Michail Saltykov-Scedrin e il suo capolavoro: I signori Golovlëv

Ne I Signori Golovlëv Saltykov-Šcedrin mostra tutta la sua abilità, la sua maestria nella rappresentazione del disfacimento psico-fisico dell’uomo. Sono davvero memorabili le pagine del romanzo dedicate allo sfacelo di Stëpka-babbeo e Paška-taciturno, di Arina Petrovna e Porfiša-sanguisuga.

GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.

I RUSSI

Blok - Brodskij - Bulgàkov - Bunin - Cechov - Dostoevskij - Erofeev - Esénin - Gogol - Gor'kij - Lermontov - Majakovskij - Nabokov- Pasternak - Puškin - Saltykov Šcedrin - Šolochov - Solženicyn - Tolstoj - Turgenev - Zamjatin -

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Michail Evgrafovic Saltykov-Šcedrin, anche noto con lo pseudonimo di Šcedrin, (Spas-Ugol, 15 gennaio 1826 – San Pietroburgo, 28 aprile 1889) è stato un importante scrittore e giornalista.
Michail nasce nello sperduto villaggio di Spas-Ugol, nel distretto di Tver', sesto di sette figli, da Evgraf Vasilevic Saltykov, tipico nobile di provincia, indolente proprietario di diverse migliaia di servi, che lavorano le sue terre, lasciate amministrare alla moglie Ol'ga Michajlovna, di venticinque anni più giovane del marito, figlia di mercanti, avarissima, ignorante e spietata fustigatrice dei figli, che Michail odia per tutta la vita e che rappresenterà nel suo capolavoro I signori Golovlëv nella figura di Arina Petrovna. Se Ol'ga Michajlovna è solo in parte l'immagine di Arina Petrovna possiamo capire come possa essere stato immenso l'odio dello scrirrore per la madre; ma, forse se non ci fosse stata Ol'ga Michajlovna, non cisarebbe stato il capolavoro I signori Golovlëv.
La sua prima istruzione è avventurosa, passando per le mani di un pittore d'icone che ha scarsa dimestichezza con la lingua russa, per quelle del prete del villaggio e, infine, attraverso quelle della governante francese, più appassionata alla vodka russa che all'insegnamento. Con suo sollievo il piccolo Michail nel 1836 si sottrae all'ambiente familiare per andare a Mosca a studiare all'Istituto Nobile, e di qui al Liceo imperiale di Carskoe Selo, che è alle dirette dipendenze dal Ministero della Guerra, dove si preparano i futuri funzionari dello Stato zarista: l'insegnamento è basato sull'assimilazione mnemonica di una quantità di nozioni, unito a una disciplina da caserma prussiana.

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Il critico Vissarion Grigorevic Belinskij

È nel periodo del liceo che comincia a leggere, spesso di nascosto, romanzi e libri di storia e di filosofia e a scrivere versi a imitazione di Lermontov, frequentando anche le riunioni dei giovani intellettuali in casa del poeta Nikolaj Jazykov, dove conosce lo scrittore Panaev e il famoso critico Belinskij. Concluso il liceo nel 1844, viene assunto al Ministero come impiegato, ma è del tutto disinteressato al suo lavoro: maggiore interesse prova ogni venerdì sera alle riunioni, frequentate anche dal giovane Dostoevskij, in casa del suo ex-compagno di liceo Michail Butasevic Petraševskij, un socialista utopista seguace di Fourier, che spera di rinnovare il paese fondando un falansterio e organizzando un movimento intellettuale a cui aderiscano i più illuminati fra i nobili e i borghesi russi.
Dura un paio d'anni l'interesse di Saltykov-Šcedrin per il gruppo di Petraševskij, destinato a conoscere i campi della Siberia: egli se ne allontana giudicando velleitario il loro programma: a essi sembrano interessare le idee astratte più che le necessità concrete di un popolo di cui ignorano i reali bisogni. Ottiene di collaborare alla gloriosa rivista Sovremennik (Il contemporaneo), già diretta da Puškin e ora da Nekrasov, scrivendo recensioni; nel novembre 1847 pubblica il suo primo racconto, Protivorecija (Contraddizioni), e l'anno dopo Zaputannoe delo (Una storia complicata), entrambi sulla rivista Otecestvennye zapiski (Annali patri).
«Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol'», scrive Belinskij, e anche il protagonista della Storia complicata, Miculin, è vicino all'immortale figura di Akakij Akakevic: timido e sentimentale, è destinato a essere divorato, come pecora fra i lupi, dalla cattiveria di una società spietata e a morire nell'indifferenza della grande capitale. Sono proprio i riferimenti ai lupi, che tutto mangiano ma che dovrebbero essere tutti sterminati, a provocare la repressione della polizia di Nicola I, già allarmata dalle notizie provenienti dalla Francia, dove Parigi è insorta nel febbraio 1848: il 28 aprile Saltykov-Šcedrin, accusato di propaganda sovversiva, viene punito con l'obbligo di lasciare San Pietroburgo per andarsene a risiedere a Vjatka, paesino lontano più di mille chilometri, degradato a copista nella burocrazia statale. La sua vendetta contro il regime sarà raffinata: anziché accomodarsi nella parassitaria sicurezza di un tranquillo impiego statale, diviene un burocrate efficiente e zelante. Attivissimo, denuncia corruzioni, scopre imbrogli, rivela concussioni: è il terrore degli amministratori incapaci, il fustigatore dei governatori corrotti, il persecutore dei ricchi proprietari che prosperano all'ombra della grande burocrazia imperiale. Il suo zelo viene premiato ed egli scala i gradini della carriera statale.


