La scoperta di una vita sociale dei virus mostra ancora una volta la complessità del mondo naturale
A dispetto del suo nome, il mosaico
del tabacco è una malattia che
colpisce parecchie piante di interesse
commerciale, dal cetriolo al mais,
dalla barbabietola da zucchero alla patata.
E il tabacco, ovviamente. Essendo una malattia
altamente infettiva, che si trasmette
per contatto senza alcun bisogno di vettori,
ha attirato l’interesse degli scienziati lasciando
un segno nella storia.
Nel 1886 lo studioso tedesco Adolf Mayer
lo descrisse per la prima volta ma non riuscì
a scoprirne la causa, come riconosceva
nell’articolo pubblicato su un’oscura rivista.
Qualche anno dopo, usando i più piccoli
filtri disponibili a quel tempo, il botanico
russo Dmitrij Ivanovskij dimostrò che doveva
essere provocato da patogeni più piccoli
dei batteri conosciuti. Conducendo
esperimenti simili a quelli di Ivanovskij, il
microbiologo e botanico olandese Martinus
Willem Beijerinck scoprì che quel patogeno
si riproduceva nelle cellule di altri organismi,
ma non in coltura. Lo chiamò virus,
dalla parola latina per «veleno».
Nei 125 anni trascorsi dalla pubblicazione
del suo lavoro, abbiamo fatto conoscenza
con una miriade di virus, anche a
nostre spese. Patogeni che provocano malattie
nelle piante, negli animali, negli esseri
umani. Abbiamo incontrato virus con
il genoma costituito da DNA e altri da RNA.
Virus trasmessi da vettori e altri che non
ne richiedono.
Uno, il virus del vaiolo, lo
abbiamo debellato grazie a una campagna
vaccinale globale. Con quello della polio
siamo sulla buona strada. Insomma, qualcosa
abbiamo imparato, anche se è ancora
aperto il dibattito scientifico sul fatto che
vadano considerati esseri viventi o no.
Una delle cose più sorprendenti, su cui
gli specialisti stanno indagando negli ultimi
anni, è che i virus, a modo loro, hanno
una vita sociale. Fino a poco tempo fa, scrive
Carl Zimmer, «i ricercatori
davano per scontato che ogni virus fosse
una particella solitaria alla deriva nel mondo
e riuscisse a replicarsi solo se si imbatteva
nella cellula giusta, in grado di accoglierlo
». Invece ci sono, per esempio, virus
incompleti, risultato di errori di copiatura
del genoma durante la replicazione. Questi
virus riescono a penetrare nelle cellule,
ma una volta all’interno non sono in grado
di replicarsi. Allora, per farlo, devono
sfruttare altre particelle virali.
Sono quelli che Zimmer chiama i virus
imbroglioni. Che forse però non sono semplici
approfittatori. In una visione alternativa,
i virus incompleti collaborerebbero
con quelli funzionali per aumentare la durata
dell’infezione. «Se i virus funzionali si
replicassero in modo incontrollato – scrive
Zimmer – potrebbero sopraffare e uccidere
l’ospite in cui si trovano prima di trovarne
un altro da contagiare». Il ruolo «sociale»
degli imbroglioni, dunque, sarebbe quello
di rallentare l’infezione per il tempo necessario
per trasmetterla a un nuovo ospite.
A nessuno, naturalmente, verrebbe
in mente di attribuire un’intenzionalità a
questi minuscoli, fastidiosi compagni di
viaggio. Ma si stanno accumulando prove
di un comportamento meno scontato
di quanto credessimo. E pensare che hanno
un genoma costituito da poche migliaia
di basi, racchiuso all’interno di un capside
proteico, e nient’altro. Ma tanto basta per
capire quanto siano complessi i fenomeni
che le scienze della vita devono indagare.
E' proprio la loro semplicità a rendere i virus così interessanti
per molti scienziati, spiega Marco Vignuzzi, virologo presso i Singapore
Agency for Science, Research and Technology Infectious
Diseases Labs. «Cercavamo un approccio riduzionista».
