Bisogna scoprire il demone in ogni cosa
De Chirico
ECONOMIA INTERNAZIONALE
L’adozione su larga scala e in tutti i principali paesi di misure fiscali e monetarie di contrasto del ciclo economico e di sostegno dei sistemi bancari ha contribuito a frenare la crisi economica: quella che nelle premesse si configurava come una caduta dell’economia globale di proporzioni comparabile alla Grande Depressione, potrebbe risultare negli esiti, grazie al massiccio intervento pubblico, “solo” una pesantissima recessione, la più grave sperimentata dalla gran parte dei sistemi dopo la seconda guerra mondiale.
L’azione dei governi è stata di portata differenziata: negli Stati Uniti e in Cina superiore rispetto all’Europa, dove frammentazione e insufficienze di coordinamento hanno limitato dimensione ed efficacia degli interventi. Tuttavia, i provvedimenti hanno pressoché ovunque, anche nell’area europea, funzionato nell’erigere una diga rispetto a un’evoluzione che appariva, dopo l’estate del 2008, in crescente peggioramento. Ciò è stato possibile anche grazie agli effetti di spillover delle politiche economiche consentiti dalla globalizzazione produttiva e commerciale che ha sostanzialmente retto nel periodo di crisi, segnando un’altra importante differenza rispetto all’esperienza degli anni ‘30.
Le misure di rilancio continueranno a espletare i loro effetti nella seconda metà dell’anno e l’intonazione espansiva verrà preservata, come ribadito nel recente G8 dell’Aquila, finché il ciclo non sarà tornato su un sentiero stabilmente positivo; ciò garantirà il mantenimento dei necessari puntelli al processo di ripresa.
Dopo la nuova, forte flessione registrata nei primi tre mesi dell’anno, la recessione mondiale è, dunque, andata attenuandosi. Tendenze più incoraggianti si sono manifestate nei mercati finanziari e in quello del credito. Le borse delle principali piazze hanno registrato consistenti rialzi; sui mercati interbancari, in particolare in Europa, i tassi a tre mesi sono tornati suilivelli pre-crisi. Valutazioni meno negative sono emerse dalla primavera nelle indagini sulla fiducia di imprenditori e consumatori. Anche sulla base di tali segnali, il Composite Leading Indicator dell’Ocse ha cominciato a evidenziare segni tangibili di miglioramento, prospettando tra l’estate e l’autunno il superamento di un punto di minimo nel ciclo di crescita di diverse economie.
Alle informazioni di tipo qualitativo hanno cominciato, di recente, ad aggiungersi indicazioni quantitative meno sfavorevoli. La caduta dell’attività industriale è rallentata in Europa e negli Stati Uniti. Nell’economia americana sembra accennarsi una stabilizzazione, nelle quantità, del mercato immobiliare. Consistenti sono soprattutto i segni di rafforzamento ciclico in Asia. In Cina, la forte azione di stimolo fiscale e monetario ha sospinto la domanda interna (soprattutto gli investimenti) e riportato l’attività economica verso elevati ritmi di espansione. Miglioramenti congiunturali significativi si osservano anche nelle altre economie emergenti dell’Estremo oriente (Corea e Singapore, in particolare), in India e nello stesso Giappone.
Questi andamenti, quasi uniformemente positivi, non conducono, però, a una prospettiva di rapida ripresa, soprattutto nei paesi avanzati. Le recenti dinamiche produttive appaiono dipendenti, in parte, dal ciclo delle scorte, dopo il pesante decumulo di fine 2008 e inizio 2009, e, in parte, dalle azioni di sostegno fiscale dei governi. Non vi sono, invece, indicazioni significative di rialzo nelle componenti autonome della spesa interna. Quest’ultime rimangono appesantite dall’inasprimento, nella quantità e nei prezzi, dei flussi creditizi all’economia.
Sulla velocità dell’uscita dalla crisi pesa, inoltre, il venire meno della domanda di ampi segmenti del settore privato dell’area industriale, i consumatori americani in primo luogo, alle prese col rientro dagli eccessi di indebitamento degli anni passati. La dinamica della spesa per consumi è inoltre rallentata, in misura più o meno incisiva nelle diverse economie, dalle ricadute (ritardate) della recessione sul mercato del lavoro, atteso ovunque in deterioramento; l’entità di questo effetto risulterà tanto maggiore quanto più lento sarà il processo di recupero, nel medio periodo, dei livelli di attività economica e di capacità produttiva precedenti l’esplodere della crisi.
Sulla prospettiva di medio periodo si addensano i maggiori interrogativi. Il graduale superamento della parte peggiore della crisi economica e l’apertura della discussione circa le strategie di uscita dalle politiche di emergenza messe in campo per contrastarla riporta in primo piano la questione dei grandi squilibri globali, temporaneamente accantonata per i timori di collasso finanziario. Il riassorbimento degli sbilanci dei paesi in deficit (in primo luogo Stati Uniti, ma anche Regno Unito, Spagna e Irlanda), a fronte della riduzione dei surplus delle economie caratterizzate da eccesso di risparmio (in primo luogo Cina, ma anche Giappone e Germania) non si annuncia come un percorso lineare. Tanto più se si tiene conto che, nel contesto post-crisi, diverse economie si troveranno nella condizione di dovere correggere contemporaneamente l’aumento dei disavanzi pubblici originato dalle misure discrezionali adottate.
Negli Stati Uniti si è avviato, come detto, un rientro dall’eccesso di debito da parte delle famiglie attraverso l’innalzamento del tasso di risparmio. Ciò è stato in notevole misura compensato dalla riduzione del risparmio del settore pubblico per contrastare la crisi economica. L’azione di stimolo fiscale e il conseguente peggioramento del deficit federale non possono, però, fungere permanentemente da supplenza alla più bassa domanda interna, pena l’espansione del debito pubblico, effetti avversi sulla stessa crescita economica statunitense e ripercussioni negative sui mercati finanziari. Una volta avviata la ripresa, dopo il 2010, si porrà quindi l’esigenza di un aggiustamento di finanza pubblica negli Stati Uniti. Secondo alcune simulazioni, una correzione che cercasse di ridurre in maniera apprezzabile il deficit federale produrrebbe una minore crescita di entità non irrilevante, un’accentuata volatilità ciclica (con una nuova caduta recessiva sull’impatto dell’azione correttiva e ripercussioni per la ripresa internazionale.
Ciò rimanda all’altro corno del dilemma degli squilibri globali: il comportamento dei paesi con eccesso di risparmio, a partire dalla Cina; un problema che è altrettanto, se non più, importante della riduzione degli eccessi di spesa. Un aggiustamento verso un maggiore equilibrio internazionale richiederebbe, per non incidere sulla crescita, che il gigante asiatico(ma, in proporzione, anche le altre economie in surplus strutturale di partite correnti) abbandonasse il modello di sviluppo incentrato esclusivamente sulle esportazioni.
