Parallelismo tra la Roma repubblicana e l'Impresa.

Analizzando in dettaglio la storia di Roma mi sono chiesto, spesso, su quali “valori” si reggesse la sua capacità di costruire un impero e difenderlo per secoli. Nel realizzare questi approfondimenti mi sono reso conto che molti di quei valori sono alla base di un’impresa che voglia nascere svilupparsi e sopravvivere. Se nel seguito sostituiamo Roma con Impresa si può iniziare a capire qual è la mia ratio.

I giovani romani alla nascita, teoricamente, partono tutti dallo stesso livello, sarà la vita che rivelerà il loro carattere l’ingenium la vita intesa come capacità di fare la propria fortuna e quella di Roma. Questo romano, chiunque sia, qualunque cosa faccia, ha un dovere che deve porre innanzi a tutto dovrà, essere un cittadino, nient’altro che un cittadino, fino in fondo. Altrimenti sarà tiranno o schiavo, mostruoso o infame. A Roma ci sono i cittadini e gli altri; gli altri esistono solo per il rapporto che hanno con un cittadino. Gli altri  sono i figli, la moglie, il liberto, lo schiavo. La loro esistenza è legata a un nome, il nomen è la cittadinanza, distingue l’uomo libero dallo schiavo che possiede solo un nomignolo. I romani, tra loro, si chiamano per nome, non in segno di confidenza, ma di onore. Il nome è la prima forma di dignità civile; l’uomo romano è il suo nome che è strettamente legato alla fama dei suoi avi e alla sua; sarà disprezzato quel romano che non sarà in grado di accrescere la fama del proprio nome. Essere riconosciuto cittadino significa, per il romano, ricevere dalla città un titolo: il proprio nome.

Alla base della società romana c’è il censimento il census. Ogni cinque anni, il cittadino romano, civis, deve presentarsi a Roma per essere censito. Dovrà denunciare la moglie, i figli, gli schiavi, il patrimonio; nel caso in cui non si presenti gli verranno confiscati i beni e lui stesso venduto come schiavo. L’iscrizione ai registri del censimento equivale alla libertà; infatti, il padrone che vuole liberare uno schiavo dovrà solo iscriverlo nei registri del censimento. Per tutta l’epoca repubblicana il censimento è quindi il solo modo per un romano di far riconoscere la sua identità e la sua cittadinanza. Un cittadino fa iscrivere il figlio o il suo liberto. Il censimento permette di contare i cittadini e di valutare i potenziali militari e le potenziali fonti di entrate fiscali, ma, soprattutto, struttura la città come collettività politica e militare come un populus in grado di agire collettivamente obbedendo a magistrati eletti liberamente. Il compito  del censimento è delicato e viene affidati alla magistratura più elevata ai censores. Questi prendono in considerazione ogni uomo, ne valutano patrimonium, il patrimonio, e dignitas, la dignità,  allo scopo di assegnargli il giusto posto nella gerarchia civica. Quando giudicano i meno abbienti i censori tengono conto solo dei loro beni, ma, via via che un cittadino si trova in una posizione elevata della gerarchia civica lo sguardo del censore si fa più penetrante e inquisitorio egli valuta la vita pubblica e privata (comportamento di moglie e figli, comportamenti sessuali, intensità del lavoro, vizi) di quel cittadino in modo da far progredire o regredire la sua posizione sulla scala gerarchica. Un’attitudine che a Roma è ritenuta ignobile e che fa regredire nella gerarchia sociale è l’avarizia; l’avaro è un uomo che si isola dalla civiltà e che si allontana dagli altri è un incultus, perché a Roma i ricchi devono condividere la propria ricchezza con il popolo e devono contribuire al mantenimento della res publica (costruzione e manutenzione di strade, monumenti, templi). Virtù che va mostrata e apprezzata  è, invece,  la liberalitas l’attitudine nel dare senza intaccare pericolosamente il patrimonio; non essere attaccato al denaro è proprio dell’uomo che ha altre priorità onorevoli come l’amore per la città, per la gloria, per la libertà. Il buon romano deve, però, evitare di vivere quotidianamente nello spreco, nella luxuria, come dicono a Roma, per non perdere il patrimonio e cadere nella miseria.


