A oggi gli astronomi hanno scoperto più di 5000 pianeti in orbita
attorno ad altre stelle. Sono emersi alcuni schemi curiosi, come la
mancanza di pianeti con raggio un po’ più grande di quello della
Terra ma parecchio più piccolo di quello di Nettuno, un’assenza
misteriosa, chiamata valle dei raggi. Sembra anche che esistano
pochissimi pianeti nettuniani caldi in orbita ravvicinata attorno alla
rispettiva stella. Gli esperti ipotizzano che queste assenze si possano
spiegare con processi che eliminano i gas da un pianeta dopo la
sua formazione, per esempio i venti causati dalla forte radiazione
proveniente dalle stelle.
Per secoli il nostro sistema solare è stato l’unico sistema planetario noto
agli esseri umani. Non avevamo prove che esistessero altri mondi oltre
a quelli che si trovano nella nostra piccola regione del cosmo e immaginavamo
che eventuali altri sistemi planetari sarebbero stati simili al nostro:
con piccoli pianeti rocciosi in orbita ravvicinata attorno alla loro
stella e pianeti giganti simili a Giove e Saturno un po’ più lontano.

Mappa degli esopianeti conosciuti a marzo 2022
I ricercatori studiavano la storia del Sole e dei suoi satelliti con
tutti gli strumenti a loro disposizione e plasmavano teorie sul modo
in cui si formano e si sviluppano i pianeti sulla base delle conoscenze
ottenute in questo modo. Poi però, circa trent’anni fa, gli
astronomi scoprirono i primi esopianeti in orbita attorno a stelle
diverse dalla nostra. Da allora ne abbiamo scoperti a migliaia, e
quello che abbiamo visto ha rivoluzionato tutto ciò che credevamo
di sapere sui pianeti.
Abbiamo scoperto che i sistemi planetari della nostra galassia
presentano una notevole varietà: alcuni sono fitti di pianeti
disposti in configurazioni esotiche, altri sono dominati da giganti
gassosi che sfiorano la rispettiva stella. Ora per la planetologia è
iniziata una nuova epoca: quella della demografia esoplanetaria.
Analizzando dimensioni, orbite e composizioni dei pianeti che
hanno scoperto e gli schemi che emergono da questi dati, i ricercatori
stanno svelando i veri processi alla base della formazione
dei sistemi planetari. Quella che vediamo non è una storia lineare,
ma piuttosto un rompicapo, con tendenze sorprendenti che mettono
alla prova quello che sapevamo del modo in cui i pianeti nascono
e crescono.
Queste tendenze offrono nuove informazioni utili per rispondere
a domande fondamentali: perché ci sono pochissimi pianeti
in determinate fasce di grandezza, e in particolare perché c’è una
fascia di «pianeti mancanti» poco più grandi della Terra? Perché
nel nostro sistema solare non ci sono i tipi di pianeti più comuni
nella galassia, cioè quelli più grandi della Terra ma più piccoli di
Nettuno? E quella che è forse la domanda più importante di tutte:
che cosa significano queste scoperte per la nostra ricerca di mondi
abitabili?
Risolvere questi misteri non serve solo a studiare i singoli pianeti,
ma anche ad avere una visione d’insieme. Analizzando gli
schemi della demografia esoplanetaria impariamo non solo che
cosa fa funzionare i sistemi planetari, ma anche come si inserisce
il sistema solare nel contesto della nostra galassia. In fondo vogliamo
capire se il nostro pianeta è raro, o se invece le condizioni
che hanno permesso la nascita della vita qui da noi siano comuni
anche altrove.
I primi esopianeti conosciuti furono scoperti nel 1992 in orbita
attorno a una pulsar, cioè una stella di neutroni che ruota rapidamente
ed emette onde radio, nata dopo l’esplosione di supernova
di una stella massiccia. Non è ancora chiaro se quei pianeti siano
sopravvissuti all’esplosione della supernova o si siano formati
dai detriti di quest’ultima. In ogni caso, rappresentano anomalie
nell’insieme di dati degli esopianeti noti.
