Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo celeste, o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori
E le adunate in terra o in mar ricchezze
Dal genitor frugale in pochi lustri,
Me Precettor d’amabil rito ascolta.
Parini
GRANDI PERSONAGGI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.
ITALIANI (Giova ricordare che, partendo dagli scrittori latini, fino a oggi la letteratura italiana è, in assoluto, la più ricca del pianeta).
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Parini in un pastello del 1793 di Giuseppe Mazzola.
Giuseppe Parini, nato Giuseppe Parino (Bosisio, 23 maggio 1729 – Milano, 15 agosto 1799), è stato un poeta e abate italiano. Membro dell'Accademia dei Trasformati, fu uno dei massimi esponenti dell'illuminismo e del neoclassicismo in Italia.
Ultimogenito di Francesco Maria, un modesto mercante di stoffe, e di Angiola Maria Caspani, Giuseppe Parini si formò, inizialmente, presso i sacerdoti del suo paese nativo. Il parroco di Canzo, Ambrogio Fioroni, lo mette in contatto ancora giovane con l'ambiente culturale milanese. Studia presso le scuole di Sant'Alessandro (o Arcimbolde), tenute dai barnabiti, dove fu ospite della prozia Anna Maria Parini vedova Lattuada, che si addossò le spese per l'educazione del pronipote solo se questi avesse deciso di prendere gli ordini sacerdotali. Nel 1753, dopo la pubblicazione della raccolta Alcune poesie di Ripano Eupilino, il giovane poeta poté essere accolto nell'Accademia dei Trasformati che si radunava in casa del conte Giuseppe Maria Imbonati ed era formata dal meglio dei rappresentanti della cultura milanese, dove troverà amici e protettori La Milano in cui il giovane chierico si stava affacciando era pervasa da un rinnovato senso della bellezza e del dialogo, serena finalmente dopo le varie guerre di successione, l'ultima delle quali, quella austriaca, pose Milano definitivamente nell'orbita dell'impero asburgico, dando inizio ad un periodo di prosperità e di pace.
Il soggiorno quasi decennale presso questa famiglia dell'aristocrazia permise al Parini di entrare in contatto diretto con le idee dei lumi e di poter osservare da vicino la vita degli aristocratici.
Dopo aver compiuto al meglio gli studi ecclesiastici, il giovane Parini fu ordinato sacerdote il 14 giugno 1754, decisione presa principalmente per poter entrare in possesso dell'eredità della prozia. Le risorse economiche ereditate dall'anziana parente, però, risultarono troppo scarse per farlo vivere in modo dignitoso, costringendo il giovane chierico a richiedere l'aiuto del canonico Agudio e poi dell'abate Soresi, che lo sosterrà nell'entrare al servizio del duca Gabrio Serbelloni come precettore del figlio Gian Galeazzo. L'incarico presso il giovane Serbelloni occuperà Parini fino al 1760, ma questi continuerà a risiedere a Palazzo Serbelloni, senza rivestire un ruolo particolare, soprattutto per il volere dell'autorevole padrona di casa, la duchessa Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni di Fiano.
Il servizio a casa Serbelloni durò, infatti, dal 1754 fino al 1762 e, pur non dandogli la sicurezza economica tanto desiderata, lo mise a contatto con persone di elevata condizione sociale e di idee aperte, a partire dalla duchessa Vittoria che leggeva Rousseau e Buffon, con padre Soresi che sosteneva con ardore le riforme in campo scolastico, col medico di casa, Giuseppe Cicognini - in seguito direttore della facoltà di medicina di Milano - che sosteneva il dovere morale di allargare le cure anche a coloro che per pregiudizio avevano mali considerati effetto di colpa.
Nel 1752, grazie alla modesta sicurezza economica dovuta alla rendita della prozia Annamaria Latuada, il giovane chierico pubblicò una prima raccolta di rime, Alcune poesie di Ripano Eupilino, sotto forma di novantaquattro componimenti di carattere sacro, profano, amoroso, pastorale e satirico, che risentono della sua prima formazione culturale e soprattutto dello spirito bernesco. Da questi versi semplici e non encomiastici, emerge l'immagine di un giovane ancora socialmente e intellettualmente isolato, che non conosce i dibattiti dell'ambiente lombardo ma che è ancora rivolto all'ambito dell'Accademia dell'Arcadia e del classicismo cinquecentesco. Sempre in questo periodo scrisse, per i Trasformati, una polemica letteraria contro i Pregiudizi delle umane lettere (1756) del padre Alessandro Bandiera con il titolo Due lettere intorno al libro intitolato "I pregiudizi delle umane lettere" e nel 1760 una nuova polemica letteraria contro i "Dialoghi della lingua toscana" del padre barnabita Onofrio Branda.
Intanto in casa Serbelloni il Parini osservava la vita della nobiltà in tutti i suoi aspetti ed ebbe così modo di assorbire e rielaborare alcune nuove idee che arrivavano dalla Francia di Voltaire, Montesquieu, Rousseau, Condillac e dell'Encyclopédie, che influenzarono gli scritti di questo periodo, al quale risalgono, tra gli altri, il Dialogo sopra la nobiltà (1757), le odi La vita rustica (che sarà pubblicata solamente nel 1790 nelle Rime degli arcadi con lo pseudonimo di Darisbo Elidonio), La salubrità dell'aria (1759), che affronta come la precedente l'opposizione città-campagna, ma con uno stile completamente nuovo, e La impostura (1761).
Palazzo Serbelloni, a Milano. Il soggiorno quasi decennale presso questa famiglia dell'aristocrazia permise al Parini di entrare in contatto diretto con le idee dei lumi e di poter osservare da vicino la vita degli aristocratici.
Secondo quanto riportato dalle fonti storiche, Parini fu iniziato nella Loggia massonica milanese "L'Oriente" nel 1759, all'età di circa 21 anni. Parini non fece mai segreto della sua appartenenza alla Massoneria, e anzi, nella sua opera letteraria più celebre, il poemetto "Il Giorno" pubblicato nel 1763, vi sono alcuni riferimenti simbolici alla Massoneria. Amico personale di Paola Litta, insieme alla classe riformatrice di Milano, frequentò il prestigioso salotto letterario collegato alla loggia "La Concordia", affiliata all'Oriente lombardo.
Nell'ottobre del 1762, per aver difeso la figlia del compositore e maestro di musica Giovanni Battista Sammartini che era stata schiaffeggiata dalla duchessa in uno scatto d'ira, fu licenziato. Abbandonata casa Serbelloni, venne presto accolto dagli Imbonati come precettore del giovane Carlo, al quale il poeta dedicherà, nel 1764, l'ode L'educazione.
Nel marzo del 1763, incoraggiato dagli amici del gruppo dell'Accademia e dal conte Firmian, pubblicò, anonimo, presso lo stampatore milanese Agnelli, Il Mattino (prima parte del poemetto chiamato Il Giorno), che fu accolto favorevolmente dalla critica e soprattutto dal Baretti che, nel primo numero della rivista La frusta letteraria, uscito il 1º ottobre 1763, dedicò una critica positiva all'opera. Nel 1765 uscì, ancora anonimo, il secondo poemetto, Il Mezzogiorno, che ottenne parimenti dai critici un giudizio positivo, tranne che da Pietro Verri su Il Caffè.
I due poemetti, con la satira della nobiltà decaduta e corrotta, richiamarono l'attenzione sul Parini e nel 1766 il ministro du Tillot lo chiamò per ricoprire la cattedra di eloquenza presso l'Università di Parma, cattedra che egli rifiutò nella speranza di poterne ottenere una a Milano. Nel 1768 la fama acquisita gli procurò la protezione del governo di Maria Teresa d'Austria, che era rappresentato in Lombardia dal conte Carlo Giuseppe di Firmian, il quale, intuendo le sue potenzialità poetiche, lo nominò nel 1768 poeta ufficiale del Regio Ducale Teatro e lo incaricò di adattare per la scena lirica la tragedia Alceste di Ranieri de' Calzabigi.
Nello stesso anno il conte gli affidò la direzione della «Gazzetta di Milano», organo ufficiale del governo austriaco, e nel 1769 la cattedra di eloquenza e belle arti presso le Scuole Palatine, cattedra che conservò fino al 1773, con il titolo di "Principi generali di belle lettere applicati alle belle arti", anche quando quelle scuole si trasformarono nel Regio Ginnasio di Brera.
Parini scrisse il testo delle opere teatrali l'Amorosa incostanza e l'Iside salvata, in occasione di due cerimonie di corte, e l'opera pastorale Ascanio in Alba per le nozze dell'arciduca Ferdinando d'Austria con Maria Beatrice d'Este, che verrà successivamente musicata da Mozart, catalogata come opera K 111 e rappresentata per la prima volta al Ducale di Milano il 17 ottobre 1771. Tradusse dal francese la tragedia Mithridate di Racine denominandola "Mitridate re del Ponto", che Mozart musicò - sulla base del libretto scritto da Vittorio Amedeo Cigna-Santi - ricavandone l'opera omonima K87, rappresentata per la prima (e forse unica) volta sempre a Milano il 26 dicembre 1770.
Nel 1771 tradusse, in collaborazione con alcuni "Accademici trasformati" tra cui il Verri, una parte del poemetto La Colombiade, pubblicato da Anne Marie Du Boccage. Nel 1774 fece parte di una commissione istituita per proporre un piano di riforma delle scuole inferiori e dei libri di testo e intanto si dedicò alla composizione de Il giorno e delle Odi. Nel 1776 gli venne concessa una pensione annua dal papa Pio VI e fu nominato ordinario della Società patriottica istituita da Maria Teresa per l'incremento dell'agricoltura.