Ogni cittadino si vede attribuire una classe o un ordine; in cima alla gerarchia si trovano gli optimates, i senatori e gli equites, i cavalieri; su questi due ordini ricadono le responsabilità militari e i carichi fiscali più onerosi. Più in basso ci sono le cinque classi dei plebei; gli ultimi della graduatoria sono i senza casa e senza terra che sono, peraltro, esclusi dal servizio militare; giova notare che i censori escludevano dal servizio militare anche coloro che lasciavano incolto il terreno. La differenza di ricchezza tra senatori e cavalieri e la plebe è abissale; quest’ultima per poter “campare”, spesso non ha altra soluzione che la vita militare. La vita militare, infatti, permette a tutti i poveri, contadini o abitanti di Roma, di risalire la gerarchia sociale con la dimostrazione del proprio valore di uomini, attraverso la propria virtus. Il moltiplicarsi delle guerre di espansione è visto con favore dai poveri che possono accedere sia al soldo sia al bottino; si può partire per la guerra poveri e tornare ricchi e con il riconoscimento da parte della città, da parte di Roma, di ciò che realmente vale quell’uomo grazie alla prova dimostrata in guerra. Il soldato valoroso, inoltre può accumulare titoli di gloria e ricompense da parte del suo generale, virtutis causa, e corone civili e ricompense per ogni commilitone salvato sul campo di battaglia. La guerra permette al soldato valoroso di crescere in dignitas, arricchito dal bottino e reso glorioso dalle imprese. La guerra è indispensabile ai poveri perché possano rivelare la loro grandezza d’animo e mette alla prova ogni cittadino per misurarlo. Per coloro che sono senza casa e senza terra la scalata sociale può iniziare con l’assegnazione di terra pubblica l’ager publicus, condizione che gli consente di diventare soldato con i vantaggi descritti.

In fondo alla scala sociale troviamo il servus che per il romano si caratterizza come persona senza animus; gli schiavi sono definiti da uno statuto giuridico: sono oggetto di proprietà, come i beni mobili, mentre gli uomini sono soggetti giuridici. E’ uno statuto di dipendenza; altri membri della collettività romana, tuttavia, posseggono uno statuto di dipendenza, cioè le donne, i bambini e i liberti, essi, a differenza degli schiavi, restano, però, giuridicamente liberi. Certamente a Roma gli schiavi si dànno da fare dovunque: in campagna e in città, nei campi, nelle case, nelle botteghe e nell’amministrazione dello stato (a eccezione di esercito e funzioni pubbliche), né più, né meno degli uomini liberi. Ovunque si trovino degli schiavi che lavorano vi si trovano anche uomini liberi e tutti si incontrano nelle stesse associazioni. E’ palese che i lavori più umili o disonoranti sono affidati agli schiavi, come raccogliere l’immondizia, far girare le macine, fare gli attori, lavorare nelle cave e nelle miniere, ma si trovano anche schiavi banchieri, amministratori di proprietà, precettori, schiavi benestanti possessori di altri schiavi. Nei momenti di gravi crisi militari, come dopo la sconfitta di Canne, gli schiavi possono essere arruolati nelle legioni. .E' molto complesso il rapporto tra il romano e gli schiavi, anche il più povero ha una casa, un quarto di iugero di terreno e almeno uno schiavo, il bisogno di "pubblico" porta il cittadino a circondarsi di schiavi con i quali inastaura un rapporto che spesso è di dipendenza, se non di amicizia. A volte lo schiavo è una sorta di alter ego del padrone, a esempio un cittadino romano non può essere torturato dai tribunali, ma, al suo posto, possono essere torturati i suoi schiavi e gli storici del tempo riportano casi di schiavi morti sotto tortura pur di non tradire il padrone. Peraltro la giurisprudenza romana prevede pene per quei padroni che picchiano i propri schiavi senza giusta causa. Con gli stoici, tra la nobiltà romana inizia a insinuarsi il dubbio che gli schiavi posseggano gli stessi sentimenti degli uomini liberi. Storici e sociologi moderni sostengono che a Roma la schiavitù non è concepita come una condizione definitiva. Ogni schiavo sarebbe un liberto potenziale e la schiavitù un passaggio temporaneo tra lo status di prigioniero di guerra e quello di cittadino. La schiavitù sarebbe pertanto un modo per accrescere la popolazione della città mediante l'integrazione di stranieri. Giova osservare che mentre le città grche avevano sempre cercato di limitare il numero dei propri abitanti facilitando l'esodo dei suoi cittadini per la conquista di nuove città, Roma si rende conto che l'aumento della popolazioone le consente di costruire un'ossatura infrastrutturale che le può essere utile nella sua guerra di conquiste: urbs et orbis terrarum, la città e il mondo, dicevano i romani, solo una forte città poteva conquistare il mondo, tutto parte dall'Urbe e ritorna all'Urbe. Lo schiavo che diventa liberto acquisisce il nome del suo padrone ed entra obbligatoriamente a far parte dei suoi clienti; d'altra parte i liberti sono figli del cultus romano, provengono da un sistema di riproduzione che assomiglia a una clonazione culturale. Esiste un rapporto diretto tra la fides dello schiavo e la sua futura identità di cittadino: sono la sua lealtà e la sua fedele obbedienza che il padrone ricompenserà. Dal 326 a.C. è stata abolita la schiavitù per debiti, pertanto la società romana non produce schiavi ma uomini liberi e gli schiavi se li procura solo con le vittorie militari. Il romano si aspetta dal liberto la stessa fedeltà di quando era schiavo, alla quale si aggiunge la pietas, il sacro rispetto che il figlio deve al padre. D'altra parte al liberto non giova spezzare il legame affettivo con il suo ex padrone perchè questi è il solo "nato libero" del quale il liberto possa godere l'intimità, altromenti sarebbe costretto a frequentare solo liberti e schiavi.

