Per iniziare il nuovo anno, non c’è niente di meglio che leggere (affrontare) una delle prime storie che la cultura mediterranea ha prodotto, svariati secoli prima di Cristo: l’Odissea. La storia che leggiamo ancora oggi, spesso in una versione semplificata (l’edizione di Daniele Ventre, per fortuna ricchissima di note, restituisce all’Odissea la giusta complessità e il suo fascino), è la base dalla quale poi nei secoli a venire abbiamo declinato le altre storie, una matrice che ancora oggi usiamo nelle scelte di ogni giorno.
La madre di tutte le storie
Per iniziare il nuovo anno (2025), non c’è niente di
meglio che leggere (affrontare) una delle prime
storie che la cultura mediterranea ha prodotto,
svariati secoli prima di Cristo: l’Odissea. La storia
che leggiamo ancora oggi, spesso in una versione
semplificata (l’edizione di Daniele Ventre, per
fortuna ricchissima di note, restituisce all’Odissea
la giusta complessità e il suo fascino), è la base
dalla quale poi nei secoli a venire abbiamo declinato
le altre storie, una matrice che ancora oggi
usiamo nelle scelte di ogni giorno.
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Penelope corteggiata dai Proci
L’Odissea risponde a una domanda esistenziale:
qual è lo scopo della vita. Anche se i tempi per
fortuna cambiano e con essi (più lentamente) le
strutture culturali, lo scopo della vita che l’Odissea
suggerisce sembra immarcescibile. È bene ricordare
che l’Odissea è frutto di una rielaborazione
a cura di un poeta monumentale che, con
razionalità e logica narrativa, ha sistemato versioni
più antiche di canti, del cosiddetto ciclo dei
nostoi, che raccontavano dei ritorni dei combattenti
della guerra di Troia (esistono proto Odissee
dove Ulisse (in greco Odisseo) è un pirata che fa razzie nei villaggi).
Segnati dal dolore
Per prima cosa, l’Odissea è una storia che in
chiosa ma organicamente affronta lo stress post
traumatico dei sopravvissuti della guerra di Troia. Sono
personaggi tragici, segnati dal dolore, che ricorrono
a erbe medicamentose e magiche per stordirsi:
un grande stress post traumatico collettivo,
un desiderio di dormire e mollare le redini
di un corpo ferito.
Ma è anche un storia piena di
donne. E a questo proposito è ingiusto e limitante
raccontare l’Odissea come la storia di un uomo
che, dove aver combattuto circa dieci anni a Troia,
se ne va ramingo per il Mediterraneo, ora trattenuto
da Calipso (sette anni), poi da Circe (un anno), ora protagonista
volente o nolente di avventure eccezionali, perché
vittima delle ire di Nettuno (inferocito perché
Ulisse gli ha accecato Polifemo); un uomo insomma
che torna a casa (dopo quasi 20 anni).
La storia infatti si evolve seguendo un doppio
sguardo e una doppia storia, quella di Ulisse
e quella di Penelope; poi certo, il loro unico figlio,
Telemaco ha la sua voce in capitolo. Per capire
l’Odissea, per seguire i suoi racconti realistici
e fantastici, le «bugie cretesi» che Ulisse racconta ai Feaci, bisogna partire dall’inizio e quindi da
una domanda.
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Ulisse incontra Nausicaa
Prima una breve digressione.
La storia non
inizia con Ulisse, ma con Penelope e Telemaco.
Entrambi piangono e lamentano la scomparsa
di Ulisse. Telemaco, ormai adulto, oppresso
dalla presenza dei Proci che occupano la dimora
di Ulisse, comincia un viaggio alla ricerca del
padre. Accompagnato da Mentore (sotto le cui
spoglie fa capolino di tanto in tanto Atena), visita
i vecchi eroi della guerra di Troia, amici del padre
o che hanno conosciuto Ulisse.
Sono quattro
canti, molto belli, dove lo stress post traumatico
è intensamente presente (notevole è l’incontro
con Menelao, ora ricongiunto con Elena, che gli
racconta addolorato della guerra di Troia finché
Elena non li addormenta con un’erba che scioglie
nel vino: il nepente).
All’inizio del viaggio
di Telemaco (la Telemachia) leggiamo del pianto
di Penelope. Piange lei e piange anche Telemaco:
il pianto per gli antichi Greci non era indice
di debolezza ma di autenticità di sentimenti, così
madre e figlio con questo pianto esprimono autenticamente
il desiderio di vedere Ulisse. Anche
Ulisse quando appare piange, anche lui ha lo
stesso desiderio di Penelope: tornare a casa.
Bene, la domanda a cui dobbiamo rispondere
per capire qual è il senso della vita è la seguente:
ma perché Ulisse vuole tornare a casa e perché
Penelope vuole rivedere il marito?
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Ulisse con Calipso
Esaminiamo la situazione. Ulisse è trattenuto
da sette anni da una ninfa. Trattenuto è un eufemismo,
perché in realtà su quest’isola sperduta,
fuori da tutte le rotte commerciali, Ulisse è trattato
benissimo. Innanzitutto, la bellissima Calipso è perdutamente
innamorata di lui; poi è una ninfa, cioè
non invecchierà mai, sarà sempre una diciottenne,
seno sodo, corpo vivace, scattante, pelle
ambrata fino alla fine dei tempi. E i due mangiano,
bevono, e fanno l’amore, una volta al giorno
(il professore di filosofia C.D.C. Reeve, in un suo
saggio, Sesso e morte in Omero, ha calcolato che
i due hanno fatto l’amore 2500 volte). Non solo,
Calipso potrebbe renderlo immortale e il nostro
eroe ha la sua età (è un quarantenne con qualche
acciacco). Ulisse è in paradiso o in una sua auspicabile
versione.