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Nikolaj Aleksandrovic Dobroljubov

Il 2 marzo 1855 è un giorno fausto per la Russia liberale e per Saltykov-Šcedrin: muore lo zar Nicola I, brutale e ottuso autocrate. Il 13 novembre viene revocato il decreto di confino e lo scrittore può tornare a San Pietroburgo dove pubblica una nuova serie di racconti, Gubernskie ocerki (Schizzi provinciali) e si sposa. È il matrimonio con una donna che non somiglia in nulla alla madre, ma che egli finirà presto per disprezzare e dalla quale sarà considerato una persona triste e noiosa: lei è invece allegra ma superficiale, bella ma frivola, «il suo ideale» - scrive Michail - «sarebbe quello di passare la parte più lunga della sua giornata in giro per negozi, per poi tornare a casa con qualche amico [...] farsi corteggiare e ogni tanto cambiarsi d'abito».
Ritornando a Pietroburgo, comincia subito a pubblicare mensilmente dei racconti sulla rivista Messaggero russo, che nel 1856 vengono raccolti in volume con il titolo di Schizzi provinciali, nel quale lo scrittore si presenta per la prima volta con lo pseudonimo di Šcedrin. È evidente in essi il riferimento alla vita trascorsa a Vjatka, qui ribattezzata Krutogorsk, nome di città immaginaria che significa "dirupo". Quasi tutti i racconti consistono in monologhi dove i protagonisti si presentano per quello che sono: ladri, corrotti, parassiti, ignoranti, malvagi, e denuncia quello che fanno. Sono tutti nobili e borghesi, funzionari e burocrati: nessuno prende provvedimenti contro costoro, ognuno sa e non agisce, mentre sulla maggioranza del popolo russo che li mantiene, sui semplici, sui contadini, presentati come gente onesta e laboriosa, grava la loro corruzione e la loro inciviltà. Sono racconti satirici ed esopici, non scritti in una forma grevemente seriosa di denuncia morale e sociale; questa è naturalmente ben presente e rappresenta infatti l'intento reale dello scrittore, che tuttavia intende presentare la miseria della condizione della Russia nella forma già utilizzata da Gogol', seppure con minore capacità artistica - non a caso Turgenev la censura, giudicando grossolano il sarcasmo di Saltykov-Šcedrin e basso il suo stile, ma il resto della critica radicale, che fa capo a Sovremennik (Il contemporaneo) di Cernyševskij e Dobroljubov e che apprezza il messaggio espresso più che la forma, esalta lo scrittore e ne proclama il successo, confermato dal pubblico, che ama leggere divertendosi di cose che conosce e che disapprova ma che non ha il coraggio di denunciare.

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Nikolaj Gavrilovic Cernyševskij