Nell’emergenza della crisi economica ciò è avvenuto per necessità: le autorità cinesi, per garantire lo sviluppo del paese, hanno dovuto stimolare la domanda interna a fronte del crollo del commercio mondiale. Il dubbio è se, col normalizzarsi della situazione internazionale, tale approccio verrà mantenuto e, possibilmente, migliorato, spostando l’intervento pubblico dal sostegno diretto degli investimenti all’approntamento di un’adeguata rete di sicurezza sociale (salute e previdenza) che favorirebbe l’abbassamento della propensione al risparmio dei cittadini cinesi.
L’insieme di queste considerazioni conduce a ipotizzare una ripresa mondiale molto graduale.
A un primo semestre 2009 negativo per l’attività economica internazionale, farebbe seguito dapprima un assestamento e poi un lento recupero a partire dai mesi estivi. Lo scenario ISAE è sotto questo profilo molto simile a quello adottato nel DPEF. Nella media del 2009, il prodotto lordo mondiale si contrarrebbe dell’1,7% per poi accelerare al 2,5% nel 2010. Nel corso di quest’anno, alla recessione dei sistemi industrializzati (-3% negli Stati Uniti, -6% in Giappone, -4,7% nell’area euro), si accompagnerebbe il sensibile rallentamento delle economie emergenti. Nel 2010, sarebbero i paesi emergenti dell’Asia (+6,4%) a fornire la spinta principale alla ripresa internazionale. Le economie avanzate sarebbero al rimorchio di questa locomotiva, conseguendo in media d’anno risultati di crescita ancora sostanzialmente modesti: negli Stati Uniti, il PIL aumenterebbe dello 0,6%, nell’area euro rimarrebbe sostanzialmente stagnante; in Giappone, più vicino geograficamente ed economicamente al volano della ripresa, il rialzo dell’attività economica potrebbe sfiorare l’1 per cento.
Il commercio internazionale, ridottosi molto più del prodotto lordo mondiale nel 2009 (-14% circa nelle nostre stime), dovrebbe fornire segni più consistenti di risveglio; forse più di quelli ipotizzati nel DPEF. Il profondo vuoto d’aria prodottosi alla fine del 2008 e all’inizio del 2009 (quasi -20% tra ottobre 2008 e marzo 2009) sembra essersi esaurito nel corso del secondo trimestre. Su una caduta così rapida e concentrata nel tempo hanno influito diversi elementi.
Il fatto che la recessione abbia colpito soprattutto le industrie manifatturiere contribuisce a spiegare la maggiore caduta degli scambi di merci rispetto a un indicatore di attività economica, quale il prodotto mondiale, che include i servizi. Un ulteriore elemento di appesantimento potrebbe essere stato costituito dall’intenso processo di de stoccaggio verificatosi in tale periodo nelle economie industrializzate; un fenomeno che, implicando una riduzione della domanda di componenti e semilavorati di origine esterna, potrebbe avere amplificato l’elasticità di risposta degli scambi mondiali alla variazione della produzione. Infine, la maggiore avversione al rischio degli intermediari finanziari potrebbe avere penalizzato, nella fornitura di credito, soprattutto le imprese a elevato orientamento internazionale più esposte, nell’attuale frangente, al deterioramento ciclico.
Alcuni di questi fattori, in particolare quelli legati all’indebolimento dell’attività
manifatturiera, si sono attenuati durante gli ultimi mesi nell’area delle economie avanzate; si sono, nel contempo, evidenziate esigenze di ristoccaggio dando luogo, presumibilmente, a effetti opposti a quelli prima segnalati circa l’elasticità dei traffici all’attività produttiva. Il rafforzamento della congiuntura asiatica ha inoltre fornito un nuovo, significativo stimolo agli scambi. Queste considerazioni conducono a prevedere un’accelerazione del commercio mondiale relativamente più rapida di quella ipotizzata per il prodotto, con un aumento di circa il 4% nella media del 2010. La propulsione per il rafforzamento della domanda mondiale verrebbe dalla regione asiatica, caratterizzata peraltro da intensi legami produttivi e commerciali e da una elevata propensione agli scambi intra-area. Le economie industrializzate potranno avvantaggiarsi di riflesso del traino asiatico; la possibilità di aumentare i benefici derivanti dal maggiore sviluppo di quella regione resteranno affidate alle capacità delle singole imprese di inserirsi nelle relazioni produttive dell’area e di intercettare i gusti di un’ampia porzione di popolazione in via di progressivo arricchimento.
ECONOMIA ITALIANA
All’inizio del 2009, l’attività economica italiana ha sperimentato una nuova, marcata flessione, prolungando la fase di contrazione avviata nel secondo trimestre del 2008. Il calo produttivo è risultato diffuso a tutti i settori, ma l’impatto più pesante ha ancora riguardato l’industria manifatturiera, direttamente esposta al collasso del commercio internazionale. Dal lato della spesa, la flessione è stata guidata, come già nell’ultima parte del 2008, dalle esportazioni e dagli investimenti; i consumi delle famiglie, pur meno negativi rispetto alle altre componenti di domanda, sono diminuiti nuovamente in misura apprezzabile. Anche in Italia, il miglioramento degli indicatori congiunturali segnala l’attenuazione della caduta produttiva. Le condizioni congiunturali sembrano in via di progressiva stabilizzazione nell’industria. La fiducia delle imprese, rilevata dall’ISAE, ha arrestato nel mese di marzo la discesa che durava da oltre un anno, riportandosi sui valori medi di novembre-dicembre 2008; si tratta di livelli storicamente bassi, ma l’inversione della tendenza è evidente.
Sul rialzo del clima di opinione hanno influito giudizi più favorevoli sul livello del magazzino prodotti e aspettative meno negative su produzione (e ordini) a breve termine. Queste valutazioni conducono a fare ritenere che si sia probabilmente esaurito il decumulo delle scorte che aveva amplificato negli ultimi mesi la dimensione della caduta produttiva. A partire da marzo, la fiducia è andata migliorando soprattutto nelle industrie produttrici di beni intermedi che solitamente anticipano il ciclo economico complessivo; anche i settori dei beni di consumo e di investimento hanno evidenziato aumenti. Meno negativo è inoltre risultato il punto di vista degli imprenditori circa l’evoluzione generale dell’economia in prospettiva.
I migliori segnali di tipo qualitativo nell’industria manifatturiera sono stati affiancati, nei mesi primaverili, da prime indicazioni meno sfavorevoli anche sotto il profilo quantitativo. La profonda caduta della produzione industriale si è interrotta in aprile-maggio. Ciò non impedirebbe un secondo trimestre ancora in discesa, ma potrebbe preludere a un rimbalzo tecnico nel periodo luglio-settembre. Successivamente, date le condizioni di lenta ripresa internazionale, l’evoluzione dell’attività manifatturiera dovrebbe tornare a moderarsi, mantenendo comunque un’intonazione positiva.