Eppure piange, vuole tornare a
casa, reincontrare Penelope. Ma perché?
Dall’altra parte c’è Penelope, anche lei ha 40
anni, (per quell’epoca significa vecchiaia imminente),
non vede il marito da 20, chissà come sarà
e chissà che avrà combinato. È vero, hai la casa
occupata dai Proci, ma non sono cosi crudeli come
la pubblicistica ha tramandato. Stanno lì per
un motivo tradizionalmente accettato: sposare
la vedova. Penelope dovrebbe fare quel che fanno
tutte, piangere il marito, fare un bel funerale
e poi sposarsi, cioè mettere insieme la dote di famiglia.
Per non parlare del fatto che questi Proci
altro non sono che giovanissimi e prestanti principi,
più di 100 (il succitato Reeve li definisce giustamente
dei toy boy). Insomma, anche tu Penelope,
perché non ti prendi un bel ragazzo, mantieni
il tuo status socioeconomico e ti fai una bella vecchiaia,
e magari riesci a mettere al mondo un erede?
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Circe offre una coppa a Ulisse
Perché?
Perché Ulisse e Penelope hanno molto in comune:
sono entrambi strategici, furbi, tessono
trame, ed entrambi sono convinti di essere morti.
Entrambi vogliono tornare a essere vivi. Morto
è Ulisse, reduce da grandi imprese, da gesta eroiche,
ma confinato su un’isola bella quanto irreale,
fuori da tutto lo scibile. È come un fantasma
e i fantasmi non hanno corpo, quindi non hanno
vita. Ma Ulisse è vivo, e finché sei vivo devi essere
vivo. Glielo ricorda durante la storia anche la
buonanima di Achille, che Ulisse (seguendo l’indicazione
di Circe) visita nell’Ade. Achille gli dice
che preferirebbe essere l’ultimo degli schiavi
che il re dell’Ade, il re delle ombre.
Glielo ricorda
la mamma, che Ulisse tenta per tre volte di abbracciare:
torna a casa che Penelope ti è fedele ma
è nei casini. Finché si è vivi bisogna essere vivi e
tornare a casa, risolvere i conflitti. Penelope non è
da meno, vuole il corpo del marito, l’unico che la
fa sentire viva e può rendere sensate e vitali le sue
strategie per non sposarsi con un bel principino.
Compito di Ulisse e tornare a casa e regolare
i conti con sé stesso, cioè rendere viva la sua
memoria; altrimenti sei vivo, in Paradiso, ma infelice.
Compito di Penelope è lo stesso di Ulisse,
aspettare, ma non certo passivamente, visto che
trama molto meglio del marito, per riacquistare
il suo ruolo. Certo, lei a differenza del marito
il corpo non l’ha concesso, la fedeltà è qui espressa
in senso lato, riguarda il ruolo, la casata, le memoria e non è solo un affare di letto e di corna. Se
non lo fai, allora non basteranno i 100 toy boy a
soddisfare i tuoi desideri.
Il senso dell’Odissea,
qui espresso anche attraverso una forte simbologia
erotica, è tornare a casa e regolare i conti. Lo
fa Ulisse, viaggiando verso casa; lo fa Penelope,
aspettando il viaggiatore.
L’unico modo per non essere ombre
L’erotismo ha una sua simbologia privata, a
parte il bellissimo ed enigmatico sogno che fa
Penelope e accomuna marito e moglie. Quando
Ulisse, dopo aver risolto il problema Proci (una
strage orribile, uccide tutti, e anche le ancelle,
giovanissime ragazze che avevano intrattenuto
negli anni rapporti con i Proci), chiede a Penelope
di andare a letto, lei gli risponde piuttosto nervosa.
«Ma chi sei?», gli dice. Fai tutto questo casino
e nemmeno ti annunci? Non mi dici niente, a
me che sono tua moglie e sto qui ad aspettarti da
20 anni? Perché io sono qui a tessere strategiche
tele che disfo come se fosse un’avventura quotidiana,
strategie uguali alle tue.
Io che sono viva
e tu mi tratti come se fossi una morta? E allora
Penelope vuole una prova e gli tende un tranello.
Sì, tende un tranello al re dei tranelli. Dice alle
ancelle rimaste di portare il letto nuziale, e Ulisse
risponde che non si può: quel letto non si può
spostare, è realizzato proprio da lui in un tronco
d’olivo (l’olivo, pianta mediterranea, ha nell’Odissea
una forte simbologia: il ramo con cui si acceca
Polifemo è di olivo). Solo allora i due si sciolgono
in lacrime, sono davvero tornati a casa. Fanno l’amore
e parlano tutta la notte, non sappiamo cosa
si sono detti, sappiamo solo che Atena prolunga
la notte affinché i due possano ritrovarsi meglio.
Tornare a casa e risolvere i conti in sospeso è il
senso della vita, sistemare le cose finché si è in vita,
rinunciare al Paradiso, combattendo e affrontando
l’inquietudine è l’unico modo per non essere
ombre infelici, perché il diritto alla felicità
(minimo ed estemporaneo) si raggiunge solo attraverso
l’inquietudine, quella che il viaggio (della
vita) porta con sé. Se scomponete tutte le storie
che leggete e che voi stessi producete, alla fine
verrà fuori la matrice che l’Odissea ha da tempo
immemorabile forgiato e che durerà a lungo, nel
bene e nel male.
di Antonio Pascale
2 febbraio 2025 - Eugenio Caruso