La vera svolta avvenne nel 1995 con la scoperta di 51 Pegasi b, il
primo esopianeta scoperto in orbita attorno a una stella simile al
Sole. 51 Pegasi b contraddiceva tutte le aspettative. Invece di essere
un gigante gassoso lontano come Giove, era un colosso con una
massa pari a metà di quella di Giove, ma con un orbita incredibilmente
ravvicinata, che faceva una rivoluzione completa ogni 4,2
giorni. A così poca distanza dalla stella, aveva una temperatura di
circa 980 gradi Celsius, così calda da vaporizzare alcuni metalli.
Anche se 51 Pegasi b ha una massa pari appena a metà di quella di
Giove, le temperature estreme portano il gas a espandersi, perciò
il suo raggio è il doppio di quello di Giove. Per descrivere questa
nuova classe di pianeti gli astronomi hanno coniato il nome «pianeta
gioviano caldo» o «Giove caldo».

La posizione di 51 Pegaso (e del suo pianeta) nella costellazione di Pegaso.
L’esistenza dei pianeti gioviani caldi ha rivoluzionato i modelli
più accreditati sulla formazione dei pianeti. Fino ad allora, le
teorie si basavano sulla struttura del sistema solare, in cui i pianeti
rocciosi orbitano più vicino al Sole, mentre i giganti gassosi rimangono molto più lontani, nelle regioni più fredde, dove possono
accumulare gas come idrogeno ed elio. Ecco invece che c’era
un pianeta con la massa di Giove che in qualche modo prendeva
posto nelle zone roventi più interne del sistema planetario. Se
i pianeti giganti si potevano formare così vicino alla stella, o potevano
formarsi più lontano e avvicinarsi in seguito, quali altre
combinazioni inaspettate potevano esistere?
51 Pegasi b fu scoperto grazie alla rilevazione di un tremolio
nel movimento della stella, causato dall’attrazione gravitazionale
del pianeta orbitante. La tecnica è chiamata spettroscopia Doppler
(o metodo della velocità radiale): il pianeta in orbita attira
leggermente verso di sé la stella; dalla nostra prospettiva terrestre,
la stella si muove avvicinandosi e poi allontanandosi da noi
(se l’orbita si trova al giusto angolo rispetto alla nostra linea di vista),
il che causa piccolissimi spostamenti verso il rosso e verso il
blu della luce emessa, in modo simile a quello che avviene con il
suono della sirena di un’ambulanza, che aumenta di tono quando
l’ambulanza si avvicina e diminuisce quando si allontana. Più
il pianeta è massiccio e vicino alla stella, maggiore sarà il tremolio
nella luce e di conseguenza più facile sarà da rilevare.
È proprio per questo motivo che i primi esopianeti scoperti
con il metodo della velocità radiale furono pianeti gioviani
caldi, ed è sempre per questo motivo che questa strategia ha una
forte tendenza a scoprire soprattutto pianeti grandi in orbita ravvicinata.
Via via che si scoprivano altri pianeti con il metodo della
velocità radiale, iniziarono a emergere schemi. Nel 2008, dopo
aver analizzato centinaia di stelle, alcuni ricercatori giunsero
alla conclusione che circa il 10 per cento delle stelle simili al Sole
aveva pianeti giganti in orbita entro una distanza di poche unità
astronomiche (un’unità astronomica è pari alla distanza Terra-
Sole). Però questi primi schemi della demografia planetaria erano
appannati dai nostri stessi vincoli di osservazione.