Sulla base del sondaggio condotto mensilmente dall’ISAE, è apparsa in diminuzione a inizio estate la percentuale di imprese industriali che dichiara avere sperimentato un peggioramento delle condizioni generali di accesso al credito a seguito di contatti con le banche per richiedere o rinegoziare un prestito: nei dati campionari, circa il 13% rileva in giugno un peggioramento; tale quota era circa il 19% tra febbraio e aprile, il 9% a marzo dello scorso anno. La situazione appare meno favorevole per quanto riguarda il fenomeno del razionamento quantitativo, con un aumento delle imprese che si trovano in condizioni più sfavorevoli: a giugno l’8% degli intervistati dichiara che la richiesta di credito, per rifiuto dell’impresa o della banca, non ha avuto buon fine; a inizio anno questa quota era pari al 6,5%, al 4% nel marzo del 2008. Si rilevano differenziazioni a seconda delle dimensioni dell’impresa: il razionamento quantitativo sembra attenuarsi nei confronti delle grandi imprese, risultando, invece, in crescita per le piccole e medie. Le grandi imprese, d’altro canto, sembrano risentire, nell’ottenere credito, di condizioni più gravose rispetto ai mesi precedenti, in termini di richiesta di maggiori garanzie (in particolare, di tipo reale), maggiori spese accessorie e, soprattutto, tassi di interesse più elevati.
Sul fronte della fiducia delle famiglie, le rilevazioni ISAE di giugno evidenziano la prosecuzione della tendenza al rialzo in atto da alcuni mesi. Sono risultate in aumento le valutazioni dei consumatori sul quadro economico generale e sull’andamento futuro. Si sono attenuate le preoccupazioni degli intervistati sulle condizioni del mercato del lavoro, dopo il notevole aumento verificatosi dalla metà dello scorso anno. Si sono confermate, al contempo, in discesa le attese delle famiglie circa il ridimensionamento della dinamica inflazionistica.
Nell’insieme, le indicazioni congiunturali segnalano, anche per l’Italia, che la fase peggiore del ciclo dovrebbe essere stata superata. L’avvio della ripresa avverrà tuttavia con molta gradualità, evidenziandosi nelle cifre medie annue solo a partire dal 2010. L’inerzia che caratterizzerebbe il recupero ciclico italiano riflette quella prevista per la domanda internazionale, che dovrebbe fornire la spinta all’accelerazione del nostro Paese. In particolare, il secondo trimestre del 2009 sarà ancora negativo, a causa del trascinamento derivante dalla caduta di gennaio-marzo. Un segno positivo nell’evoluzione del prodotto lordo dovrebbe tornare a evidenziarsi a partire dal terzo trimestre. Il rialzo consentirebbe di portare l’attività economica nel secondo semestre sui livelli medi che hanno caratterizzato i primi sei mesi. Nella media dell’anno in corso il PIL si ridurrebbe, secondo i dati aggiustati per il calendario, del 5,3% (del 5,2% in termini grezzi). Sulla dinamica del 2010 influirebbe il progressivo rafforzamento del commercio mondiale. I provvedimenti decisi dal Governo nella manovra estiva contribuirebbero a dare sostegno alla domanda interna. Il PIL aumenterebbe nel prossimo anno dello 0,2%, nei dati corretti per il numero di giorni lavorativi (dello 0,3%, non effettuando l’aggiustamento per il calendario). I consumi si ridurrebbero del 2,2% quest’anno, per poi rimanere quasi stagnanti nel successivo (+0,2%). Il reddito disponibile delle famiglie verrebbe penalizzato dal peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro. Le misure di bilancio a favore delle fasce più deboli consentirebbero di attenuare il peggioramento; il calo del tasso di inflazione concorrerebbe, nel 2009, a limitare la diminuzione in termini di potere d’acquisto. Il prevalere nel corso di quest’anno di atteggiamenti precauzionali legati all’incertezza e l’esigenza di ricostituire la ricchezza finanziaria dovrebbero condurre a un nuovo aumento della propensione al risparmio che tenderebbe poi a stabilizzarsi nel 2010.
Gli investimenti diminuirebbero quest’anno in misura significativa (-11,2%), risentendo del deterioramento del ciclo economico, della diminuzione dei profitti e delle più onerose condizioni di finanziamento. Il calo a minimi storici del grado di utilizzo della capacità produttiva costituirebbe un ulteriore fattore di ostacolo all’ampliamento degli impianti. Le agevolazioni fiscali per l’acquisto di macchinari introdotte con la manovra di luglio entrerebbero gradualmente in funzione, incidendo sulle dinamiche a partire dell’ultima parte dell’anno e andando a impattare sul 2010, quando un maggiore stimolo alla spesa dovrebbe provenire anche dal miglioramento delle prospettive congiunturali e da un abbassamento dei costi di finanziamento. In media d’anno gli investimenti totali aumenterebbero dello 0,7%, quelli in macchinari, attrezzature e beni immateriali dell’1,4% (- 15,5% nel 2009).
Le esportazioni di beni e servizi approfondirebbero notevolmente la caduta nel 2009, con una riduzione del 18,5%, risentendo del drastico ripiegamento del commercio internazionale. Il risultato fortemente negativo in media d’anno sottenderebbe comunque il ritorno delle vendite all’estero su un sentiero positivo nel secondo semestre, a riflesso del processo di stabilizzazione e poi di recupero della domanda mondiale. Tale dinamica più favorevole dovrebbe manifestarsi nei dati medi del 2010, quando l’export aumenterebbe del 2%. La caduta della quota in volume sui mercati internazionali, accelerata nel 2009, si attenuerebbe il prossimo anno, riflettendo la ripresa del percorso di recupero competitivo delle imprese italiane che aveva preso a manifestarsi prima dello scoppio della crisi.
Le importazioni di beni e servizi dovrebbero diminuire del 13,8% nel 2009, per poi crescere del 2% nel 2010, a riflesso dell’evoluzione più positiva dell’attività economica interna e delle esportazioni, che attiverebbero maggiori acquisti di input di origine esterna. A seguito di questi andamenti il contributo della domanda estera netta alla variazione del PIL sarebbe negativo (per 1,3 punti percentuali) nell’anno in corso, per poi annullarsi nel 2010.
Le ripercussioni della crisi sul mercato del lavoro, già visibili nel deterioramento della dinamica occupazionale nel corso del 2008, si manifesteranno in pieno nel 2009, per poi perdurare, in misura meno accentuata, fino alla prima metà del 2010. La diminuzione dell’input di lavoro, nel 2009 sarà diffusa a tutti i comparti dell’economia; essa riguarderà in misura maggiore l’industria dove si stima una contrazione delle unità di lavoro del 5,3%. Il forte ricorso alla CIG e il notevole aumento registrato nel 2008 alle forme di lavoro part-time contribuirebbero ad attutire l’impatto della crisi sui posti di lavoro effettivamente persi, dando invece luogo a una più rilevante flessione del monte-ore lavorate. In particolare, si prevede che, nella media del 2009, a fronte di un calo complessivo delle unità di lavoro equivalenti a tempo pieno del 2,7% nel totale (pari a circa 664.000 unità in meno rispetto al 2008), il numero di persone occupate dovrebbe flettere dell’1,3% (circa 300.000 posti di lavoro in meno). I risultati del 2010 risentiranno del trascinamento negativo ereditato dall’anno in corso e del normale ritardo con cui il mercato del lavoro reagisce agli andamenti del ciclo; la flessione dell’input di lavoro proseguirebbe quindi anche nel prossimo anno, pur se in misura meno marcata rispetto all’anno precedente (-0,8%).