Monumento a Giuseppe Parini a Milano.
La composizione delle Odi
«Va per negletta via
Ognor l'util cercando
La calda fantasïa,
Che sol felice è quando
L'utile unir può al vanto
Di lusinghevol canto.»
(Giuseppe Parini, Odi, La salubrità dell'aria)
Con il nome di Darisbo Elidonio entrò nel 1777 a far parte dell'Accademia dell'Arcadia, proseguendo intanto nella composizione delle odi:
La salubrità dell'aria,
L'educazione,
L'evirazione,
La vita rustica,
L'innesto del vaiuolo (dette "Odi illuministe"),
La laurea (1777),
Le nozze (1777),
Brindisi (1778),
La caduta,
In morte del maestro Sacchini,
Al consigliere barone De Marini (1783-1784),
Il pericolo (1787),
La magistratura (1788),
Il dono (1789).
Nel 1791 il Parini venne nominato Soprintendente delle Scuole pubbliche di Brera e scrisse l'ode La gratitudine. Nello stesso anno vennero pubblicate ventidue delle sue odi con il titolo Odi dell'abate Parini già divolgate. Le ultime due parti del "Giorno", il Vespro e la Notte, pur risultando promesse in una lettera al Goldoni, saranno invece pubblicate postume. Le "odi illuministe" sono tra le più originali, in quanto ricche di termini appartenenti al lessico specifico della scienza; talvolta riportano particolari anche scabrosi, con l'intento di educare i lettori su temi di scottante attualità, come l'inquinamento cittadino ("La salubrità dell'aria") o la prevenzione delle epidemie grazie ai progressi della scienza ("L'innesto del vaiuolo"). Per quanto siano argomenti tradizionalmente non poetabili, Parini, con un'abilità tutta settecentesca, riesce nell'intento di elevare gli argomenti più concreti a materia d'arte, cristallizzandoli in versi di inusitata accuratezza. In questo si riscontra l'influenza della poetica del sensismo.
Tra il 1793 e il 1796, ospite del suo amico marchese Febo D'Adda, scrisse altre odi (Il messaggio, Alla Musa, la Musica) e quando i francesi di Bonaparte occuparono Milano, seppure con riluttanza, entrò a far parte della Municipalità per tre mesi, rappresentando, insieme a Pietro Verri, la tendenza più moderata. Presto egli smise di partecipare alle assemblee della Municipalità e poco dopo venne destituito dalla carica.
Come appare nel frammento dell'ode A Delia, scritta tra il 1798 e il 1799, il poeta è avverso alla guerra e alla violenza e rifiuta la richiesta di una "ragguardevole donna" che voleva da lui un'esaltazione poetica delle vittorie francesi perché non poteva cantare "i tristi eroi" e "la terra lorda/ di gran sangue plebeo".
Il poeta si spense nella sua abitazione di Brera il 15 agosto 1799, a pochi mesi di distanza dall'entrata degli austro-russi a Milano, dopo aver dettato il famoso sonetto Predàro i Filistei l'arca di Dio, nel quale condannava duramente i francesi, ma allo stesso tempo, pur salutando il loro ritorno, lanciava un severo ammonimento anche agli austriaci.
«Predàro i Filistei l'arca di Dio;
tacquero i canti e l'arpe de' leviti,
e il sacerdote innanzi a Dagon rio
fu costretto a celar gli antiqui riti.
Al fin di terebinto in sul pendio
Davidde vinse; e stimolò gli arditi
e il popol sorse; e gli empi al suol natio
fe' dell'orgoglio loro andar pentiti.
Or Dio lodiamo. Il tabernacol santo
e l'arca è salva; e si dispone il tempio
che di Gerusalem fia gloria e vanto.
Ma splendan la giustizia e il retto esempio;
tal che Israel non torni a novo pianto,
a novella rapina, a novo scempio.»
(Giuseppe Parini, Predàro i filistei l'arca di Dio)
Venne sepolto a Milano nel cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina con funerali molto semplici come egli stesso aveva voluto nel suo testamento:
«Voglio, ordino e comando che le spese funebri mi siano fatte nel più semplice e mero necessario, ed all'uso che si costuma per il più infimo dei cittadini».
Nel carme Dei sepolcri, scritto nel 1806, Ugo Foscolo ricorda che il Parini ora giace ingiustamente senza tomba; le ossa del grande poeta si trovano nella desolata campagna, forse mescolate a quelle di un ladro che ha scontato i suoi crimini sul patibolo.
«[o bella Musa]
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando, ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d'evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l'ossa
col mozzo capo gl'insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
l'úpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerëa campagna
e l'immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblïate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d'umane
lodi onorato e d'amoroso pianto.»
Nel 1855 lo scrittore Ignazio Cantù, nel suo "Milano, nei tempi antico, di mezzo e moderno: Studiato nelle sue vie; passeggiate storiche" scrive:
Lapide tombale di Giuseppe Parini
Biblioteca di Brera
«Nel cimitero vicino (il cimitero della Mojazza) fra tante ossa ignorate dormono senza fasto di mausoleo le ceneri di Melchiorre Gioia, di Gianbattista De-Cristoforis, di Luigi Sabatelli, di Giacomo Albertolli, e d'altri uomini insigni ed ivi su d'una povera pietra leggi:
JOSEPH PARINI POETA
HIC QUIESCIT
INGENUA PROBITATE
EXQUISITO JUDICIO
POTENTI ELOQUIO CLARUS
LITERAS ET BONAS ARTES
PUBLICE DOCUIT AN. XXX
V AN LXX
PLENOS EXTIMATIONIS ET GRATIÆ
OB. AN. MDCCXCIX»
Si tratta dell'epitaffio (ancora oggi esistente) che era stato posto sulla tomba del Parini nel giorno delle esequie dall'amico Calimero Cattaneo, abate e professore di rettorica presso Brera, fra i pochi presenti ai funerali del poeta.
La satira
La satira di Parini è collegata alla storia dell'arte e a Orazio, li interpretò entrambi, nel caso di Orazio perché ne fece delle traduzioni, anzi, è stato scritto che, ad esempio, mentre il «Monti tradusse da tutti, Parini da uno solo, da Orazio; (...) Ma più che da tutti tradusse dai pittori, che era certo per lui (...) il miglior mezzo per trovar l'eccitamento al comporre, (...). Di qui il suo grande amore per Vasari (...). E tra le sue prose vi sono i Soggetti e appunti per le pitture decorative» e il Discorso sopra le caricature. In quest'ultima opera «la tradizione figurativa della caricatura e quella letteraria trovano il loro giusto punto di confluenza concorrendo a un risultato di indubbio interesse».
«Parini è come uomo, a cui sanguina il cuore e che fa il viso allegro.»
(Francesco De Sanctis, Giuseppe Parini, in «Nuova antologia», settembre 1871.[21])
Nella storia della critica si è assistito a una distinzione nell'opera del Parini tra i contenuti civili, politici e morali della sua letteratura (più legati agli ideali illuministici) e gli aspetti stilistici e poetici (più legati alla tradizione arcadica). Francesco de Sanctis insieme alla critica romantica esalta il primo aspetto in contrasto all'edonismo della letteratura barocca, indicando il Parini come
«il primo poeta della nuova letteratura che sia anche uomo, cioè che abbia dentro di sé un contenuto vivace e appassionato, religioso, politico e morale» e sentenziando: «in lui l'uomo valeva più che l'artista».
Al contrario, Giosuè Carducci si concentra sui valori artistici e poetici dell'opera del Parini, lodandolo come il prosecutore della tradizione letteraria dell'Arcadia.
Gli studi successivi hanno tuttavia evidenziato come questa apparente ambiguità dell'opera del Parini, da una parte intenta a perseguire valori civili in ossequio all'ideale illuminista, dall'altra attenta agli aspetti letterari della tradizione, sia conciliabile considerando il percorso letterario dell'autore, che dopo un primo slancio legato alla battaglia illuministica avrebbe maturato una posizione più moderata in direzione neoclassica, frutto in parte della delusione storica. Anche l'atteggiamento ambiguo nei confronti del mondo nobiliare, valutato da un lato in modo critico ma guardato con un certo compiacimento, mostrerebbe in realtà un segreto amore per quel mondo elegante e raffinato. È stato definito da Giacomo Leopardi il "Virgilio della moderna Italia".
Parini fu un esplicito ammiratore del fascino femminile, come dimostra l'ode 94. Nice (Contessa Maria di Casteklbarco) era una delle donne che egli, più o meno esplicitamente, amava.
"Che spettacol gentil, che vago oggetto
fu il veder la mia Nice all'improvviso
quando sorpresa in abito negletto
m'apparve innanzi ed arrossì nel viso!
Come il candido velo al sen ristretto
i bei membri avvolgea! Come indeciso
celava e non celava i fianchi e 'l petto
che sorger si vedeva in due diviso!
Quali forme apparian sotto alla veste!
Paga era l'alma e vivo era il desio
e il piacer di mirarla era celeste.
Deh! Mi concedi, Amor, che questa cruda
tal mi si mostri anco un momento, ed io
più non invidio chi vedralla ignuda."
