Anche i virus hanno una vita sociale

La scoperta di una vita sociale dei virus mostra ancora una volta la complessità del mondo naturale

A dispetto del suo nome, il mosaico del tabacco è una malattia che colpisce parecchie piante di interesse commerciale, dal cetriolo al mais, dalla barbabietola da zucchero alla patata. E il tabacco, ovviamente. Essendo una malattia altamente infettiva, che si trasmette per contatto senza alcun bisogno di vettori, ha attirato l’interesse degli scienziati lasciando un segno nella storia.
Nel 1886 lo studioso tedesco Adolf Mayer lo descrisse per la prima volta ma non riuscì a scoprirne la causa, come riconosceva nell’articolo pubblicato su un’oscura rivista. Qualche anno dopo, usando i più piccoli filtri disponibili a quel tempo, il botanico russo Dmitrij Ivanovskij dimostrò che doveva essere provocato da patogeni più piccoli dei batteri conosciuti. Conducendo esperimenti simili a quelli di Ivanovskij, il microbiologo e botanico olandese Martinus Willem Beijerinck scoprì che quel patogeno si riproduceva nelle cellule di altri organismi, ma non in coltura. Lo chiamò virus, dalla parola latina per «veleno».
Nei 125 anni trascorsi dalla pubblicazione del suo lavoro, abbiamo fatto conoscenza con una miriade di virus, anche a nostre spese. Patogeni che provocano malattie nelle piante, negli animali, negli esseri umani. Abbiamo incontrato virus con il genoma costituito da DNA e altri da RNA. Virus trasmessi da vettori e altri che non ne richiedono.
Uno, il virus del vaiolo, lo abbiamo debellato grazie a una campagna vaccinale globale. Con quello della polio siamo sulla buona strada. Insomma, qualcosa abbiamo imparato, anche se è ancora aperto il dibattito scientifico sul fatto che vadano considerati esseri viventi o no. Una delle cose più sorprendenti, su cui gli specialisti stanno indagando negli ultimi anni, è che i virus, a modo loro, hanno una vita sociale. Fino a poco tempo fa, scrive Carl Zimmer, «i ricercatori davano per scontato che ogni virus fosse una particella solitaria alla deriva nel mondo e riuscisse a replicarsi solo se si imbatteva nella cellula giusta, in grado di accoglierlo ». Invece ci sono, per esempio, virus incompleti, risultato di errori di copiatura del genoma durante la replicazione. Questi virus riescono a penetrare nelle cellule, ma una volta all’interno non sono in grado di replicarsi. Allora, per farlo, devono sfruttare altre particelle virali.
Sono quelli che Zimmer chiama i virus imbroglioni. Che forse però non sono semplici approfittatori. In una visione alternativa, i virus incompleti collaborerebbero con quelli funzionali per aumentare la durata dell’infezione. «Se i virus funzionali si replicassero in modo incontrollato – scrive Zimmer – potrebbero sopraffare e uccidere l’ospite in cui si trovano prima di trovarne un altro da contagiare». Il ruolo «sociale» degli imbroglioni, dunque, sarebbe quello di rallentare l’infezione per il tempo necessario per trasmetterla a un nuovo ospite.
A nessuno, naturalmente, verrebbe in mente di attribuire un’intenzionalità a questi minuscoli, fastidiosi compagni di viaggio. Ma si stanno accumulando prove di un comportamento meno scontato di quanto credessimo. E pensare che hanno un genoma costituito da poche migliaia di basi, racchiuso all’interno di un capside proteico, e nient’altro. Ma tanto basta per capire quanto siano complessi i fenomeni che le scienze della vita devono indagare.