La fama di Saltykov-Šcedrin arriva naturalmente ai livelli più alti e Alessandro II, che ha deciso di togliere la Russia dal degrado anacronistico del servaggio feudale, nel 1858 nomina l'alto funzionario Michail Saltykov-Šcedrin vicegovernatore del distretto di Rjazan'. Odiato dalla nobiltà locale, viene trasferito a Tver', dove apprende del decreto di liberazione dei servi della gleba firmato il 3 marzo 1861. Il decreto assegna della terra alla comunità di villaggio, che a sua volta la ripartisce tra i suoi membri: la terra rimane proprietà della comunità, alla quale il contadino rimane legato e, pur non essendone libero proprietario, deve riscattarla pagando all'ex-proprietario nobile lunghissimi canoni - aggravati dagli interessi da pagare allo Stato che presta il denaro - e rimanendo obbligato a lavorare gratuitamente per più di un mese all'anno le terre del padrone, il quale mantiene nei suoi confronti il potere di polizia.
L'illusione sull'"illuminismo" dello zar, che ha fatto la riforma tenendo soprattutto conto delle richieste dei proprietari, svanisce presto, dando luogo a disordini che sono repressi con violenza, e la questione agraria finisce per rimanere aperta per tutta la durata del regime zarista. Anche Saltykov-Šcedrin che, come Cernyševskij e Dobroljubov, aveva creduto inizialmente alla buona fede riformatrice di Alessandro II, si disillude: gli arbitri che sono chiamati a dirimere le contestazioni che sorgono inevitabili nel periodo dell'applicazione della riforma, sono naturalmente nobili, e Saltykov-Šcedrin denuncia la loro parzialità innescando con un giornalista - che pretende invece che i proprietari siano comunque favoriti nelle controversie - una vivace polemica nella quale egli non può che rimanere vittima, così che è costretto a presentare le sue dimissioni.
Può così dedicarsi a tempo pieno alla letteratura: collabora a Il contemporaneo che, chiuso nel 1862 con l'arresto di Cernyševskij, riapre nel febbraio 1863 sotto la direzione di Nekrasov. Pubblicati i Nevinnye rasskazy (Racconti innocenti) e le Satiry v proze (Satire in prosa), ritiene che sia finito il tempo dei racconti che finiscono per piacere al pubblico perché mettono in scena delle macchiette divertenti, anche se attraverso quelle l'intento è pur sempre quello della denuncia morale e sociale. Pensa all'utilità di una rivista letteraria e politica insieme, che si faccia portavoce dei bisogni del popolo russo e avanzi proposte democratiche e solleciti risposte dal potere.
Però nessuna risposta arriva intanto dal potere alla sua richiesta di autorizzazione a pubblicare la nuova rivista e Saltykov-Šcedrin continua a lavorare nella redazione de Il contemporaneo, dove attacca la letteratura della poesia pura alla Fet-Šenšin, l'arte del narcisismo e dell'evasione. Tuttavia le sue idee non si accordano con quelle di tutti i redattori: gli si rimprovera di essere slavofilo e di avere concezioni arretrate sulla questione femminile, cosicché alla fine del 1864 si dimette dalla redazione della rivista, che del resto viene nuovamente chiusa di lì a poco dal governo.
Tornato in forza nella burocrazia statale, è presidente della Camera di Commercio di Penza e subito si mette in rotta di collisione con l'amministrazione delle finanze fino a essere trasferito a Rjazan'. Questa volta ritiene di averne abbastanza e nel 1868 dà definitivamente le dimissioni da dirigente statale e ritorna a tempo pieno all'attività letteraria: a Pietroburgo accetta il nuovo invito di Nekrasov, ora direttore della rivista Annali patri, di entrare nella redazione. Nemmeno qui si smentisce: sempre presente nei locali della rivista, ne è il polemico animatore ed è anche più convinto delle sue scelte politiche, che si avvicinano al radicalismo populista.
Nella rivista pubblica nel corso degli anni dal 1863 al 1874 Pompadury e pompadurci (I pompadour e le pompadour), opera che richiama gli Schizzi di una decina di anni prima: i "pompadour" sono i governatori delle province russe - che Saltykov-Šcedrin conosce certo molto bene - che sanno, o almeno lo scrittore è convinto che sappiano, l'inutilità della loro funzione e sono persino persuasi dell'inutilità delle leggi che sono chiamati a far rispettare. Il miglior governatore, per il popolo, è colui che non governa. Ancòra negli Annali patri esce a puntate dal 1869 al 1870 il primo dei romanzi di Saltykov-Šcedrin, Storia di una città, che, apparentemente surreale, è una violentissima satira della Russia contemporanea. Saltykov-Šcedrin finge di aver scoperto un'antica cronaca della città di Glupov, nome di fantasia derivante da "glupyj", "stupido". In essa si riportano i nomi degli antichi governatori della città, brutali autocrati che tenevano sottomessa la popolazione a suon di frustate. Se il loro sistema di governo rimase sempre immutato, diversa fu, nel tempo, la giustificazione dell'uso della violenza e la reazione dei cittadini:

«Mentre i primi frustavano senza ulteriori spiegazioni, i successivi si giustificavano con le esigenze della civilizzazione, e gli ultimi sostenevano che la popolazione doveva fidarsi delle iniziative dei loro capi. Quali erano le reazioni dei subalterni? Nel primo caso tremavano e basta; nel secondo tremavano ancora, ma sapevano che era per il loro bene; nel terzo al tremore si aggiungeva una consolante fiducia»

È evidente il riferimento agli ultimi secoli della storia russa fino agli anni recenti e attuali: il governatore che costringe i cittadini a mangiare la senape, anche se questi non ne vogliono sapere, ricorda l'analoga iniziativa dello zar Nicola I, che a bastonate rende obbligatorio ai contadini il consumo delle patate.

