Dai vecchi tempi di Microsoft molto è cambiato. Un anno fa, poco prima di lasciare tutti gli incarichi operativi nel gruppo per dedicarsi a tempo pieno all'organizzazione filantropica che porta il suo nome e quello della moglie Melinda, ha sorpreso la platea di banchieri e imprenditori del World Economic Forum di Davos parlando della necessità di una riforma profonda del capitalismo globalizzato, in modo che i benefici ricevuti dai due terzi della popolazione mondiale vengano estesi anche all'ultimo terzo, a quei 2 miliardi di persone finora escluse. «Capitalismo creativo», lo ha chiamato. E all'inizio del 2009, nel pieno della crisi finanziaria globale, ha ribadito quel messaggio in una lettera aperta pubblicata dalla Gates Foundation. «La prima epistola di San Bill», ci ha scherzato sopra l'Economist.
Mister Gates, crede che qualcosa sia cambiato da quando ha lanciato il suo «manifesto politico»?
«Assolutamente sì. Molte grandi imprese multinazionali stanno lavorando oggi con la fondazione Gates su progetti specifici in Paesi meno sviluppati, mettendoci denaro, competenze, prodotti. Parlo di imprese alimentari come Nestlé o Unilever, che stanno sviluppando nuovi prodotti basati su materie prime locali e metodi innovativi di distribuzione. Ma parlo anche di imprese di telecomunicazioni mobili, di chimica, farmaceutica, biotecnologie, il cui contributo è decisivo per le popolazioni di aree dove sono estremamente diffuse malattie recenti come l'Aids o antiche come malaria, poliomelite, dissenteria».
E i governi? Dove sono finite le promesse dei leader del G8 e G20?
«Per certi aspetti i programmi economici di aiuto allo sviluppo stanno portando a notevoli risultati, come nel caso della lotta alle malattie o nell'aumento della produzione agricola. Ci sono governi di paesi come Germania e Gran Bretagna che hanno sensibilmente aumentato il loro impegno verso il mondo più povero. Ci sono poi nazioni che hanno una lunga tradizione di grande generosità, dalla Norvegia alla Svezia. dall'Olanda alla Danimarca. Ma ci sono purtroppo anche paesi da biasimare. Mi dispiace dire che il comportamento dell'Italia è molto deludente».
Si riferisce alla Finanziaria che indica una riduzione degli aiuti allo sviluppo ad appena lo 0,1% del prodotto interno lordo?
«Si tratta di un taglio della metà rispetto al livello precedente, che già era esiguo. Spero che qualcosa cambi».
In questi giorni ha incontrato il ministro Giulio Tremonti: gliene ha parlato?
«Mi rendo conto delle difficoltà di bilancio dovute alla crisi mondiale. E so che il ministro Tremonti è molto sensibile ai problemi delle aree del mondo meno sviluppate. Ha già dimostrato il suo impegno, per esempio, nei progetti per i vaccini anti malaria. Gli ho detto che non è giusto tagliare i fondi. Spero ci ripensi».
Qualche settimana fa lei ha dichiarato che gli effetti dell'attuale crisi si faranno sentire ancora per anni. Ma, una volta superata, pensa che tutto tornerà come prima? Stesso modello di capitalismo, stesso livello di consumi, stessi squilibri economici e finanziari?
«Questa fase di difficoltà può rappresentare in realtà un'occasione di ripensamento. Per le persone è il loro stile di vita. E per i governi, che dovrebbero orientarsi verso politiche più efficaci e sostenibili, per esempio in tema energetico».
Le tecnologie avranno sempre un ruolo trainante?
«Lo hanno sempre avuto. Da qui in avanti, basta pensare per esempio che cosa potrà rappresentare Internet per l'educazione scolastica. O a che cosa ci potremo permettere quando, fra una decina d'anni, saranno i robot a svolgere i nostri lavori di casa».
Negli Usa, ma anche in Europa, si discute sul ruolo e sui compensi di top manager che in certi casi hanno portato le aziende al disastro.
«C'è senza dubbio bisogno di modifiche nella governance delle imprese. Questo vale soprattutto per gli Stati Uniti, meno per l'Europa. Le remunerazioni dovrebbero essere legate più a risultati di lungo corso che non a performance a breve».
Solo pochi mesi fa nessuno avrebbe immaginato che l’italiana Fiat potesse lanciare operazioni come quelle con Chrysler in America e Opel. Questa crisi cambierà l'intera mappa dell' industria mondiale?
«Non sono certo un analista del settore, ma il dinamismo mostrato da Fiat su scala mondiale mi ha davvero impressionato. Ma altri elementi porteranno ancora maggiori cambiamenti, anche se ci vorrà più tempo. Penso a motori a minor consumo energetico, a tecnologie per auto a impatto ambientale zero».
Il suo amico Warren Buffett ha osservato che la filantropia è «un gioco molto più difficile che non fare soldi con un'impresa».
«Warren è un tale genio che non mi permetterei mai di essere in disaccordo con lui. La differenza è che quando gestisci un'azienda capisci subito cosa stai facendo di giusto o sbagliato dalla risposta dei consumatori. Il lavoro in una fondazione produce invece risultati in tempi più lunghi. Ed è difficile capire prima di allora se si sta andando nella giusta direzione».
Lotta alla povertà e alle malattie nel mondo meno sviluppato, miglioramento dell'istruzione scolastica di base negli Usa: quest'anno la Gates Foundation investirà 3,6 miliardi di dollari, con progetti sempre più ambiziosi. Troppo?
«Lavoriamo in una serie di Paesi con malattie molto diffuse fra la popolazione. Altri in cui diamo incentivi in campo educativo. Qualche programma ha funzionato bene, altri meno. Il punto è capire perché e correggere il tiro per evitare sprechi».
Mister Gates, lei si è posto l'obiettivo di sradicare la poliomielite nel mondo, di dimezzare le morti per malaria entro il 2015, di dimezzare complessivamente entro il 2020 il numero di bambini che muoiono per le malattie più diffuse nei Paesi poveri, portandoli a non più di 5 milioni l'anno. Mete raggiungibili?
«Per la polio, siamo sulla buona strada per eliminarla. Certo, ci sono Paesi come India, Nigeria, Pakistan, Afghanistan dove la sfida è particolarmente difficile. Ma, con la collaborazione fra governi e la Fondazione, resto fiducioso».
Corriere.it
Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda a
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.