche senza scrupoli (infatti non si fa problemi a tradire Nicia, con il quale “aveva una certa dimestichezza”, per aiutare Callimaco sotto pagamento). Rappresenta l'astuzia distinta dalla passione (Callimaco), e in grado dunque di osservarla e giudicarla con distacco. Callimaco invece la governa dall'esterno. Lo aiuta non solo per motivi economici, ma anche perché in fondo si sente affine al giovane (“'l tuo sangue si affà al mio”). Il suo linguaggio è ponderato, accuratamente calcolato, ricco di allusioni anche sarcastiche, mirato e diversificato per forgiare il pensiero e la volontà degli interlocutori. È Malizioso (Prologo); è un piacevole uomo, perché prende in giro Nicia (Callimaco); è pazzo, triste e diavolo (Timoteo).
- Lucrezia: Machiavelli la presenta nel prologo come ”una giovane molto accorta”. Callimaco la definisce subito come una donna bellissima (aspetto fisico), ma anche “onestissima e al tutto aliena dalle cose d'amore” e con una grande influenza sul marito (carattere), nonostante tutto ciò si basi sulla fama della donna. Per Ligurio infine è “bella donna, savia, costumata e atta a governare un regno”. È in grado nel corso della commedia di adattarsi alle circostanze e di mutare con esse. Prima restia, per onestà e rettitudine morale, a compiere l'adulterio impostole dalla madre, dal marito e dal Frate, (“Padre, no. Questa mi pare la cosa più strana che udissi”), una volta che vi è stata costretta, prende per mano la situazione e relega per sempre il marito in quella parte che si era scelta per una notte (“quello che ‘l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch'egli abbia per sempre”). Molti critici hanno notato in lei qualcosa del principe dello stesso Machiavelli, soprattutto nella sua capacità di respingere le ipocrisie e le mezze misure (o si è del tutto buoni, come lei cerca di esserlo all'inizio, o si è del tutto e “onorevolmente” cattivi, come finisce con l'essere alla fine) e di adattarsi alle circostanze, mutando con esse. La sua decisione finale si può spiegare attraverso la sua capacità di adeguarsi alle circostanze diverse, imposte dalla fortuna. Un altro elemento che chiarifica l'affinità col principe machiavelliano. È Accorta e costumata (Prologo); savia atta a governare un mondo prudente (Ligurio); è dolce e facile (Nicia); buona (Timoteo) e prudente e dura (Callimaco).
- Frate Timoteo: è un prete corrotto, pronto a mentire e a ingannare sotto compenso, anche se poi cerca di convincere l'ascoltatore, ma in fondo anche se stesso, che agisce così per fare del bene (“ditemi el munistero, la pozione e, se vi pare, codesti danari, da potere cominciare a fare qualche bene”). Pur di convincere Lucrezia mente, spiegando che l'adulterio non è tale se non se ne ha l'intenzione cattiva, e che ciò è ribadito pure dalla Bibbia (“quanto all'atto che sia peccato, questa è una favola…”). È avido, ma possiede comunque un po' di coscienza, che però non gli impedisce di fare ciò che sente (“Dio sa che io non pensavo ad iniuriare persona…”). Agisce spinto dal desiderio di ricevere un compenso, ma non è totalmente libero dall'idea che in quanto uomo di Chiesa non dovrebbe peccare. Ed è come se volesse convincere di questo gli altri, ma anche se stesso, affermando che ha acconsentito in quanto tentato da una prima novella, ma che se gli fosse stata presentata subito la vera ragione della richiesta di aiuto non avrebbe mai acconsentito. La scelta del nome Timoteo da parte di Machiavelli non è casuale. Le considerazioni fatte dal frate nel suo monologo rivelano le sue capacità di ragionare freddamente in termini di solo calcolo economico. Le stesse qualità morali di Lucrezia saranno utilizzate a fini morali. Si assiste qui al rovesciamento già implicito nel contrasto fra il nome del frate e il suo comportamento pratico: Timoteo significa infatti “colui che onora Dio”(Τιμή cioè rispetto e Θεός cioè Dio). In effetti Timoteo ha un solo Dio, i soldi, e a questa divinità piega anche la religione. Ciò risulta chiaramente anche quando si serve di argomenti religiosi per raggiungere obiettivi che non hanno niente a che fare con la religione. La religione è ridotta unicamente a ipocrisia: serve a Timoteo come cinico paravento dietro cui ripararsi per badare meglio ai propri affari. È trincato, astuto (Ligurio); tristo (Lucrezia) e un frate malvissuto (Prologo).