 

E' proprio la loro semplicità a rendere i virus così interessanti per molti scienziati, spiega Marco Vignuzzi, virologo presso i Singapore Agency for Science, Research and Technology Infectious Diseases Labs. «Cercavamo un approccio riduzionista». Quel riduzionismo diede i suoi frutti. Gli studi sui virus furono essenziali per la nascita della biologia moderna. Non avendo la complessità delle cellule, rivelarono regole fondamentali sul funzionamento dei geni. Vignuzzi aggiunge che però il riduzionismo sui virus ha avuto un difetto: se si dà per scontata la loro semplicità, non si riesce a immaginare l’eventualità che possano essere complessi in modi diversi da quelli che conosciamo.
Per esempio, considerando i virus come pacchetti isolati di geni sarebbe assurdo pensare che possano avere una vita sociale. Eppure, secondo Vignuzzi e una nuova scuola di virologi con idee simili alle sue, l’idea non è per niente assurda. Negli ultimi decenni sono state scoperte strane caratteristiche dei virus, che non avrebbero senso se si trattasse di particelle solitarie. I ricercatori stanno invece rivelando un mondo sociale dei virus, straordinariamente complesso. Questi sociovirologi, come a volte si definiscono, ritengono che i virus abbiano un senso solo come membri di una comunità.
Certo, la vita sociale dei virus non somiglia molto a quella di altre specie. Non postano selfie sui social media, non fanno volontariato al banco alimentare né commettono furti di identità, come fanno gli esseri umani. Non stringono alleanze per lottare alla conquista di un branco, come fanno i babbuini; non raccolgono il nettare per nutrire la regina, come le api, e non si addensano formando tappetini viscidi per difendersi insieme, come fanno alcuni batteri. Eppure i sociovirologi credono che effettivamente i virus si imbroglino, cooperino e interagiscano tra loro in altri modi. Il settore della sociovirologia è ancora giovane e limitato. La prima conferenza dedicata alla vita sociale dei virus si è svolta nel 2022 e la seconda lo scorso giugno, con la partecipazione di 50 persone. Eppure i sociovirologi sostengono che il loro nuovo settore possa avere conseguenze di ampia portata. Malattie come l’influenza non hanno senso se immaginiamo che i virus siano separati tra loro. E se riusciamo a decifrarne la vita sociale potremmo essere in grado di sfruttarla per reagire alle malattie provocate da alcuni di loro.
Alcune tra le principali prove della vita sociale dei virus si trovano in bella vista da quasi un secolo. Dopo avere scoperto il virus dell’influenza, all’inizio degli anni trenta, gli scienziati capirono di poterlo coltivare in grandi quantità, iniettandolo in uova di pollo e lasciando che si moltiplicasse al loro interno. Quindi i ricercatori potevano usare i nuovi virus per infettare animali da laboratorio su cui eseguire ricerche, oppure iniettarli in altre uova per coltivare nuovi virus.
Verso la fine degli anni quaranta, mentre coltivava alcuni virus, il virologo danese Preben von Magnus notò qualcosa di strano: molti di quelli prodotti in un uovo non riuscivano a replicarsi quando li iniettava in un altro. Entro il terzo ciclo di trasmissione solo un virus su 10.000 riusciva ancora a replicarsi. Nei cicli successivi, però, i virus difettivi diventavano più rari e quelli in grado di replicarsi tornavano ad aumentare. Von Magnus sospettava che i virus incapaci di replicarsi non avessero completato lo sviluppo, quindi li definì «incompleti».
Negli anni successivi i virologi soprannominarono «effetto von Magnus» il boom e il crollo dei virus incompleti. Lo consideravano importante, ma solo come un problema da risolvere. Dato che nessuno aveva mai visto virus incompleti se non in una coltura in laboratorio, i virologi pensavano che fossero artificiali e idearono dei sistemi per liberarsene.