Le informazioni di contabilità nazionale sul primo trimestre segnalano come, sul fronte del mercato del lavoro, la crisi economica si stia riflettendo non solo nella riduzione dell’utilizzo del fattore lavoro, ma anche in una brusca battuta d’arresto nella crescita delle retribuzioni di fatto, nonostante la dinamica ancora sostenuta di quelle contrattuali. Questi andamenti risentirebbero del virtuale azzeramento dello slittamento salariale e, nei settori industriali, degli effetti indotti sulla massa retributiva dal forte ricorso alla CIG. Questi fenomeni dovrebbero condizionare le dinamiche salariali anche nei mesi seguenti. Nella seconda metà del 2009 giungono, inoltre, a esaurimento gli effetti retributivi della stagione contrattuale 2007-08, in presenza di uno scarso numero di rinnovi attesi per quel periodo. L’insieme di questi effetti porterebbe a una sostanziale moderazione della dinamica delle retribuzioni lorde per dipendente nel 2009 (+1,3%). Nel 2010 le retribuzioni lorde per dipendente, pur rimanendo su tassi di crescita storicamente molto bassi, dovrebbero iniziare a manifestare qualche segnale di ripresa (+1,5%), principalmente a causa di alcuni importanti rinnovi contrattuali e del progressivo rientro dei lavoratori dalla CIG.
Nella media del 2009 la dinamica dei prezzi al consumo risulterebbe pari all’1%, 2,3 punti percentuali in meno rispetto al 2008. Dopo avere sperimentato un andamento prossimo allo zero nei mesi estivi, l’inflazione si porterebbe verso valori più elevati dall’autunno, con il ritorno a fine 2009 a ritmi di incremento più vicini a quelli d’inizio anno. Nel 2010, dopo le escursioni decisamente ampie sperimentate da metà 2007, lo scenario inflazionistico dovrebbe risultare maggiormente regolare. Nel quadro di una ripresa della componente estera dei costi e di un lento rafforzamento del tono congiunturale, si assisterebbe, nel 2010, a una graduale risalita dell’inflazione. In media d’anno l’incremento dei prezzi al consumo sarebbe pari al 2%. Il differenziale inflazionistico con i partner dell’area euro risulterebbe sfavorevole all’Italia in entrambi gli anni della previsione e pari rispettivamente a sette e a otto decimi di punto percentuale.
FINANZA PUBBLICA
L’aggravio dei conti pubblici, connesso alla crisi congiunturale, è documentato da vari indicatori: il saldo del primo trimestre dei conti delle Amministrazioni Pubbliche, l’andamento delle entrate del bilancio dello Stato nel periodo gennaio-maggio, il fabbisogno del Settore Statale nei primi sei mesi dell’anno.
Quanto all’indebitamento delle AA.PP, nel primo trimestre 2009 è risultato pari al 9,3% del PIL, superando notevolmente il dato (5,7%) registrato nello stesso periodo del 2008, anche a causa di una diversa scansione nei rinnovi contrattuali di alcuni comparti del pubblico impiego – concentrati nella prima parte dell’anno – e dell’effetto sugli investimenti del trasferimento agli Enti di previdenza degli immobili non ancora venduti nell’ambito delle operazioni SCIP. Con riferimento alle entrate tributarie erariali, si è inoltre verificata una riduzione nei primi cinque mesi dell’anno pari al 3,4%, seppure più contenuta rispetto a quelle evidenziate dai dati cumulati nei mesi precedenti. Le imposte dirette si sono ridotte dello 0,8%, quelle indirette sono calate del 5,9%. Il fabbisogno del Settore Statale, infine, ha mostrato sino a maggio un progressivo peggioramento nei confronti dell’anno precedente, rientrato in parte grazie all’avanzo di giugno, che è tuttavia stato contenuto dallo slittamento al mese di luglio del termine per il versamento delle imposte, senza maggiorazione, da parte dei contribuenti soggetti agli studi di settore. Il fabbisogno del primo semestre si è così attestato a circa 49,5 miliardi di euro a fronte dei circa 24 miliardi della prima metà del 2008.
Il Documento di Programmazione Economico-Finanziaria per gli anni 2010-2013
La forte contrazione congiunturale del prodotto interno lordo reale del biennio 2008-2009 ha indotto il peggioramento delle condizioni della finanza pubblica, indicate per l’anno in corso nel DPEF : dopo il rialzo sperimentato nel 2008 – con un deficit pubblico pari al 2,7% del PIL –, per il 2009 è atteso un ulteriore aumento dell’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche che dovrebbe attestarsi, secondo il Documento, al 5,3% del prodotto. In tale quadro la politica di bilancio attuata dal Governo è stata orientata a conciliare la disposizione di provvedimenti volti a contrastare la crisi economica con la tenuta dei conti pubblici. La previsione sconta, infatti, gli effetti del decreto legge 112 del 2008 contenente la “manovra triennale” e l’impatto delle varie misure prese successivamente, attraverso anche la riallocazione di alcune poste di bilancio a sostegno dell’economia, tra cui quelle dei decreti 185/2008 e 5/2009, nonché del decreto legge 78/2009 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 1° luglio scorso, cui si stanno apportando importanti emendamenti.
Il Documento di programmazione proietta per gli anni 2010-2013 andamenti tendenziali dei conti pubblici a legislazione vigente in miglioramento grazie alla lieve ripresa stimata per il 2010 (+0,5%) e alla crescita annua del 2% prevista per il triennio successivo: dal 5% del PIL atteso per il prossimo anno, il disavanzo calerebbe al 4,4% nel 2011, successivamente al 4,1% e infine al 3,7% nel 2013.
Data la situazione congiunturale, e in coerenza con quanto stabilito a livello europeo, una riduzione del deficit più consistente di quella tendenziale viene programmata a partire dal 2011, in concomitanza con la maggiore crescita prevista. Grazie a una manovra netta cumulata - pari allo 0,4% del PIL nel 2011 e all’1,2% in ognuno dei due successivi -, nell’anno finale del DPEF si dovrebbe più che dimezzare il disavanzo, che si ridurrebbe dal già ricordato 5% del 2010 al 2,4% del PIL nel 2013.