Quel riduzionismo diede i suoi frutti. Gli studi sui virus furono
essenziali per la nascita della biologia moderna. Non avendo la
complessità delle cellule, rivelarono regole fondamentali sul funzionamento
dei geni. Vignuzzi aggiunge che però il riduzionismo
sui virus ha avuto un difetto: se si dà per scontata la loro semplicità,
non si riesce a immaginare l’eventualità che possano essere
complessi in modi diversi da quelli che conosciamo.
Per esempio, considerando i virus come pacchetti isolati di geni
sarebbe assurdo pensare che possano avere una vita sociale.
Eppure, secondo Vignuzzi e una nuova scuola di virologi con idee
simili alle sue, l’idea non è per niente assurda. Negli ultimi decenni
sono state scoperte strane caratteristiche dei virus, che non
avrebbero senso se si trattasse di particelle solitarie. I ricercatori
stanno invece rivelando un mondo sociale dei virus, straordinariamente
complesso. Questi sociovirologi, come a volte si definiscono,
ritengono che i virus abbiano un senso solo come membri
di una comunità.
Certo, la vita sociale dei virus non somiglia molto a quella di altre
specie. Non postano selfie sui social media, non fanno volontariato
al banco alimentare né commettono furti di identità, come
fanno gli esseri umani. Non stringono alleanze per lottare alla
conquista di un branco, come fanno i babbuini; non raccolgono il
nettare per nutrire la regina, come le api, e non si addensano formando
tappetini viscidi per difendersi insieme, come fanno alcuni
batteri. Eppure i sociovirologi credono che effettivamente i virus
si imbroglino, cooperino e interagiscano tra loro in altri modi.
Il settore della sociovirologia è ancora giovane e limitato. La
prima conferenza dedicata alla vita sociale dei virus si è svolta
nel 2022 e la seconda lo scorso giugno, con la partecipazione di
50 persone. Eppure i sociovirologi sostengono che il loro nuovo
settore possa avere conseguenze di ampia portata. Malattie come
l’influenza non hanno senso se immaginiamo che i virus siano separati
tra loro. E se riusciamo a decifrarne la vita sociale potremmo
essere in grado di sfruttarla per reagire alle malattie provocate
da alcuni di loro.
Alcune tra le principali prove della vita sociale dei virus si trovano
in bella vista da quasi un secolo. Dopo avere scoperto il
virus dell’influenza, all’inizio degli anni trenta, gli scienziati capirono
di poterlo coltivare in grandi quantità, iniettandolo in uova
di pollo e lasciando che si moltiplicasse al loro interno. Quindi i ricercatori
potevano usare i nuovi virus per infettare animali da laboratorio
su cui eseguire ricerche, oppure iniettarli in altre uova
per coltivare nuovi virus.
Verso la fine degli anni quaranta, mentre coltivava alcuni virus,
il virologo danese Preben von Magnus notò qualcosa di strano:
molti di quelli prodotti in un uovo non riuscivano a replicarsi
quando li iniettava in un altro. Entro il terzo ciclo di trasmissione
solo un virus su 10.000 riusciva ancora a replicarsi. Nei cicli successivi,
però, i virus difettivi diventavano più rari e quelli in grado
di replicarsi tornavano ad aumentare. Von Magnus sospettava
che i virus incapaci di replicarsi non avessero completato lo sviluppo,
quindi li definì «incompleti».
Negli anni successivi i virologi soprannominarono «effetto von
Magnus» il boom e il crollo dei virus incompleti. Lo consideravano
importante, ma solo come un problema da risolvere. Dato che
nessuno aveva mai visto virus incompleti se non in una coltura in
laboratorio, i virologi pensavano che fossero artificiali e idearono
dei sistemi per liberarsene.
Sam Díaz-Muñoz, virologo dell’Università della California a
Davis, ricorda l’idea allora più diffusa nel settore: «Devi eliminarli
dalle colture di laboratorio perché non vuoi che interferiscano
con i tuoi esperimenti. Perché non è una cosa “naturale”».
