Guido Cavalcanti e il dolce stil novo
Siete bella come i fiori e la natura
e come ciò che splende ed è bello a vedersi;
il vostro volto risplende più che il sole :
chi non vi vede non può avere valore.
Cavalcanti
GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.
ITALIANI
Ariosto - Boccaccio - Carducci - Cavalcanti - D'Annunzio - Dante - Leopardi - Machiavelli - Manzoni - Pascoli - Petrarca - Pirandello - Tasso - Verga -Virgilio
Ritratto immaginario di Cavalcanti, in Rime, 1813
Guido Cavalcanti (Firenze, 1259 ca. – Firenze, 29 agosto 1300) è stato un poeta e filosofo del duecento. Esponente di spicco della corrente poetica del dolce stil novo, partecipò attivamente, tra le file dei guelfi bianchi, alla vita politica fiorentina della fine del XIII secolo. Fu amico personale di Dante che lo menziona nelle sue opere.
Guido Cavalcanti, figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque a Firenze (tuttavia il luogo di nascita è ipotizzato e non si sa quale sia quello reale) intorno all'anno 1258 da una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che aveva le sue case vicino a Orsanmichele e che era tra le più potenti della città. Nel 1260, Cavalcante, padre del poeta, fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. Sei anni dopo, in seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento del 1266, i Cavalcanti riacquistarono la preminente posizione sociale e politica a Firenze. Nel 1267 a Guido fu promessa in sposa Beatrice, figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina. Da Beatrice, Guido avrà i figli Tancia e Andrea.
Nel 1280 Guido fu tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini e quattro anni dopo sedette nel Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Brunetto Latini e Dino Compagni. Secondo lo storico Dino Compagni, a questo punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio a Santiago di Compostela. Pellegrinaggio alquanto misterioso, se si considera la fama di ateo e miscredente del poeta. Il poeta minore Niccola Muscia, comunque, ne dà un'importante testimonianza attraverso un sonetto.
Il 24 giugno 1300 Dante Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, Guido con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Cavalcanti si recò allora a Sarzana; a lungo si è pensato che la celebre ballata Perch'i' no spero di tornar giammai fosse stata composta durante l'esilio ma di recente si è diffusa l'opinione che la lontananza di cui egli parla non fosse letterale ma, piuttosto, un'immaginazione poetica. Il 19 agosto venne revocata la condanna per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il 29 agosto morì, pochi giorni dopo essere tornato a Firenze, probabilmente a causa della malaria contratta durante l'esilio.
È ricordato -oltre che per i suoi componimenti- per essere stato citato da Dante come "primo de li miei amici" nel terzo capitolo della Vita Nova , opera che si apre con il sonetto A ciascun alma presa e gentil core rivolto da Dante a tutti i maggiori rimatori dell'epoca e al quale Cavalcanti rispose dando inizio al loro legame di amicizia che comprese poi anche Lapo Gianni.
Dante Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno Cavalcante dei Cavalcanti e Farinata degli Uberti nel sesto girone degli Eretici ed Epicurei.
Entrambi sono ricordati da Dante nel celebre nono sonetto delle Rime, Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i due amici: S'io fosse quelli che d'amor fu degno). Dante lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e lo rende protagonista nella novella VI, 9 del Decameron. A lui sono dedicate vie a: Firenze, Palermo, Roma, Milano, Marina di Pietrasanta, Cagliari.
La sua personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli scrittori contemporanei: dai cronisti Dino Compagni e Giovanni Villani a novellieri come Giovanni Boccaccio e Franco Sacchetti. Si legga il ritratto di Dino Compagni:
«Un giovane gentile, figlio di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio»
Nella Cronaca Giovanni Villani, invece, fa prima di tutto riferimento al suo valore in quanto filosofo (non tenendo in considerazione l'ethos cavalleresco cavalcantiano), successivamente lo definisce "troppo stizzoso" poiché iracondo e rancoroso e in ultimo gli attribuisce per primo la qualifica di "poeta".
La sua personalità è paragonabile a quella di Dante, con due importanti distinzioni:
- L'appartenenza a famiglie magnatizie fiorentine si espleta in due modalità nettamente discordanti. Dante entra in politica attivamente (pur pentendosene), mentre Cavalcanti limita la sua azione alla violenza privata usuale per l'epoca.