Tornando al cittadino romano occorre notare che, qualunque posto occupi nella società, contadino o senatore, centurione o generale, il romano  non ha che uno scopo: rendere illustre il suo nome agli occhi degli altri romani, guadagnare meriti e riconoscimenti; la libertà è, a tutti i gradi della scala sociale, il diritto alla gloria. Questa gloria lo integra nella città grazie a un tessuto di relazioni fatte di gratitudine e ammirazione che lo lega a coloro che ha salvato o che ha difeso e che si aspettano che li salvi e li difenda ancora.
Giova osservare  che quella romana è una società di classi, ma non è una società di caste: l’ideale civile è lo stesso per tutti e nulla impedisce al figlio del liberto arricchito, al notabile di provincia che ha saputo accrescere il proprio patrimonio di aspirare alle più alte magistrature. Catone il vecchio,  Cicerone e gli Annei sono esempi di questi “uomini nuovi”, come dicevano a Roma.
Se senza libertà la vita non è concepibile per un romano, questa libertà non lo è, a sua volta, senza il solo contesto in cui possa esercitarsi: la città. Il romano è uomo sociale. Tra il mondo esterno e se stesso il romano ha bisogno della mediazione di una collettività che si chiamerà indifferentemente città, cultura o civiltà. Civis, civitas, civilis il vocabolario latino ci ha lasciato traccia della parentela che univa a Roma città e civiltà. La città non è solo un regime politico la città è una cultura per i romani, come per i greci, non si può essere uomo civile che nella città. La città è cultura perché il romano non è l’homo faber, ma è solo un cittadino. La dimensione morale dell’uomo è indivisibile dalla sua dimensione politica; egli non può realizzarsi interamente che all’interno e per mezzo delle istituzioni civili, all’interno e per mezzo della libertà. Il valore ultimo, il bene supremo dal quale tutti gli altri derivano  è la dignitas, l’onore che esige una città libera.
Il romano nella città è in grado di esteriorizzare e valorizzare il proprio animus, cioè l’insieme dei suoi stimoli morali. L’animus è ciò che lo fa agire da uomo. È ciò che lo spinge verso il bene per se e per la città, che gli dà la forza di sopportare dolore e fatiche, che rende saldo il suo corpo per resistere ai dubbi o alle avversità. Ma animus è anche intelligenza e immaginazione; solo i cittadini posseggono l’animus perciò bambini, donne, schiavi non hanno animus e ad essi il padre, il marito o il padrone fanno da animus. La gerarchia sociale è pertanto fatta di animi più o meno grandi. La qualità dell’animus del romano ha bisogno di una platea e questa è costituita dai compagni di battaglia, dai vicini di casa, dai membri dello stesso ordine, come dal popolo intero; il romano cerca negli altri il senso della propria esistenza e del valore del proprio animus, non gli interessa l’interiorità psicologica, ma l’esteriorità acclarata. Così a Roma non esiste altro bene che l’onore tanto che il vocabolario latino assimila il bene con l’onore, honestum, così come associa il male con la vergogna, turpe. Per il romano gli elogi e gli onori sono la ricchezza da investire in una nuova candidatura; d’onore in onore egli lotterà per arrivare il più in alto possibile nella carriera degli onori, allo scopo di entrare nell’ordine senatoriale.
L’ideale civile impone a ogni romano una vita di restrizioni e di sforzi; pesa su di lui una mole di doveri che sono il prezzo da pagare per i suoi diritti e la sua ambizione. La sua vita è guidata dalla volontà di essere lo specchio dell’immagine che gli propongono il padre e gli zii paterni. Che sia nobile o contadino deve provare sin da giovane la propria virtus, il valore come uomo. Qualunque sia il suo rango dovrà essere un cittadino esemplare al fine di essere riconosciuto come uomo. L’attività militare, quella politica o quella lavorativa esigono dal cittadino le virtù che sono richieste in guerra: coraggio, intelligenza, costanza, severità; lo stesso Catone giudica infatti che le tre attività citate sono tutte attività civili.
Quando un romano è di famiglia nobile, l’attività politica divora la sua esistenza, tutta la sua vita pubblica è dedicata a Roma. La sua vita privata è il momento in cui rinsalda le forze, rafforza l’animus, difende e amplia il patrimonio, rafforza le amicizie nel corso di fastosi banchetti. Più illustri sono stati i suoi antenati più gravoso è il suo compito perché dovrà almeno uguagliarli e dovrà, pertanto,  possedere doti di oratore, di soldato, di giurista e di finanziere.
Nella realtà, nella Roma repubblicana, non esiste altra nobiltà che quella acquisita attraverso la partecipazione agli affari pubblici e l’accesso a quelle magistrature che vengono chiamate honores; i nobili hanno ricchezze adeguate per iscrivere i figli nella classe equestre; ma,  in seguito, toccherà a loro conquistare le cariche che consentono di entrare nel senato. I senatori formano un’aristocrazia di merito e non di nascita, anche se, di fatto, fra di loro molti sono figli di senatori e pochi sono gli “uomini nuovi”. Se il figlio di un senatore non lo diventa non solo lui ma l’intera famiglia perde l’onorabilità. Alla fine dell’adolescenza il figlio del senatore presta il servizio militare nello stato maggiore di un parente o di un amico del padre e, lì, è sotto osservazione da parte dei soldati e del generale e ognuno ne valuta la capacità di obbedire e resistere alle fatiche, al freddo, alla paura. Tra una guerra e l’altra il giovane deve dimostrare di saper combattere su un altro campo di battaglia, il tribunale, dove deve cercare la “morte politica” dell’avversario. Solo il cursus honorum del giovane romano gli può aprire la strada degli honores.
