«Che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?
Sulla sedia curule siede Nonio lo scrofoloso,
per il consolato spergiura Vatinio:
che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?»
(Carme 52)
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GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti, pensatori e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.
GRECI E LATINI
Alceo -
Anacreonte -
Anassagora - Anassimandro -
Anassimene -
Archiloco -
Aristofane -
Aristotele - Catullo -
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Empledoche -
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Virgilio -
Zenone -
Gaio Valerio Catullo (Verona, 84 a.C. – Roma, 54 a.C.) è stato un grande poeta romano. Le sue liriche d'amore, raccolte nel "Catulli Veronensis Liber", rappresentano il primo esempio di letteratura latina in grado di esprimere l'intensità delle passioni amorose sul modello ellenistico della poesia di Saffo, Callimaco e degli Alessandrini.
Busto di Catullo presso la Protomoteca della Biblioteca civica di Verona
Gaio Valerio Catullo proveniva da un'agiata famiglia latina che aveva contribuito a fondare la città di Verona, nella Gallia Cisalpina; il padre avrebbe ospitato Q. Metello Celere e Giulio Cesare in casa propria al tempo del loro proconsolato in Gallia.. Per quanto concerne gli estremi cronologici della sua biografia, San Girolamo pone l'87 a.C. e il 57 a.C. rispettivamente come data di nascita e di morte e specifica che egli morì all'età di trent'anni. Tuttavia, poiché nei suoi carmi Catullo accenna ad avvenimenti che riportano all'anno 55 a.C. (come l'inizio del secondo consolato di Pompeo e l'invasione della Britannia da parte di Cesare), si è maggiormente propensi a ritenere che egli sia nato nell'85-84 e morto nel 55-54 a.C., assumendo il fatto che sia morto a trent'anni.
Sirmione, Grotte di Catullo. Con il termine "Grotte di Catullo" si identifica una villa romana edificata tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C. a Sirmione, sulla riva meridionale del Lago di Garda. Il complesso archeologico, parte del quale, soprattutto del settore settentrionale, è stato oggetto di visite e speculazioni erudite dal XV secolo, è oggi la testimonianza più importante del periodo romano nel territorio di Sirmione ed è l'esempio più imponente di villa romana presente nell'Italia settentrionale.
Trasferitosi nella Capitale non ancora ventenne, si suppone intorno al 61-60 a.C., cominciò a frequentare ambienti politici, intellettuali e mondani, conoscendo personaggi influenti dell'epoca, come Quinto Ortensio Ortalo, Gaio Memmio, Cornelio Nepote e Asinio Pollione. Ebbe rapporti non idilliaci con Cesare e Cicerone: per il primo scrisse diversi epigrammi di riprovazione morale della sua condotta, mentre al filosofo arpinate dedicò il Carme XLIX, di dubbia interpretazione tra un sincero ringraziamento o un'ironica apostrofe. Le sue precedenti esperienze di letterato a Verona gli facilitarono l'ingresso nel circolo dei "poeti nuovi" del quale facevano parte anche gli amici Licinio Calvo ed Elvio Cinna. Durante il suo soggiorno a Roma ebbe una travagliata relazione con Clodia, sorella del tribuno Clodio e moglie del console Quinto Metello Celere.
Clodia viene cantata nei carmi con lo pseudonimo letterario "Lesbia", in onore della poetessa greca Saffo, molto cara a Catullo e originaria dell'isola di Lesbo. Il celebre Carme LI fu composto come l'adattamento di un'ode saffica ed è da molti stato interpretato come la prima dichiarazione di amore per Clodia. La donna aveva una decina d'anni più di Catullo che la descrive bella, colta, intelligente ma anche emancipata e spregiudicata. Il loro incontro avvenne probabilmente a Verona intorno al 62 a.C. durante il governatorato di Quinto Metello Celere nella città scaligera e la relazione andò avanti diversi anni alternando periodi di litigi, gelosie e riappacificazioni. L'ultimo carme che Catullo scrisse per l'amata può essere datato al 55 o 54 a.C., perché in esso viene menzionata la spedizione di Cesare in Britannia.
Catullo da Lesbia, dipinto di Lawrence Alma-Tadema (1865).