Il disavanzo strutturale, cioè al netto della componente ciclica e delle misure una tantum, dovrebbe proseguire la sua discesa: secondo gli obiettivi programmatici tale disavanzo diminuirebbe progressivamente, dal 3,4% del 2008 al 2,1% del 2012, per poi salire appena al 2,2% nel 2013.
Il saldo primario, secondo il DPEF, dopo il risultato negativo atteso per l’anno in corso (-0,4%) tornerebbe positivo sin dal 2010 per poi aumentare progressivamente e raggiungere il +3,5% nel 2013. La spesa per interessi si incrementerebbe di circa un punto percentuale di PIL nel periodo in esame, sino a un valore del 5,9% del prodotto nell’ultimo anno. Il rapporto debito/PIL, dopo gli incrementi attesi per il biennio 2009-2010 (al 115,3% e poi al 118,2), tornerebbe a calare (al 118% nel 2011 e poi al 116,5%) attestandosi a fine periodo al livello del 114,1%, anche grazie agli interventi correttivi dell’avanzo primario programmati.
Questi ultimi, in base alle indicazioni contenute nel Documento di programmazione, dovrebbero riguardare, sul versante delle entrate, misure di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale e, dal lato delle spese, in modo particolare quelle primarie correnti. In tale ambito, il DPEF evidenzia il completamento del risanamento in campo sanitario per le regioni in deficit e l’individuazione - tramite il confronto con le parti sociali - di possibili percorsi di contenimento della spesa pensionistica.
Il Documento sottolinea, inoltre, che il Governo provvederà a definire – previa concertazione con le Confederazioni sindacali del pubblico impiego - l’ammontare delle risorse da destinare ai rinnovi contrattuali, nel rispetto e nei limiti della programmazione della legge finanziaria.
Il DPEF fa riferimento, infine, a una rigorosa attività di individuazione dei costi standard dei servizi, da affiancare agli interventi correttivi e da svolgere in sede di attuazione della legge sul federalismo fiscale. Su tali temi si tornerà successivamente.
La politica di bilancio, secondo il DPEF, rimarrà correttamente impostata verso i tre indirizzi già intrapresi: a favore di crescita e produttività, a sostegno temporaneo di famiglie e imprese, a salvaguardia degli equilibri di finanza pubblica.
Le previsioni dell’ISAE sul disavanzo pubblico sono in linea con quanto indicato nel DPEF, seppure appena più sfavorevoli per il 2010. Per l’anno in corso, è atteso lo stesso livello di deficit delle Amministrazioni Pubbliche previsto dal Documento e pari al 5,3% del PIL; nel prossimo anno, l’indebitamento netto dovrebbe ridursi scendendo al 5,1% del prodotto.
Più favorevoli risultano invece le previsioni sul debito pubblico, essenzialmente a causa di un più elevato valore del PIL nominale stimato dall’ISAE, che influisce sul rapporto con il PIL.
Dopo il 105,7% registrato nel 2008 il debito dovrebbe salire al 114,6% del prodotto nel 2009 e poi al 117,7% nel 2010.
Il decreto legge 78/2009
Il decreto legge 78, ultimo tra quelli disposti a sostegno dell’economia, si articola in tre campi di interventi - anticrisi, antievasione e antielusione, sul bilancio pubblico – e implica effetti sulle spese e sulle entrate nette con impatto nullo sul deficit delle Amministrazioni Pubbliche. Il provvedimento - nella sua prima formulazione non ancora comprensiva degli effetti dovuti agli emendamenti - mette a disposizione risorse – completamente coperte - nel quadriennio 2009-2012 pari a 1,2 miliardi di euro per l’anno in corso, 3,8 per il prossimo, 3,4 per il 2011 e 3,1 miliardi per il successivo.
I principali impieghi sono a favore delle imprese. In particolare riguardano: la detassazione (nella misura del 50%) del valore degli investimenti in macchinari e attrezzature effettuati entro un anno dalla entrata in vigore della norma, con effetti di sgravio a partire dal 2010; l’aumento della percentuale della svalutazione dei crediti fiscalmente deducibile.
Vengono inoltre disposte norme, senza oneri per la finanza pubblica, che prevedono la promozione della concorrenza nei mercati dell’energia al fine di ridurne il costo, la revisione dei coefficienti di ammortamento. Sono poi previste misure la cui applicazione necessita di decreti attuativi, come quelle sul sostegno alla internazionalizzazione delle imprese e sulla maggiore tempestività nei pagamenti da parte delle Amministrazioni Pubbliche.
Per quanto riguarda le famiglie, sono disposti l’istituzione del premio di occupazione, un potenziamento del sistema degli ammortizzatori sociali, la stipula di contratti di solidarietà e il sostegno, tramite la liquidazione del trattamento di integrazione salariale straordinaria, ai lavoratori, già in CIG, che ne facciano richiesta al fine di intraprendere una attività autonoma, l’avvio di micro imprese o di cooperative.
E inoltre a favore delle famiglie sono le misure volte a ridurre il costo delle commissioni bancarie, quelle di tutela dei piccoli risparmiatori titolari di obbligazioni e azioni Alitalia, la conferma per il 2010 dell’abolizione del ticket sulle prestazioni specialistiche ambulatoriali, quelle di proroga della sospensione dell’esecuzione degli sfratti.
Ulteriori impieghi di risorse riguardano la proroga delle missioni destinate al sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione nei Paesi coinvolti in eventi bellici, le spese per un maggior controllo del territorio e le spese dirette a fronteggiare gli impegni dello Stato italiano per la partecipazione a banche e fondi internazionali.
Quanto alla copertura finanziaria, i mezzi necessari sono reperiti sostanzialmente attraverso le maggiori entrate derivanti dal contrasto degli abusi in materia di compensazione dei crediti fiscali, dal contrasto dell’elusione e dell’evasione internazionali, dal potenziamento della riscossione, dal rilascio di concessioni nel campo dei giochi. Sono inoltre previste, oltre a rimodulazioni di spese, minori uscite in campo sanitario - per la riduzione al 13,3% del tetto della spesa farmaceutica territoriale - e risparmi provenienti dal contrasto delle frodi riguardanti le prestazioni di invalidità civile.
Alcune valutazioni ISAE sul federalismo fiscale
Il DPEF, nell’illustrare la produzione legislativa svolta dal Governo nel suo primo anno di attività, si sofferma sui contenuti della legge delega sul federalismo fiscale approvata nel mese di maggio 2009. Alcuni temi connessi alle problematiche di attuazione di tale delega sono stati recentemente approfonditi dall’ISAE nel Rapporto “Finanza pubblica e Istituzioni”.
La determinazione di costi, spesa e servizi standard e l'individuazione di percorsi dinamici di convergenza da stabilire nei Patti annuali costituiscono gli elementi di maggiore portata innovativa ma anche di più complessa realizzazione. Alcune norme possono anzi ritenersi difficilmente attuabili senza un grande salto di qualità nella disponibilità di informazioni, finalizzate anche alla costruzione di indicatori di efficienza e di adeguatezza.