Il pensiero del Parini si collega all'Illuminismo per alcuni aspetti:
- il principio di eguaglianza originaria degli uomini;
- gli ideali dell'umanitarismo e del solidarismo sociale;
- la critica verso la religiosità ipocrita;
- la condanna della guerra di religione e dei metodi dell'Inquisizione;
- la condanna della degenerazione della nobiltà;
- l'apprezzamento delle scoperte scientifiche.
Ma Parini rifiuta altri aspetti dell'Illuminismo:
- il materialismo e il libertinismo;
- l'ateismo e gli atteggiamenti antiecclesiastici;
- la considerazione della borghesia come classe sociale preminente in sostituzione dell'aristocrazia;
- le teorie anticlassiciste.
Opere poetiche
- Alcune poesie di Ripano Eupilino
- Dialogo sopra la nobiltà
- Il giorno
- Odi
Opere teatrali
- Amorosa incostanza
- Iside salvata
- Ascanio in Alba
IL GIORNO
Stile e significato dell'opera
L'impronta ironica del poema mira innanzitutto ad una critica nei confronti della nobiltà settecentesca italiana, ambiente che lo stesso Parini aveva frequentato come precettore di famiglie aristocratiche, e che quindi conosceva molto bene. Libertinismo, licenziosità, corruzione e oziosità sono solo alcuni dei vizi che l'autore denuncia nella sua opera, incarnati perfettamente da questa classe sociale che, a giudizio del poeta, aveva perso quel vigore necessario a farsi guida del popolo, come invece era stata in passato. Parini infatti non si pone come nemico della casta nobiliare (come al contrario molti pensatori del suo tempo erano), ma si fa portavoce di una teoria secondo la quale l'aristocrazia vada rieducata al suo originario compito di utilità sociale, compito che giustifica appieno tutti i diritti ed i privilegi di cui gode, e la ricchezza vada investita nel bene di tutti cittadini e non nei divertimenti e nello sfarzo. Da qui si può comprendere come la sua polemica antinobiliare fosse in linea con il programma riformatore di Maria Teresa d'Austria, che puntava ad un reinserimento dell'aristocrazia entro i ranghi produttivi della società.
A spiegare la critica pariniana, è emblematica la definizione del "giovin signore" data nel proemio del Vespro, colui "che da tutti servito a nullo serve" giocando sull'ambivalenza del verbo servire: questo può significare "essere servo di" ma anche "essere utile a". Partendo da questo punto, si può cogliere come il poeta abbia intenzionalmente costruito l'intera opera sul gioco dell'ambiguità: a una lettura superficiale (e quindi del "giovin signore" stesso) il componimento può apparire un'esaltazione ed un'adesione agli atteggiamenti della classe nobiliare, ma un approfondimento fa invece emergere tutta la forza dell'ironia volta ad una vera e propria critica, nonché denuncia sociale. L'antifrasi è evidente anche nel ruolo di "precettor d'amabil rito" che l'autore intende assumere, incaricandosi d'insegnare, attraverso Il Giorno, come riempire con momenti ed esperienze piacevoli la noia della giornata d'un giovin signore. Ad accentuare il senso di monotonia oppressiva è la collocazione della narrazione sempre in ambienti chiusi o ristretti, come chiusa è la mentalità dei personaggi che li popolano. Ciò fa sì che quest'opera rientri nel genere della poesia didascalica, molto diffusa nell'epoca classica e nell'Illuminismo.
Le varie favole inserite all'interno dell'opera hanno anch'esse uno scopo didascalico, ma non solo: infatti, oltre a spiegare l'origine di vari costumi sociali hanno la funzione di rendere meno monotona la narrazione. Una è la favola di Amore e Imene che spiega l'origine del cicisbeismo: i due figli di Venere litigano, e la dea per conciliarli affida a ognuno di loro metà della giornata delle nobildonne, con Imene che accompagna le donne nel letto nuziale, orripilate dal vedere il marito come una contadinella che trova un serpente nel prato dove riposa, e Amore negli impegni mondani con l’amante di giorno (riferimento quindi ai matrimoni senza amore e alla suddetta presenza del cavalier servente, che di base è considerata una forma legalizzata di adulterio). Forse più nota è la favola mitologica della cipria (Mattino, vv. 749-795). Qui si narra che i vecchi un giorno osarono contendere ai giovani il diritto di precedenza al trono di Amore. Questi, non volendo diseguaglianze nel suo regno, impose l'uso del belletto in volto e della cipria sui capelli, che resero tutti simili; solo il tatto poté cogliere le differenze dell'età. Anche nella Notte Amore è protagonista di un breve discorso immaginario in cui vuole che esistano i divani e le poltrone ampi per consentire agli amanti di stare insieme (v.276-285).
La favola del Piacere (Mezzogiorno, vv. 250-328) narra che il Piacere fu mandato dagli dei tra gli uomini per rendere più varia la vita e serve a spiegare in modo scherzoso le differenze tra nobili e plebei: i primi avendo subito avvertito la presenza della nuova divinità, impararono a riconoscere il "buono", il "meglio", a sentire il fascino della bellezza femminile, a preferire i vini raffinati all'acqua di fonte, mentre i secondi ne rimasero insensibili e continuarono a vivere spinti dal bisogno, legati alla fatica, all'abbrutimento, alla povertà.
Lo stile è senza dubbio di alto livello, tipico del poema epico antico e della lirica classica: i frequenti richiami classici e il tono solenne non sono da intendere solo nella loro funzione di supporto all'ironia ed alla finalità critica del componimento, ma anche come un gusto poetico estremamente colto, ricco e raffinato. La scelta stilistica del poeta di un linguaggio proprio dell'epica, di una grande attenzione ai particolari e di una minuziosità descrittiva, accompagna quindi quell'intento di ambiguità nei confronti della materia trattata: assumendo i personaggi dell'opera come veri e propri eroi del poema, mettendo su un piedistallo i loro vizi ed i loro modi di vivere, Parini riesce acutamente a sminuirli, provocando nel lettore sì un sorriso, ma un sorriso che sa di amaro. Si può tuttavia riscontrare nel poeta, oltre alla critica verso la nobiltà e la sua inutilità pratica, anche un senso di inconfessabile lussuria descrittiva nei confronti dello stile di vita e degli oggetti che fanno parte della sfera quotidiana del giovin signore.
La lentezza e la monotonia della vita ripetitiva di quest'ultimo è data infatti anche dal lungo soffermarsi della narrazione su tolette, specchi, monili e quant'altro di invidiabile Parini notava nella vita signorile. Grazie all'influenza della corrente sensista, quella pariniana non è semplice descrizione, ma pura evocazione e percezione della materia che stimola i sensi del poeta. Tale celata ammirazione si traduce in una polemica più pacata nella seconda parte dell'opera rispetto alle prime due sezioni. Se nel Mattino e nel Mezzogiorno gli attacchi sarcastici erano violenti e senza accenno di condono di qualsivoglia pecca, il Vespro e la Notte risentono dell'equilibrio stilistico e compositivo, nonché di tono, che si andava affermando alla fine del XVIII secolo grazie alla nascente sensibilità neoclassica.
Se consideriamo la prima parte de Il Mattino (vv. 33- 157) notiamo evidenziati il valore morale della laboriosità, la condanna del parassitismo e del lusso ozioso dei nobili, ma anche troviamo testimonianza dell'Illuminismo conservatore di Parini, influenzato dall'egualitarismo di Rousseau e dalla teoria economica dei fisiocratici, fondata sul lavoro agricolo più che sui commerci. Il poeta condanna con sarcasmo l'economia imprenditoriale che, per offrire nuovi generi di lusso (bevande esotiche e cibi deliziosi per i nobili), diviene occasione di ingiustizie sociali (le mille navi del colonialismo, v. 142) e di violenze al prezzo della libertà e della vita dei popoli (le atrocità commesse dai conquistadores Pizarro e Cortés, vv. 150-155).
In particolare poi il critico Attilio Momigliano evidenzia che il capolavoro delle canzonature pariniane, per la grandiosità e complessità di linee e sfumature, è il concilio dei numi (gli dei) nella sala della vecchia nobildonna. Si tratta di una scena che, per centinaia di versi, presenta una grande ricchezza di motivi caricaturali, descrittivi e sentimentali e si chiude con la scena del giuoco dei tarocchi e delle carte.
L'opera è dunque un poema didascalico-satirico, una satira di costume contro la nobiltà, ed esprime gli ideali della borghesia lombarda seguace dei princìpi dell'Illuminismo.
Alla Moda
Lungi da queste carte i cisposi occhi già da un secolo rintuzzati, lungi i fluidi nasi de’ malinconici vegliardi. Qui non si tratta di gravi ministerii nella patria esercitati, non di severe leggi, non di annoiante domestica economia, misero appannaggio della canuta età. A te, vezzosissima Dea, che con sí dolci redine oggi temperi e governi la nostra brillante gioventú, a te sola questo piccolo Libretto si dedica e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume oggimai non riverisca ed onori, poiché in sí breve tempo se’ giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso e l’Ordine seccaginoso, tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo tuo secolo avventurato? Piacciati dunque di accogliere sotto alla tua protezione, ché forse non n’è indegno, questo piccolo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari, ove le gentil Dame e gli amabili Garzoni sagrificano a sé medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti piú caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che tu di questi specialmente ora godi e ti compiaci. Esso non aspira all’immortalità, come altri libri, troppo lusingati da’ loro Autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti nell’oblio. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, cosí fie pago di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà di riguardare con placid’occhio questo Mattino, forse gli succederanno il Mezzogiorno e la Sera; e il loro Autore si studierà di comporli ed ornarli in modo, che non meno di questo abbiano ad esserti cari.