Un grande passo avanti nella demografia planetaria si ebbe
quando la NASA lanciò il telescopio spaziale Kepler. Osservando
ininterrottamente più di 150.000 stelle per quattro anni, il telescopio
Kepler ha individuato migliaia di pianeti con quello che è
chiamato metodo del transito, cioè cercando la lieve diminuzione
di luminosità che si verifica quando un pianeta passa davanti a
una stella dal nostro punto di vista. I risultati furono straordinari:
Erik A. Petigura, mio relatore di dottorato all’Università della California
a Los Angeles, ha analizzato i dati del telescopio Kepler e
ha dimostrato che circa metà delle stelle simili al Sole hanno almeno
un pianeta di dimensioni intermedie tra quelle della Terra
e quelle di Nettuno. Sembra che questi pianeti, che nel nostro
sistema solare non esistono, percorrano l’orbita completa attorno
alla stella nel giro di qualche settimana o di qualche mese, non
di anni. Col senno di poi, eravamo stati poco lungimiranti a pensare
che il nostro sistema solare fosse il modello diffuso in tutta
la galassia. D’altra parte in astronomia, come regola generale, di
solito è corretto partire dal presupposto che la nostra prospettiva
sia nella media e non particolarmente speciale, perciò ritengo che
fosse un errore perdonabile.
Con l’aumentare del campione registrato dal telescopio Kepler
divenne sempre più evidente che c’era un mistero: gli astronomi
osservavano una notevole carenza di pianeti con raggio pari a circa
1,6-1,9 volte quello della Terra, un fenomeno che chiamarono
«valle dei raggi». Questa carenza non era dovuta a un caso di detection
bias; rimaneva anche dopo che i ricercatori avevano tenuto
conto di tutti gli effetti di selezione e delle distorsioni possibili
nelle osservazioni. Nella formazione o nell’evoluzione dei pianeti
doveva esserci qualcosa che impediva attivamente ai pianeti
di mantenere questa dimensione intermedia, e probabilmente
si trattava di un processo che priva i pianeti dell’atmosfera in questo
intervallo.

Distribuzione delle dimensioni degli esopianeti osservati e simulati con raggi inferiori a cinque raggi terrestri. Il numero di esopianeti diminuisce tra 1,6 e 2,2, dando luogo a una pronunciata valle nella distribuzione. Sono invece presenti più pianeti con dimensioni intorno a 1,4 e 2,4 raggi terrestri. Le ultime simulazioni, che per la prima volta tengono conto delle proprietà realistiche dell’acqua, indicano che i pianeti ghiacciati che migrano verso l’interno dei sistemi planetari formano spesse atmosfere di vapore acqueo. Ciò li fa apparire più grandi di quanto sarebbero nel loro luogo di origine. Questi producono il picco a circa 2,4 raggi terrestri. Allo stesso tempo, i pianeti rocciosi più piccoli perdono parte del loro involucro gassoso originario nel corso del tempo, causando una riduzione del loro raggio misurato e contribuendo così all’accumulo intorno a 1,4 raggi terrestri. Si noti la valle dei raggi.
A rendere ancora più sconcertante il mistero c’è un fenomeno
chiamato «deserto nettuniano»: sulle orbite inferiori a circa
tre giorni sono evidentemente assenti pianeti delle dimensioni
di Nettuno. I motivi di questa assenza si stanno ancora studiando,
ma è probabile che contribuiscano a questa tendenza la radiazione
estrema proveniente dalla stella a questa distanza e le forze
mareali. Come i pianeti più piccoli con massa vicina a quella della
valle dei raggi, anche i pianeti nettuniani con periodo orbitale
breve sono particolarmente vulnerabili alla perdita dell’atmosfera.
Con il tempo, il loro spesso involucro gassoso può finire per
essere rimosso del tutto, lasciando solo nuclei rocciosi nudi che
potremmo classificare come «super-Terre», versioni ingrandite
del nostro pianeta roccioso. Gli esperti ritengono
perciò che il deserto nettuniano sia una forma
più estrema degli stessi processi che danno
forma alla valle dei raggi. (Con l’aumentare
delle osservazioni raccolte, alcune teorie sono
giunte perfino a prevedere queste caratteristiche
come conseguenza delle radiazioni provenienti
dalle stelle.)