Sam Díaz-Muñoz, virologo dell’Università della California a Davis, ricorda l’idea allora più diffusa nel settore: «Devi eliminarli dalle colture di laboratorio perché non vuoi che interferiscano con i tuoi esperimenti. Perché non è una cosa “naturale”». Negli anni sessanta i ricercatori osservarono che i virus incompleti avevano un genoma più breve rispetto agli altri. Questa scoperta rafforzò la convinzione di molti virologi che i virus incompleti fossero solo strane entità difettive, prive dei geni necessari per replicarsi. Tuttavia, negli anni dieci del XXI secolo la disponibilità di tecnologie potenti ed economiche per sequenziare i geni ha reso evidente che in realtà i virus incompleti sono presenti in abbondanza nel nostro corpo.
In uno studio pubblicato nel 2013, ricercatori dell’Università di Pittsburgh hanno eseguito tamponi nasali e orali a persone malate di influenza. Hanno estratto il materiale genetico dai virus dell’influenza contenuti nei campioni, scoprendo che ad alcuni di loro mancavano dei geni. Questi virus menomati si sono formati quando alcune cellule infettate hanno commesso errori mentre copiavano il genoma di un virus funzionale, saltando accidentalmente alcune parti dei geni.
Ulteriori studi hanno confermato questa scoperta. Inoltre hanno rivelato altri modi in cui si possono formare i virus incompleti. Per esempio, alcuni tipi di virus hanno un genoma confuso. In questi casi, una cellula infettata aveva cominciato a copiare un genoma virale, ma durante il percorso era tornata indietro, copiando il genoma a ritroso fino al punto di partenza. Ancora altri virus incompleti si formano quando delle mutazioni interrompono la sequenza di un gene, che quindi non può più codificare una proteina funzionale.
Questi studi hanno cancellato la vecchia convinzione che i virus incompleti di von Magnus fossero solo un prodotto artificiale degli esperimenti in laboratorio. «Fanno parte per natura della biologia dei virus», ha commentato Díaz-Muñoz.
La scoperta dei virus incompleti nel nostro corpo ha ispirato una nuova ondata di interesse scientifico nei loro confronti. Quello dell’influenza non è un caso isolato: molti virus si presentano in forme incomplete; queste forme costituiscono la maggioranza dei virus rilevati nelle persone contagiate per esempio dal virus respiratorio sinciziale (RSV) e dal morbillo. Gli scienziati inoltre hanno inventato nuovi nomi per i virus incompleti di von Magnus. Qualcuno li definisce «particelle difettive interferenti ». Qualcun altro preferisce «genomi virali non standard».
Díaz-Muñoz e i suoi colleghi li chiamano in un altro modo: imbroglioni. Di solito i virus incompleti sono in grado di penetrare nelle cellule, ma una volta all’interno non riescono a replicarsi da sé. Mancano loro alcuni dei geni essenziali per dirottare l’attrezzatura con cui l’ospite sintetizza le proteine, per esempio il gene per un enzima che copia i geni, detto polimerasi. Per potersi replicare, quindi, devono imbrogliare. Devono sfruttare gli altri virus.
Per fortuna degli imbroglioni, spesso le cellule sono infettate da più di un genoma virale. Se nella cellula di un imbroglione compare un virus funzionale, questo produce le polimerasi. L’imbroglione può quindi usare le polimerasi dell’altro virus per copiare i propri geni.
In una cellula di questo tipo i due virus sono in competizione per realizzare più copie del proprio genoma. Ma l’imbroglione ha un notevole vantaggio: ha meno materiale genetico da replicare. Quindi la polimerasi copia un genoma incompleto più velocemente di uno completo.
E il vantaggio diventa ancora più grande nel corso di un’infezione, quando i virus incompleti e quelli funzionali si spostano da una cellula all’altra. «Essere lunghi la metà non significa che il vantaggio raddoppia», ha commentato Asher Leeks, ricercatore post-dottorato alla Yale University che studia l’evoluzione sociale nei virus. «Può significare che il vantaggio aumenta di mille volte o più».