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Michail Saltykov-Šcedrin nel 1870

Arriva un altro governatore che decide di distruggere la vecchia città per ricostruirne un modello; viene deviato anche il fiume, che disturba il progetto, ma la diga costruita appositamente crolla, il lavoro impiegato si rivela inutile e tutto riprende il suo corso consueto. Il governatore, spossato dalla gigantesca lotta, si addormenta per la strada e ognuno può avvicinarsi per osservarlo convincendosi «che era solo un perfetto imbecille [ ... ] si era potuto pensare che incarnasse una forza gigantesca e irresistibile [ ... ] ora che il suo sguardo immondo non pesava su nessuno, diveniva lampante che questa forza irresistibile non era altro che una sconfinata stupidità». Quando la popolazione prende finalmente coscienza della propria condizione e di chi siano veramente coloro che la dominano, un ciclone si abbatte, improvviso e violentissimo, sulla città e spazza via il governatore.
Con i Gospoda Taškentcy (I signori di Taškent) Saltykov-Šcedrin torna alle raccolte di racconti, pubblicati dal 1869 al 1872. La città è reale, essendo la capitale del Turkestan, appena conquistato nel 1864 nel corso dell'espansione russa in Oriente, che ha reso possibile l'attivismo imprenditoriale in una regione che deve essere modernizzata. Tashkent si trova in «zona famosa per i suoi montoni che hanno tutti una curiosa caratteristica: si lasciano tutti tosare facilmente e la loro lana ricresce con una rapidità impressionante. Non sembra che si preoccupino di sapere chi li tosa: sanno solo che la tosatura è un fattore inevitabile nella loro esistenza. Quando vedono arrivare di lontano l'uomo che tosa, piegano le zampe e aspettano». Naturalmente le città come Tashkent abbondano in Russia: «Se vi trovate in una città in cui le statistiche dichiarano: abitanti tot, chiese tot, scuole zero, ospedali zero, prigioni una, potete stare tranquilli: siete a Tashkent».
Dopo aver preso direttamente di mira gli «avvoltoi», gli industriali e i grandi commercianti che si arricchiscono con gli appalti pubblici in una Russia che, pur ancora miserabile, cerca di darsi superficialmente un aspetto evoluto, moderno e alla moda, come i più avanzati paesi europei, Saltykov-Šcedrin attacca quella stampa che finge di ignorare l'arretratezza a la miseria russa per inneggiare alle sorti inevitabilmente progressive che si prospettano. Due sono i protagonisti del suo nuovo romanzo Dvevnik provinciala v Peterburge (Diario di un provinciale a Pietroburgo), sempre pubblicato dal 1872 al 1873 negli Annali patri. Uno è un giornalista che, pieno di debiti, «vende la sua penna» a un industriale che gli chiede, in cambio di quintali di chicchi d'orzo, d'improntare la politica editoriale del suo giornale su tre concetti essenziali:

«1. La Russia è un paese prospero. Dunque, è un paese felice. 2. I sostenitori di idee nuove, gli scontenti dell'ordine esistente, sono nemici del regime che dà al paese la prosperità. 3. Chi è contro la prosperità del paese è nemico del paese, e dunque del popolo»

L'altro protagonista è la vittima del sistema e dei suoi incensatori, un provinciale che è arrivato a Pietroburgo sperando di fare fortuna investendo il suo piccolo capitale. Inebriato dalle illusioni di un progresso di cartapesta, è truffato, finisce sotto processo, in prigione e infine in manicomio.
Baden-Baden a fine Ottocento Con la morte della madre, avvenuta nel 1874, e probabilmente a conseguenza di essa, la salute di Saltykov-Šcedrin peggiora: si ritiene che l'ostilità sempre nutrita nei suoi confronti e i problemi di eredità che ne derivano, abbiano provocato i disturbi nervosi e cardiaci che lo affliggono per quasi un anno. Si cura alle terme di Baden-Baden, località climatica tedesca molto alla moda a quel tempo e poi si distrae viaggiando: è impressionato da Parigi, la vivace capitale intellettuale del mondo, e dalla Costa Azzurra; viene a contatto con Zola e Flaubert. È la prima e ultima volta che ha l'occasione di viaggiare all'estero, e torna in Russia ristabilito e rinfrancato. Riconosce che in Occidente si stia meglio ma è troppo legato, malgrado tutto, al suo paese per potervi rinunciare: «Da noi non si sta così bene, eppure è meglio. È meglio perché si soffre di più. Questa è la particolare legge dell'amore».
Con la morte di Nekrasov nel 1877, Saltykov-Šcedrin assume la direzione degli Annali patri con una redazione di prim'ordine, ove spiccano il drammaturgo Ostrovskij, i romanzieri Garšin e Uspenskij, i poeti Nadson e Merežkovskij e il critico radicale Michajlovskij. Nel 1878 dà alla luce Ubežišce Monrepo (L'asilo Mon repos), nuovo attacco alla grande borghesia emergente - che assorbe le piccole proprietà agricole - che è nel contempo una difesa dei piccoli proprietari che erano stati «i pilastri in epoche oscure, quando la gente chinava la schiena senza sapere perché» e ora sono le vittime predestinate dell'aggressivo capitalismo russo.
«I signori Golovlëv» Saltykov-Šcedrin inizia a scrivere I signori Golovlëv nel 1875 quando si trova in Francia senza avere inizialmente un piano preciso dell'opera complessiva. Si sviluppa lentamente un romanzo, pubblicato nel 1880 che, lontano dalle satire consuete al narratore, dà luogo a una rappresentazione cupa e tragica della storia di una famiglia di proprietari terrieri dominata dall'avidità della ricchezza, dal possesso della terra che madre, figli e nipoti antepongono ai legami di famiglia, agli affetti e alla pietà. In questo che è «il più grande "monumentum odiosum" eretto alla memoria della nobiltà provinciale russa»[1], i personaggi sembrano non avere più nulla delle caratteristiche comuni che legano i membri di una stessa famiglia: madre e moglie, padre e marito, figlio e fratello, tutti si odiano, ognuno è nemico dell'altro, ogni qualità positiva è perduta in una vita passata nell'ozio e nell'alcolismo.