Negli anni sessanta i ricercatori osservarono che i virus incompleti
avevano un genoma più breve rispetto agli altri. Questa scoperta
rafforzò la convinzione di molti virologi che i virus incompleti fossero solo strane entità difettive, prive dei geni necessari
per replicarsi. Tuttavia, negli anni dieci del XXI secolo la disponibilità
di tecnologie potenti ed economiche per sequenziare i geni
ha reso evidente che in realtà i virus incompleti sono presenti in
abbondanza nel nostro corpo.
In uno studio pubblicato nel 2013, ricercatori dell’Università di
Pittsburgh hanno eseguito tamponi nasali e orali a persone malate
di influenza. Hanno estratto il materiale genetico dai virus
dell’influenza contenuti nei campioni, scoprendo che ad alcuni di
loro mancavano dei geni. Questi virus menomati si sono formati
quando alcune cellule infettate hanno commesso errori mentre
copiavano il genoma di un virus funzionale, saltando accidentalmente
alcune parti dei geni.
Ulteriori studi hanno confermato questa scoperta. Inoltre hanno
rivelato altri modi in cui si possono formare i virus incompleti.
Per esempio, alcuni tipi di virus hanno un genoma confuso. In
questi casi, una cellula infettata aveva cominciato
a copiare un genoma virale, ma durante
il percorso era tornata indietro, copiando il
genoma a ritroso fino al punto di partenza. Ancora
altri virus incompleti si formano quando
delle mutazioni interrompono la sequenza di
un gene, che quindi non può più codificare una
proteina funzionale.
Questi studi hanno cancellato la vecchia
convinzione che i virus incompleti di von Magnus
fossero solo un prodotto artificiale degli
esperimenti in laboratorio. «Fanno parte per
natura della biologia dei virus», ha commentato
Díaz-Muñoz.
La scoperta dei virus incompleti nel nostro
corpo ha ispirato una nuova ondata di interesse
scientifico nei loro confronti. Quello dell’influenza
non è un caso isolato: molti virus si presentano
in forme incomplete; queste forme
costituiscono la maggioranza dei virus rilevati
nelle persone contagiate per esempio dal virus
respiratorio sinciziale (RSV) e dal morbillo.
Gli scienziati inoltre hanno inventato nuovi
nomi per i virus incompleti di von Magnus.
Qualcuno li definisce «particelle difettive interferenti
». Qualcun altro preferisce «genomi virali
non standard».
Díaz-Muñoz e i suoi colleghi li chiamano in
un altro modo: imbroglioni.
Di solito i virus incompleti sono in grado
di penetrare nelle cellule, ma una volta
all’interno non riescono a replicarsi da sé.
Mancano loro alcuni dei geni essenziali per dirottare
l’attrezzatura con cui l’ospite sintetizza
le proteine, per esempio il gene per un enzima
che copia i geni, detto polimerasi. Per potersi
replicare, quindi, devono imbrogliare. Devono
sfruttare gli altri virus.
Per fortuna degli imbroglioni, spesso le cellule
sono infettate da più di un genoma virale.
Se nella cellula di un imbroglione compare un
virus funzionale, questo produce le polimerasi.
L’imbroglione può quindi usare le polimerasi dell’altro virus per
copiare i propri geni.
In una cellula di questo tipo i due virus sono in competizione
per realizzare più copie del proprio genoma. Ma l’imbroglione ha
un notevole vantaggio: ha meno materiale genetico da replicare.
Quindi la polimerasi copia un genoma incompleto più velocemente
di uno completo.
E il vantaggio diventa ancora più grande nel corso di un’infezione,
quando i virus incompleti e quelli funzionali si spostano
da una cellula all’altra. «Essere lunghi la metà non significa che
il vantaggio raddoppia», ha commentato Asher Leeks, ricercatore
post-dottorato alla Yale University che studia l’evoluzione sociale
nei virus. «Può significare che il vantaggio aumenta di mille
volte o più».
Altri virus imbroglioni hanno polimerasi funzionanti, ma sono
privi dei geni per produrre gli involucri proteici in cui custodire il loro materiale genetico. Si replicano restando in attesa che compaia
un virus funzionale, quindi intrufolano il proprio genoma
negli involucri che produce. Alcuni studi fanno pensare che i
genomi degli imbroglioni siano in grado di penetrare negli involucri
più velocemente rispetto a quelli funzionali.