Altri virus imbroglioni hanno polimerasi funzionanti, ma sono privi dei geni per produrre gli involucri proteici in cui custodire il loro materiale genetico. Si replicano restando in attesa che compaia un virus funzionale, quindi intrufolano il proprio genoma negli involucri che produce. Alcuni studi fanno pensare che i genomi degli imbroglioni siano in grado di penetrare negli involucri più velocemente rispetto a quelli funzionali. Qualunque sia la strategia usata da un virus incompleto per replicarsi, il risultato non cambia. Questi virus non pagano il prezzo della cooperazione, pur sfruttando quella degli altri. «Un imbroglione da solo non fa granché, mentre ottiene risultati migliori quando è in relazione con un altro virus, e se ci sono molti imbroglioni non resta nessuno da sfruttare», ha spiegato Díaz-Muñoz. «Da un punto di vista evolutivo, non serve altro per definire l’imbroglio».
L’ultima parte di questa definizione pone un enigma. Se gli imbroglioni hanno un successo così straordinario – e in effetti ce l’hanno – dovrebbero provocare l’estinzione dei virus. Man mano che generazioni di virus escono dalle cellule vecchie distruggendole e vanno a infettarne di nuove, gli imbroglioni dovrebbero essere sempre più diffusi, continuando a replicarsi fino a fare scomparire i virus funzionali. Ma se non restano più virus funzionali, gli imbroglioni non riescono a replicarsi da sé. Tutta la popolazione di virus sarebbe quindi destinata all’oblio.
È però evidente che virus come quello dell’influenza sfuggono a questa rapida estinzione, quindi la loro vita sociale non può essere soltanto una spirale della morte fatta di imbrogli. Secondo Carolina López, virologa della Washington University School of Medicine di St. Louis, alcuni virus che danno l’impressione di imbrogliare in realtà potrebbero svolgere un ruolo più positivo nelle società virali. Invece di sfruttare gli altri virus, collaborano con loro e li aiutano a prosperare.
«Li consideriamo parte di una comunità – ha commentato López – in cui ciascuno svolge un ruolo essenziale». Il debutto di López nel mondo della sociovirologia risale ai primi anni Duemila, quando stava studiando il virus di Sendai, un patogeno che infetta i topi. I ricercatori sapevano da anni che due ceppi del virus di Sendai si comportavano in modo diverso. Uno, detto SeV-52, era in grado di non farsi notare dal sistema immunitario e quindi di provocare un’infezione massiccia. Invece i topi infettati da un altro ceppo, chiamato SeV-Cantell, riuscivano a opporre una resistenza forte e rapida, che li aiutava a guarire in breve tempo. López e colleghi hanno scoperto la differenza: il ceppo SeV-Cantell produceva molti virus incompleti.
Come facevano i virus incompleti a scatenare il sistema immunitario dei topi? Dopo una serie di esperimenti, López e colleghi hanno stabilito che i virus incompleti portano le loro cellule ospiti ad attivare un sistema di allarme. Le cellule producono un segnale, detto interferone, con cui avvertono quelle vicine che è arrivato un invasore. Le vicine possono quindi prepararsi per difendersi dai virus ed evitare che l’infezione si diffonda in modo incontrollato nel tessuto circostante.
Questo fenomeno non era una stranezza del virus di Sendai, né del sistema immunitario dei topi. Quando López e colleghi hanno studiato l’RSV, che ogni anno negli Stati Uniti fa ammalare oltre 2 milioni di persone provocando migliaia di vittime, hanno scoperto che anche i virus incompleti prodotti nelle infezioni naturali scatenavano una forte risposta immunitaria da parte delle cellule infettate.
Questo effetto ha sorpreso López. Se i virus incompleti erano imbroglioni, per loro non aveva senso indurre un ospite ad abbreviare la durata di un’infezione. Una volta che il sistema immunitario avesse distrutto i virus funzionali, agli imbroglioni non sarebbero rimaste vittime da sfruttare.