I criteri generali di delega prevedono, infatti, il graduale superamento del criterio della spesa storica in favore del criterio del fabbisogno standard (con riferimento ai livelli essenziali delle prestazioni - LEP - e alle funzioni fondamentali) a cui ancorare il finanziamento. In tale ambito, nei recenti lavori dell’ISAE l’attenzione è stata posta, tra l’altro, su due delle tre competenze per le quali sono da definire i LEP, istruzione e assistenza, sulle funzioni fondamentali dei Comuni, sulle società partecipate dagli Enti pubblici territoriali e sui connessi problemi di valutazione delle esternalizzazioni. Viene fornita una interpretazione della normativa sull'attuazione del federalismo fiscale in materia di istruzione e delineata una metodologia per giungere alla determinazione dei
fabbisogni standard regionali, di cui sono fornite alcune stime preliminari.
La legge delega garantisce la copertura del fabbisogno relativo a due tipologie di spese: quelle per lo svolgimento delle funzioni amministrative già esercitate dalle Regioni nel campo dell’istruzione e quelle che derivano dalle nuove funzioni attribuite alle Regioni sulla base di un intesa Stato-Regioni. Le prime si riferiscono a: assistenza scolastica, programmazione dell'offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale, programmazione della rete scolastica, determinazione del calendario scolastico, contributi alle scuole non statali, oltre alle funzioni amministrative derivanti dall'esercizio della competenza legislativa integrativa o di attuazione di leggi statali. Le seconde, le nuove funzioni attribuite alle Regioni, si riferiscono alla competenza in materia di attribuzione del personale e delle "risorse economiche e strumentali" alle istituzioni scolastiche sulla base dei principi generali fissati dallo Stato. A questo fine dovrebbe essere trasferito dallo Stato il personale degli Uffici scolastici regionali. L'attuazione della legge 42/2009, quindi, richiede la determinazione dell'ammontare di risorse finanziarie standard da assegnare alle Regioni (partendo da quelle sinora a carico delle Regioni e da quelle sinora assegnate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca alle singole istituzioni scolastiche) ma soprattutto la determinazione della dotazione di personale da attribuire alle Regioni (sia il personale scolastico, docente e non docente, sia il personale degli uffici scolastici regionali), che appare la questione più rilevante, in termini di risorse coinvolte.
Per la determinazione del fabbisogno standard di personale docente è stato utilizzato lo strumento econometrico, con una metodologia articolata in diverse fasi. Prima è stato stimato il numero di alunni per classe sulla base dei dati disponibili, riferiti all'anno scolastico 2007/2008, in funzione delle variabili esplicative che tengono conto sia della caratteristiche orografiche e socio economiche dei territori sia delle peculiarità relative alla formazione delle classi (ad. es. la presenza di alunni disabili) prescritte dalla normativa sui criteri di formazione delle classi come in grado di giustificare differenze nel numero di alunni per classe.
Successivamente, è stato utilizzato il valore stimato del rapporto alunni/classi come standard. Sulla base della consistenza degli alunni è stato costruito il numero di classi che si sarebbero avute qualora il rapporto alunni/classe fosse stato pari a quello standard. Poiché, inoltre, la legislazione pone dei vincoli piuttosto rigidi rispetto al rapporto che deve intercorrere tra classi e docenti, è stato possibile generare una stima del numero di docenti necessario a garantire la copertura del servizio alla popolazione scolastica in ogni regione.
In termini di risorse da attribuire alle regioni, e aggregando il personale dei diversi ordini di scuola, le stime indicano che: le prime tre regioni che dovrebbero ridurre la dotazione di personale docente sono Calabria, Basilicata e Sardegna, seguite da Friuli e Piemonte; le regioni che vedrebbero aumentare l’assegnazione di personale, o che dovrebbero ridurla meno, sono Marche ed Emilia Romagna, seguite da Liguria, Abruzzo e Umbria. Per quanto riguarda il fabbisogno di docenti di sostegno, Abruzzo, Lazio, Umbria, Lombardia,
Molise, Veneto e Friuli sono le regioni che – secondo le stime - vedrebbero aumentare l'assegnazione di personale con il criterio di un docente ogni due alunni disabili. A dover ridurre il personale di sostegno sarebbero Basilicata, Sicilia, Puglia, Liguria, Calabria, Campania e Toscana.
Un altro settore che dovrebbe veder determinare i fabbisogni standard è quello dei servizi riconducibili a quella che viene generalmente definita, con terminologia anglosassone, Long Term Care (LTC). La LTC comprende tutti gli interventi di natura sanitaria o assistenziale a favore delle persone anziane e/o disabili non autosufficienti, cioè non in grado di compiere, con continuità, gli atti quotidiani della vita senza un aiuto esterno.
L'area socio-sanitaria e assistenziale del sistema di welfare italiano sta assumendo una rilevanza crescente per via dell'aumento della domanda di prestazioni per le persone non autosufficienti e per gli anziani in generale, dovuto sia alle dinamiche demografiche in atto (l'invecchiamento della popolazione e il cambiamento della struttura delle famiglie) sia ai cambiamenti socio-economici (l'incremento della partecipazione femminile al lavoro) e culturali.
La LTC si caratterizza in Italia (ma anche negli altri paesi europei) per l'elevata frammentazione istituzionale, a causa della quale la titolarità e le fonti di finanziamento sono distribuite fra gli Enti Locali e le Regioni, con modalità differenti in relazione ai modelli istituzionali adottati dalle singole Regioni. Infatti, gli attori direttamente impiegati nell'erogazione dei servizi sociali sono i Comuni, le ASL, le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) e l'INPS, ma nella programmazione e nel finanziamento dei servizi sociali sono coinvolti anche lo Stato, le Regioni e le Province. Inoltre, in Italia una quota rilevante della spesa per la LTC è finanziata dalle famiglie in via formale o informale.
L'elemento che caratterizza più profondamente il finanziamento e l'erogazione dei servizi per la LTC in Italia è la mancanza di un disegno organico e unitario; vi è evidenza di una stratificazione di politiche ancorate ai diversi livelli di governo, senza che vi sia un disegno o una regia complessiva, né sul fronte del finanziamento, né su quello della pianificazione dei servizi, né su quello del coordinamento delle prestazioni.
Significative sono le differenze inter-regionali che, se possono essere considerate un valore sul piano delle eterogeneità dei modelli istituzionali, necessitano invece di riflessioni rispetto ai differenziali dei tassi di copertura dei bisogni e degli standard di servizio. Si tratta di decisioni che non potranno essere adottate indipendentemente dal processo avviato con l'approvazione della legge delega sul federalismo fiscale, che si svilupperà nei prossimi mesi.