Da alcuni suoi carmi emerge, inoltre, che il poeta ebbe anche un'altra relazione, omosessuale, con un giovinetto romano di nome Giovenzio. Catullo trascorse anche lunghi soggiorni lontano da Roma per concedersi dolci riposi nella villa paterna di Sirmione, sul lago di Garda, autentico luogo dell'anima per il poeta. Il Carme XXXI è un omaggio all'amata penisola di Sirmione e fu composto dopo un travagliato viaggio di ritorno dalla Bitinia dove era stato tra il 57-66 a.C. al seguito del pretore Gaio Memmio. In quella circostanza andò anche a rendere omaggio alla tomba del fratello morto alcuni anni prima e sepolto nella Troade. Il viaggio non recò però alcun beneficio a Catullo che ritornò senza i guadagni economici sperati al momento della partenza, né la lontananza riuscì a fargli riacquistare la serenità perduta a causa dell'incostanza di Lesbia e dei sospetti tradimenti. Fu tuttavia una nota positiva la visita alla lapide del fratello, in occasione della quale scrisse il Carme CI (al quale si ispirò in seguito Ugo Foscolo per la poesia In morte del fratello Giovanni).
Dalla raccolta dei suoi carmi non emergono chiare simpatie politiche e in essi Catullo è rivelato in un atteggiamento a debita distanza dalla vita politica, dedicato essenzialmente alla poesia concepita come lusus fra amici che esprime un certo distacco dai personaggi protagonisti della stagione tardo-repubblicana di Roma. I suoi componimenti esternano talvolta una sostanziale riprovazione per l'arrivismo e la disonestà di certa politica nonché per quei poeti che si legavano a essa in cambio di protezione e favori economici. Catullo visse comunque da vicino gli avvenimenti principali del suo tempo: dalla formazione del primo triumvirato, alla guerra condotta da Cesare in Gallia e Britannia, passando per l'aspra rivalità tra Clodio, fratello della sua amata Lesbia, e Cicerone (costretto nel 58 a.C. a un esilio e poi richiamato) fino ai patti di Lucca e al secondo consolato di Pompeo. Nel Carme LII , usando le parole di Alfonso Traina, "il disprezzo della vita politica si fa disprezzo per la vita stessa":
«Che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?
Sulla sedia curule siede Nonio lo scrofoloso,
per il consolato spergiura Vatinio:
che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?»
(Carme 52)
Marco Antonio Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, 1554.
Opera
Il Liber di Catullo non fu ordinato dal poeta stesso, che non aveva concepito l'opera come un corpo unico, anche se un editore successivo (forse lo stesso Cornelio Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera) ha diviso il Liber catulliano in tre parti secondo un criterio di tipo metrico: i carmi da 1 a 60, sotto il nome di nugae (letteralmente "sciocchezze"), brevi carmi polimetri, per lo più faleci e trimetri giambici; i carmi da 61 a 68, i cosiddetti carmina docta d'impronta alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci; i carmi dal 69 al 116 sono gli epigrammi ("epigrammata"), in distici elegiaci.
Il poeta Catullo legge uno dei suoi scritti agli amici, da un dipinto di Stefan Bakalowicz.
Catullo è per noi uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neòteroi, poetae novi, ("poeti nuovi"), che facevano riferimento ai canoni dell'estetica alessandrina e in particolare al poeta greco Callimaco, creatore di un nuovo stile poetico che si distacca dalla poesia epica di tradizione omerica divenuta a suo parere stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla quantità (in riferimento all'abbondanza dei versi di quest'ultima) piuttosto che dalla qualità.
Sia Callimaco che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli antichi eroi o degli dei, ma si concentrano su episodi semplici e quotidiani. I neòteroi si dedicano perlopiù all'otium letterario piuttosto che alla politica per rendere liete le loro giornate, coltivando il loro amore solo ed esclusivamente alla composizione di versi, tanto che Catullo dichiara nel carme 51:
«Otium, Catulle, tibi molestum est:/otio exsultas nimiumque gestis» «L'ozio per te, Catullo, non è buono;/ nell'ozio smani e ti scalmani» (traduzione a cura di Nicola Gardini).