Ulteriori osservazioni eseguite con il metodo
della velocità radiale da telescopi a terra hanno aggiunto un altro
pezzo cruciale al puzzle. Misurando la massa degli esopianeti noti,
gli astronomi hanno scoperto che la valle dei raggi corrisponde
a una transizione nella composizione. I pianeti con massa inferiore
alla valle sono densi e rocciosi come la Terra, mentre quelli
con massa superiore hanno una densità più bassa, indice di un’atmosfera
consistente. I pianeti più piccoli sembrano super-Terre, i
più grandi sono «mini Nettuni» con nuclei rocciosi avvolti in densi
strati di idrogeno ed elio.
Questa distribuzione demografica pone domande fondamentali.
I pianeti piccoli nascono tutti con atmosfere considerevoli e
poi alcuni le perdono con il tempo? Oppure si formano con composizioni
diverse fin dall’inizio? Osservazioni recenti di pianeti in
cui era in corso la perdita dell’atmosfera suggeriscono che questa
dispersione dei gas abbia un ruolo significativo.
Secondo gli astronomi ci sono diversi processi che possono
strappare l’atmosfera ai pianeti o limitarne la formazione fin
dall’inizio. I due candidati principali sono la fotoevaporazione e la
perdita di massa alimentata dal nucleo. Insieme, questi due processi
potrebbero spiegare la valle dei raggi e il deserto nettuniano.
La fotoevaporazione è una delle spiegazioni migliori per la valle
dei raggi. Quando si accendono, le stelle giovani rilasciano una quantità estrema di radiazioni ultraviolette e raggi X, assieme a
fortissimi venti di particelle cariche. I pianeti in orbita troppo ravvicinata
attorno alla loro stella ospite si trovano inondati da queste
radiazioni, che riscaldano l’atmosfera fino al punto in cui le
particelle possono fuoriuscire e disperdersi nello spazio.
Immaginiamo due pianeti appena formati che orbitano alla
stessa distanza dalle rispettive stelle, entrambi inizialmente
composti da un nucleo roccioso e da un considerevole involucro
gassoso di idrogeno ed elio.
Il pianeta A ha una massa inferiore e
una gravità più debole, perciò quando la stella inizia a inondarlo
di energia non riesce a trattenere la propria atmosfera, ma perde
tutto il gas diventando una super-Terra densa e rocciosa. Se osserviamo
questo sistema, il pianeta privo di atmosfera sembra più
piccolo.
Il pianeta B, invece, ha una massa maggiore e una gravità
più forte, che gli permettono di trattenere gran parte dell’involucro
gassoso. Se osserviamo questo secondo sistema, il pianeta
ci sembra più grande, grazie al suo bozzolo primordiale leggero
e vaporoso.
La teoria delle fotoevaporazione porta a diverse previsioni che
corrispondono agli schemi osservati. Per esempio, la valle dei
raggi dovrebbe avere un andamento discendente via via che si riduce
il periodo orbitale, perché i pianeti più vicini alla stella ricevono
radiazioni più intense e devono essere più massicci per conservare
intatta la propria atmosfera.
Analogamente, osserviamo una mancanza
di pianeti di dimensioni simili a
quelle di Nettuno con un’orbita inferiore
a tre giorni, il cosiddetto deserto
nettuniano. Questa è la regione in cui
la fuga atmosferica è così efficiente che
possono restare solo nuclei rocciosi.
Il secondo meccanismo alla base
della scomparsa dell’atmosfera planetaria è la perdita di massa
alimentata dal nucleo, causata dal calore generato all’interno
del pianeta stesso. Quando un pianeta si forma, conserva grandi
quantità di calore dovute all’attrazione della sua stessa massa durante
la formazione. Questa energia interna residua può scaldare
gli strati bassi dell’atmosfera via via che il pianeta si raffredda, sollevando
l’involucro primordiale dal basso e aiutando così il gas a
sfuggire, grazie anche alla spinta della radiazione stellare.
La perdita di massa alimentata dal nucleo suggerisce che i pianeti
più piccoli e meno massicci, con una gravità più bassa e
meno gas isolante, perdono l’atmosfera dal basso via via che si raffreddano
nel corso di centinaia di milioni di anni. Invece i pianeti
più grandi hanno una forza gravitazionale sufficiente a trattenere
l’involucro gassoso nonostante il calore interno. Anche questo
meccanismo si allinea con la valle dei raggi, dato che i pianeti di
dimensioni intermedie sono i più soggetti a perdere la propria atmosfera
attraverso questo processo.