AUDIO
IL GIORNO - IL MATTINO
Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo celeste, o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori
E le adunate in terra o in mar ricchezze
Dal genitor frugale in pochi lustri,
Me Precettor d’amabil rito ascolta.
Come ingannar questi noiosi e lenti
Giorni di vita, cui sí lungo tedio
E fastidio insoffribile accompagna,
Or io t’insegnerò. Quali al Mattino,
Quai dopo il Mezzodí, quali la Sera
Esser debban tue cure apprenderai,
Se in mezzo a gli ozi tuo ozio ti resta
Pur di tender gli orecchi a’ versi miei.
Già l’are a Vener sacre e al giocatore
Mercurio ne le Gallie e in Albïone
Devotamente hai visitate, e porti
Pur anco i segni del tuo zelo impressi:
Ora è tempo di posa. In vano Marte
A sé t’invita; ché ben folle è quegli
Che a rischio de la vita onor si merca,
E tu naturalmente il sangue aborri.
Né i mesti de la dea Pallade studi
Ti son meno odïosi: avverso ad essi
Ti feron troppo i queruli ricinti
Ove l’arti migliori e le scïenze,
Cangiate in mostri e in vane orride larve,
Fan le capaci volte eccheggiar sempre
Di giovanili strida. Or primamente
Odi quali il Mattino a te soavi
Cure debba guidar con facil mano.
Sorge il Mattino in compagnia dell’Alba
Innanzi al Sol che di poi grande appare
Su l’estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel moglie e i minori
Suoi figlioletti intiepidîr la notte;
Poi sul collo recando i sacri arnesi
Che prima ritrovâr Cerere e Pale,
Va col bue lento innanzi al campo, e scuote
Lungo il picciol sentier da’ curvi rami
Il rudagioso umor che, quasi gemma,
I nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
Officina riapre, e all’opre torna
L’altro dí non perfette, o se di chiave
Ardua e ferrati ingegni all’inquïeto
Ricco l’arche assecura, o se d’argento
E d’oro incider vuol gioielli e vasi
Per ornamento a nova sposa o a mense.
Ma che? Tu inorridisci, e mostri in capo,
Qual istrice pungente, irti i capegli
Al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
Sol non sedesti a parca mensa, e al lume
Dell’incerto crepuscolo non gisti
Ieri a corcarti in male agiate piume,
Come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi, celeste prole, a voi, concilio
Di Semidei terreni, altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
Per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie e le canore scene
E il patetico gioco oltre piú assai
Producesti la notte; e stanco alfine
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote e il calpestio
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il queto aere notturno; e le tenébre
Con fiaccole superbe intorno apristi,
Siccome allor che il Siculo terreno
Da l’uno a l’altro mar rimbombar fèo
Pluto col carro, a cui splendeano innanzi
Le tede de le Furie anguicrinite.
Così tornasti a la magion; ma quivi
A novi studi ti attendea la mensa
Cui ricopríen pruriginosi cibi
E licor lieti di Francesi colli
O d’Ispani, o di Toschi, o l’Ongarese
Bottiglia a cui di verde edera Bacco
Concedette corona, e disse: Siedi
De le mense reina. Alfine il Sonno
Ti sprimacciò le morbide coltríci
Di propria mano, ove, te accolto, il fido
Servo calò le seriche cortine:
E a te soavemente i lumi chiuse
Il gallo che li suole aprire altrui.
Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi
Non sciolga da’ papaveri tenaci
Morfeo, prima che già grande il giorno
Tenti di penetrar fra gli spiragli
De le dorate imposte, e la parete
Pingano a stento in alcun lato i raggi
Del sol ch’eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
Denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
Sciorre il mio legno; e co’ precetti miei
Te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Già i valetti gentili udîr lo squillo
Del vicino metal, cui da lontano
Scosse tua man col propagato moto;
E accorser pronti a spalancar gli opposti
Schermi a la luce; e rigidi osservâro
Che con tua pena non osasse Febo
Entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e sí ti appoggia
Alli origlieri i quai, lenti gradando
All’omero ti fan molle sostegno.
Poi coll’indice destro, lieve lieve
Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
Quel che riman de la Cimmeria nebbia;
E de’ labbri formando un picciol arco,
Dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
Oh se te in sí gentile atto mirasse
Il duro Capitan qualor tra l’armi,
Sgangherando le labbra, innalza un grido
Lacerator di ben costrutti orecchi,
Onde a le squadre vari moti impone;
Se te mirasse allor, certo vergogna
Avría di sé piú che Minerva il giorno
Che, di flauto sonando, al fonte scorse
Il turpe aspetto de le guance enfiate.
Ma già il ben pettinato entrar di nuovo
Tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede
Quale oggi piú delle bevande usate
Sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
Indiche merci son tazze e bevande;
Scegli qual più desii. S’oggi ti giova
Porger dolci allo stomaco fomenti,
Sí che con legge il natural calore
V’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
Scegli il brun cioccolatte, onde tributo
Ti dà il Guatimalese e il Caribbèo
C’ha di barbare penne avvolto il crine:
Ma se noiosa ipocondria t’opprime,
O troppo intorno a le vezzose membra
Adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
La nettarea bevanda, ove abbronzato
Fuma et arde il legume a te d’Aleppo
Giunto, e da Moca, che di mille navi
Popolata mai sempre insuperbisce.
Certo fu d’uopo che dal prisco seggio
Uscisse un regno, e con ardite vele
Fra straniere procelle e novi mostri
E teme e rischi ed inumane fami
Superasse i confin, per lunga etade
Invïolati ancora; e ben fu dritto
Se Cortes e Pizzarro umano sangue
Non istimâr quel ch’oltre l’Oceàno
Scorrea le umane membra, onde tonando
E fulminando, alfin spietatamente
Balzaron giú da’ loro aviti troni
Re Messicani e generosi Incassi;
Poiché nuove cosí venner delizie,
O gemma degli eroi, al tuo palato!
Cessi ’l Cielo però, che in quel momento
Che la scelta bevanda a sorbir prendi,
Servo indiscreto a te improvviso annunzi
Il villano sartor che, non ben pago
D’aver teco diviso i ricchi drappi,
Oso sia ancor con pòlizza infinita
A te chieder mercede. Ahimè, che fatto
Quel salutar licore agro e indigesto
Tra le viscere tue, te allor farebbe
E in casa e fuori e nel teatro e al corso
Ruttar plebeiamente il giorno intero!
Ma non attenda già ch’altri lo annunzi,
Gradito ognor, benché improvviso, il dolce
Mastro che i piedi tuoi, come a lui pare,
Guida e corregge. Egli all’entrar si fermi
Ritto sul limitare: indi elevando
Ambe le spalle, qual testudo il collo
Contragga alquanto; e ad un medesmo tempo
Inchini ’l mento, e con l’estrema falda
Del piumato cappello il labbro tocchi.
Non meno di costui, facile al letto
Del mio Signor t’accosta, o tu che addestri
A modular con la flessibil voce
Teneri canti, e tu che mostri altrui
Come vibrar con maestrevol arco
Sul cavo legno armonïose fila.
Né la squisita a terminar corona
Dintorno al letto tuo, manchi, o Signore,
Il Precettor del tenero idioma
Che da la Senna, de le Grazie madre,
Or ora a sparger di celeste ambrosia
Venne all’Italia nauseata i labbri.
All’apparir di lui l’itale voci
Tronche cedano il campo al lor tiranno;
E a la nova ineffabile armonia
De’ sovrumani accenti, odio ti nasca
Piú grande in sen contro a le impure labbra
Ch’osan macchiarsi ancor di quel sermone
Onde in Valchiusa fu lodata e pianta
Già la bella Francese, et onde i campi
All’orecchio dei Re cantati fûro
«Lungo il fonte gentil de le bell’acque.»
Misere labbra che temprar non sanno
Con le Galliche grazie il sermon nostro,
Sí che men aspro a’ dilicati spirti,
E men barbaro suon fieda gli orecchi!
Or te questa, o Signor, leggiadra schiera
Trattenga al novo giorno; e di tue voglie
Irresolute ancora or l’uno or l’altro
Con piacevoli detti il vano occúpi,
Mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi
Dell’ardente bevanda a qual cantore
Nel vicin verno si darà la palma
Sopra le scene; e s’egli è il ver, che rieda
L’astuta Frine che ben cento folli
Milordi rimandò nudi al Tamigi;
O se il brillante danzator Narcisso
Tornerà pure ad agghiacciare i petti
De’ palpitanti Italici mariti.
Poiché cosí gran pezzo a’ primi albori
Del tuo mattin teco scherzato fia,
Non senz’aver licenzïato prima
L’ipocrita pudore, e quella schifa
Cui le accigliate gelide matrone
Chiaman modestia, alfine o a lor talento,
O da te congedati escan costoro.
Doman si potrà poscia, o forse l’altro
Giorno a’ precetti lor porgere orecchio,
Se meno ch’oggi a te cure dintorno
Porranno assedio. A voi, divina schiatta,
Vie piú che a noi mortali il ciel concesse
Domabile midollo entro al cerébro,
Sí che breve lavor basta a stamparvi
Novelle idee. In oltre a voi fu dato
Tal de’ sensi e de’ nervi e degli spirti
Moto e struttura, che ad un tempo mille
Penetrar puote, e concepir vostr’alma
Cose diverse, e non però turbarle
O confonder giammai, ma scevre e chiare
Ne’ loro alberghi ricovrarle in mente.