López ha capito di poter dare un senso ai suoi risultati solo cambiando prospettiva sui virus. Invece di fissarsi sull’idea che i virus incompleti stessero imbrogliando, ha cominciato a pensare che stessero collaborando con quelli funzionali verso un obiettivo comune: la sopravvivenza nel lungo periodo. Si è resa conto che, se i virus funzionali si replicassero in modo incontrollato, potrebbero sopraffare e uccidere l’ospite in cui si trovano prima di trovarne un altro da contagiare. Sarebbe controproducente.
«Serve un certo livello di risposta immunitaria, per mantenere in vita l’ospite il tempo necessario per passare a un altro», ha commentato López. E qui entrano in gioco i virus incompleti, ha aggiunto. Questi potrebbero rallentare l’infezione, in modo che il loro ospite abbia la possibilità di trasmettere i virus al successivo. Può darsi quindi che vi sia una cooperazione tra i virus funzionali e quelli incompleti. Quelli funzionali producono l’attrezzatura molecolare per generare nuovi virus. Nel frattempo i virus incompleti rallentano quelli funzionali per evitare di far collassare l’ospite, perché in questo caso tutta la comunità terminerebbe la propria corsa al contagio. Negli ultimi anni López e colleghi hanno scoperto che i virus incompleti possono frenare le infezioni in svariati modi. Per esempio, possono fare sì che le cellule reagiscano come se fossero sotto stress da caldo o da freddo. Per reagire allo stress, una cellula chiude i centri di produzione delle proteine per risparmiare energia. In questo modo si ferma anche la produzione di nuovi virus.
Christopher Brooke, virologo presso l’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign, concorda con López sull’idea che i virus esistano in comunità. Inoltre sospetta che i virus incompleti abbiano anche altri compiti nelle cellule, che lui e i suoi colleghi devono ancora capire.
Brooke sta cercando prove di questi compiti nei virus dell’influenza. Un virus influenzale completo ha otto segmenti genici, che in genere formano almeno 12 proteine. Quando però le cellule infettate producono virus incompleti, a volte saltano la parte centrale di un gene e attaccano l’inizio alla fine. Nonostante questo drastico cambiamento, i geni alterati producono ancora proteine, che però sono nuove e potrebbero avere funzioni a loro volta nuove. In uno studio pubblicato a febbraio su «Nucleic Acids Research», Brooke e colleghi hanno scoperto nelle cellule infettate dall’influenza centinaia di queste nuove proteine. Poiché sono sconosciute alla scienza, i ricercatori stanno cercando di capire che cosa facciano. Gli esperimenti eseguiti su una di loro portano a ritenere che si attacchi alle proteine della polimerasi formate dai virus intatti e impedisca loro di copiare nuovi genomi virali.
Intanto però gli scienziati sanno pochissimo su ciò che ottengono i virus incompleti producendo una così grande quantità di proteine strane. «Con la mia fantasia limitata non riesco minimamente a immaginare che cosa sia possibile», ha commentato Brooke. «È una materia prima con cui il virus può giocare». Dubita, però, che i virus incompleti che producono tutte queste proteine strane siano imbroglioni.
«Se si comportassero davvero come puri imbroglioni, immagino che ci sarebbe una notevole pressione selettiva per ridurne al minimo la produzione», ha detto Brooke. «Invece continuiamo a vederli».
Adesso i sociovirologi stanno cercando di capire precisamente quanti imbrogli e quanta cooperazione vi siano nel mondo dei virus. Come sanno gli scienziati che studiano il comportamento animale, può essere molto difficile. Lo stesso individuo può imbrogliare in certe situazioni e cooperare in altre. Inoltre è possibile che con l’evoluzione un imbroglio egoistico si trasformi in un comportamento simile alla cooperazione.
Leeks ammette che i virus incompleti potrebbero costituire una parte produttiva della comunità virale. A suo avviso però bisogna sempre considerare la possibilità che, perfino quando sembrano cooperare, in realtà stiano imbrogliando. La teoria dell’evoluzione prevede che l’inganno insorga spesso nei virus, a causa dei loro genomi minuscoli. «Tra i virus il conflitto è una tendenza dominante», commenta Leeks.