Il cittadino romano è preso in una rete molto fitta di relazioni individuali e collettive. Famiglia, clientela, parentela, associazioni civili, militari e religiose, Senato, assemplea del popolo, assemblea della plebe e collegio dei magistrati, costituiscono i molteplici spazi della socialità romana, i quali caratterizzano, proteggono e giudicano l'individuo.In nessun momento queste relazioni sono vissute come coercizioni esterne; il cittadino non aliena la sua libertà per un concetto astratto come Stato. Queste relazioni, certamente di per sè vincolanti, sono per il civis della Repubblica l'unico modo di vivere da uomo libero, cioè da uomo civile in una città e di realizzarsi moralmente. Per questo motivo l'uomo romano vive intensamente tutti i rapporti che lo integrano con la città e ai quali dedica gran parte del suo tempo. La vita pubblica e i suoi drammi sono l'autentica vita dei romani; è in questo contesto che il cittadino conosce l'ebbrezza del potere, la felicità di essere ammirato e riconosciuto, le lacrime della sconfitta, è in questo contesto che vive, respira e muore. Certamente occorre distinguere la classe politica dal resto della popolazione, quelli che aspirano agli honores dagli altri, ma il modello di vita resta lo stesso, quello del cittadino.Questo cittadino vive solo attraverso la comunicazione con gli altri membri della città, attraverso le molteplici comunità che la caratterizzano.La cittadinanza è un'umanità, Roma costruisce un tipo di uomo modellato dalla libertà, dal desiderio di gloria e successi, dal lavoro. Tutto ciò si può riassumere in una frase: la Roma repubblicana fu una cultura dell'onore.
Un aspetto che, a Roma, gioca un ruolo importante è l’amicitia. Essa è una relazione complessa affettiva e interessata; infatti è innanzitutto un insieme di doveri reciproci di assistenza e di non aggressione, ma si identifica con una sorta di patto. Se un romano deve accusare un amico, deve prima di tutto rompere il patto di amicizia e solo allora potrà procedere. La lealtà degli amici può salvare un romano, la loro defezione lo porta alla rovina.
I clientes sono persone di rango inferiore al gruppo degli amici, ma che sono altrettanto importanti nel tessuto delle relazioni; il nobile che essi circondano è il loro patronus. La clientela è la base sociale, il sostegno popolare indispensabile per la carriera politica. Il legame che unisce cliente e patronus si basa su uno scambio di favori: il patrono garantisce il suo appoggio e la sua autorità nelle dispute con la giustizia e nel caso di difficoltà economiche ed essi gli offrono la garanzia sociale, accompagnandolo nei luoghi pubblici e frequentando la sua casa. Questo legame è garantito da un patto morale e legale, che si fonda sulla lealtà reciproca, la fides, che, per i romani è, con la giustizia il fondamento di ogni vita sociale. Il patrono può, peraltro, formare con i suoi clientes delle truppe e costituirsi una guardia personale o addirittura un esercito; questa prassi non meraviglia in una città dove gli scontri per l’accesso agli honores sono spesso furibondi. Ecco perché il nobile deve essere sicuro che amicizie e clientela gli siano legati da patti d’onore. La lotta politica in Roma si gioca militando in due partiti i popolari e i senatoriali, anche se i capi dei popolari sono nobili come i capi del partito dei senatoriali e generalmente, la scelta politica è ereditaria; la lotta tra questi due partiti degenererà nelle note guerre civili che porteranno la repubblica alla dittatura.
Giova sottolineare che nella lotta tra i due partiti nessuno combatte per gli ideali ma solo per il potere. Questo potere politico, la potestas, da distinguere dal potere personale la potentia, dà a colui che lo esercita un piacere per il quale è disposto a sacrificare ogni cosa, la tranquillità, la ricchezza, la vita. Infatti il potere che detengono i magistrati anche se la carica è collegiale, è temporanea è elettiva dà, tuttavia, un potere di tipo monarchico.
A Roma i doveri della nobiltà sono gravosi perché essa è effimera e legata alla persona, non alla stirpe. Soltanto l’esercizio delle magistrature rende nobile qualcuno, perché solo il nobile ha il diritto di essere commemorato cioè il diritto all’imago, all’immagine. Giova notare che nel corso della vita repubblicana, a eccezione della famiglia Giulia, i nomi delle famiglie che accedono alle alte magistrature cambiano nel corso dei decenni.
Da quanto detto appare chiaro perché per secoli i romani si sono combattuti tra chi voleva difendere questi valori, anche se ciò significava dare più potere ai senatori, e chi voleva che Roma facesse un salto verso una monarchia personificata, a esempio, da quella di Alessandro Magno.