Il vulgo intanto, a cui non dessi il velo
Aprir de’ venerabili misteri,
Fie pago assai, poi che vedrà sovente
Ire e tornar dal tuo palagio i primi
D’arte maestri, e con aperte fauci
Stupefatto berrà le tue sentenze.
Ma già vegg’io che le ozïose lane
Soffrir non puoi piú lungamente, e in vano
Te l’ignavo tepor lusinga e molce,
Però che or te piú glorïosi affanni
Aspettan l’ore a trapassar del giorno.
Su dunque, o voi, del primo ordine servi
Che degli alti Signor ministri al fianco
Siete incontaminati, or dunque voi
Al mio divino Achille, al mio Rinaldo
L’armi apprestate. Ed ecco in un baleno
I tuoi valetti a’ cenni tuoi star pronti.
Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste
La serica zimarra ove disegno
Diramasi Chinese; altri, se il chiede
Piú la stagione, a te le membra copre
Di stese infino al piè tiepide pelli.
Questi al fianco ti adatta il bianco lino
Che sciorinato poi cada, e difenda
I calzonetti; e quei, d’alto curvando
Il cristallino rostro, in su le mani
Ti versa acque odorate, e da le mani
In limpido bacin sotto le accoglie.
Quale il sapon del redivivo muschio
Olezzante all’intorno, e qual ti porge
Il macinato di quell’arbor frutto,
Che a Ròdope fu già vaga donzella,
E chiama in van sotto mutate spoglie
Demofoonte ancor Demofoonte.
L’un di soavi essenze intrisa spugna
Onde tergere i denti, e l’altro appresta
Ad imbianchir le guance util licore.
Assai pensasti a te medesmo; or volgi
Le tue cure per poco ad altro obbietto
Non indegno di te. Sai che compagna
Con cui divider possa il lungo peso
Di quest’inerte vita il ciel destina
Al giovane Signore. Impallidisci?
No, non parlo di nozze: antiquo e vieto
Dottor sarei se cosí folle io dessi
A te consiglio. Di tant’alte doti
Tu non orni cosí lo spirto, e i membri,
Perché in mezzo a la tua nobil carriera
Sospender debbi ’l corso, e fuora uscendo
Di cotesto a ragion detto Bel Mondo,
In tra i severi di famiglia padri
Relegato ti giacci, a un nodo avvinto
Di giorno in giorno piú penoso, e fatto
Stallone ignobil de la razza umana.
D’altra parte il Marito ahi quanto spiace,
E lo stomaco move ai dilicati
Del vostr’Orbe leggiadro abitatori
Qualor de’ semplicetti avoli nostri
Portar osa in ridicolo trïonfo
La rimbambita Fe’, la Pudicizia,
Severi nomi! E qual non suole a forza
In que’ melati seni eccitar bile,
Quando i calcoli vili del castaldo
Le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi
Di que’ sí dolci suoi bambini altrui,
Gongolando ricorda; e non vergogna
Di mischiar cotai fole a peregrini
Subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti
Da volgar fren concetti onde s’avviva
Da’ begli spirti il vostro amabil Globo.
Pèra dunque chi a te nozze consiglia,
Ma non però senza compagna andrai,
Che fia giovane dama, e d’altrui sposa;
Poiché sí vuole invïolabil rito
Del Bel Mondo onde tu se’ cittadino.
Tempo già fu, che il pargoletto Amore
Dato era in guardia al suo fratello Imene;
Poiché la madre lor temea che il cieco
Incauto Nume perigliando gisse
Misero e solo per oblique vie,
E che, bersaglio agl’indiscreti colpi
Di senza guida e senza freno arciero,
Troppo immaturo alfin corresse il seme
Uman ch’è nato a dominar la terra.
Perciò la prole mal secura all’altra
In cura dato avea, sí lor dicendo:
«Ite, o figli, del par; tu piú possente
Il dardo scocca, e tu piú cauto il guida
A certa meta». Cosí ognor compagna
Iva la dolce coppia, e in un sol regno
E d’un nodo comun l’alme stringea.
Allora fu che il Sol mai sempre uniti
Vedea un pastore ed una pastorella
Starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;
E la Suora di lui vedeali poi
Uniti ancor nel talamo beato
Ch’ambo gli amici Numi a piene mani
Gareggiando spargean di gigli e rose.
Ma che non puote anco in divino petto,
Se mai s’accende ambizïon di regno?
Crebber l’ali ad Amore a poco a poco,
E la forza con esse; ed è la forza
Unica e sola del regnar maestra.
Perciò a poc’aere prima, indi piú ardito
A vie maggior fidossi, e fiero alfine
Entrò nell’alto, e il grande arco crollando,
E il capo, risonar fece a quel moto
Il duro acciar che la faretra a tergo
Gli empie, e gridò: Solo regnar vogl’io!
Disse, e volto a la madre: «Amore adunque,
Il piú possente infra gli Dei, il primo
Di Citerèa figliuol, ricever leggi,
E dal minor german ricever leggi,
Vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore
Non oserà fuor ch’una unica volta
Ferire un’alma, come questo schifo
Da me vorrebbe? E non potrò giammai,
Dappoi ch’io strinsi un laccio, anco slegarlo
A mio talento, e, qualor parmi, un altro
Stringerne ancora? E lascerò pur ch’egli
Di suoi unguenti impeci a me i miei dardi
Perché men velenosi e men crudeli
Scendano ai petti? Or via, perché non togli
A me dalle mie man quest’arco, e queste
Armi da le mie spalle, e ignudo lasci
Quasi rifiuto de gli Dei Cupido?
Oh il bel viver che fia qualor tu solo
Regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso!
Studiarti a tôrre da le languid’alme
La stanchezza e ’l fastidio, e spander gelo
Di foco in vece! Or, genitrice, intendi:
Vaglio, e vo’ regnar solo. A tuo piacere
Tra noi pàrti l’impero, ond’io con teco
Abbia omai pace, e in compagnia d’Imene
Me non trovin mai piú le umane genti».
Qui tacque Amore, e, minaccioso in atto,
Parve all’Idalia Dea chieder risposta.
Ella tenta placarlo, e pianti e preghi
Sparge ma in vano; onde a’ due figli volta
Con questo dir pose al contender fine:
«Poiché nulla tra voi pace esser puote,
Si dividano i regni. E perché l’uno
Sia dall’altro germano ognor disgiunto,
Sieno tra voi diversi e ’l tempo e l’opra.
Tu che di strali altero a fren non cedi,
L’alme ferisci, e tutto il giorno impera:
E tu che di fior placidi hai corona
Le salme accoppia e coll’ardente face
Regna la notte». Ora di qui, Signore,
Venne il rito gentil che a’ freddi sposi
Le tenebre concede, e de le spose
Le caste membra; e a voi beata gente
Di piú nobile mondo il cor di queste,
E il dominio del dí, largo destina.
Fors’anco un dí piú liberal confine
Vostri diritti avran, se Amor piú forte
Qualche provincia al suo germano usurpa:
Cosí giova sperar. Tu volgi intanto
A’ miei versi l’orecchio, et odi or quale
Cura al mattin tu debbi aver di lei
Che, spontanea o pregata, a te donossi
Per tua Dama quel dí lieto che a fida
Carta, non senza testimoni, fûro
A vicenda commessi i patti santi,
E le condizïon del caro nodo.
Già la Dama gentil, de’ cui bei lacci
Godi avvinto sembrar, le chiare luci
Col novo giorno aperse; e suo primiero
Pensier fu dove teco abbia piuttosto
A vegliar questa sera, e consultonne
Contegnosa lo sposo il qual pur dianzi
Fu la mano a baciarle in stanza ammesso.
Or dunque è tempo che il piú fido servo
E il piú accorto tra i tuoi mandi al palagio
Di lei, chiedendo se tranquilli sonni
Dormío la notte, e se d’imagin liete
Le fu Morfeo cortese. È ver che ieri
Sera tu l’ammirasti in viso tinta
Di freschissime rose; e piú che mai
Vivace e lieta uscío teco del cocchio,
E la vigile tua mano per vezzo
Ricusò sorridendo allor che l’ampie
Scale salí del maritale albergo:
Ma ciò non basti ad acquetarti, e mai
Non oblïar sí giusti ufici. Ahi quanti
Geni malvagi tra ’l notturno orrore
Godono uscire, ed empier di perigli
La placida quïete de’ mortali!
Potría, tolgalo il cielo, il picciol cane
Con latrati improvvisi i cari sogni
Troncare a la tua Dama; ond’ella, scossa
Da subito capriccio, a rannicchiarsi
Astretta fosse, di sudor gelato
E la fronte bagnando e il guancial molle.
Anco potría colui che sí de’ tristi
Come de’ lieti sogni è genitore,
Crearle in mente di diverse idee
In un congiunte orribile chimera;
Onde agitata in ansïoso affanno
Gridar tentasse, e non però potesse
Aprire ai gridi tra le fauci il varco.
Sovente ancor ne la trascorsa sera
La perduta tra ’l gioco aurea moneta,
Non men che al Cavalier, suole a la Dama
Lunga vigilia cagionar: talora
Nobile invidia de la bella amica
Vagheggiata da molti, e talor breve
Gelosia n’è cagione. A questo aggiugni
Gl’importuni mariti, i quali in mente
Ravvolgendosi ancor le viete usanze,
Poi che cessero ad altri il giorno, quasi
Abbian fatto gran cosa, aman d’Imene
Con superstizïon serbare i dritti,
E dell’ombre notturne esser tiranni,
Non senza affanno de le caste spose
Ch’indi preveggon tra pochi anni il fiore
De la fresca beltade a sé rapirsi.