- Sostrata: è la madre di Lucrezia e aiuta il frate a convincere la figlia, un po' perché non è a conoscenza dell'inganno e un po' forse anche per turpe compiacenza. Ha paura che la figlia una volta morto il marito molto più vecchio di lei, se senza figli, possa rimanere “abbandonata da ognuno”. Le parla dunque anche in veste di madre preoccupata, ma anche ritenendo una gran fortuna poter tradire il proprio marito con il suo consenso (“C'è 50 donne in questa terra che ne alzerebbono le mani al cielo!”).
BELFAGOR ARCIDIAVOLO
Belfagor arcidiavolo è l'unica novella nota di Niccolò Machiavelli. Fu scritta tra il 1518 e il 1527 ed è nota anche come La favola di Belfagor Arcidiavolo o Il demonio che prese moglie. Ambientata al tempo di Carlo d'Angiò re di Napoli, si presenta come una sagace satira contro i costumi della Firenze di quegli anni e s'inserisce nella tradizione antifemministica, popolare e morale dell'epoca. Fu pubblicata per la prima volta nel 1545, e poi rimaneggiata, nella raccolta Rime e prose volgari di Monsignor Giovanni Brevio, che la presentò come propria opera originale; fu Bernardo Giunti, nel 1549, a pubblicarla per la prima volta a Firenze attribuendone la paternità a Machiavelli.
Tuttavia, studi filologici recenti dimostrano che la paternità dell'opera non è attribuibile né a Machiavelli né a Brevio, ma ad una fonte comune, probabilmente una mano fiorentina che riadattò un racconto di Jehan Le Févre tratto dalle Lamentations de Matheolus, il quale sia Machiavelli sia Brevio indipendentemente ripresero.
Del resto il personaggio leggendario del diavolo che scende sulla Terra e prende moglie era già presente in antichi racconti popolari.
Trama
Plutone, re degli Inferi, decide di mandare un arcidiavolo sulla terra a vivere da uomo ammogliato, per verificare se sia vero che la vita coniugale sia peggiore dell'Inferno. Invia Belfagor, con una cospicua somma di denaro e diversi diavoli trasformati in servitori: dovrà sposarsi e restare sulla terra per dieci anni. Belfagor, diventato uomo e assunto il nome di Roderigo, va a vivere a Firenze e si sposa, finendo vittima di una donna, Onesta Donati, che lo costringe a contrarre un debito dopo l'altro.
Il povero diavolo è costretto allora a fuggire, inseguito dai creditori. Successivamente viene salvato da un contadino, Gianmatteo del Brica. Per ricompensa, gli promette di farlo diventare ricco come esorcista di donne indemoniate. Belfagor infatti prima penetra nel corpo di alcune donne e poi, quando il contadino glielo chiede, ne esce. Arricchito il contadino a sufficienza, Belfagor dichiara d'aver saldato il proprio debito. Tuttavia la fama di Gianmatteo ha ormai raggiunto il Re di Francia, che gli ordina di liberare dal demonio sua figlia, pena la morte. Per salvarsi, Gianmatteo forza l'ulteriore collaborazione di Belfagor, facendogli credere che stia per giungere la moglie. Il diavolo ne è talmente esasperato da decidere di liberare la principessa pur di fuggire, e ritorna per sempre nell'Inferno.
Il punto di vista di un diavolo sulla società terrena ne conferma gli egoismi, le cattiverie, gli inganni, le infamie.
L'ASINO
L'asino (impropriamente conosciuto anche come L'asino d'oro) è un poema satirico scritto nel 1517 e rimasto incompiuto.