 

Volendo fare un parallelismo tra la Roma repubblicana e l’Impresa s’è detto che sostituendo alla voce Roma la voce Impresa ogni lettore può iniziare a darsi una chiave di lettura per quanto riguarda i valori dell’una e dell’altra. La mia chiave di lettura è la seguente.

Optimates ed equites sono gli attuali imprenditori.
Civis è il dipendente dell'impresa dall'imprenditore al telefonista, dal dirigente all'operaio.
L’ingenium chiesto al romano può essere confrontato con la capacità di leadership dell’imprenditore.
Il nomen che va difeso e potenziato è il marchio, la marca, l’identità, sono le referenze dell’impresa, come l’imago è l’immagine che il mondo esterno all’impresa ha dell’impresa.
Il census rappresenta la classifica sulla quale si posiziona l’impresa rispetto alle imprese concorrenti.
L’animus sono le competenze distintive dell’imprenditore: la vision, la cultura d’impresa, la capacità organizzativa, la capacità di comunicare, la creatività, l’essere aggiornato.
La dignitas è la capacità dell’imprenditore di porsi sul mercato, superare i competitori e avere una buona rinomanza tra i clienti.
Incultus è l’imprenditore che non considera l’impresa come un soggetto che deve creare valore per tutto il sistema degli stakeholder e che, a esempio, utilizza mano d'opera in nero o illegale o che costringe i suoi operai alla schiavitù.
La liberalitas è proprio la capacità di creare valore per la collettività.
La virtus che caratterizza il romano sul campo di battaglia è la capacità dei lavoratori dell’impresa di distinguersi nella propria attività, sono le loro competenze distintive.
I riconoscimenti virtutis causa sono i premi che l’impresa elargisce ai lavoratori: aumenti, gratifiche, bonus.
Amici e clientes sono il tessuto relazionale di cui è capace l’impresa, tessuto delle relazioni che si identifica nel sistema degli stakeholder.
La solidità delle relazioni si basa sulla fides sulla fiducia che ogni soggetto faccia di tutto per il bene di tutti.
La potestas è la capacità dell’imprenditore di essere autorevole e non autoritario di essere in grado di mettere le persone giuste al posto giusto, di delegare quando occorre delegare.
Il cursus honorum del giovane nobile, che per accedere agli honores ha bisogni dell'ingenium è confrontabile con la difficile fase del ricambio generazionale dell’impresa.
Urbs et orbis è la capacità dell'imprenditore di rafforzarsi nel proprio territorio per poi lanciarsi alla conquista del mercato globale.

Bibliografia: Dupont La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Laterza, 1989

Eugenio Caruso
11 gennaio 2010.


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