In realtà l’imbroglio può determinare adattamenti che appaiono come una cooperazione. Per spiegare questo conflitto nascosto, spesso Leeks fa l’esempio dei nanovirus, che infettano piante come il prezzemolo e le fave. I nanovirus si replicano in un modo sorprendente: hanno in totale appena otto geni, ma ogni particella virale ne ha solo uno. Riescono a replicarsi solo quando tutte le particelle del nanovirus, ciascuna con uno degli otto diversi geni, infettano la stessa pianta contemporaneamente; allora le cellule della pianta producono proteine da tutti e otto i geni, e nuove copie dei geni virali stessi, che vengono quindi racchiusi in nuovi involucri.
I nanovirus si potrebbero considerare un esempio da manuale di cooperazione: i virus sono obbligati a collaborare per avere la possibilità di replicarsi. Questa organizzazione ricorda la suddivisione del lavoro in un alveare, in cui gli insetti si dividono i compiti di raccogliere il nettare, assistere le larve e cercare nuovi luoghi in cui trasferire la colonia. Leeks e colleghi però hanno descritto un possibile percorso evolutivo dei nanovirus – e di altri cosiddetti virus multipartiti – avvenuto grazie agli imbrogli.
Immaginiamo che l’antenato dei nanovirus all’inizio abbia tutti e otto i geni impacchettati in un genoma virale. Poi il virus produce per caso alcuni imbroglioni incompleti, che hanno solo uno di questi geni. Quell’imbroglione riesce ad affermarsi perché i virus pienamente funzionali ne copiano il gene. E se nel corso dell’evoluzione si forma un secondo imbroglione, con un gene diverso, ottiene lo stesso vantaggio dallo sfruttamento dei virus intatti. Quando Leeks e colleghi hanno realizzato un modello matematico di questo scenario evolutivo, hanno scoperto che i virus possono facilmente continuare a frammentarsi generando altri imbroglioni.
E continuano a farlo finché non resta nessuno dei virus originari in grado di replicarsi da sé. Oggi i nanovirus dipendono l’uno dall’altro per poter sopravvivere, ma è solo perché i loro antenati si sfruttavano l’un l’altro. Dietro la facciata della cooperazione si nasconde l’imbroglio.
Ci vorranno anni di ricerche per chiarire la natura delle società virali. Risolvere il mistero potrebbe però offrire vantaggi straordinari. Una volta compreso il comportamento sociale dei virus, gli scienziati potrebbero riuscire a metterli l’uno contro l’altro Negli anni novanta i biologi evolutivi sono riusciti a dare informazioni utili allo sviluppo di farmaci antivirali. Quando i pazienti affetti da HIV assumevano un solo farmaco, evolvendosi il virus acquisiva rapidamente la capacità di sfuggirgli. Quando invece i medici prescrivevano tre antivirali combinati, per i virus diventava molto più difficile sfuggire a tutti. La probabilità che un virus acquisisse le mutazioni per resistere a tutti e tre i farmaci era estremamente bassa. Di conseguenza i cocktail di farmaci anti- HIV sono efficaci ancora oggi.