- La fede dantesca e l'ateismo cavalcantiano, testimoniato da Dante stesso (Inferno X, 58-63), Boccaccio (Decameron VI, 9: «egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse») e Filippo Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale Donna me prega, certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano concettuale, di tutta la poesia stilnovistica, in cui si rinvengono caratteri di correnti radicali dell'aristotelismo averroistico.
Famoso e significativo l'episodio narrato dal Boccaccio di una specie di scherzoso assalto, da parte di una brigata di giovani fiorentini a cavallo, al "meditativo" Guido, che schivava la loro compagnia. Lo stesso episodio verrà ripreso da Italo Calvino nelle Lezioni americane, in cui il poeta duecentesco, con l'agile salto da lui compiuto, diventa emblema della leggerezza. L'episodio figura anche nell'omonimo testo di Anatole France ne "Le Puits de Sainte Claire" dove, peraltro, i fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica.
Quadro di Johann Heinrich Füssli del 1783. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato Guido Cavalcanti.
Opere
Il suo corpus poetico consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono il sonetto e la ballata, seguite dalla canzone. In particolare, la ballata appare congeniale alla poetica cavalcantiana, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in costruzioni armoniose. Peculiare di Cavalcanti è, nei sonetti, la presenza di rime retrogradate nelle terzine. Fra i testi più noti, si ricordano: Donna me prega (canzone), L'anima mia (sonetto) e Perch'i no spero di tornar giammai (ballata).
Va inoltre sottolineato come non sia pervenuto alcun ordinamento autoriale; pertanto si fa riferimento alla sistemazione dei componimenti di Guido Favati, critico letterario e studioso di filologia romanza che dedicò gran parte della propria vita alla questione. Il risultato dei suoi studi fu, dunque, un ordinamento arbitrario, ma non casuale all'interno del quale troviamo come macro-tematiche:
- I componimenti arcaizzanti di stampo guinizzelliano (da 1 a 4)
- Lo sbigottimento e gli spiriti vitali (da 5 a 9)
- Il motivo dell'autocommiserazione, del compianto funebre e della raffigurazione negativa di Amore (da 10 a 18)
- Il tema dell'intellezione e della rappresentazione mentale (dal 19 al 28)
- L'introspezione dovuta all'impossibilità di conoscere la donna
- Le rime di corrispondenza
I temi delle sue opere sono quelli cari agli stilnovisti; in particolare la sua canzone manifesto Donna me prega è incentrata sugli effetti prodotti dall'amore.
La concezione filosofica su cui egli si basa è l'aristotelismo radicale promosso dal commentatore arabo Averroè (il cui vero nome è Ibn Rushd), che sosteneva l'eternità e l'incorruttibilità dell'intelletto possibile separato dal corpo e l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo.
Va da sé che, avendo le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano raggiungere il sinolo (Nella filosofia aristotelica, termine che designa l'individuo o la sostanza, cioè l'unione di materia e forma), l'armonia perfetta. Si deduce che, quando l'amore colpisce l'anima sensitiva, squarciandola e devastandola, si compromette il sinolo e ne risente molto l'anima vegetativa (come si sa l'innamorato non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'anima intellettiva che, destatasi per la rottura del sinolo, rimane impotente spettatrice della devastazione. È così che l'innamorato giunge alla morte spirituale. La donna, avvolta come da un alone mistico, rimane così irraggiungibile e il dramma si consuma nell'animo dell'amante.
Questa concezione filosofica permea la poesia senza comprometterne la raffinatezza letteraria. Uno dei temi fondamentali è l'incontro con l'amore che conduce, al contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia e al desiderio di morire. La poesia di Cavalcanti possiede accenti di vivo dolore riferiti spesso al corpo e alla persona.
Cavalcanti, quindi, oltre che poeta, fu anche un fine pensatore (scrive Boccaccio: «lo miglior loico che il mondo avesse»), ma non ci resta nulla di sue opere filosofiche, ammesso che ne abbia effettivamente scritte.
Il poetare di Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero, è di una grande sapienza retorica. I versi di Cavalcanti possiedono una fluidità melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche.
Bibliografia
Maria Corti, La felicità mentale: Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 1983.
Gianfranco Contini, Cavalcanti in Dante, Torino, Einaudi, 1976.
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Roberto Rea, Cavalcanti poeta: uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura, 2008.
Corrado Calenda, Per altezza d'ingegno: saggio su Guido Cavalcanti, Napoli, Liguori, 1976.
Noemi Ghetti, L'ombra di Cavalcanti e Dante, Roma, L'Asino d'Oro, 2011.
Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli, 1813.
Mario Casella, Cavalcanti, Guido, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931.
Mario Marti, Cavalcanti, Guido, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970.
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Di Fiore Ciro, «Il controverso pellegrinaggio di Guido Cavalcanti a Santiago di Compostela», in "Linguistica e letteratura", 35, (2010).
Anna Maria Chiavacci Leonardi, commento a La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano, 1991, IV ed. 2003, pp. 315-330.
Edoardo Gennarini, La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo Novecento, Ed. Sandron, Firenze, 1971, pp. 31-46.
Avete ’n vo’ li fior’ e la verdura
e ciò che luce od è bello a vedere;
risplende più che sol vostra figura:
chi vo’ non vede, ma’ non pò valere.
In questo mondo non ha creatura
sì piena di bieltà né di piacere;
e chi d’amor si teme, lu’ assicura
vostro bel vis’ a tanto ’n sé volere.
Le donne che vi fanno compagnia
assa’ mi piaccion per lo vostro amore;
ed i’ le prego per lor cortesia
che qual più può più vi faccia onore
ed aggia cara vostra segnoria,
perché di tutte siete la migliore. |
Siete bella come i fiori e la natura
e come ciò che splende ed è bello a vedersi;
il vostro volto risplende più che il sole :
chi non vi vede non può avere valore.
In questo mondo non vi è creatura
così piena di bellezza e piacere ;
e chi ha paura di amore, il vostro bel viso
lo rassicura a volerlo in sé.
Le donne che sono in vostra compagnia
per amore vostro mi piacciono molto ;
e io le prego che per la loro cortesia
quella che più può più vi renda onore
e abbia cara la vostra signoria,
perché di tutte siete la migliore. |
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote, ma ciascun sospira?
O Deo, che sembra quando li occhi gira,
dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:
contanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ ira.
Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.
Non fu s’ alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza |
Chi è costei che viene, tutti la ammirano,
ella fa tremare l’aria di chiarezza
e conduce con sé Amore, così che nessuno
può parlare, ma ciascuno sospira ?
O Dio, che sembra quando volge gli occhi,
lo dica Amore che io non lo saprei dire :
mi pare donna così umile
che ogni altra paragonata a lei io la chiamo ira.
Non si può dire la sua bellezza,
perché a lei si inchina ogni nobile virtù,
e la bellezza la mostra come sua dea.
La nostra mente non fu così profonda
e non avemmo tanta salute
da poterne avere vera conoscenza. |
Biltà di donna e di saccente core
e cavalieri armati che sien genti;
cantar d’augelli e ragionar d’amore;
adorni legni ’n mar forte correnti;
aria serena quand’ apar l’albore
e bianca neve scender senza venti;
rivera d’acqua e prato d’ogni fiore;
oro, argento, azzuro ’n ornamenti:
ciò passa la beltate e la valenza
de la mia donna e ’l su’ gentil coraggio,
sì che rasembra vile a chi ciò guarda;
e tanto più d’ogn’ altr’ ha canoscenza,
quanto lo ciel de la terra è maggio.
A simil di natura ben non tarda |
La bellezza di una donna e il cuore di un uomo saggio
cavalieri armati che siano nobili ;
il canto degli uccelli e i discorsi d’amore ;
le belle navi che corrono veloci nel mare ;
l’aria serena al sorgere del giorno
e la neve bianca che scende senza vento
la riva del fiume e un prato pieno di fiori ;
l’oro, l’argento, l’azzurro dei gioielli :
queste cose sono da meno della bellezza, del valore
della mia donna e del suo nobile cuore
sicché sembrano niente a chi le esamina
ella ha tanto più valore di ogni altra donna
quanto più il cielo è grande della terra
A simile natura il bene non tarda a giungere. |
Tu m’hai sì piena di dolor la mente,
che l’anima si briga di partire,
e li sospir’ che manda ’l cor dolente
mostrano agli occhi che non può soffrire.
Amor, che lo tuo grande valor sente,
dice: – E’ mi duol che ti convien morire
per questa fiera donna, che nïente
par che piatate di te voglia udire – .
I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
10che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,
che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’ egli è morto, aperto segno. |
Tu mi hai così riempita di dolore la mente,
che l’anima tenta di allontanarsi,
e i sospiri che il cuore dolente emette
mostrano alla vista che non può sopportare.