Or dunque ammaestrato a quali e quanti
Miseri casi espor soglia il notturno
Orror le Dame, tu non esser lento,
Signore, a chieder de la tua novelle.
Mentre che il fido messaggier si attende,
Magnanimo Signor, tu non starai
Ozïoso però. Nel dolce campo
Pur in questo momento il buon cultore
Suda, e incallisce al vomere la mano,
Lieto che i suoi sudor ti fruttin poi
Dorati cocchi, e peregrine mense.
Ora per te l’industre artier sta fiso
Allo scalpello, all’asce, al subbio, all’ago;
Ed ora a tuo favor contende o veglia
Il ministro di Temi. Ecco te pure,
Te la toilette attende: ivi i bei pregi
De la natura accrescerai con l’arte,
Ond’oggi uscendo, del beante aspetto
Beneficar potrai le genti, e grato
Ricompensar di sue fatiche il mondo.
Ma già tre volte e quattro il mio Signore
Velocemente il gabinetto scórse
Col crin disciolto e su gli omeri sparso,
Quale a Cuma solea l’orribil maga
Quando agitata dal possente Nume
Vaticinar s’udía. Cosí dal capo
Evaporar lasciò de gli oli sparsi
Il nocivo fermento, e de le polvi
Che roder gli potríen la molle cute,
O d’atroce emicrania a lui le tempie
Trafigger anco. Or egli avvolto in lino
Candido siede. Avanti a lui lo specchio
Altero sembra di raccôr nel seno
L’imagin diva: e stassi agli occhi suoi
Severo esplorator de la tua mano
O di bel crin volubile Architetto.
Mille d’intorno a lui volano odori
Che a le varie manteche ama rapire
L’auretta dolce, intorno ai vasi ugnendo
Le leggerissim’ale di farfalla.
Tu chiedi in prima a lui qual piú gli aggrada
Sparger sul crin, se il gelsomino, o il biondo
Fior d’arancio piuttosto, o la giunchiglia,
O l’ambra prezïosa agli avi nostri.
Ma se la Sposa altrui, cara al Signore,
Del talamo nuzial si duole, e scosse
Pur or da lungo peso il molle lombo,
Ah fuggi allor tutti gli odori, ah fuggi!
Ché micidial potresti a un sol momento
Tre vite insidïar: semplici sieno
I tuoi balsami allor, né oprarli ardisci
Pria che su lor deciso abbian le nari
Del mio Signore, e tuo. Pon mano poscia
Al pettin liscio, e coll’ottuso dente
Lieve solca i capegli; indi li turba
Col pettine e scompiglia: ordin leggiadro
Abbiano alfin da la tua mente industre.
Io breve a te parlai; ma non pertanto
Lunga fia l’opra tua; né al termin giunta
Prima sarà, che da piú strani eventi
Turbisi e tronchi a la tua impresa il filo.
Fisa i lumi allo speglio, e vedrai quivi
Non di rado il Signor morder le labbra
Impazïente, ed arrossir nel viso.
Sovente ancor, se artificiosa meno
Fia la tua destra, del convulso piede
Udrai lo scalpitar breve e frequente,
Non senza un tronco articolar di voce
Che condanni e minacci. Anco t’aspetta
Veder talvolta il mio Signor gentile
Furïando agitarsi, e destra e manca
Porsi nel crine; e scompigliar con l’ugna
Lo studio di molt’ore in un momento.
Che piú? Se per tuo male un dí vaghezza
D’accordar ti prendesse al suo sembiante
L’edificio del capo, ed oblïassi
Di prender legge da colui che giunse
Pur ier di Francia, ahi quale atroce folgore,
Meschino! allor ti pendería sul capo?
Ché il tuo Signor vedresti ergers’in piedi;
E versando per gli occhi ira e dispetto,
Mille strazi imprecarti; e scender fino
Ad usurpar le infami voci al vulgo
Per farti onta maggiore; e di bastone
Il tergo minacciarti; e vïolento
Rovesciare ogni cosa, al suol spargendo
Rotti cristalli e calamistri e vasi
E pettini ad un tempo. In cotal guisa,
Se del Tonante all’ara o de la Dea,
Che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo,
Tauro spezzava i raddoppiati nodi
E libero fuggía, vedeansi al suolo
Vibrar tripodi, tazze, bende, scuri,
Litui, coltelli, e d’orridi muggiti
Commosse rimbombar le arcate volte,
E d’ogni lato astanti e sacerdoti
Pallidi all’urto e all’impeto involarsi
Del feroce animal che pria sí queto
Gía di fior cinto, e sotto a la man sacra
Umilïava le dorate corna.
Tu non pertanto coraggioso e forte
Soffri, e ti serba a la miglior fortuna.
Quasi foco di paglia è il foco d’ira
In nobil cor. Tosto il Signor vedrai
Mansuefatto a te chieder perdono,
E sollevarti oltr’ogni altro mortale
Con preghi e scuse a niun altro concesse;
Onde securo sacerdote allora
L’immolerai qual vittima a Filauzio,
Sommo Nume de’ Grandi, e pria d’ognaltro
Larga otterrai del tuo lavor mercede.
Or, Signore, a te riedo. Ah non sia colpa
Dinanzi a te s’io travviai col verso
Breve parlando ad un mortal cui degni
Tu degli arcani tuoi. Sai che a sua voglia
Questi ogni dí volge e governa i capi
De’ piú felici spirti; e le matrone,
Che da’ sublimi cocchi alto disdegnano
Volgere il guardo a la pedestre turba,
Non disdegnan sovente entrar con lui
In festevoli motti allor ch’esposti
A la sua man sono i ridenti avori
Del bel collo e del crin l’aureo volume.
Perciò accogli, ti prego, i versi miei
Tuttor benigno: et odi or come possi
L’ore a te render grazïose mentre
Dal pettin creator tua chioma acquista
Leggiadra o almen non piú veduta forma.
Picciol libro elegante a te dinanzi
Tra gli arnesi vedrai che l’arte aduna
Per disputare a la natura il vanto
Del renderti sí caro agli occhi altrui.
Ei ti lusingherà forse con liscia
Purpurea pelle onde fornito avrallo
O Mauritano conciatore o Siro;
E d’oro fregi dilicati e vago
Mutabile color che il collo imíti
De la colomba v’avrà posto intorno
Squisito legator Batavo o Franco.
Ora il libro gentil con lenta mano
Togli; e non senza sbadigliare un poco
Aprilo a caso, o pur là dove il parta
Tra una pagina e l’altra indice nastro.
O de la Francia Proteo multiforme,
Voltaire troppo biasmato, e troppo a torto
Lodato ancor, che sai con novi modi
Imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo
Ai semplici palati, e se’ maestro
Di coloro che mostran di sapere;
Tu appresta al mio Signor leggiadri studi
Con quella tua Fanciulla agli Angli infesta,
Che il grande Enrico tuo vince d’assai,
L’Enrico tuo che non peranco abbatte
L’Italïan Goffredo, ardito scoglio
Contro a la Senna d’ogni vanto altera.
Tu de la Francia onor, tu in mille scritti
Celebrata Ninon, novella Aspasia,
Taide novella, ai facili sapienti
De la Gallica Atene, i tuoi precetti
Pur dona al mio Signore: e a lui non meno
Pasci la nobil mente, o tu ch’a Italia,
Poi che rapîrle i tuoi l’oro e le gemme,
Invidïasti il fedo loto ancora
Onde macchiato è il Certaldese, e l’altro
Per cui va sí famoso il pazzo Conte.
Questi, o Signore, i tuoi studiati autori
Fíeno e mill’altri che guidâro in Francia
A novellar con le vezzose schiave
I bendati Sultani, i regi Persi,
E le peregrinanti Arabe dame;
O che con penna liberale ai cani
Ragion donâro e ai barbari sedili,
E diêr feste e conviti e liete scene
Ai polli ed a le gru d’amor maestre.
Oh pascol degno d’anima sublime!
Oh chiara oh nobil mente! A te ben dritto
È che si curvi riverente il vulgo,
E gli oracoli attenda. Or chi fia dunque
Sí temerario che in suo cor ti beffi
Qualor partendo da sí begli studi
Del tuo paese l’ignoranza accusi,
E tenti aprir col tuo felice raggio
La Gotica caligine che annosa
Siede su gli occhi a le misere genti?
Cosí non mai ti venga estranea cura
Questi a troncar sí prezïosi istanti,
In cui non meno de la docil chioma
Coltivi ed orni il penetrante ingegno.
Non pertanto avverrà, che tu sospenda
Quindi a pochi momenti i cari studi,
E che ad altro ti volga. A te quest’ora
Condurrà il merciaiuol che in patria or torna
Pronto inventor di lusinghiere fole,
E liberal di forestieri nomi
A merci che non mai varcâro i monti.
Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi ch’osi
Unqua mentire ad un tuo pari in faccia?
Ei fia che venda, se a te piace, o cambi
Mille fregi e giojelli a cui la moda
Di viver concedette un giorno intero
Tra le folte d’inezie illustri tasche.