Talvolta il poeta ostenta il suo disinteresse per i grandi uomini che lo circondavano e che stavano scrivendo la storia:
«nihil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere» «non m'interessa, Cesare, di andarti a genio» (carme 93),
scrive al futuro conquistatore della Gallia. Da questa matrice callimachea proviene anche il gusto per la poesia breve, erudita e mirante stilisticamente alla perfezione. Si sviluppano, originari dell'alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco, Apollonio Rodio, Teocrito, Asclepiade, Fileta di Cos e Arato, generi quali l'epillio, l'elegia erotico-mitologica e l'epigramma, che più sono apprezzati e ricalcati dai poeti latini.
Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè "levigato") a riprova del fatto che i suoi versi sono particolarmente elaborati, le poesie raffinate e curate. Una delle caratteristiche peculiari della sua poetica è, infatti, la ricercatezza formale, il labor limae, con la quale il poeta cura e rifinisce i suoi componimenti. Inoltre, al contrario della poesia epica, l'opera catulliana intende evocare sentimenti ed emozioni profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e tematica, in particolare come nel carmen 51, una emulazione del fr. 31 di Saffo, come anche i carmina 61 e 62, ispirati agli epitalami saffici.
Il carme 66, preceduto da una dedica ad Ortensio Ortalo, è una traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco, che viene ripreso per mostrare l'adesione a una raffinata elaborazione stilistica, una dottrina mitologica, geografica, linguistica ed infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo un carme di breve durata può essere un'opera raffinata e preziosa.
Catullo è un poeta splendido che ho molto amato e letto al di fuori dei canoni scolastici.
Traduzioni italiane
- Mario Rapisardi, Napoli, 1889.
- E. Stampini, Torino, 1921.
- U. Fleres, Milano, 1927.
- C. Saggio, Milano, 1928.
- Guido Mazzoni, Bologna, 1939.
- Salvatore Quasimodo, Milano, 1942.
- V. Errante, Milano, 1943.
- E. D'Arbela, Milano, 1946.
- Enzio Cetrangolo, Milano, 1950.
- Vincenzo Ciaffi, Torino, 1951.
- Giovanni Battista Pighi, Verona, 1961.
- E. Mazza, Parma, 1962.
- Guido Ceronetti, Torino, 1969.
- Mario Ramous, Milano, 1975.
- T. Rizzo, Roma, 1977.
- Francesco Della Corte, Milano, 1977.
- Enzo Mandruzzato, Milano, 1982.
- F. Caviglia, Roma-Bari, 1983.
- Giovanni Wesley D'Amico, Palermo, 1993.
- Gioachino Chiarini, Milano, 1996
- Guido Paduano, Torino, 1997.
- Luca Canali, Firenze, 2007.
- Alessandro Natucci, Roma, 2008, 2020 anche in formato Kindle
- Alessandro Fo, Torino, 2018.
CONGEDO (tr. Giacomo Zanella)
Furio ed Aurelio, di Catullo amanti
Indivisi compagni, o ch’ei del Gange
Tenda ai lidi, ove il mar indico frange
L’onde sonanti;
O che agl’Ircani e dove molle odora
Arabia, ai Parti onusti di saette,
A’ Saci e dove il Nilo il mar con sette
Foci colora;
O ch’oltre le sublimi Alpi vïaggi
Del gran Giulio mirando i monumenti,
Vegga il gallico Reno, i truculenti
Angli selvaggi;
Pronti meco a tentar questo o se prova
Altra più perigliosa il ciel m’appresta,
Alla mia donna nunzî ite di questa
Infausta nuova;
Viva pur ella avventurosa e rida
Co’ trecento suoi drudi, che congiunti
Tiene ad un laccio e tutti manda emunti
A tutti infida;
Nè più riguardi all’amor mio, caduto
Per colpa sua, come sull’orlo cade
D’un prato il fior che oltrepassando rade
Vomere acuto.
ALLA TOMBA DEL FRATELLO CARME CI (tr. Giovanni Pascoli)
Giunsi per popoli molti e per molta distesa di mari:
vedo, fratello, che resta, ecco, una tomba di te!
Renderti sol poss’io quest’ultimo dono di morte,
sol parlare a la tua tacita cenere... a che?
Cenere! te, te stesso la mia sventura mi tolse,
misero fratel mio preso nè resomi più!
Ora però tu, questi che, quale fu l’uso de li avi,
sono dei tumuli i doni ultimi e flebili, tu
prendili, chè grondanti di lagrime tante, fratello,
son di fratello, e per sempre ave, e la pace con te!