Qualunque sia la strategia usata da un virus incompleto per replicarsi,
il risultato non cambia. Questi virus non pagano il prezzo
della cooperazione, pur sfruttando quella degli altri.
«Un imbroglione da solo non fa granché, mentre ottiene risultati
migliori quando è in relazione con un altro virus, e se ci sono
molti imbroglioni non resta nessuno da sfruttare», ha spiegato
Díaz-Muñoz. «Da un punto di vista evolutivo, non serve altro per
definire l’imbroglio».
L’ultima parte di questa definizione pone un enigma. Se gli imbroglioni
hanno un successo così straordinario – e in effetti ce
l’hanno – dovrebbero provocare l’estinzione dei virus. Man mano
che generazioni di virus escono dalle cellule vecchie distruggendole
e vanno a infettarne di nuove, gli imbroglioni dovrebbero essere
sempre più diffusi, continuando a replicarsi fino a fare scomparire
i virus funzionali. Ma se non restano più virus funzionali,
gli imbroglioni non riescono a replicarsi da sé. Tutta la popolazione
di virus sarebbe quindi destinata all’oblio.
È però evidente che virus come quello dell’influenza sfuggono
a questa rapida estinzione, quindi la loro vita sociale non può
essere soltanto una spirale della morte fatta di imbrogli. Secondo
Carolina López, virologa della Washington University School of
Medicine di St. Louis, alcuni virus che danno l’impressione di imbrogliare
in realtà potrebbero svolgere un ruolo più positivo nelle
società virali. Invece di sfruttare gli altri virus, collaborano con loro
e li aiutano a prosperare.
«Li consideriamo parte di una comunità – ha commentato
López – in cui ciascuno svolge un ruolo essenziale».
Il debutto di López nel mondo della sociovirologia risale ai primi
anni Duemila, quando stava studiando il virus di Sendai, un
patogeno che infetta i topi. I ricercatori sapevano da anni che due
ceppi del virus di Sendai si comportavano in modo diverso. Uno,
detto SeV-52, era in grado di non farsi notare dal sistema immunitario
e quindi di provocare un’infezione massiccia. Invece i topi
infettati da un altro ceppo, chiamato SeV-Cantell, riuscivano a opporre
una resistenza forte e rapida, che li aiutava a guarire in breve
tempo. López e colleghi hanno scoperto la differenza: il ceppo
SeV-Cantell produceva molti virus incompleti.
Come facevano i virus incompleti a scatenare il sistema immunitario
dei topi? Dopo una serie di esperimenti, López e colleghi
hanno stabilito che i virus incompleti portano le loro cellule ospiti
ad attivare un sistema di allarme. Le cellule producono un segnale,
detto interferone, con cui avvertono quelle vicine che è
arrivato un invasore. Le vicine possono quindi prepararsi per difendersi
dai virus ed evitare che l’infezione si diffonda in modo
incontrollato nel tessuto circostante.
Questo fenomeno non era una stranezza del virus di Sendai, né
del sistema immunitario dei topi. Quando López e colleghi hanno
studiato l’RSV, che ogni anno negli Stati Uniti fa ammalare oltre
2 milioni di persone provocando migliaia di vittime, hanno scoperto
che anche i virus incompleti prodotti nelle infezioni naturali
scatenavano una forte risposta immunitaria da parte delle cellule
infettate.
Questo effetto ha sorpreso López. Se i virus incompleti erano imbroglioni, per loro non aveva senso indurre un ospite ad abbreviare
la durata di un’infezione. Una volta che il sistema immunitario
avesse distrutto i virus funzionali, agli imbroglioni non sarebbero
rimaste vittime da sfruttare.