Sul piano normativo occorre discutere quali debbano essere i diritti individuali esigibili per la cronicità (come sono, ad esempio, oggi i servizi della scuola dell'obbligo) e quali invece siano i servizi da erogare in base alla intensità dei bisogni rispetto a vincoli di bilancio (come è oggi considerato l'asilo nido: chi esprime un bisogno più intenso ottiene un posto pubblico, gli altri sono esclusi dal servizio). Occorre decidere un livello di copertura del bisogno che i singoli territori devono offrire, o come quota di spesa pro capite o come percentuale di non autosufficienti serviti. Inoltre, per ogni categoria di utente, sembra improcrastinabile stabilire degli standard di servizio di riferimento, rispetto ai quali ogni regione potrebbe offrire poi ulteriori livelli differenziati.
Il processo di individuazione delle competenze funzionali degli Enti Locali è stato lungo e non è ancora approdato a una conclusione. La "Legge La Loggia" del 2003 individuava le funzioni fondamentali nelle funzioni storicamente svolte, connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di Ente. Il progetto di "Codice delle Autonomie" proposto nella passata legislatura faceva specifico riferimento alle attività relative ai servizi pubblici locali di rilevanza economica necessari al soddisfacimento dei bisogni primari della Comunità locale. Nessuna di queste iniziative ha trovato attuazione. E’ intervenuta la legge delega sul federalismo fiscale, che individua tali funzioni in via provvisoria, in attesa della nuova definizione del “Codice delle Autonomie”, che è stato ora approvato in via preliminare dall’ultimo Consiglio dei Ministri per passare all’esame della Conferenza Unificata, e dal quale si attendono elementi importanti di razionalizzazione, anche con riferimento al Patto di stabilità interno.
Il concetto di fabbisogno di spesa standard entra nella nuova normativa in una duplice veste: come criterio di riferimento per il finanziamento delle spese per le funzioni fondamentali; come criterio di comparazione e valutazione dell'azione pubblica finalizzato a tenere conto dell'efficienza e dell'efficacia. La risoluzione delle questioni tecniche relative al computo del fabbisogno di spesa standard ha pertanto implicazioni assai rilevanti e si rende quindi necessaria una condivisione fra gli attori coinvolti delle metodologie da utilizzare, dei dati su cui il computo dovrà avvenire, delle modalità di aggiornamento della procedura nel corso del tempo.
La stima della spesa standard è stata effettuata, nel Rapporto dell’ISAE, in base alle indicazioni della legge delega, utilizzando dati di spesa storica primaria corrente pro capite dell'anno 2006 dei Comuni delle Regioni a statuto ordinario, desunti dai certificati del conto di bilancio dei Comuni di fonte del Ministero dell'Interno, riferiti alle funzioni fondamentali e corretti per accrescere l'omogeneità della variabile oggetto di stima. Le stime ottenute - seppure come prime indicazioni di larga massima - confermano che la transizione verso il nuovo regime di finanziamento, ossia la convergenza al livello di spesa standard nell'arco di cinque anni come previsto dalla legge delega, non sarà facile. Secondo le valutazioni preliminari effettuate, il 41% dei Comuni presenta, infatti, una spesa effettiva maggiore di quella standard; la concentrazione è maggiore in Basilicata (63,57%), Campania (55,71%), Emilia Romagna (55,12%), Toscana (51,93%), Lombardia (51,56%). Sul fronte opposto, cioè nell'ambito del restante 59% dei Comuni che mostra una spesa effettiva inferiore a quella standard, il fenomeno si concentra negli Enti situati in Liguria (78,21%), Veneto (77,76%), Puglia (76,64%), Piemonte (70,35%), Umbria (64,13%), Abruzzo (61,31%), Lazio (60,92%), Calabria (59,75%), Molise (59,06%) e Marche (54,47%).
Dalle stime si evince inoltre che più del 12% dei Comuni con spesa effettiva maggiore di quella standard presenta un'eccedenza compresa tra il 10 e il 20% e che oltre l'8% sperimenta eccedenze superiori al 20%. Tra le Regioni i cui Comuni in media dovranno effettuare una riduzione significativa della spesa pro capite, si colloca la Campania (con una riduzione necessaria stimata nel 13,4% della spesa storica). Tra quelle i cui Enti, all'opposto, potrebbero aumentare le spese per le funzioni fondamentali risalta invece il Veneto (con un incremento previsto pari al 10,8%).
Altra indicazione segnalata dalla stima è che, nell'ordine, i Comuni delle Regioni Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Toscana dovrebbero ridurre la propria spesa storica. Tuttavia la stima non è in grado di indicare se il verificarsi – secondo le stime – di una spesa effettiva più elevata di quella standard dipenda da fattori di inefficienza nella produzione di servizi pubblici o, piuttosto, da livello, qualità o ampiezza superiori dei servizi erogati (fattori che sono legati ovviamente anche a decisioni politiche degli amministratori locali).
Appare dunque quale problema, che sembra richiedere i maggiori sforzi applicativi, la mancanza di informazioni rilevate sistematicamente e con criteri omogenei che permettano di discriminare adeguatamente gli Enti in base alle prestazioni effettivamente offerte a parità di spesa effettuata.
A tale proposito è da sottolineare che i Comuni "virtuosi", quanto a maggiori tipologie di servizi offerti e di migliore qualità, dovrebbero essere interessati a che sia possibile identificare correttamente i fattori di qualità-ampiezza dei servizi erogati, al fine di non vedersi sottrarre quote importanti di trasferimenti perequativi, dal momento in cui la loro spesa storica, in mancanza di
informazioni che giustifichino i loro esborsi "eccessivi", può risultare notevolmente più elevata di quella standard. Potrebbero quindi essere interessati ad avviare tempestivamente una rilevazione affidabile di questa tipologia di dati.
Un altro aspetto rilevante ai fini delle quantificazioni connesse all’attuazione del federalismo fiscale riguarda le esternalizzazioni delle funzioni e dei servizi un tempo svolti direttamente dagli Enti Locali. Queste hanno assunto dimensioni rilevanti generando un processo articolato che ha dato vita ad "nuovo capitalismo municipale" che, contrariamente agli obiettivi attesi dalle riforme intraprese a partire dai primi anni novanta, ha indotto un ampliamento, non
sempre esplicito, del perimetro dell'intervento pubblico. E’ quindi importante comprendere ed evidenziare i nessi finanziari tra Comuni e partecipate e i conseguenti effetti - diretti o indiretti - sulle finanze comunali.
Le imprese partecipate dagli Enti pubblici territoriali costituiscono un insieme di enti e società che non fanno parte del settore Amministrazione Pubbliche, sono fuori dal sistema di contrattazione del pubblico impiego, e che per missione, comportamenti, finanziamenti potrebbero (con livelli di maggiore o minore gradualità) essere assimilati alla Pubblica Amministrazione, ma che ne vengono
esclusi in quanto "produttori di beni e servizi destinabili alla vendita".