BACCANALE (tr. Giovanni Pascoli)
Ma d’altronde venìa, sull’ali, lo splendido Iaccho
cinto de’ satiri suoi, de’ Nisìgeni suoi Sileni,
te cercando, Ariadna, per te già caldo d’amore.
Rapidi fervidi qua là scorrazzavano fuor di
sè, urlando euoè, euoè, torcendo le teste.
Parte scotevano tirsi, ravvolti di pampane il ferro,
parte tiravano brani di dilanïato giovenco,
parte s’attorcigliavano al corpo viluppi di biscie,
parte tenevano l’orgie, coperte, ne ’l fondo de l’urne,
l’orgie che l’uomo profano desidera invano sapere.
Altre con larghe le palme sui timpani davano colpi,
altre dal cembalo tondo traevano squilli di bronzo.
Molte da corni di bue soffiavano strepiti rauchi,
ed uno stridulo canto esciva da’ barbari flauti.
PROPONIMENTO (tr. Giacomo Zanella)
Illuso Catullo,
Dimetti, dimetti
Di farti trastullo
A speme volgar:
Fuggiti diletti
Non sanno tornar.
Ti fulsero un giorno
Ben candide aurore,
Movendo al soggiorno
Di cara beltà,
Amata d’amore
Ch’egual non avrà.
Che dolci sorprese
Là dentro si fero,
Da lei non contese,
Volute da te!
Dì candidi in vero
Il cielo ti diè.
Or ella diniega;
Tu pure desisti:
È folle chi prega
Ritrosa beltà.
Sta’ saldo, resisti,
Di marmo ti fa’.
Mia perfida, addio.
Di sasso, mel credi,
Già fatto son io:
Dacchè nol vuoi tu,
Non fia che a’ tuoi piedi
Mi vegga mai più.
Crudele! Ma sai
Qual vita ti aspetta?
Che visite avrai?
Che amici? da chi
Or bella tu detta?
L’amante di chi?
A quale i tuoi baci
Amato fanciullo
Ardenti, mordaci
Fian dati? Ma sta’
Tu saldo, Catullo,
Di marmo ti fa’.
LA STATUA (tr. Giovanni Pascoli)
E la Minoide di lungi, da l’alga, il dolore ne li occhi
simile a chiusa nel marmo immobile Menade, guarda,
euoe, guarda, ondeggia per gran tempesta di cuore,
senza sul biondo suo capo la morbida mitra di filo,
senza sul bianco suo petto nè un velo leggiero di veste,
sciolte dal cingolo torto le riluttanti mammelle:
tutte le vesti via via giù scivolate dal corpo,
stridula a’ piedi di lei l’ondata le patullava.
ARIADNA (tr. Giovanni Pascoli)
Lui non appena fissò curiosa con li occhi la pura
figlia del re, cui vedeva sbocciare la sua cameretta
piena di soavità, tra le blande carezze materne:
come un arbusto di mirto cui nutre con l’onde l’Eurota,
come i colori che suscita e sparge la brezza d’aprile:
ecco non prima di lui declinava l’ardore degli occhi,
che la trascorse una fiamma per tutta la bella persona
dentro, e sentì che pungea le midolle dell’essere il fuoco.
Oh! Tu dell’anime immote, che dèsti la smania e il dolore,
inviolato fanciullo, che mescoli al dolce l’amaro,
oh! tu regina di Golgo, regina d’Idalio frondoso,
in che procella di flutti gettaste la vergine ardente
che sospirava al pensiero, sovente, del biondo straniero!
e che spaventi e che strette e che gridi nel languido cuore!
e che pallori nel viso, più giallo ed opaco dell’oro!
quando nel fiero desìo di combattere l’orrido mostro,
Teseo voleva la morte od un premio di gloria voleva.
E promettendo agli dei non invano e non piccoli doni
essa col tacito labbro accendeva un incenso di voti.
Come gli antichi rappresentavano la chioma di Berenice
LA CHIOMA DI BERENICE (tr. Ugo Foscolo)
Quei che spiò del mondo ampio le faci
Tutte quante, e scoprì quando ogni stella
Nasca in cielo o tramonti, e del veloce
Sole come il candor fiammeo si oscuri,
Come a certe stagion cedano gli astri,
E come amore sotto a' Latmii sassi
Dolcemente contien Trivia di furto
E lei devolve dall'aereo giro,
Quel Conon vide fra' celesti raggi
Me del Berenicéo vertice chioma
Chiaro fulgente. A molti ella de' Numi
Me, supplicando con le terse braccia,
Promise, quando il re, pel nuovo imene
Beato più, partia, gli Assiri campi
Devastando, e ne gìa con li vestigi,
Dolci vestigi di notturna rissa
La qual pugnò per le virginee spoglie.