L'opera è permeata di episodi grotteschi ed allegorici, cui fanno riscontro riferimenti autobiografici e accenni velati alla vita politica del tempo.
Il pensiero di Machiavelli
Animalità contro umanità.
Se Pico della Mirandola riteneva che l’uomo non avesse una natura ben definita, aspirando così a diventare quasi deus oppure scendere in basso e farsi bestia, Machiavelli aveva un pensiero completamente diverso. Per lo scrittore del principe l’uomo non può diventare, necessariamente, o un essere perfetto o una bestia. La bestialità è una dimensione immanente alla natura umana, che può stare nascosta per anni e al’improvviso riemergere facendo precipitare nella barbarie e nella brutalità.
“Facilmente gli uomini si corrompono, e fannosi diventare di contraria natura, quantunque buoni e ammaestrati” (Discorsi, I, 42). Con queste parole Machiavelli sostiene che l’educazione ha un ruolo importante (non decisivo) per “addomesticare” la natura umana, evitando che gli istinti e gli appetiti travolgano la civiltà. Per Machiavelli, a differenza di quanto pensava Pico della Mirandola, non esiste la superiorità umana su quella bestiale poiché, anche quando si costruisce la civiltà o il “Vivere civile”, il destino dell’uomo rimane intrecciato inevitabilmente al’essenza animale e da questa non si potrà mai, in maniera definitiva, liberare. È questo uno dei punti decisivi che egli vuole affermare nel suo poemetto, eliminando ogni forma di argomentazione riguardo alla dignitas hominis. Quando Machiavelli parla degli uomini e li affianca agli animali non lo fa per gioco ma allude a qualcosa di più profondo, creando una specie di allegoria.mosaico raffigurante un centauro.
In questo senso, la figura che rappresenta meglio l’uomo è il centauro, mezzo uomo e mezzo bestia. Scrive così ne Il Principe: “Bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile” e ancora: “Sendo dunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano” In questo passo l’autore sostiene che al buon governatore serve essere ora una volpe ora un leone per far sì che prevalga ora l’astuzia e l’ingegno ora la forza e la tenacia. Gli stati fondati sulla pura forza sono instabili e fragili. È la prudenza tipica della volpe che il principe deve far sua, trasformandola in un istinto naturale; così parla Machiavelli: “Il principe che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire”.
Su questo argomento la lezione del porco nel’Asino è concorde con il pensiero dell’autore; per saper governare occorre imparare dagli animali, trasformando in qualità amministrative e politiche istinti animaleschi, come quello volpino della dissimulazione. L’animalità è insita nel’arte di governare, non se ne può prescindere. Nella foresta, come nella società sopravvive chi riesce a simulare e a ingannare gli altri. Su questo piano uomini e animali sono sullo stesso livello, anzi l’uomo dovrebbe imparare da certi comportamenti animali, se vuole difendersi dai nemici e riuscire a prevalere.