López ha capito di poter dare un senso ai suoi risultati solo
cambiando prospettiva sui virus. Invece di fissarsi sull’idea che i
virus incompleti stessero imbrogliando, ha cominciato a pensare
che stessero collaborando con quelli funzionali verso un obiettivo
comune: la sopravvivenza nel lungo periodo. Si è resa conto
che, se i virus funzionali si replicassero in modo incontrollato, potrebbero
sopraffare e uccidere l’ospite in cui si trovano prima di
trovarne un altro da contagiare. Sarebbe controproducente.
«Serve un certo livello di risposta immunitaria, per mantenere
in vita l’ospite il tempo necessario per passare a un altro», ha
commentato López. E qui entrano in gioco i virus incompleti, ha
aggiunto. Questi potrebbero rallentare l’infezione, in modo che
il loro ospite abbia la possibilità di trasmettere i virus al successivo.
Può darsi quindi che vi sia una cooperazione tra i virus funzionali
e quelli incompleti. Quelli funzionali producono l’attrezzatura
molecolare per generare nuovi virus. Nel frattempo i virus
incompleti rallentano quelli funzionali per evitare di far collassare
l’ospite, perché in questo caso tutta la comunità terminerebbe
la propria corsa al contagio. Negli ultimi anni López e colleghi hanno scoperto che i virus
incompleti possono frenare le infezioni in svariati modi. Per
esempio, possono fare sì che le cellule reagiscano come se fossero
sotto stress da caldo o da freddo. Per reagire allo stress, una cellula
chiude i centri di produzione delle proteine per risparmiare energia.
In questo modo si ferma anche la produzione di nuovi virus.
Christopher Brooke, virologo presso l’Università dell’Illinois a
Urbana-Champaign, concorda con López sull’idea che i virus esistano
in comunità. Inoltre sospetta che i virus incompleti abbiano
anche altri compiti nelle cellule, che lui e i suoi colleghi devono
ancora capire.
Brooke sta cercando prove di questi compiti nei virus dell’influenza.
Un virus influenzale completo ha otto segmenti genici,
che in genere formano almeno 12 proteine. Quando però le cellule
infettate producono virus incompleti, a volte saltano la parte
centrale di un gene e attaccano l’inizio alla fine. Nonostante questo
drastico cambiamento, i geni alterati producono ancora proteine,
che però sono nuove e potrebbero avere funzioni a loro volta
nuove. In uno studio pubblicato a febbraio su «Nucleic Acids
Research», Brooke e colleghi hanno scoperto nelle cellule infettate
dall’influenza centinaia di queste nuove proteine. Poiché sono
sconosciute alla scienza, i ricercatori stanno cercando di capire
che cosa facciano. Gli esperimenti eseguiti su una di loro portano a ritenere che si attacchi alle proteine della polimerasi formate
dai virus intatti e impedisca loro di copiare nuovi genomi virali.
Intanto però gli scienziati sanno pochissimo su ciò che ottengono
i virus incompleti producendo una così grande quantità di
proteine strane. «Con la mia fantasia limitata non riesco minimamente
a immaginare che cosa sia possibile», ha commentato Brooke.
«È una materia prima con cui il virus può giocare». Dubita,
però, che i virus incompleti che producono tutte queste proteine
strane siano imbroglioni.
«Se si comportassero davvero come puri imbroglioni, immagino
che ci sarebbe una notevole pressione selettiva per ridurne al
minimo la produzione», ha detto Brooke. «Invece continuiamo a
vederli».
Adesso i sociovirologi stanno cercando di capire precisamente
quanti imbrogli e quanta cooperazione vi siano nel mondo
dei virus. Come sanno gli scienziati che studiano il comportamento
animale, può essere molto difficile. Lo stesso individuo può imbrogliare
in certe situazioni e cooperare in altre. Inoltre è possibile
che con l’evoluzione un imbroglio egoistico si trasformi in un
comportamento simile alla cooperazione.
Leeks ammette che i virus incompleti potrebbero costituire
una parte produttiva della comunità virale. A suo avviso però bisogna sempre considerare la possibilità che, perfino quando sembrano
cooperare, in realtà stiano imbrogliando. La teoria dell’evoluzione
prevede che l’inganno insorga spesso nei virus, a causa
dei loro genomi minuscoli. «Tra i virus il conflitto è una tendenza
dominante», commenta Leeks.