Alle vergini spose in odio è forse
Venere? Forse a' genitor la gioia
Froderanno per false lagrimette
Di che bagnan del talamo le soglie
Dirottamente? Esse non veri allora,
Se me giovin gli Dei, gemono guai.
Ben di ciò mi assennò la mia regina
Col suo molto lamento allor che seppe
Vòlto a bieche battaglie il nuovo sposo:
E tu piangesti allora il freddo letto
Abbandonata, e del fratel tuo caro
Il lagrimoso dipartir piangevi.
Ahi! tutte si rodean l'egre midolle
Per l'amorosa cura; il cuore tutto
Tremava; e i sensi abbandonò la mente.
La donzelletta non se' tu ch'io vidi
Magnanima? Lo gran fatto oblïasti,
Tal che niun de' più forti osò cotanto,
Però premio tu n'hai le regie nozze?
Deh che pietà nelle parole tue
Quando il marito accomiatavi! Oh quanto
Pianto tergeano le tue rosee dita
Agli occhi tuoi! Te sì gran Dio cangiava?
Dal caro corpo dipartir gli amanti
Non sanno mai? Tu quai voti non festi,
Propizïando con taurino sangue,
Per lo dolce marito agli Immortali
S'ei ritornasse! Nè gran tempo volse,
Ch'ei dotò della vinta Asia l'Egitto.
Per questi fatti de' celesti al coro
Sacrata, io sciolgo con novello ufficio
I primi voti. A forza io mi partia,
Regina, a forza; e te giuro e il tuo capo:
Paghinlo i Dei se alcuno invan ti giura;
Ma chi presume pareggiarsi al ferro,
E quel monte crollò, di cui null'altra
Più alta vetta dall'eteree strade
La splendida di Thia progenie passa,
Quando i Medi affrettaro ignoto mare
E con le navi per lo mezzo Athos
Nuotò la gioventù barbara. Tanto
Al ferro cede! Or che poriano i crini?
Tutta, per Dio! de' Calibi la razza
Pera, e le vene a sviscerar sotterra,
E chi a foggiar del ferro la durezza
A principio studiò. ― Piangean le chiome
Sorelle mie da me dianzi disgiunte
I nostri fati; allor che appresentosse,
Rompendo l'aer con l'ondeggiar de' vanni,
Dell'Etiope Mennone il gemello
Destrier d'Arsinoe Locrïense alivolo:
Ei me per l'ombre eteree alto levando
Vola, e sul grembo di Venere casto
Mi posa: ch'ella il suo ministro (grata
Abitatrice del Canopio lito)
Zefiritide stessa avea mandato
Perchè fissa fra' cerchi ampli del cielo
La del capo d'Arianna aurea corona
Sola non fosse. E noi risplenderemo
Spoglie devote della bionda testa.
Onde salita a' templi de Celesti
Rugiadosa per l'onde, io dalla Diva
Fui posto fra gli antichi astro novello.
Però che della Vergine, e del fero
Leon toccando i rai, presso Callisto
Licaonide, piego all'occidente
Duce del tardo Boote cui l'alta
Fonte dell'Oceano a pena lava.
Ma la notte perché degli Immortali
Mi premano i vestigi, e l'aurea luce
Indi a Teti canuta mi rimeni,
(E con tua pace, o Vergine Rannusia,
Il pur dirò: non per temenza fia
Che il ver mi taccia, e non dispieghi intero
Lo secreto del cor; nè se le stelle
Mi strazin tutte con amari motti)
Non di tanto vo lieta ch'io non gema
D'esser lontana dalla donna mia
Lontana sempre! Allor quando con ella
Vergini fummo, io d'ogni unguento intatta,
Assai tesoro mi bevea di mirra.
O voi, cui teda nuzïal congiunge
Nel sospirato dì, nè la discinta
Veste conceda mai nude le mamme,
Nè agli unanimi sposi il caro corpo
Abbandonate, se non versa prima
L'onice a me giocondi libamenti:
L'onice vostro, voi che desïate
Di casto letto i diritti: ah di colei
Che sè all'impuro adultero commette
Beva le male offerte irrita polve!