Opere
  • Una storia complicata, 1848
  • Schizzi provinciali, 1856
  • Racconti innocenti, 1863
  • Satire in prosa, 1863
  • I pompadour e le pompadour, 1863-1873
  • Storia di una città, 1869
  • I signori di Taškent, 1869-1877
  • Diario di un provinciale a Pietroburgo, 1872-1873
  • L'asilo Mon repos, 1878
  • I signori Golovlëv, 1880
  • Lettere alla zietta, 1881
  • Fiabe, 1885
  • Futilità della vita, 1886
  • Antichi tempi di Pošechone, 1890
Traduzioni italiane
  • Storia di una città, Roma 1961
  • Antichi tempi di Pošechone, Torino 1962
  • Le fiabe di Saltikov-Ščedrin, Padova 1964
  • I signori Golovlëv, , trad. B. Osimo, Milano, Frassinelli, 1995
  • Fatti d'altri tempi nel distretto di Pošechon'je, Quodlibet, Macerata 2013. I signori GolovlëvIl romanzo parla dell'abbrutimento fisico e morale e della conseguente tragedia di una famiglia dominata dall'avidità smodata di denaro al di là delle necessità reali. A capo della casa, nella campagna russa dell'Ottocento, è la rigida ma intraprendente Arina Petrovna la quale, grazie a queste sue caratteristiche, riesce a garantire la floridità economica della famiglia; la vita in famiglia, però, è tutt'altro che serena: sua figlia Anna fugge ben presto in città con il marito in cerca di una vita migliore; Pavel, il più inetto dei figli, trascorre il tempo da nullafacente, ubriacone e apatico alla pari del padre Vladimir; Porfirij, il più viscido e sornione di tutti, sfrutta tutte le sue forze, la sua maligna astuzia e la sua lungimiranza per soffiare a tutti gli avversari l'intera eredità della madre subentrandole, lei ancora in vita, e eliminando dal suo orizzonte perfino le orfane Anninka e Ljubinka, sue nipoti, dedite anch'elle ad una vita mondana dissoluta.

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I SIGNORI GOLOVLEV

Nei Signori Golovlëv Saltykov-Ščedrin mostra tutta la sua abilità, la sua maestria nella rappresentazione del disfacimento psico-fisico dell’uomo. Sono davvero memorabili le pagine del romanzo dedicate allo sfacelo di Stëpka-babbeo e Paška-taciturno, di Arina Petrovna e Porfiša-sanguisuga. I personaggi dei Signori Golovlëv poi non sono esseri pensanti o sovra-pensanti come quelli che affollano le opere di Turgenev, Tolstoj e Dostoevskij, ma creature elementari tutte concentrate nei loro bisogni primari e bestiali, come il vizio e l’accumulo insensato di beni. Non vedono al di là del loro desiderio materiale e si distruggono inesorabilmente in esso, in un totale stato di incoscienza, ridotti ai minimi termini a livello spirituale e morale. Incoscienti e poveri di spirito: ecco cosa sono i signori Golovlëv, di cui certamente nessuno rimpiangerà l’inevitabile estinzione.