In realtà l’imbroglio può determinare adattamenti che appaiono
come una cooperazione. Per spiegare questo conflitto nascosto,
spesso Leeks fa l’esempio dei nanovirus, che infettano piante
come il prezzemolo e le fave. I nanovirus si replicano in un modo
sorprendente: hanno in totale appena otto geni, ma ogni particella
virale ne ha solo uno. Riescono a replicarsi solo quando tutte le
particelle del nanovirus, ciascuna con uno degli otto diversi geni,
infettano la stessa pianta contemporaneamente; allora le cellule
della pianta producono proteine da tutti e otto i geni, e nuove
copie dei geni virali stessi, che vengono quindi racchiusi in nuovi
involucri.
I nanovirus si potrebbero considerare un esempio da manuale
di cooperazione: i virus sono obbligati a collaborare per avere la
possibilità di replicarsi. Questa organizzazione ricorda la suddivisione
del lavoro in un alveare, in cui gli insetti si dividono i compiti
di raccogliere il nettare, assistere le larve e cercare nuovi luoghi
in cui trasferire la colonia. Leeks e colleghi però hanno descritto
un possibile percorso evolutivo dei nanovirus – e di altri cosiddetti
virus multipartiti – avvenuto grazie agli imbrogli.
Immaginiamo che l’antenato dei nanovirus all’inizio abbia tutti
e otto i geni impacchettati in un genoma virale. Poi il virus produce
per caso alcuni imbroglioni incompleti, che hanno solo uno di
questi geni. Quell’imbroglione riesce ad affermarsi perché i virus
pienamente funzionali ne copiano il gene. E se nel corso dell’evoluzione
si forma un secondo imbroglione, con un gene diverso, ottiene
lo stesso vantaggio dallo sfruttamento dei virus intatti.
Quando Leeks e colleghi hanno realizzato un modello matematico
di questo scenario evolutivo, hanno scoperto che i virus possono
facilmente continuare a frammentarsi generando altri imbroglioni.
E continuano a farlo finché non resta nessuno dei virus
originari in grado di replicarsi da sé. Oggi i nanovirus dipendono
l’uno dall’altro per poter sopravvivere, ma è solo perché i loro antenati
si sfruttavano l’un l’altro. Dietro la facciata della cooperazione
si nasconde l’imbroglio.
Ci vorranno anni di ricerche per chiarire la natura delle società
virali. Risolvere il mistero potrebbe però offrire vantaggi straordinari.
Una volta compreso il comportamento sociale dei virus, gli
scienziati potrebbero riuscire a metterli l’uno contro l’altro Negli anni novanta i biologi evolutivi sono riusciti a dare informazioni
utili allo sviluppo di farmaci antivirali. Quando
i pazienti affetti da HIV assumevano un solo farmaco, evolvendosi
il virus acquisiva rapidamente la capacità di sfuggirgli. Quando
invece i medici prescrivevano tre antivirali combinati, per i virus
diventava molto più difficile sfuggire a tutti. La probabilità che un
virus acquisisse le mutazioni per resistere a tutti e tre i farmaci
era estremamente bassa. Di conseguenza i cocktail di farmaci anti-
HIV sono efficaci ancora oggi.
Oggi i sociovirologi stanno provando a capire se la biologia
evolutiva possa contribuire ancora una volta alla lotta ai virus,
cercando vulnerabilità nel modo in cui i virus imbrogliano e cooperano
per poterle sfruttare per fermare le infezioni. «Lo consideriamo
un rivoltare le carte a nostro vantaggio contro i virus», ha
commentato Vignuzzi. Vignuzzi e colleghi hanno verificato questa idea nei topi con
il virus Zika. Hanno progettato virus Zika incompleti, in grado di
sfruttare senza pietà quelli funzionali. Quando hanno iniettato
questi imbroglioni in topi contagiati, la popolazione dei virus funzionali
negli animali è crollata rapidamente. La società francese
Meletios Therapeutics ha stipulato un accordo di licenza sui virus
imbroglioni di Vignuzzi, e li sta sviluppando con la prospettiva di
usarli come farmaco antivirale per svariati virus.