Nel’ Asino irrompe la componente autobiografica, forse quella in cui il responsabile della Seconda cancelleria si mette in scena in modo più franco e sfrontato. Un altro uomo famoso del tempo, quale Giordano Bruno, decise di usare la maschera dell’Asino in chiave autobiografica (sia lui che Machiavelli hanno attinto dal mito della maga Circe). Per Bruno la scelta dell’Asino è dovuta alla sua credenza nella metasomatosi, e quindi nella possibilità di essere stato, in un'altra vita, un animale. Machiavelli invece per i "morsi" e le "mazzate" (L'Asino, I, v.16) che ha subito, dopo la caduta della Repubblica nel 1512 e per la mancanza di gratitudine per quello che ha fatto. Come un asino dopo aver portato per anni la soma a colpi di bastone da parte di irriconoscenti padroni (che in Machiavelli si identificano, verosimilmente, negli uomini di stato, Medici in particolare, che hanno ribaltato il regime repubblicano). Questo senso di ingratitudine e di ingiustizia sarà uno dei sentimenti principali che lo accompagnerà sempre. Ad un certo punto della sua vita, Machiavelli, prese la strana prospettiva di abbandonare il regno degli uomini, uccidendosi o andando a vivere lontano, appartato e fuori dal’ambiente tossico-urbano che lo circondava. “Tempo dispettoso e tristo” “Mondo guasto” sono due espressioni utilizzate nell’Asino per indicare il suo disprezzo verso il mondo e il periodo storico che sta attraversando. Quel mezzo secolo generò infelicità e incertezza, e soprattutto l’ozio, tanto odiato da Machiavelli poiché scaturisce una grave crisi o, nei peggiori dei casi, la morte dello stato. Nel mondo degli uomini sono saltati gli schemi, i paradigmi che lo tenevano saldo; dominano ingratitudine, ferocia, l’istinto animale, la viltà e soprattutto:
“L’appetito disonesto
dell’aver non vi tien l’animo fermo,
Nel viver parco, civile, e modesto;”
(L'Asino, VI, vv. 58-60)
Plauto scrisse un’espressione rimasta famosa fino ai nostri tempi “Homo homini lupus”: uomo lupo degli altri lupi, dovuto al fatto che l’istituzione civile non riuscì a contenere i suoi appetiti e i suoi istinti nei confronti del prossimo. L’Asino tratta di un tema molto dibattuto al tempo di Machiavelli: il rapporto tra uomini e bestie, fra umanità e bestialità (argomenti ripresi anche da Leon Battista Alberti e da Giordano Bruno, contemporaneo del Machiavelli). I tre personaggi citati sono dunque accomunati dal’interesse per il rapporto tra uomo e animale e Alberti scrive così nel Theogenius “Amiche insieme sono le tigri, amici fra loro e’ leoni, e’ lupi, gli orsi (...). L’uomo efferatissimo si truova mortale agli altri uomini e a se stessi. E troverai più uomini essere periti per cagion degli altri uomini che per tutte l’altre calamità ricevute”. Machiavelli “risponde” nel’Asino ribattendo il motivo:
“Non dà l’un porco a l’altro porco doglia
l’un cervo a l’altro: solamente uomo
l’altr’uom ammazza, crocifigge e spoglia”.
(L'Asino, VIII, vv. 139-144)
La scelta di incarnarsi in un asino non è banale, essa è il risultato di una complessa riflessione esistenziale, civile e politica. È soprattutto riguardo a quella politica che Machiavelli affonda le sue radici perché per egli la politica è tutto: la chiave di accesso al passato, è la sorgente di tutto l’interesse conoscitivo: senza politica, non c’è storia, e senza storia non c’è conoscenza. Tramite la politica gli interessa raggiungere il presente, capire e comprendere la crisi che avvolge da anni la penisola italiana e soprattutto la sua città natale, Firenze. Machiavelli nel testo sostiene che per trovare le cause del degrado umano nel’animalità non serva la religione; dunque non guarda al cielo per rispondersi ma guarda in basso, verso le origini della vita dove tutto ebbe inizio. Vuole comprendere quali siano i motivi che muovono la società, quei motivi che, a quanto pare, la cultura non può educare e controllare. Machiavelli ha vissuto una vita frantumata, e si rende conto che ha perso una delle sue tante partite: riuscire a impedire che la bestialità prevalga sul’umanità.
Nel’Asino viene fuori una struttura asimmetrica, fra sapere e potere, fra capacità di comprendere e impossibilità di agire. Essa rispecchia certamente la visione del mondo pessimista di Machiavelli e il suo rapporto con la politica italiana che è giunta al termine del suo apogeo soprattutto dopo la morte di Savonarola, evento che ossessionerà Machiavelli per tutta la sua vita. Giova notare che nello stesso periodo vissero due grandi innovatori incompresi: Machiavelli e Savonarola. L’asimmetria sopra descritta è per Machiavelli l’inferno perché l’uomo non si costruisce come tale, ma vive nel’incertezza e nella consapevolezza di non essere ciò che vorrebbe.