STËPKA-babbeo
Il romanzo si apre con il ritorno a Golovlëvo, la grande, rigogliosa e produttiva tenuta di famiglia, di Stëpka-babbeo, il maggiore dei fratelli Golovlëv, buffone quarantenne che ha dilapidato tutto il proprio patrimonio e non ha saputo mantenersi neppure uno dei tanti impieghi statali procuratigli dalla madre, la dispotica Arina Petrovna, che, rinchiuso il marito depravato in una stanza, gestisce con grande abilità e scaltrezza gli affari di famiglia, accumulando una fortuna. A Stëpka-babbeo, uno dei più grandi inetti della letteratura russa dell’Ottocento, completamente escluso dalla vita, perfettamente incapace, anche solo di formulare un pensiero più o meno sensato, e inutile, ma inutile davvero, non come gli uomini superflui, la cui inutilità è decretata dalla storia e dalla società, viene riservato lo stesso trattamento riservato al padre e agli altri «svergognati» della famiglia: viene cioè relegato da Arina Petrovna in una stanza della grande casa padronale e ridotto più o meno a pane e acqua.D’estate la prigionia di Stëpka-babbeo è, tutto sommato, accettabile. Con l’arrivo dell’autunno diviene drammatica. Le strade di Golovlëvo si riempiono di fango, il cielo è ininterrottamente coperto di nubi immobili che gettano acqua senza sosta, come se venisse giù il diluvio universale. Nonostante l’oscurità, il freddo, la pioggia e il fango i contadini sgobbano, terminano di accumulare provviste per l’inverno (provviste destinate ad andare a male, a marcire a causa dell’avarizia di Arina Petrovna, che tiene tutti, familiari e servi, a stecchetto), «puntini neri» che si dibattono e riescono sempre, in un modo o nell’altro, a sistemarsi, si difendono, si rafforzano, mentre Stëpka-babbeo, che li osserva dalla sua piccola, lurida stanza buia (la madre gli nega persino un mozzicone di candela), se ne resta immobile, con le mani in mano, incapace di scuotersi, di reagire, di ribellarsi, divorato dall’angoscia, un’angoscia tutta istintiva, elementare, animalesca, propria di un uomo vuoto e incosciente, vittima di un irreversibile processo di decerebramento. A Stëpka-babbeo resta solo un conforto, quello dell’alcol, il vizio per eccellenza della famiglia Golovlëv. Stëpka-babbeo inizia a bere tutte le notti, solo nel buio terribile della sua stanza-cella, ed è straordinario il racconto delle sue solitarie e disperate sbronze notturne: La torpida fantasia si sforzava di creare delle immagini; la memoria mortificata cercava di irrompere nella sfera del passato; ma quelle immagini riuscivano spezzate e insensate, incapaci di riflettere alcun ricordo né amaro, né luminoso, come se fra esso e il momento attuale si fosse eretta una grossa muraglia. Davanti a lui c’era solo il presente sotto forma di una prigione ermeticamente chiusa, nella quale era annegato il concetto di tempo e di spazio. La camera, la stufa, le tre finestre del muro esterno, il cigolante letto di legno col sottile materasso schiacciato, la tavola con su la fiaschetta formavano l’orizzonte, oltre il quale i suoi pensieri non spaziavano. Ma a mano a mano che diminuiva il contenuto della fiaschetta, a mano a mano che la testa gli s’infiammava, anche quell’esile riflesso del presente superava le sue forze. Il suo borbottio, che da principio aveva una certa forma, diventava alla fine del tutto incoerente; le pupille nello sforzo di distinguere qualche cosa nell’oscurità si dilatavano a dismisura; finché la tenebra stessa spariva e in sua vece appariva uno spazio pieno di luce fosforescente. Vi era un vuoto sconfinato, morto, che non riecheggiava alcun suono vivo, minaccioso. Egli lo inseguiva seguendo le orme dei suoi passi. Non esisteva più nulla, né pareti né finestre: solo un vuoto luminoso, esteso all’infinito. La paura cominciava a impadronirsi di lui; sentiva il bisogno di soffocare violentemente il sentimento della realtà, perché non vi fosse neppure quel vuoto. Ancora qualche sforzo e lo scopo era raggiunto. Le gambe vacillanti portavano da una parte all’altra il suo corpo inerte; dal petto non gli uscivano più brontolii, ma grida; la sua stessa esistenza sembrava interrotta. Una strana rigidezza l’invadeva, e in essa spariva ogni sintomo di vita cosciente, mentre emergevano le forme di un’altra vita che si sviluppava indipendente, estranea a qualsiasi contingenza reale. Gemiti su gemiti gli uscivano dal petto, senza tuttavia interrompergli il sonno; la malattia dell’organismo continuava il suo lavorio demolitore, ma apparentemente non provocava in lui alcuna sofferenza fisica . La vodka permette a Stëpka-babbeo di evadere, di entrare, almeno per qualche ora, in un’altra dimensione, una dimensione infinita e luminosa che svanisce una volta superata la sbornia. Al mattino tornano a tormentarlo la tristezza, il disgusto e l’odio, un odio sordo, cieco, insensato, «senza protesta e senza ragione, l’odio contro qualcosa d’indefinito, che non aveva forma». Stëpka-babbeo passa le interminabili ore del giorno senza pensieri, senza desideri, la testa depensante piena dell’immagine dell’oggetto fissato dal suo sguardo smorto (la stufa, la finestra ecc.), in attesa di una nuova notte di libertà e beatitudine, «allorché la terra spariva sotto i piedi e invece di quattro muri schifosi, si riapriva davanti agli occhi un vuoto sconfinato e luminoso».Arina Petrovna trascura completamente quello «stallone perticone» del primogenito (i soprannomi dei figli sono suoi), e senza intenzione. Semplicemente si è dimenticata del figlio, termine che, nel vocabolario dell’autoritaria padrona, ha significati esclusivamente negativi (la procreazione è per lei una sorta di inevitabile effetto collaterale dell’esistenza, di cui avrebbe fatto volentieri a meno): Non c’era alcuna intenzionalità nel suo modo d’agire verso il babbeo: era una semplice dimenticanza. Non le passava nemmeno per la mente che lì vicino, nell’ufficio, viveva una creatura legata a lei con vincoli di sangue e che probabilmente languiva di nostalgia per la vita. Come lei, entrata una volta sul binario dell’esistenza, riempiva questa quasi macchinalmente sempre con lo stesso contenuto, così credeva che in egual modo dovessero agire anche gli altri. Arina Petrovna torna bruscamente alla realtà quando le comunicano che Stëpka-babbeo è scomparso, è evaso fisicamente dalla sua stanza-cella, piccola, buia, lurida, puzzolente di vodka, tabacco e pelliccia di montone rancida. Ricondotto presto a casa, Stëpka-babbeo non apre più bocca, si rinchiude in un silenzio ostinato, inespugnabile e passa le giornate camminando su e giù nella sua camera, muovendo ininterrottamente le labbra, ma senza dire niente: i suoi pensieri sono così deboli da svanire subito nel nulla, nel vuoto della sua incoscienza. In realtà Stëpka-babbeo non pensa affatto, sprofondato in quelle «tenebre senza alba, nelle quali non c’è posto non solo per la realtà, ma nemmeno per la fantasia. Il suo cervello elaborava qualcosa, ma questo qualcosa non aveva alcuna relazione né col passato, né col presente, né col futuro. Era come se lo avvolgesse da capo a piedi una nuvola nera e lui la guardasse e ne spiasse il fluttuare, riscotendosi ogni tanto come per difendersene. In questa nuvola enigmatica era immerso tutto il suo mondo fisico e spirituale…». Stëpka-babbeo muore in queste condizioni, come tutti gli altri svergognati della famiglia Golovlëv. Non è il primo, non sarà l’ultimo.