Chè nullo dono dagli indegni io merco. ―
Sia così la concordia, e sia l'amore
Ospite assiduo delle vostre sedi.
Tu volgendo, regina, al cielo i lumi
Allor che placherai ne' dì solenni
Venere diva, d'odorati unguenti
Lei non lasciar digiuna, e tua mi torna
Con liberali doni. A che le stelle
Me riterranno? O! regia Chioma io sia
E ad Idrocoo vicin arda Orione.
DISCORSO della RAGIONE POETICA di CALLIMACO
I. Esporrò l’economia di questo componimento risalendo alla natura della poesia, e specialmente della lirica. Questo poema, che per lo suo metro corre sotto il nome di Elegia, racchiude quasi tutti i fonti del mirabile e del passionato. È mirabile una chioma mortale rapita da Zefiro alato per comando di una novella deità, da pochi anni fatta partecipe del culto di Venere. Mirabile che sia locata fra le costellazioni, che sovra essa passeggino gli Dei, che all’apparire del sole ritornisi anch’ella in compagnia di Tetide, e fra i conviti e le danze delle fanciulle oceanine. Ma questo mirabile riescirebbe nullo ove non fosse appoggiato alla religione di que’ popoli, e poco efficace se la religione non lusingasse le loro passioni, e non ridestasse nell’immaginazione simolacri non solamente divini, ma simili a quelle cose che sono care e necessarie ai mortali. Onde questa sorte di maraviglia chiude in sè stessa anche una certa passione diversa da quella di cui parleremo da poi.
II. Leggeri conoscitori dell’uomo sono quei retori che, disapprovando la favola e le fantasie soprannaturali, vorrebbero istillare ne’ popoli la filosofia de’ costumi per mezzo di una poesia ragionatrice, la quale si può usurpare bensì nella satira, ove l’acre malignità, cara all’umano orecchio, quando specialmente è condita dal ridicolo può talor dilettare. Ma non diletterebbe un poema che proceda argomentando, e che non idoleggi le cose, ma le svolga e le narri. La favola degli antichi trae l’origine dalle cose fisiche e civili, che idoleggiate con allegorie formavano la teologia di quelle nazioni; e nella teologia de’ popoli stanno sempre riposti i principii della politica e della morale:... la quale sentenza dà lume a quel passo del filosofo: Essere i poeti ispirati da’ numi, e i loro versi venire da Dio Onde se la poetica è tutta quanta enigmatica, ciò avviene perchè non sia conosciuta sapientemente dal volgo.
III. Non è colpa delle favole nè degli antichi se la loro religione è per noi piena di capricci e d’incoerenze, bensì dell’estensione di quella religione quasi universale, delle vicende de’ secoli e della nostra ignoranza. Che l’umana mente abbia bisogno di cose soprannaturali, e quindi i popoli di religione, è massima celebrata dall’esperienza e dagli annali di tutte le generazioni. Anzi è di tanta preponderanza questa umana necessità, che sebbene le religioni nascano dalla tempra dei popoli, e si stabiliscono per le età e le circostanze degli stati, i popoli ed i tempi prendono in progresso aspetto e qualità dalle religioni. Ora la poesia deve per istituto cantare memorabili storie, incliti fatti ed eroi, accendere gli animi al valore degli uomini alla civiltà, gl’ingegni al vero ed al bello. Ha perciò d’uopo di percuotere le menti col meraviglioso ed il cuore con le passioni. Torrà le passioni dalla società; ma d’onde il meraviglioso se non dal cielo? Dal cielo, poichè la natura e l’educazione hanno fatto elemento dell’uomo le idee soprannaturali. Quel meraviglioso che non è tratto dalle inclinazioni e dalle nozioni umane, o riesce ridicolo come le poesie e i romanzi del seicento; o incredibile e balordo come le frenesie degl’incliti ciurmadori de’ miei tempi, non dissimili a quegli statuari e pittori che rappresentassero mostri e chimere rimote dalle idee di tutte le genti; onde nè pittori sono, nè scultori, nè poeti quei che abbandonano la imitazione, madre delle arti belle.
1 giugno 2024 - Eugenio Caruso
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