Trama
L’Asino si presenta come una narrazione autobiografico-allegorica in terzina dantesca.
- Il primo capitolo, che funge da proemio, indica la materia dell’opera, le peripezie attraversate dal protagonista sotto le vesti di un asino, e per tramite di una favola allegorica ne indica l’origine in una naturale inclinazione del suo autore alla malignità.
- Con il capitolo due comincia la narrazione vera e propria, ambientata nella stagione primaverile. Nel giorno dell’equinozio, il protagonista si smarrisce, senza sapere come, in una selva oscura, dove incontra una giovane, «piena di beltade» (v. 49), seguita da un corteo di «innumerabili animali» (v. 56). Quel luogo sinistro è il regno di Circe (Machiavelli per scrivere l’opera si era servito del mito della maga) e che la donna è una sua ancella, incaricata di sorvegliare e accudire gli animali, uomini un tempo, che la maga ha mutato in bestie con la sola potenza del suo sguardo. Per sfuggire al’incantesimo di Circe, la giovane consiglia vivamente al protagonista di unirsi al corteo degli animali, diretto al palazzo della maga; per far questo è costretto però ad abbandonare la posizione eretta e a procedere a gattoni
- Nel capitolo tre la fanciulla lo guida al palazzo di Circe e lo informa circa il suo futuro: il destino (per l’autore è la Fortuna), lo ha colpito con particolare ferocia, ma questa sofferenza non è perenne e un giorno egli sarà di nuovo felice. Perché ciò accada è necessario tuttavia, così la provvidenza ha decretato, che egli si muti in asino e sotto forma di questo animale giri per il mondo («gir ti conviene / cercando il mondo sotto nuova pelle», vv. 116-17). Prima che la metamorfosi si compia, gli è concesso di trattenersi «alquanto tempo» nel regno di Circe, per prendere esperienza di quel luogo.
- Il capitolo quattro si apre con una palese e fiera dichiarazione sia del protagonista sia dell’autore stesso, che si dice pronto a sostenere quello che la Fortuna gli ha riservato. L’ancella lo ricompensa con delle bellissime parole; dopo di che lo invita alla sua tavola, affinché possa rifocillarsi. Il resto del capitolo è occupato prima dalla descrizione minuta del corpo della giovane nel quale il protagonista rievoca sapidamente la notte di piacere trascorsa in compagnia della fanciulla dopo la vivace scena erotica.
- Nel capitolo cinque vediamo la donna uscire dal palazzo, circa al’alba, per condurre al pascolo gli animali che le sono stati affidati da parte della maga. Il protagonista, rimasto solo, si immerge in una lucida e dolorosa meditazione sul «variar de le mondane cose» (v. 36) e sulle cause che conducono gli stati alla rovina, intrecciando esperienze individuali e drammi storico-politici del suo tempo.
- Con il capitolo sei riprende il filo della narrazione. La giovane pastora fa rientro al palazzo e mostra al protagonista il luogo in cui le bestie vivono. Sopra la porta della stanza adibita allo svago delle fiere sta un «simulacro»: esso raffigura, scolpito nel marmo, il trionfo di un poeta coronato d’alloro e issato sulla groppa di un elefante. Costui, avverte la donzella, è il «grande abate di Gaeta» (v. 118), poeta e giullare della corte di Leone X.
- Il capitolo sette mostra l’incontro dei due con un alcuni animali, sotto le cui sembianze si nascondono, nella nuova condizione, personaggi importanti del tempo, che il protagonista deve riconoscere.
- L’ottavo e ultimo capitolo, infine, è occupato per intero dal discorso di uno degli animali di Circe, un porco, che sostiene e proclama con orgoglio la superiorità della condizione degli animali su quella degli uomini e giustifica con questo il suo rifiuto a ritornare allo stato originario. Su questo elogio della vita bestiale l’opera termina: è evidente infatti che l’esito cui approda il discorso del «fangoso animale» toglie forza e necessità alla metamorfosi del protagonista, provocando verosimilmente, l’interruzione della narrazione.
3 dicembre 2023 - Eugenio Caruso
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