PAŠKA-taciturno
È l’abolizione della servitù della gleba, decretata dallo zar Alessandro II nel 1861, a interrompere per sempre l’autoritario dominio di Arina Petrovna, che si lascia travolgere dalle sue fosche, del tutto immotivate fantasie (l’atavica propensione alla fantasticheria dei Golovlëv è sintomo della loro «insensata sterilità»), fino a trascurare gli affari. Esortata da Porfiša-Sanguisuga, detto anche Iuduška, piccolo Giuda, il più subdolo, strisciante e ipocrita dei suoi figli, indosso la maschera permanente di rampollo devoto e cristiano virtuoso, Arina Petrovna divide la grande tenuta di Golovlëvo ai due figli che le restano, Porfiša-sanguisuga appunto, che si accaparra la parte migliore della proprietà, e Paška-taciturno, trattenendo per sé solo il capitale.Come Stëpka-babbeo anche Paška-taciturno, dal quale si è trasferita Arina Petrovna, animata da un odio profondo verso Iuduška, alla fine dei suoi giorni precipita nell’alcol. Rintanato nel suo ammezzato, dove le caraffe di vodka si susseguono una dietro l’altra, Paška-taciturno «aveva cominciato a detestare la compagnia delle persone vive e, in loro vece, si era creato una realtà particolare, fantastica», nella quale, in un «intero romanzo stupidamente eroico», si misura con l’odiatissimo fratello Iuduška, di cui teme persino lo sguardo e la voce, perché nell’assurda fantasia dell’ubriacone il primo irradia un «veleno ammaliatore», mentre la seconda striscia «nell’animo come una serpe» e paralizza «ogni volontà». Nella sua realtà parallela Paška-taciturno sogna di sconfiggere finalmente Porfiša-sanguisuga: Nella fantasia riscaldata dal vino si creavano interi drammi, nei quali erano vendicate tutte le offese e nei quali l’offensore non era più Iuduška, ma lui. Una volta si immaginava di aver vinto il premio di duecentomila rubli e di essere andato a comunicare la notizia a Porfiša (una completa scena dialogata) al quale si torceva perfino il viso per l’invidia. Un’altra volta si immaginava che fosse morto un nonno (di nuovo una scena dialogata sebbene non esistesse nessun nonno), che gli aveva lasciato un milione e a Porfiša-sanguisuga nemmeno una copeca. Poi fantasticava di aver inventato il modo di rendersi invisibile e poter così tormentare Porfiška con ogni sorta di bassezze, da farlo gemere. Nell’inventare quei dispetti era inesauribile e il suo riso assurdo rintronava dall’ammezzato […] . L’alcol abbatte anche Paška-taciturno e la morte imminente del figlio che l’ha presa con sé precipita Arina Petrovna nella disperazione. La vecchia donna, vedendo il destino cupo, misero che la attende piange lacrime amare, e scopre di essersi ammazzata di lavoro per niente, di aver accumulato beni per nessuno, o meglio, per uno spettro, quello spettro chiamato «famiglia» che le stava sempre sulle labbra, ma che non esiste, non è mai esistito: In tutta la sua vita aveva cercato sempre di sistemare qualcosa, si era sempre mortificata per qualcosa ed ora risultava che s’era ammazzata sopra un fantasma. In tutta la sua vita la parola «famiglia» era stata sempre sulle labbra; nel nome della famiglia aveva sottoposto se stessa alle privazioni, si era torturata, aveva rovinato la propria esistenza, e ad un tratto, proprio una famiglia le mancava . Iuduška, che sente puzza di carogna a decine e decine di verste di distanza, si reca dal fratello Paška-taciturno, oramai moribondo, e lo tormenta con la sua ipocrisia, con la sua commedia, che recita con una naturalezza diabolica. Esasperato, torturato, Paška-taciturno «aveva l’impressione di essere messo vivo nella bara, come incatenato in un sonno letargico senza possibilità di muovere né braccia né gambe e di essere costretto ad ascoltare come Sanguisuga imprecasse sul suo corpo…». Paška-taciturno muore tra i tormenti.