Insomma, i pianeti caldi si raffreddano e la radiazione stellare
riscalda l’atmosfera. Gli astronomi ritengono che siano in atto entrambi
i meccanismi, ma non è ancora chiaro quale dei due eserciti
una pressione maggiore in termini di evoluzione planetaria.
Probabilmente il risultato dipende dalle condizioni specifiche del
pianeta in questione.
Anche altri processi possono contribuire al risultato. La teoria
dell’evaporazione rapida, per esempio, ipotizza che nei primissimi
anni di esistenza del pianeta, subito dopo la formazione della stella, il disco di detriti che ruota attorno a quest’ultima (che
contiene le materie prime grezze con cui si sono formati i pianeti)
venga spazzato via. Il brusco calo di pressione che ne consegue
attorno al pianeta potrebbe portare a un’improvvisa fase di evaporazione
dell’atmosfera.
In altri casi i pianeti possono formarsi in ambienti poveri di
gas. Questi mondi sarebbero naturalmente privi di grandi involucri
di atmosfera fin dall’inizio e di conseguenza avrebbero una
composizione rocciosa. Infine, anche grandi collisioni potrebbero
privare i giovani pianeti dell’atmosfera lasciando solo nuclei
rocciosi spogli, in quella che possiamo chiamare fuga atmosferica
dovuta a impatto. Anche se probabilmente è raro, questo processo
potrebbe spiegare alcune popolazioni di pianeti.
Osservazioni recenti hanno iniziato a registrare alcuni di questi
fenomeni in atto e a offrire prove dirette della fuga atmosferica.
Dato che è più probabile che la perdita di massa avvenga
quando i pianeti sono giovani, la maggior parte dei pianeti piccoli
che osserviamo non stanno sperimentando perdite significative
di massa. C’è però uno scenario favorevole all’osservazione di una
fuga atmosferica in tempo reale: un gigante gassoso in orbita ravvicinata,
cioè un pianeta gioviano caldo.
Un esempio efficace è il pianeta WASP-69b, che il mio gruppo
di ricerca ha osservato con il telescopio del W. M. Keck Observatory
nelle Hawaii. WASP-69b è un gigante gassoso con le dimensioni
di Giove e la massa di Saturno e orbita così vicino alla sua
stella che un’intera rivoluzione dura appena 3,8 giorni. In un articolo
scientifico pubblicato nel 2024 abbiamo riferito fuoriuscite
di materiale che indicano che il pianeta sta attivamente perdendo
elio. In questo caso il meccanismo di perdita di massa deve per
forza essere la fotoevaporazione; infatti il pianeta è troppo imponente
per perdere massa a causa del calore interno, però è spazzato
dalle radiazioni ad alta energia della stella ospite. Le nostre
osservazioni hanno rivelato che WASP-69b perde circa 200.000
tonnellate al secondo, che corrispondono a una massa della Terra
ogni miliardo di anni. Inoltre, si sono verificate variazioni notevoli
nella forma della fuoriuscita di gas: a volte ha una coda come
una cometa, lunga più di 550.000 chilometri, mentre altre volte è
molto meno evidente.

Una coda da cometa lunga oltre 500.000 chilometri si diparte dal pianeta Wasp-69b, un gigante gassoso grande quanto Giove posto a 160 anni luce dalla Terra: a formarla è la sua bollente atmosfera che fugge via al ritmo di 200.000 tonnellate al secondo, modellata dal vento emanato dalla stella madre intorno alla quale orbita il pianeta.
Questa variabilità della fuoriuscita dipende probabilmente da
alterazioni nell’attività stellare. Come il Sole, che attraversa periodi
di attività più o meno intensa durante il ciclo magnetico, anche
per le stelle ci sono periodi in cui le radiazioni e le eruzioni diventano
più o meno intense. Le fasi di maggiore attività della stella potrebbero
favorire il tasso di fuga atmosferica e cambiare la forma
della fuoriuscita di materiale dal pianeta.