Poi lieto se n’andrà con l’una mano
Pesante di molt’oro; e in cor gioiendo,
Spregerà le bestemmie imprecatrici,
E il gittato lavoro, e i vani passi
Del calzolar diserto e del drappiere;
E dirà lor: «Ben degna pena avete,
O troppo ancor religïosi servi
De la necessitade! antiqua è vero
Madre e donna dell’arti, or nondimeno
Fatta cenciosa e vile. Al suo possente
Amabil vincitor v’era assai meglio,
O miseri, ubbidire. Il Lusso, il Lusso
Oggi sol puote dal ferace corno
Versar su l’arti a lui vassalle applausi
E non contesi mai premi e dovizie».
L’ora fia questa ancor che a te conduca
Il dilicato miniator di belle,
Ch’è de la Corte d’Amatunta e Pafo
Stipendiato ministro atto a gli affari
Sollecitar dell’amorosa Dea.
Impazïente or tu l’affretta e sprona
Perché a te porga il desïato avorio
Che de le amate forme impresso ride,
O che il pennel cortese ivi dispieghi
L’alme sembianze del tuo viso, ond’abbia
Tacito pasco, allor che te non vede
La pudica d’altrui sposa a te cara;
O che di lei medesma al vivo esprima
L’imagin vaga; o se ti piace, ancora
D’altra fiamma furtiva a te presenti
Con piú largo confin le amiche membra.
Ma poi che al fine a le tue luci esposto
Fia il ritratto gentil, tu cauto osserva
Se bene il simulato al ver risponda,
Vie piú rigido assai se il tuo sembiante
Esprimer denno i colorati punti
Che l’arte ivi dispose. Oh quante mende
Scorger tu vi saprai! Or brune troppo
A te parran le guance; or fia ch’ecceda
Mal frenata la bocca; or qual conviensi
Al camuso Etiòpe il naso fia.
Ti giovi ancora d’accusar sovente
Il dipintor che non atteggi industre
L’agili membra e il dignitoso busto,
O che con poca legge a la tua imago
Dia contorno o la posi o la panneggi.
È ver, che tu del grande di Crotone
Non conosci la scuola, e mai tua mano
Non abbassossi a la volgar matita
Che fu nell’altra età cara a’ tuoi pari
Cui sconosciute ancora eran piú dolci
E piú nobili cure a te serbate.
Ma che non puote quel d’ogni precetto
Gusto trionfator che all’ordin vostro
In vece di maestro il Ciel concesse,
Et onde a voi coniò le altere menti
Acciò che possan de’ volgari ingegni
Oltre passar la paludosa nebbia,
E d’aere piú puro abitatrici
Non fallibili scêrre il vero e il bello?
Perciò qual piú ti par loda, riprendi,
Non men fermo d’allor che a scranna siedi
Rafael giudicando o l’altro eguale
Che del gran nome suo l’Adige onora,
E a le tavole ignote i noti nomi
Grave comparti di color che primi
Fûr tra’ Pittori. Ah s’altri è sí procace
Ch’osi rider di te, costui paventi
L’augusta maestà del tuo cospetto,
Si volga a la parete; e mentre cerca
Por freno in van col morder de le labbra
Allo scrosciar de le importune risa
Che scoppian da’ precordi, vïolenta
Convulsïone a lui deformi il volto,
E lo affoghi aspra tosse; e lo punisca
Di sua temerità! Ma tu non pensa
Ch’altri ardisca di te rider giammai;
E mai sempre imperterrito decidi.
Or l’immagin compiuta intanto serba
Perché in nobile arnese un dí si chiuda
Con opposto cristallo, ove tu facci
Sovente paragon di tua beltade
Con la beltà de la tua Dama, o agli occhi
Degl’invidi la tolga, e in sen l’asconda
Sagace tabacchiera, o a te riluca
Sul minor dito fra le gemme e l’oro;
O de le grazie del tuo viso desti
Soavi rimembranze al braccio avvolta
De la pudica altrui Sposa a te cara.
Ma giunta è al fin del dotto pettin l’opra.
Già il maestro elegante intorno spande
Da la man scossa un polveroso nembo
Onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.
D’orribil piato risonar s’udío
Già la corte d’Amore. I tardi vegli
Grinzuti osâr coi giovani nipoti
Contendere di grado in faccia al soglio
Del comune Signor. Rise la fresca
Gioventude animosa, e d’agri motti
Libera punse la senil baldanza.
Gran tumulto nascea; se non che Amore,
Ch’ogni diseguaglianza odia in sua corte,
A spegner mosse i perigliosi sdegni:
E a quei che militando incanutîro
Suoi servi impose d’imitar con arte
I duo bei fior che in giovenile gota
Educa e nutre di sua man natura:
Indi fe’ cenno, e in un balen fûr visti
Mille alati ministri alto volando
Scoter le piume, e lieve indi fiocconne
Candida polve che a posar poi venne
Su le giovani chiome; e in bianco volse
Il biondo, il nero, e l’odïato rosso.
L’occhio cosí nell’amorosa reggia
Piú non distinse le due opposte etadi,
E solo vi restò giudice il Tatto.
Or tu adunque, o Signor, tu che se’ il primo
Fregio ed onor dell’amoroso regno,
I sacri usi ne serba. Ecco che sparsa
Pria da provvida man la bianca polve
In piccolo stanzin con l’aere pugna,
E degli atomi suoi tutto riempie
Egualmente divisa. Or ti fa’ core
E in seno a quella vorticosa nebbia
Animoso ti avventa. Oh bravo! oh forte!
Tale il grand’Avo tuo tra ’l fumo e ’l foco
Orribile di Marte, furïando
Gittossi allor che i palpitanti Lari
De la Patria difese, e ruppe e in fuga
Mise l’oste feroce. Ei non pertanto
Fuliginoso il volto, d’atro sangue
Asperso e di sudore, e co’ capegli
Stracciati ed irti, da la mischia uscío
Spettacol fero a’ cittadini istessi
Per sua man salvi; ove tu assai piú dolce
E leggiadro a vedersi, in bianca spoglia
Uscirai quindi a poco a bear gli occhi
De la cara tua Patria, a cui dell’Avo
Il forte braccio, e il viso almo celeste
Del Nipote dovean portar salute.
Ella ti attende impazïente, e mille
Anni le sembra il tuo tardar poc’ore.
È tempo omai che i tuoi valetti al dorso
Con lieve man ti adattino le vesti
Cui la moda e ’l buon gusto in su la Senna
T’abbian tessute a gara, e qui cucite
Abbia ricco sartor che in su lo scudo
Mostri intrecciato a forbici eleganti
Il titol di Monsieur. Non sol dia leggi
A la materia la stagion diverse;
Ma sien qual si conviene al giorno e all’ora
Sempre vari il lavoro e la ricchezza.
Fero Genio di Marte, a guardar posto
De la stirpe de’ Numi il caro fianco,
Tu al mio giovane Eroe la spada or cingi,
Lieve e corta non già, ma, qual richiede
La stagion bellicosa, al suol cadente,
E di triplice taglio armata e d’elsa
Immane. Quanto esser può mai sublime
L’annoda pure, onde l’impugni all’uopo
La furibonda destra in un momento:
Nè disdegnar con le sanguigne dita
Di ripulire et ordinar quel nodo
Onde l’elsa è superba; industre studio
È di candida mano; al mio Signore
Dianzi, donollo, e gliel appese al brando,
La pudica d’altrui Sposa a lui cara.
Tal del famoso Artú vide la corte
Le infiammate d’amor donzelle ardite
Ornar di piume e di purpuree fasce
I fatati guerrieri, onde piú ardenti
Gisser poi questi ad incontrar periglio
In selve orrende tra i giganti e i mostri.
Figlie de la Memoria inclite Suore,
Che invocate scendeste, e i feri nomi
De le squadre diverse e de gli Eroi
Annoveraste ai grandi che cantâro
Achille, Enea, e il non minor Buglione,
Or m’è d’uopo di voi: tropp’ardua impresa,
E insuperabil senza vostr’aíta
Fia ricordare al mio Signor di quanti
Leggiadri arnesi graverà sue vesti
Pria che di se medesmo esca a far pompa.
Ma qual tra tanti e sí leggiadri arnesi
Sí felice sarà che pria d’ogn’altro,
Signor, venga a formar tua nobil soma?
Tutti importan del par. Veggo l’Astuccio
Di pelle rilucente ornato e d’oro
Sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero
Occupar di sua mole: esso a mill’uopi
Opportuno si vanta, e in grembo a lui
Atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all’ugne
Vien forbita famiglia. A lui contende
I primi onori d’odorifer’onda
Colmo Cristal che a la tua vita in forse
Rechi soccorso allor che il vulgo ardisce
Troppo accosto vibrar da la vil salma
Fastidïosi effluvi a le tue nari.
Né men pronto di quello all’uopo istesso
L’imitante un cuscin purpureo Drappo
Mostra turgido il sen d’erbe odorate
Che l’aprica montagna in tuo favore
Al possente meriggio educa e scalda.
Seco vien pur di cristallina rupe
Prezïoso Vasello onde traluce
Non volgare confetto ove agli aromi
Stimolanti s’unío l’ambra o la terra
Che il Giappon manda a profumar de’ Grandi
L’etereo fiato; o quel che il Caramano
Fa gemer latte dall’inciso capo
De’ papaveri suoi, perché qualora
Non ben felice amor l’alma t’attrista,
Lene serpendo per le membra, acqueti
A te gli spirti, e ne la mente induca
Lieta stupidità che mille aduni
Imagin dolci e al tuo desio conformi.