ARINA PETROVNA
Rimasta sola, completamente sola, e inattiva, Arina Petrovna scivola poco a poco in una «sonnolenta inerzia» che la svuota, la prosciuga: «Della donna forte e discreta che nessuno si sarebbe permesso di chiamare vecchia, restava ormai un rudere per cui non esistevano né passato né futuro, ma solamente l’attimo in cui doveva vivere» . Chiusa in una stanza, sola, abbandonata, stanca, assonnata, Arina Petrovna, incapace persino di ricordare, di tanto in tanto, come per caso, è colpita da qualche lontano particolare della sua storia passata, da un’offesa «amara e insopportabile», perché avara di gioie è stata la sua vita, e piange, piange «pesantemente, con sofferenza, […] come piange la vecchiaia miserabile quando le lacrime sgorgano sotto il peso di un incubo». E così Arina Petrovna si trascina, «senza prender parte personalmente alla vita, ma solo in forza della circostanza che in quella rovina ancora si conservavano alcuni dimenticati residui che si dovevan raccogliere, calcolare e portare a conclusione» . Così il giorno; peggio, molto peggio la notte, in cui Arina Petrovna è tormentata dalla paura, una paura nera come l’oscurità che la avvolge, dei ladri, degli spettri, dei diavoli, ovvero «di tutto ciò che costituiva il prodotto della sua educazione e della sua vita».Quanto più Arina Petrovna si fa decrepita, quanto più in lei si sviluppa il sentimento della propria inesorabile decrepitezza, tanto più si manifesta in lei il desiderio di vivere, di «godere», accompagnato da una completa incoscienza della morte: «Prima ella aveva paura della morte; adesso sembrava averla del tutto dimenticata». Arina Petrovna sogna Golovlëvo, nelle mani del solo Iuduška, che si è preso tutto, la sua abbondanza, la sua vitalità. Ogni giorno di più avvinta dal destino di parassita che la attende inesorabile alla fine della sua parabola esistenziale, Arina Petrovna si riavvicina a Porfiša-sanguisuga, per saziare i propri desideri di «buona vita», e Iuduška finisce per assumere su di sé questa vecchia e decrepita croce, perché non c’è niente che egli tema di più della maledizione della madre, il cui pensiero terribile lo trattiene «da molte porcherie nelle quali era grande maestro».

COMMENTO: Saltykov-Ščedrin ha saputo esprimere l'idea del disfacimento fisico e mentale come Dostoevskij, Tolstoj e Hamsun, coinvolgendo il lettore nell'abisso della miseria morale.

31 dicembre 2023 - Eugenio Caruso

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