Ma oltre alle incertezze informative legate a criteri di classificazione che non riescono a cogliere le novità legate alle modificazioni di natura giuridica, alla natura del finanziamento, alla sovrapposizione e compresenza di personale con provenienze contrattuali diversificate, non si riesce a valutare appieno la rilevanza della presenza pubblica nel determinare la ricchezza ed il benessere di un territorio. Nel contempo, aumenta l'autonomia gestionale delle società ed imprese a controllo o partecipazione pubblica con il depotenziamento delle politiche di indirizzo e controllo, ivi compreso il controllo della spesa di personale che, pur con diverse modalità, opera in realtà organizzative che ricevono finanziamenti pubblici.
A seconda di come si restringa o si ampli il perimetro di riferimento, si tratta di un insieme di enti, consorzi, aziende in continua ascesa che una recente (aprile 2009) quantificazione relativa alla banca dati Consoc, gestita dal Ministero della Funzione Pubblica, fa giungere a 6.752 unità, di cui 2.991 consorzi e 4.461 società partecipate da Amministrazioni Pubbliche nel 2008, per un totale di 23.400 componenti di consigli di amministrazione.
La spesa complessiva delle imprese pubbliche locali (ricomprese nel Settore Pubblico Allargato, nella definizione dei Conti Pubblici Territoriali della indagine curata dal Ministero dello Sviluppo Economico) è stata pari a 60,4 miliardi di euro nel 2007, e di essa 51,5 miliardi sono localizzati nel Centro-Nord e 8,8 miliardi di euro nel Mezzogiorno.
La realtà delle imprese pubbliche locali appare molto diversificata, con settori connotati da elevato valore aggiunto per addetto e da profitti (energia e gas), le cui imprese sono coinvolte in forti processi di trasformazione societaria (aggregazioni in imprese multi-utilities, quotazioni in borsa) e che possono rappresentare per l'ente locale una fonte di entrate di bilancio grazie ai dividenti societari, concentrate nel Centro-Nord. Accanto convivono imprese piccole ed anche molto grandi, alcune con forti passivi di bilancio (trasporti, servizi ambientali, acqua) che necessitano di continui trasferimenti che appesantiscono le finanze locali, anche per le ridotte possibilità di agire sulle leve tariffarie, a causa della forte rilevanza sociale in termini di politiche redistributive delle tipologie di servizio erogate.
La recente approvazione della legge delega n. 42 del 5 maggio 2009 per l'attuazione del federalismo fiscale apre anche per le imprese pubbliche locali scenari di razionalizzazione e di integrazione del settore nei confronti delle Amministrazioni Pubbliche controllanti, con la conseguente necessità di procedere in direzione di rendere disponibili bilanci consolidati degli Enti locali e delle loro società ed aziende partecipate.
Nella situazione attuale, ci si scontra con ostacoli conoscitivi che derivano da una contabilità pubblica locale che non consente di rendere immediatamente percepibili, e quindi trasparenti, i nessi con le gestioni esternalizzate e le partecipazioni in società di capitali. Questa circostanza si connette sia alla scarsa analiticità dei bilanci comunali, sia al processo stesso di esternalizzazione. Il trasferimento all'esterno di funzioni e attività proprie del Comune, mediante la partecipazione o la costituzione di nuovi organismi societari, ha, infatti, ridimensionato la capacità informativa dei bilanci comunali. Tuttavia, questi processi lasciano certamente tracce nei documenti contabili degli Enti locali e la loro ricostruzione risulta di estrema rilevanza per la corretta valutazione degli effetti, attuali e prospettici, non solo sulle finanze comunali, ma anche sulla qualità stessa dei servizi e delle funzioni.
Pur nella scarsa analiticità dei documenti contabili analizzati (con informazioni desunte dai Certificati di Conto Consuntivo dei Comuni rilevati dal Ministero degli Interni, per gli anni 2001 e 2006), sono comunque ravvisabili tendenze di fondo che permettono di evidenziare alcuni snodi critici.
Emerge la difficoltà di interpretazione delle singole voci di bilancio data l'inadeguatezza della strumentazione contabile. Tale aspetto riguarda sia la definizione delle voci di bilancio (che si presentano ampie, con zone di sovrapposizione, spesso aperte a scelte discrezionali, con possibilità di "scambiare" classificazione corrente con classificazione di conto capitale) sia la completezza e accuratezza delle compilazione delle varie poste. Ne deriva che, senza una corretta raffigurazione della situazione economico-patrimoniale di ogni unità comunale, i vincoli posti dal Patto di stabilità interno per il coordinamento della finanza pubblica rischiano di essere svuotati di senso ed efficacia.
Dalle analisi effettuate si riscontra che, nonostante significativi incrementi in termini di risorse capitali destinate all'acquisizione di partecipazioni e a conferimenti di capitale, i Comuni non sembrano aver ridotto in modo significativo i costi di produzione, in termini di spesa per il personale e anche di oneri straordinari (in cui, generalmente, sono contabilizzate i ripiani di perdite di gestione). Il problema riguarda soprattutto le aree meridionali del Paese e le Isole. Questo è indicazione del possibile rischio che le esternalizzazioni non siano accompagnate da una riorganizzazione delle funzioni e delle risorse, ma tendano a rientrare in un complesso e contraddittorio processo di moltiplicazione degli operatori, con una generale tendenza alla levitazione dei costi.
Si evidenziano inoltre alcune particolarità riscontrate nei grandi Comuni con popolazione superiore ai 60mila abitanti. L'attivismo dei grandi Comuni nell'acquisire partecipazioni e nell'incamerare consistenti flussi di utili e di dividendi sta allargando i confini del capitalismo pubblico che la stagione delle riforme degli anni Novanta intendeva superare. Se non devono esserci preconcetti verso l'impegno dei Comuni nell'organizzazione tramite soggetti esterni delle prestazioni per i loro cittadini, si deve però richiedere che questo avvenga all'interno di un contesto di piena trasparenza e valutabilità dell'operato.
Un’altra evidenza riscontrata è che i Comuni più piccoli presentano una varianza maggiore, rispetto alle altre classi dimensionali, nelle scelte che riguardano le relazioni economico-patrimoniali con soggetti esterni, facendo registrare, per esempio, incidenze sulla spesa in conto capitale nettamente al di sopra della media per l'acquisizione di partecipazioni azionarie e per conferimenti di capitale. Ciò suggerisce che, preso singolarmente il piccolo Comune "conta" poco, ma la galassia è numerosa, e c'è il rischio che si avvii un processo di accumulazione di tensioni e di problemi prospettici.
Dati questi aspetti, appare fondamentale procedere verso la razionalizzazione e l'omogeneizzazione delle regole contabili, con l'obbligo per i Comuni di predisporre bilanci consolidati coprenti tutte le relazioni economico-finanziarie con soggetti esterni; la legge delega sul federalismo fiscale si muove già in questa direzione così come la fissazione dei nuovi principi contabili definiti dall'Osservatorio sulla finanza locale del Ministero dell'Interno.
21 luglio 2009
Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda al successo editoriale
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.