Questa interazione dinamica
tra stella e pianeta illustra come anche nei pianeti più maturi
la perdita di atmosfera possa non essere un processo fisso e uniforme,
ma piuttosto una battaglia continua a cui danno forma le proprietà
del pianeta e l’umore della stella. Rendendo visibile il processo di perdita di massa in tempo reale,
le scoperte nostre e di altri dimostrano come la fotoevaporazione
possa spiegare sia la valle dei raggi che il deserto nettuniano.
Per una data distanza orbitale, c’è una massa minima al di
sotto della quale i pianeti non riescono a trattenere la propria atmosfera
di fronte all’assalto della radiazione stellare ad alta energia.
La valle dei raggi separa i pianeti abbastanza massicci da quelli
che non lo sono. Il deserto nettuniano dimostra come questo
concetto si amplifichi con la vicinanza del pianeta alla stella e con
il conseguente aumento esponenziale della radiazione stellare.
Sufficientemente vicino alla stella, solo un pianeta gioviano caldo
ha la massa necessaria per trattenere un’atmosfera, mentre tutti
gli altri sono ridotti allo spoglio nucleo roccioso.
I prossimi dieci anni dovrebbero essere un periodo interessante
per il processo di affinamento della nostra conoscenza della
demografia planetaria. Anche se la maggior parte degli astronomi
è concorde nell’affermare che la perdita di massa atmosferica è
la ragione principale per cui non vediamo Terre leggermente più
grandi o pianeti nettuniani caldi su orbite ravvicinate, i dettagli sono
ancora indefiniti. Il fattore dominante è la fotoevaporazione
dovuta alla radiazione stellare? Oppure ha un ruolo più rilevante
la perdita di massa alimentata dal nucleo, dovuta al calore interno
del pianeta? Per distinguere gli effetti di questi meccanismi servirà
una nuova generazione di telescopi e strumenti capaci di misurazioni
precise di masse, composizioni e atmosfere dei pianeti.
Speriamo di capire meglio il nesso tra la valle dei raggi e il tipo
di stella. Per le stelle con massa piccola, come le nane rosse, la valle
dei raggi sembra spostarsi: sembra che i pianeti che orbitano
attorno a queste stelle riescano più spesso a trattenere la propria
atmosfera, perché sono esposti a minori quantità di radiazioni rispetto
a quelle emesse dalle stelle più grandi. La valle dei raggi di
solito è anche meno definita, perché le stelle con massa piccola
emettono radiazioni di tipo diverso rispetto a quelle più grandi.
I pianeti in orbita attorno a queste stelle tendono anche a presentare
una maggiore varietà in termini di composizione del nucleo,
e questi sistemi potrebbero avere un tasso più alto di collisioni di
rilievo.
I pianeti attorno alle nane rosse tendono anche a seguire orbite
molto più ravvicinate, in regioni dove l’attività stellare, come
le eruzioni e i venti solari, possono avere un effetto notevole sulla
capacità di trattenere l’atmosfera. Uno studio attento di questi
mondi ha rivelato che alcuni di essi potrebbero ospitare quantità
significative di acqua, forse sotto forma di profondi oceani globali
avvolti da atmosfere ricche di idrogeno. Questi «mondi d’acqua»
avrebbero una posizione unica nella demografia planetaria, mettendo
a dura prova i modelli semplici che includono solo le super-
Terre rocciose e i mini-Nettuni ricchi di gas.
Nuove strumentazioni a terra come il Keck Planet Finder, recentemente
messo in funzione dal Keck Observatory, e altri strumenti ad alta precisione per la misurazione della velocità radiale
saranno indispensabili per mettere alla prova le nostre teorie. Dato
che ci permetteranno di misurare le masse dei pianeti in tutta
una serie di tipi di stelle, questi progressi ci aiuteranno a determinare
se la massa delle super-Terre e dei pianeti sub-nettuniani sia
in linea con le previsioni dei vari modelli.