Amore che sente la tua grande forza,
dice “Provo dolore che devi morire
a causa di questa crudele donna, che non
sembra affatto che voglia avere pietà di te”.
Io avanzo come uno privo di vita,
che sembra, a chi lo osserva, che sia uomo
fatto di rame o di pietra o di legno,
che si regga solo per artificio meccanico
e porti nel cuore una ferita
che è segno evidente del fatto che egli è morto. |
Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
o tolti, sì che de la lor veduta
non fosse nella mente mia venuta
a dir: “Ascolta se nel cor mi senti” ?
Ch’una paura di novi tormenti
m’aparve allor, s’ crudel e aguta,
che l’anima chiamò: “Donna, or ci aiuta,
che gli occhi ed i’ non rimagnàn dolenti!”
Tu gli ha’ lasciati sì, che venne Amore
a pianger sovra lor pietosamente,
tanto che s’ode una profonda voce
la quale dice: “Chi gran pena sente
guardi costui, e vedrà ’l su’ core
che Morte ’l porta ’n man tagliato in croce”. |
Perché non mi si sono spenti o strappati
gli occhi, cosicché attraverso la vista
non fosse venuta a dirmi nella mente
“Ascolta se nel cuore mi senti” ?
che una paura di nuove sofferenze
mi apparve allora così crudele e acuta,
che l’anima chiamò “Donna, aiutaci ora,
che gli occhi e io siamo dolenti !”
Tu li hai lasciati così, che venne Amore
a piangere sopra di loro con pietà
tanto che si ode una voce che dal profondo
dice “Chi ha grande pena
guardi costui e vedrà il suo cuore
che la Morte lo porta in mano tagliato in croce”. |
Voi che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.
E vèn tagliando di sì gran valore,
che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore.
Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr’ occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco.
Si giunse ritto ’l colpo al primo tratto,
che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco. |
Voi che attraverso gli occhi siete arrivata al mio cuore
e avete destato la mente che dormiva,
guardate alla mia vita angosciosa,
che Amore sospirando distrugge .
Egli viene colpendo con tanta forza
che i deboletti spiriti fuggono via
rimane solo il corpo in potere (di Amore)
e un po’ di voce che parla del dolore.
Questa virtù d’amore che mi ha ucciso
dai vostri begl’occhi si mosse veloce :
mi scagliò una freccia nel fianco.
Il colpo giunse a segno al primo lancio,
cosicché l’anima tremando si svegliò
vedendo morto il cuore nel fianco sinistro. |
Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.
Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;
le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non n’è rimaso che sospiri.
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegn[i]ate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri |
Noi siamo le tristi penne sbigottite,
le cesoiette e il coltellino sofferenti
che abbiamo scritto dolorosamente
quelle parole che avete udito.
Ora vi diciamo perché ce ne siamo andate
e siamo venute da voi qui adesso :
la mano che ci muoveva dice che sente
cose paurose che sono comparse nel cuore ;
cose che hanno così distrutto costui
e a tal punto avvicinato alla morte,
che non ne è rimasto altro che sospiri.
Ora vi preghiamo con quanta più forza possiamo
che vogliate tenerci con voi
finché vi guardi un poco di pietà. |
O donna mia, non vedestù colui
che ’n su lo core mi tenea la mano
quando ti respondea fiochetto e piano
per la temenza de li colpi sui?
E’ fu Amore, che, trovando noi,
meco ristette, che venia lontano,
in guisa d’arcier presto sorïano
acconcio sol per uccider altrui.
E’ trasse poi de li occhi tuo’ sospiri,
i qua’ me saettò nel cor sì forte,
ch’i’ mi partì’ sbigotito fuggendo.
Allor m’aparve di sicur la Morte,
acompagnata di quelli martiri
che soglion consumare altru’ piangendo. |
O donna mia, non vedesti quello
che mi teneva sul cuore la mano
quando ti rispondevo debole piano
per il timore dei suoi colpi ?
Quello era Amore, che, trovandoci,
rimase con me, veniva da lontano,
come un veloce arciere della Siria
pronto solo a uccidere.
Egli trasse dagli occhi i tuoi sospiri
e li scagliò nel mio cuore con tale violenza,
che io sbigottito mi allontanai fuggendo.
Allora mi apparve proprio la Morte,
accompagnata dalle sofferenze
che consumano gli uomini nel pianto. |
Perch’i’ no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.