Oggi i sociovirologi stanno provando a capire se la biologia evolutiva possa contribuire ancora una volta alla lotta ai virus, cercando vulnerabilità nel modo in cui i virus imbrogliano e cooperano per poterle sfruttare per fermare le infezioni. «Lo consideriamo un rivoltare le carte a nostro vantaggio contro i virus», ha commentato Vignuzzi. Vignuzzi e colleghi hanno verificato questa idea nei topi con il virus Zika. Hanno progettato virus Zika incompleti, in grado di sfruttare senza pietà quelli funzionali. Quando hanno iniettato questi imbroglioni in topi contagiati, la popolazione dei virus funzionali negli animali è crollata rapidamente. La società francese Meletios Therapeutics ha stipulato un accordo di licenza sui virus imbroglioni di Vignuzzi, e li sta sviluppando con la prospettiva di usarli come farmaco antivirale per svariati virus. All’Università di New York, Ben tenOever e colleghi stanno lavorando con i virus dell’influenza per progettare quello che potrebbe essere un imbroglione ancora più efficace. Stanno sfruttando una stranezza della biologia dei virus: ogni tanto il materiale genetico di due virus che infettano la stessa cellula finisce per essere racchiuso in un unico nuovo virus. Gli studiosi si sono chiesti se si potesse realizzare un virus imbroglione in grado di invadere rapidamente il genoma di un virus dell’influenza funzionale. Il team dell’Università di New York ha raccolto virus incompleti da cellule contagiate dall’influenza. Partendo da questo lotto ha identificato un super-imbroglione, particolarmente abile a inserire i propri geni in virus dell’influenza funzionali. Il disturbo di questo imbroglione ha prodotto un virus ibrido, con una scarsa capacità di replicarsi.
Per vedere che risultati otterrebbe questo super-imbroglione come antivirale, tenOever e colleghi l’hanno inserito in uno spray nasale. Hanno contagiato alcuni topi con un ceppo letale di influenza, per poi spruzzare il super-imbroglione nel naso degli animali. Questo virus era così abile a sfruttare quelli funzionali e a rallentarne la replicazione che i topi sono riusciti a guarire dall’influenza in un paio di settimane. Senza l’aiuto dei super-imbroglioni, gli animali morivano.
I ricercatori hanno ottenuto risultati ancora migliori spruzzando i super-imbroglioni nel naso dei topi prima che fossero contagiati. I super-imbroglioni stavano in attesa nei topi e attaccavano i virus funzionali dell’influenza appena questi arrivavano. Quindi tenOever e colleghi hanno cominciato a eseguire esperimenti con i furetti. In questi animali il contagio dell’influenza è più simile a quello che avviene tra gli esseri umani: in particolare, a differenza dei topi, i virus si diffondono con facilità da un furetto malato a uno sano in una gabbia adiacente. I ricercatori hanno rilevato che lo spray nasale riduceva velocemente il numero di virus influenzali nei furetti contagiati, proprio come nei topi. Ma osservando i virus che i furetti infettati trasmettevano a quelli sani hanno scoperto qualcosa di sorprendente: non c’erano solo virus normali, ma anche super-imbroglioni, racchiusi nei loro involucri proteici.
Questa scoperta lascia intravedere una possibilità allettante: che i super-imbroglioni riescano a fermare la diffusione di un nuovo ceppo di influenza. Se una persona ricevesse irrorazioni di virus super-imbroglioni, potrebbe guarire in fretta da un’infezione. E se contagiasse altre persone con il nuovo ceppo di virus, trasmetterebbe loro anche il super-imbroglione con cui fermarlo. Secondo tenOever «questo può neutralizzare una pandemia». Almeno in teoria è così. TenOever dovrebbe eseguire uno studio clinico sugli esseri umani per verificare se le cose funzionano come negli animali. Aggiunge che però le autorità sono restie ad approvare una sperimentazione simile, perché si tratterebbe di somministrare un farmaco che non solo funziona nel corpo di chi lo riceve, ma potrebbe contagiare altre persone, consenzienti o no. Secondo tenOever «questo sembra essere il bacio della morte » per le sue speranze di trasformare in medicina la scienza dei virus sociali.
Díaz-Muñoz ritiene giusto usare cautela nello sfruttare la sociovirologia, dato che abbiamo ancora molto da imparare su di essa. Progettare farmaci con molecole inerti e sfruttare la vita sociale dei virus sono due cose molto diverse. «È qualcosa di vivo, in continua evoluzione», commenta.

L’originale di questo articolo è stato pubblicato l’11 aprile 2024 da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente on line promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di «Le Scienze». Riproduzione autorizzata.

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Eugenio Caruso - 31 dicembre 2024



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