A questi arnesi il Cannocchiale aggiugni,
E la guernita d’oro anglica Lente.
Quel notturno favor ti presti allora
Che in teatro t’assidi, e t’avvicini
Gli snelli piedi e le canore labbra
Da la scena rimota, o con maligno
Occhio ricerchi di qualch’altra loggia
Le abitate tenèbre, o miri altrove
Gli ognor nascenti e moribondi amori
De le tenere Dame, onde s’appresti
Per l’eloquenza tua nel dí vicino
Lunga e grave materia. A te la Lente
Nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi
Economa presieda, e sí li parta,
Che il mirato da te vada superbo,
Né i malvisti accusarti osin giammai.
La Lente ancora all’occhio tuo vicina
Irrefragabil giudice condanni
O approvi di Palladio i muri e gli archi
O di Tizian le tele: essa a le vesti,
Ai libri, ai volti feminili applauda
Severa o li dispregi. E chi del senso
Comun sí privo fia che opporsi unquanco
Osi al sentenzïar de la tua Lente?
Non per questi però sdegna, o Signore,
Giunto a lo specchio in gallico sermone
Il vezzoso Giornal; non le notate
Eburnee Tavolette a guardar preste
Tuoi sublimi pensier fin ch’abbian luce
Doman tra i begli spirti; e non isdegna
La picciola Guaína ove a’ tuoi cenni
Mille stan pronti ognora argentei spilli.
Oh quante volte a cavalier sagace
Ho vedut’io le man render beate
Uno apprestato a tempo unico spillo!
Ma dove, ahi dove inonorato e solo
Lasci ’l coltello a cui l’oro e l’acciaro
Donâr gemina lama, e a cui la madre
De la gemma piú bella d’Anfitrite
Diè manico elegante ove il colore
Con dolce varïar l’iride imíta?
Opra sol fia di lui se ne’ superbi
Convivi ognaltro avanzerai per fama
D’esimio Trinciatore, e se l’invidia
De’ tuoi gran pari ecciterai qualora,
Pollo o fagian con la forcina in alto
Sospeso, a un colpo il priverai dell’anca
Mirabilmente. Or ti ricolmi alfine
D’ambo i lati la giubba, ed oleosa
Spagna e Rapé, cui semplice Origuela
Chiuda, o a molti colori oro dipinto;
E cupide ad ornar tue bianche dita
Salgan le anella in fra le quali assai
Piú caro a te dell’adamante istesso
Cerchietto inciso d’amorosi motti
Stríngati alquanto, e sovvenir ti faccia
De la pudica altrui Sposa a te cara.
Compiuto è il gran lavoro. Odi, o Signore,
Sonar già intorno la ferrata zampa
De’ superbi corsier che irrequïeti
Ne’ grand’atrii sospigne, arretra e volge
La disciplina dell’ardito auriga.
Sorgi, e t’appresta a render baldi e lieti
Del tuo nobile incarco i bruti ancora.
Ma a possente Signor scender non lice
Da le stanze superne infin che al gelo,
O al meriggio non abbia il cocchier stanco
Durato un pezzo, onde l’uom servo intenda
Per quanto immensa via natura il parta
Dal suo Signore. I miei precetti intanto
Io seguirò; ché varie al tuo mattino
Portar dee cure il varïar dei giorni.
Tal dí ti aspetta d’eloquenti fogli
Serie a vergar che al Rodano, al Lemano
All’Amstel, al Tirreno, all’Adria legga
Il libraio che Momo e Citerea
Colmâr di beni, o il piú di lui possente
Appaltator di forestiere scene
Con cui, per opra tua, facil donzella
Sua virtú merchi, e non sperato ottenga
Guiderdone al suo canto. O di grand’alma
Primo fregio ed onor, Beneficenza,
Che al merto porgi ed a virtú la mano!
Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi
Ed al concilio de gli Dei lo aggiugni.
Tal giorno ancora, o d’ogni giorno forse
Dên qualch’ore serbarsi al molle ferro
Che il pelo a te rigermogliante a pena
D’in su la guancia miete, e par che invidi
Ch’altri fuor che lui solo esplori o scopra
Unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorno
Che di lavacro universal convienti
Bagnar le membra, per tua propria mano,
O per altrui, con odorose spugne
Trascorrendo la cute. È ver che allora
D’esser mortal ti sembrerà; ma innalza
Tu allor la mente, e de’ grand’avi tuoi
Le imprese ti rimembra e gli ozi illustri
Che infino a te per secoli cotanti
Misti scesero al chiaro altero sangue,
E l’ubbioso pensier vedrai fuggirsi
Lunge da te per l’aere rapito
Su l’ale de la Gloria alto volanti;
Et indi a poco sorgerai qual prima
Gran Semidèo che a sé solo somiglia.
Fama è cosí, che il dí quinto le Fate
Loro salma immortal vedean coprirsi
Già d’orribili scaglie, e in feda serpe
Volta strisciar sul suolo a sé facendo
De le inarcate spire impeto e forza;
Ma il primo sol le rivedea piú belle
Far beati gli amanti, e a un volger d’occhi
Mescere a voglia lor la terra e il mare.
Fia d’uopo ancor, che da le lunghe cure
T’allevii alquanto, e con pietosa mano
Il teso per gran tempo arco rallenti.
Signore, al ciel non è piú cara cosa
Di tua salute: e troppo a noi mortali
È il viver de’ tuoi pari util tesoro.
Tu adunque allor che placida mattina
Vestita riderà d’un bel sereno,
Esci pedestre, e le abbattute membra
All’aura salutar snoda e rinfranca.
Di nobil cuoio a te la gamba calzi
Purpureo stivaletto, onde il tuo piede
Non macchino giammai la polve e ’l limo
Che l’uom calpesta. A te s’avvolga intorno
Leggiadra veste che sul dorso sciolta
Vada ondeggiando, e tue formose braccia
Leghi in manica angusta a cui vermiglio
O cilestro velluto orni gli estremi.
Del bel color che l’elitropio tigne
Sottilissima benda indi ti fasci
La snella gola: e il crin... Ma il crin, Signore,
Forma non abbia ancor da la man dotta
Dell’artefice suo; ché troppo fôra,
Ahi! troppo grave error lasciar tant’opra
De le licenzïose aure in balía.
Non senz’arte però vada negletto
Su gli omeri a cader; ma, o che natura
A te il nodrisca, o che da ignota fronte
Il piú famoso parrucchier lo tolga
E l’adatti al tuo capo, in sul tuo capo
Ripiegato l’afferri e lo sospenda
Con testugginei denti il pettin curvo.
Poi che in tal guisa te medesmo ornato
Con artificio negligente avrai,
Esci pedestre a respirar talvolta
L’aëre mattutino; e ad alta canna
Appoggiando la man, quasi baleno
Le vie trascorri, e premi ed urta il volgo
Che s’oppone al tuo corso. In altra guisa
Fôra colpa l’uscir, però che andrièno
Mal distinti dal vulgo i primi eroi.
Ciò ti basti per or. Già l’orïolo
A girtene ti affretta. Ohimé che vago
Arsenal minutissimo di cose
Ciondola quindi, e ripercosso insieme
Molce con soavissimo tintinno!
Di costí che non pende? avvi per fino
Piccioli cocchi e piccioli destrieri
Finti in oro cosí, che sembran vivi.
Ma v’hai tu il meglio? ah sì, che i miei precetti
Sagace prevenisti: ecco che splende
Chiuso in picciol cristallo il dolce pegno
Di fortunato amor. Lunge, o profani,
Ché a voi tant’oltre penetrar non lice.
E voi, dell’altro secolo feroci
Ed ispid’avi, i vostri almi nipoti
Venite oggi a mirar. Co’ sanguinosi
Pugnali a lato le campestri rôcche
Voi godeste abitar, truci all’aspetto,
E per gran baffi rigidi la guancia
Consultando gli sgherri, e sol gioiendo
Di trattar l’arme che d’orribil palla
Givan notturne a traforar le porte
Del non meno di voi rivale armato.
Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno
Ad agitar tra le tranquille dita
Dell’orïolo i ciondoli vezzosi;
Ed opra è lor se all’innocenza antica
Torna pur anco, e bamboleggia, il mondo.
Or vanne, o mio Signore, e il pranzo allegra
De la tua Dama: a lei dolce ministro
Dispensa i cibi, e detta al suo palato
E a la sua fame invïolabil legge.
Ma tu non oblïar, che in nulla cosa
Esser mediocre a gran Signor non lice:
Abbia il popol confini; a voi natura
Donò senza confini e mente e cuore.
Dunque a la mensa, o tu schifo rifuggi
Ogni vivanda, e te medesmo rendi
Per inedia famoso, o nome acquista
D’illustre voratore. Intanto addio,
Degli uomini delizia, e di tua stirpe,
E della patria tua gloria e sostegno.
Ecco che umíli in bipartita schiera
T’accolgono i tuoi servi: altri già pronto
Via se ne corre ad annunciare al mondo,
Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia
Timido ti sostien mentre il dorato
Cocchio tu sali, e tacito e severo
Sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo,
E cedi il passo al trono ove s’asside
Il mio Signore: ahi te meschin s’ei perde
Un sol per te de’ prezïosi istanti!
Temi ’l non mai da legge o verga o fune
Domabile cocchier, temi le rote,
Che già piú volte le tue membra in giro
Avvolser seco, e del tuo impuro sangue
Corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
Spettacol miserabile! segnâro.
22 aprile 2024 - Eugenio Caruso
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