Tu porterai novelle di sospiri
piene di doglie e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto dal lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore
Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m’abbandona;
e senti come ’l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto è distrutta già la mia persona,
ch’i’ non posso soffrire:
se tu mi vuoi servire,
mena l’anima teco
(molto di ciò ti preco)
quando uscirà del core.
Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate
quest’anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu’ ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se’ presente:
“Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d’Amore “.
Tu, voce sbigottita e deboletta
ch’esci piangendo de lo cor dolente
coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
starle davanti ognora.
Anim’, e tu l’adora
sempre, nel su’ valore |
Poiché io non spero più di tornare,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e semplice,
dritta dalla mia donna
che per la sua cortesia
ti renderà molto onore.
Tu porterai notizie di sospiri
piene di dolore e di molta paura
ma stai attenta che non ti veda chi
sia nemico dell’animo nobile :
perché certamente per mia sventura
tu saresti osteggiata,
e tanto biasimata
che proverei angoscia ;
poi, dopo la morte,
ancora pianto e dolore.
Tu ti accorgi, ballatetta, che la morte
mi è così vicina che la vita mi abbandona ;
e senti come il cuore si dibatte con violenza,
per ciò che ciascuno spirito dice.
La mia persona è distrutta a tal punto
che io non posso sopportarlo:
se mi vuoi servire,
porta con te l’anima
(di questo ti prego molto)
quando uscirà dal cuore.
Deh, ballatetta, alla tua amicizia
raccomando quest’anima che trema:
portala con te nel suo angoscioso stato,
da quella bella donna a cui ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando sarai da lei:
“Questa vostra servitrice
viene per stare con voi,
partita da colui
che fu servo di Amore”
Tu voce sbigottita e debole
che esci piangendo dal cuore dolente,
con l’anima e con questa ballatetta
va’ mentre parli della distrutta mente.
E voi troverete una donna bella
e dall’intelligenza così dolce
che vi farà piacere
starle sempre davanti.
E tu, anima, adorala
sempre nel suo valore. |
In un boschetto trova’ pasturella
più che la stella – bella, al mi’ parere.
Cavelli avea biondetti e ricciutelli,
e gli occhi pien’ d’amor, cera rosata;
con sua verghetta pasturav’ agnelli;
[di]scalza, di rugiada era bagnata;
cantava come fosse ’namorata:
er’ adornata – di tutto piacere.
D’amor la saluta’ imantenente
e domandai s’avesse compagnia;
ed ella mi rispose dolzemente
che sola sola per lo bosco gia,
e disse: – Sacci, quando l’augel pia,
allor disïa – ’l me’ cor drudo avere – .
Po’ che mi disse di sua condizione
e per lo bosco augelli audìo cantare,
fra me stesso diss’ i’: – Or è stagione
di questa pasturella gio’ pigliare – .
Merzé le chiesi sol che di basciare
ed abracciar, – se le fosse ’n volere.
Per man mi prese, d’amorosa voglia,
e disse che donato m’avea ’l core;
menòmmi sott’ una freschetta foglia,
là dov’i’ vidi fior’ d’ogni colore;
e tanto vi sent’o gioia e dolzore,
che ’l die d’amore – mi parea vedere. |
In un boschetto trovai una pastorella
bella, secondo me, più di una stella.
Aveva capelli biondi e ricci,
gli occhi pieni di amore e la pelle di rosa;
con un rametto pascolava gli agnelli;
era scalza e bagnata di rugiada;
cantava come se fosse innamorata:
adorna di ogni sorta di bellezza.
Subito la salutai con amore
e le chiesi se avesse compagnia;
ed ella mi rispose dolcemente
che da sola andava per il bosco,
e disse “Sappi, che quando l’uccello cinguetta,
allora il mio cuore desidera avere un amico”.
Dopo che mi aveva detto la sua condizione
e sentivo gli uccelli cantare nel bosco,
fra me stesso dissi “Ora è tempo
di avere piacere con questa pastorella”.
Le chiesi la grazia di baciarla
e abbracciarla, se lo volesse.
Mi prese per mano, con amorosa voglia,
e disse che mi aveva donato il cuore;
mi condusse sotto un fresco albero,
là vidi fiori di ogni colore;
e provai tanto piacere e dolcezza,
che mi pareva di vedere il dio dell’amore. |
Testi in Poeti del Duecento, volume 2 tomo 2 Dolce Stil Novo, a cura di Gianfranco Contini, Classici Ricciardi Mondadori, 1995.
17 dicembre 2023 - Eugenio Caruso
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