All’Università di New York, Ben tenOever e colleghi stanno lavorando
con i virus dell’influenza per progettare quello che potrebbe
essere un imbroglione ancora più efficace. Stanno sfruttando
una stranezza della biologia dei virus: ogni tanto il materiale
genetico di due virus che infettano la stessa cellula finisce per essere
racchiuso in un unico nuovo virus. Gli studiosi si sono chiesti
se si potesse realizzare un virus imbroglione in grado di invadere
rapidamente il genoma di un virus dell’influenza funzionale.
Il team dell’Università di New York ha raccolto virus incompleti
da cellule contagiate dall’influenza. Partendo da questo lotto ha
identificato un super-imbroglione, particolarmente abile a inserire
i propri geni in virus dell’influenza funzionali. Il disturbo di
questo imbroglione ha prodotto un virus ibrido, con una scarsa
capacità di replicarsi.
Per vedere che risultati otterrebbe questo super-imbroglione
come antivirale, tenOever e colleghi l’hanno inserito in uno
spray nasale. Hanno contagiato alcuni topi con un ceppo letale di influenza, per poi spruzzare il super-imbroglione nel naso degli
animali. Questo virus era così abile a sfruttare quelli funzionali e a
rallentarne la replicazione che i topi sono riusciti a guarire dall’influenza
in un paio di settimane. Senza l’aiuto dei super-imbroglioni,
gli animali morivano.
I ricercatori hanno ottenuto risultati ancora migliori spruzzando
i super-imbroglioni nel naso dei topi prima che fossero
contagiati. I super-imbroglioni stavano in attesa nei topi e attaccavano
i virus funzionali dell’influenza appena questi arrivavano.
Quindi tenOever e colleghi hanno cominciato a eseguire
esperimenti con i furetti. In questi animali il contagio
dell’influenza è più simile a quello che avviene tra gli esseri umani:
in particolare, a differenza dei topi, i virus si diffondono con
facilità da un furetto malato a uno sano in una gabbia adiacente.
I ricercatori hanno rilevato che lo spray nasale riduceva velocemente
il numero di virus influenzali nei furetti contagiati, proprio
come nei topi. Ma osservando i virus che i furetti infettati
trasmettevano a quelli sani hanno scoperto qualcosa di sorprendente:
non c’erano solo virus normali, ma anche super-imbroglioni,
racchiusi nei loro involucri proteici.
Questa scoperta lascia intravedere una possibilità allettante:
che i super-imbroglioni riescano a fermare la diffusione di un
nuovo ceppo di influenza. Se una persona ricevesse irrorazioni
di virus super-imbroglioni, potrebbe guarire in fretta da un’infezione. E se contagiasse altre persone con il nuovo ceppo di virus,
trasmetterebbe loro anche il super-imbroglione con cui fermarlo.
Secondo tenOever «questo può neutralizzare una pandemia».
Almeno in teoria è così. TenOever dovrebbe eseguire uno studio
clinico sugli esseri umani per verificare se le cose funzionano
come negli animali. Aggiunge che però le autorità sono restie
ad approvare una sperimentazione simile, perché si tratterebbe
di somministrare un farmaco che non solo funziona nel corpo di
chi lo riceve, ma potrebbe contagiare altre persone, consenzienti
o no. Secondo tenOever «questo sembra essere il bacio della morte
» per le sue speranze di trasformare in medicina la scienza dei
virus sociali.
Díaz-Muñoz ritiene giusto usare cautela nello sfruttare la sociovirologia,
dato che abbiamo ancora molto da imparare su di essa.
Progettare farmaci con molecole inerti e sfruttare la vita sociale
dei virus sono due cose molto diverse. «È qualcosa di vivo, in
continua evoluzione», commenta.
L’originale di questo articolo è stato pubblicato l’11 aprile 2024
da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente
on line promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione
pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di «Le Scienze».
Riproduzione autorizzata.
Eugenio Caruso - 31 dicembre 2024