Nei sistemi multiplanetari
questo tipo di dati ci può aiutare a distinguere gli effetti della
radiazione stellare storica, permettendo ai ricercatori di paragonare
pianeti formatisi in condizioni simili.
La missione Transiting Exoplanet Survey Satellite della NASA
sta portando avanti un monitoraggio esteso su ampia scala temporale,
che potrebbe rilevare pianeti le cui orbite attorno alle rispettive
stelle sono leggermente più ampie di quelle della maggior
parte dei mondi conosciuti. Queste scoperte, che aumentano
la quantità di esopianeti piccoli con periodi orbitali più lunghi, ci
permetteranno di ottenere dati cruciali per capire la variabilità
della perdita di atmosfera e della composizione planetaria in una
gamma più ampia di ambienti.
Il grande balzo in avanti dovrebbe avvenire nei prossimi decenni,
con l’entrata in funzione di alcuni grandi telescopi. I supertelescopi
di terra, come per esempio l’Extremely Large Telescope
dello European Southern Observatory, dovrebbero vedere la prima
luce alla fine degli anni venti. Questi telescopi giganti saranno
ottimi per osservare pianeti giovani e
luminosi, che brillano ancora del calore
della formazione, e quindi ci daranno
informazioni cruciali sulle prime fasi
caotiche dell’evoluzione planetaria,
quando è maggiore il rischio di perdita
dell’atmosfera.
L’Habitable Worlds Observatory, un
telescopio spaziale che è il fiore all’occhiello
della NASA, è previsto per il lancio negli anni quaranta. È
progettato per rilevare e studiare pianeti simili alla Terra nelle zone
abitabili di stelle simili al Sole. L’obiettivo è usarlo per ricavare
direttamente immagini di questi mondi e analizzarne l’atmosfera
alla ricerca di tracce di ossigeno, metano e vapore acqueo, che sono
indicatori chiave dell’abitabilità.
Quello che impareremo da tutti questi nuovi strumenti andrà
ben oltre la demografia planetaria. Studiando il modo in cui i pianeti
mantengono o perdono la propria atmosfera possiamo capire
i segreti dell’abitabilità, della diversità e delle forze che scolpiscono
i mondi in tutta la galassia.
Il sistema solare, che un tempo era considerato il modello di
tutti i sistemi planetari, oggi rimane solo una di innumerevoli
possibilità, una configurazione unica in un cosmo che pullula
di varietà. La maggior parte delle stelle ospita pianeti che sono
diversi da qualsiasi corpo celeste nella nostra zona del cosmo,
e questo ci ricorda che l’universo è più ricco e sorprendente di
quanto avessimo mai immaginato. Se cerchiamo di capire le forze
che plasmano quei mondi lontani, ci avviciniamo passo dopo passo
a dare una risposta ad alcune delle domande più antiche dell’umanità:
quanto sono comuni pianeti come la Terra? C’è altra vita
tra le stelle? E che cosa significa davvero il nostro posto in questo
universo così vasto e intricato?
Dakotah Tyler è dottorando in astrofisica all’Università della California
a Los Angeles. La sua ricerca si concentra sull’atmosfera degli esopianeti e sui
modi in cui i pianeti perdono massa nel corso della loro evoluzione

Tutti i pianeti extrasolari scoperti al 31 agosto 2004 (ascisse semiasse maggiore, ordinate masse gioviane):
I puntini blu rappresentano pianeti scoperti con il metodo delle velocità radiali.
In rosso quelli con metodo del transito.
in giallo con la microlente gravitazionale.
L'immagine mostra anche i limiti delle capacità di rilevamento dei prossimi strumenti (linee colorate), sia terrestri sia spaziali, dal 2006 al 2015.
Infine, l'immagine mostra anche la posizione dei pianeti del sistema solare: sono i pallini più grandi con l'iniziale del nome inglese.
NDR - Al 20 dicembre 2023, sono 63 i pianeti extrasolari confermati potenzialmente abitabili secondo l'indice di similarità terrestre.
Eugenio Caruso - 7 aprile 2025
